CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 17/04/2019 Scarica PDF
L'armonizzazione europea delle discipline nazionali in materia di insolvenza
Francesco Marotta, Dottorando dell'Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi InternazionaliSommario: 1. Il percorso di armonizzazione europea delle normative nazionali in materia d’insolvenza e ristrutturazione preventiva – 2. Un nuovo approccio alle imprese in crisi: la cultura del salvataggio – 3. Perimetro soggettivo ed oggettivo di applicazione della Direttiva – 4. Norme procedurali minime: l’accesso ai quadri e le misure protettive – 5. (segue) Norme procedurali minime: la presentazione ed adozione del piano di ristrutturazione – 6. (segue) Norme procedurali minime: l’omologazione, le impugnazioni e la nuova finanza
1. In data 27 Marzo 2019 il Parlamento Europeo ha approvato in prima lettura la Proposta di Direttiva del Consiglio e del Parlamento Europeo n. 2016/359 (COD)[1] formulata dalla Commissione Europea e finalizzata ad armonizzare le normative nazionali in tema di insolvenza e di ristrutturazioni aziendali.
Un simile intervento normativo costituisce il più importante tassello di un percorso teso al ravvicinamento delle legislazioni domestiche in materia, percorso già iniziato in sede comunitaria con l’emanazione della Raccomandazione della Commissione Europea n. 2014/135/UE[2].
La Commissione, infatti, approfondisce aspetti che erano già stati oggetto della precedente raccomandazione, utilizzando tuttavia uno strumento normativo, la direttiva, che risulta senz’altro più incisivo ed efficace in riferimento all’obbiettivo di armonizzazione perseguito[3].
Le motivazioni che hanno indotto i redattori della proposta ad elaborare un quadro minimo di regole comuni e vincolanti per tutti gli Stati membri, possono rintracciarsi, come ben evidenziato nella relativa Relazione, nell’esigenza, non più posticipabile, di eliminare differenze normative che siano alla base di incertezze disincentivanti l’espansione commerciale e gli investimenti.
Pare, insomma, che alla base del ragionamento seguito vi sia stata la presa di coscienza dell’importanza che rivestono nel Mercato Unico e, in generale, nel sistema economico, le norme disciplinanti la crisi delle imprese.
Dopotutto, si è assistito in questi anni ad una tendenziale evoluzione e ad un consistente rafforzamento del processo d’integrazione dei mercati a livello europeo ed internazionale che ha ridotto le realtà imprenditoriali operanti in ambito meramente nazionale ad essere una netta minoranza rispetto a quelle transfrontaliere.
A ciò si aggiunga l’ovvia considerazione per cui, ad oggi, il fallimento di imprese domestiche non è esente dal causare ripercussioni anche su imprese a vocazione internazionale, la cui crisi ha un impatto economico certamente più significativo[4].
E’ logico allora ritenere che oscurità, incertezze e criticità connesse alle diverse legislazioni nazionali in materia fallimentare non facciano che pregiudicare in maniera diretta gli investimenti, impedendo ai finanziatori di valutare il rischio di credito delle imprese, frenando la crescita oltre a compromettere, infine, la capacità di assorbimento di importanti shock economici.
Il riconoscimento, expressis verbis, del valore che assume la disciplina dell’insolvenza nel panorama economico-finanziario attuale, non è tuttavia l’elemento centrale della direttiva.
I ragionamenti fin qui svolti attengono del resto all’encomiabile scelta di armonizzare le normative degli Stati UE, con l’obbiettivo di eliminare discrasie potenzialmente dannose per lo stesso Mercato Unico.
La direttiva è in tal senso uno strumento potenzialmente idoneo a soddisfare simili esigenze.
Detto ciò, occorre però verificare in che modo il Legislatore comunitario abbia deciso di intervenire, quali siano insomma i contenuti del provvedimento, così da poter esprimere un giudizio compiuto che non abbia ad oggetto la sola congruità del mezzo utilizzato.
Come può facilmente apprendersi dallo stesso titolo la Direttiva punta a far convergere le discipline concorsuali domestiche, dettando norme minime in tema di quadri di ristrutturazione preventiva (1) di esdebitazione (2), andando infine a stabilire norme ad efficacia generale volte ad evitare e limitare pericolosi fenomeni di forum-shopping (3).
Nei paragrafi che seguono, si prenderanno in considerazione esclusivamente le norme sul restructuring, premettendo brevi cenni alle ragioni economiche e giuridiche cui risultano ispirate.
2. Il tema più significativo affrontato, quello dei rapporti tra fallimento e ristrutturazione, riflette una progressiva evoluzione del sistema, già iniziata a livello Statale, tendente a ridefinire i rapporti di forza tra norme che regolano la liquidazione delle aziende e norme volte a valorizzare la prospettiva di continuità aziendale.
Non può certo nascondersi che la tutela della continuità sia un principio ispiratore della Direttiva, così come della precedente Raccomandazione della Commissione Europea.
I dati, del resto, parlano a chiare lettere: più della metà delle imprese ha un emiciclo vitale non più lungo di cinque anni, con un numero di fallimenti che si aggira intorno alle 200.000 unità per anno[5] negli Stati dell’Unione Europea.
Vi è da sottolineare che questi dati, quelli che dimostrano l’assoluto predominio delle liquidazioni, non paiono del tutto sorprendenti.
La liquidazione fallimentare è da sempre infatti l’opzione prediletta dalle legislazioni nazionali per risolvere le crisi aziendali.
Un simile approccio a situazioni di difficoltà dell’imprenditore, tuttavia, non pare più adeguato e proporzionato in un contesto economico che, da un lato, ha cagionato un importante aumento dei fenomeni di crisi, dovuti alle congiunture economiche del nuovo millennio, dall’altro ha portato ad un sensibile rinvigorimento della dimensione transfrontaliera d’impresa, grazie all’istituzione del Mercato Unico Europeo.
Considerando simili fattori, se si esaminano le normative nazionali disciplinanti l’insolvenza con lo scopo di vagliarne l’efficienza, non si può che formulare un giudizio di adeguatezza tendenzialmente negativo.
Privilegiare eminentemente la morte dell’impresa, conseguente alla liquidazione dell’azienda, significa infatti non attribuire importanza a tutti i momenti temporali e fisiologici che preannunciano il dissesto, che rendono quantomeno evidente il futuro default, privando gli imprenditori di strumenti idonei a salvare l’impresa quando ancora ciò sia possibile.
Fin che si discute di piccole imprese nazionali tal sistema potrebbe anche reggere, pur fragile, ma nel panorama odierno tutto ciò appare pericoloso in quanto l’eliminazione dell’impresa dal mercato avrà delle ripercussioni amplificate proprio dai fenomeni sopradescritti, andando a causare consistenti masse di disoccupati, sfiduciando gli investitori e, soprattutto, non portando alcunché di apprezzabile ai creditori.
Il nodo centrale del problema, infatti, pare essere proprio quello del grado di soddisfacimento dei creditori.
E’ certo d’obbligo un’analisi economico-sociale della questione seppur si debba tenere a mente che, da un punto di vista giuridico, è l’interesse dei creditori che giustifica razionalmente lo svolgimento delle procedure concorsuali, è la par condicio creditorum il fine superiore da tutelare, prim’ancora delle esigenze prospettate dai mercati.
In tal senso, però, la Commissione, sulla base dei dati statistici raccolti, ha fatto notare un particolare che non può essere tralasciato: il tasso di recupero da parte dei creditori è sensibilmente superiore nella media in tutti gli Stati in cui siano prevalenti le procedure finalizzate al risanamento dell’impresa e non alla sua liquidazione[6].
Ciò consente pertanto di affermare, con assoluta certezza, che la spinta armonizzatrice verso il potenziamento delle norme domestiche in tema di ristrutturazione preventiva, non sarebbe solo favorevole allo svolgersi degli scambi ed alla tenuta del sistema finanziario, bensì, in primiis, gioverebbe agli stessi creditori dell’imprenditore in crisi[7].
Ecco così spiegate le ragioni di un intervento comunitario che punta moltissimo proprio sulla valorizzazione della continuità d’impresa, che mira a far diffondere una vera e propria “cultura del salvataggio” fondata sulla prevenzione dell’insolvenza, sul recupero del valore aziendale in caso di insolvenza conclamata, e, più in generale, su procedure snelle, efficienti ed efficaci.
3. L’analisi del campo applicativo della Direttiva deve essere condotta sia dal punto di vista soggettivo sia da quello oggettivo, con il precipuo scopo di vagliare la compatibilità della legislazione italiana con le norme comunitarie.
Per quanto concerne il primo profilo, quello soggettivo, è degno di nota il riferimento al concetto di “debitore” ed a quello, tendenzialmente più restrittivo, di “imprenditore”.
Che cosa il legislatore europeo intenda per “debitore” può essere desunto, a contrario, dal co. 2 dell’art. 1 in cui vengono elencati i soggetti ai quali la direttiva non può essere applicata, tra i quali si annoverano le imprese assicurative, gli istituti creditizi, le imprese di investimento o gli organismi di investimento collettivo, i depositari centrali di titoli ed altri enti finanziari.
La ragione di tali esclusioni è da rintracciarsi nell’assoggettamento di simili imprese a procedure di regolazione della crisi diverse e speciali oltre a penetranti poteri d’intervento delle autorità europee e nazionali di vigilanza.
Anche gli enti pubblici, che sono tali in base alle norme nazionali, sono oggetto di esclusione.
Ivi sovviene tuttavia il primo dubbio poiché nonostante si sia rimediato alle lacune che affliggevano la versione iniziale della proposta, in cui non si faceva cenno alcuno a tali enti, ci si continua chiedere se essi possano non considerarsi “debitori” anche quando svolgano attività imprenditoriali non connesse all’esercizio delle proprie funzioni istituzionali.
La mancanza di una distinzione sembra far propendere per la non assoggettabilità tout court, nonostante una precisazione in tal senso sarebbe quantomeno opportuna.
Vi è, inoltre, il caso della persona fisica non imprenditore, rectius il consumatore, che versi in una situazione di sovraindebitamento, rispetto al quale la Direttiva non impone agli stati membri di applicare le norme comunitarie, auspicando tuttavia che essi scelgano di regolare in tal modo anche l’insolvenza personale[8].
Ciò precisato, il “debitore” non può che coincidere con le persone fisiche e giuridiche che esercitino attività imprenditoriale.
Non a caso si sceglie di scomporre il fenomeno imprenditoriale a seconda dell’organizzazione d’impresa, visto che con il termine “imprenditore” la direttiva pare riferirsi solamente alle persone fisiche.
L’art. 2 definisce l’imprenditore come la “persona fisica che esercita un’attività commerciale, imprenditoriale, artigianale o professionale”.
Questa differenziazione sicuramente stride alle orecchie del giurista italiano, tendenzialmente incline4 ad appellare con il termine imprenditore tanto una persona giuridica quanto la singola persona fisica.
Vi è da considerare che la Direttiva riconosce la qualità di imprenditore anche al professionista che, attualmente, non è soggetto fallibile e può solo accedere alle procedure per la regolazione della crisi da sovraindebitamento.
Per rendere compatibile la normativa italiana a quella europea si dovrebbe estendere la disciplina sul concordato e gli accordi di ristrutturazione anche ai professionisti oppure stabilire norme comuni a tutte le categorie di debitori.
Il Codice della Crisi d’Impresa pare percorrere quest’ultima strada, gravitando anch’esso intorno ad una nozione universale di “debitore” cui applicare le norme codicistiche, sia esso imprenditore, professionista o consumatore.
Per evitare possibili incompatibilità non si è scelto dunque di ricomprendere il professionista nella categoria degli imprenditori fallibili bensì si è preferito assoggettare alle norme del Codice qualsiasi debitore, compresi coloro, come il professionista, l’imprenditore agricolo e minore che possano accedere alle sole procedure da sovraindebitamento e non al concordato preventivo, agli accordi di ristrutturazione dei debiti ed alla liquidazione giudiziale.
Il Legislatore, insomma, pare aver accolto il consiglio di applicare le norme sul restructuring anche al settore del sovraindebitamento che oggi, invece, continua ad essere regolato dalla Legge n. 3/2012.
Nonostante l’evidenziata tendenza del legislatore europeo a definire chiaramente ogni termine che sia potenzialmente portatore di significati diversi, alternativi o addirittura contrastanti, non vi è traccia di che cosa si intenda per situazione di insolvenza e probabilità di insolvenza.
In tal caso non si è di fronte ad una mera dimenticanza dei redattori della proposta bensì trattasi di scelta consapevole, dettata dall’incolmabile diversità che vi è attualmente tra gli ordinamenti nazionali nel disciplinare i presupposti oggettivi di accesso alle procedure concorsuali, diversità impossibile da conciliare[9].
Nel nostro paese dovrà farsi così riferimento al concetto di “crisi”, definito dal Codice come “lo stato di difficoltà economica finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni pianificate”, da distinguersi rispetto all’insolvenza vera e propria che altro non è che “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
In riferimento al perimetro oggettivo di applicazione della direttiva devono svolgersi poi delle considerazioni autonome in base al titolo del quale si intende trattare, con lo scopo di comprendere quali procedure attualmente previste nel nostro ordinamento saranno interessate dalla Direttiva.
Nulla quaestio per gli articoli contenuti nel Titolo I che, oltre a chiarire che cosa significhino le parole “debitore” ed “imprenditore”, disciplinano la fase dell’allerta, che seppur sia intrinsecamente legata al tema ristrutturazione preventiva non costituirà oggetto del presente contributo.
Maggior attenzione meritano invece le norme sui quadri di ristrutturazione preventiva di cui al Titolo II, che saranno ivi approfondite.
L’art. 4 recita: “Gli Stati membri provvedono affinchè, qualora sussista una probabilità di insolvenza, il debitore abbia accesso a un quadro di ristrutturazione preventiva, al fine di impedire l’insolvenza e di assicurare la loro sostenibilità economica, fatte salve altre soluzioni volte a evitare l’insolvenza, così da tutelare i posti di lavoro e l’attività imprenditoriale”.
La disposizione, da una parte, impone agli stati di prevedere misure e procedure fondate sulla mera probabilità d’insolvenza, dall’altra esclude un simile obbligo di provvedere qualora gli stessi siano già dotati di strumenti idonei ad evitare il fallimento dell’imprenditore e la liquidazione dell’impresa, a patto che si rispettino le regole minime contenute nella Direttiva.
Per comprendere dunque rispetto a quali procedure dovrà condursi la verifica di compatibilità con la normativa europea non basta una semplice considerazione del presupposto oggettivo della “probabilità d’insolvenza”.
Il concetto, se calato nel contesto del sistema concorsuale italiano attuale (e futuro), non può che immedesimarsi con quello di “situazione di crisi” che giustifica l’apertura e lo svolgimento di procedure diversificate e contraddistinte, soprattutto, da fini diversi.
L’art. 4 ricorda infatti che il tema principale oggetto dell’intervento europeo è pur sempre quello della ristrutturazione delle imprese, dovendosi escludere che le norme contenute nel Titolo II possano riguardare tutte le procedure finalizzate alla liquidazione atomistica dei beni aziendali, che di certo non hanno come “stella polare” il salvataggio dell’impresa.
L’esplicitazione del fine cui devono tendere gli strumenti di risanamento, per essere interessati dalla Direttiva, non risulta tuttavia sufficiente per identificare, in maniera precisa, che cosa si intenda per quadro di ristrutturazione e procedure ad esso assimilate.
Soccorre in tal senso nuovamente l’art. 2, definendo la ristrutturazione come insieme di misure che includono “la modifica della composizione, delle condizioni o della struttura delle attività e delle passività del debitore o di qualsiasi altra parte della struttura del capitale del debitore, quali la vendita di attività o parti dell’impresa, e, se previsto dal diritto nazionale, la vendita delle impresa in regime di continuità aziendale, come pure eventuali cambiamenti operativi necessari, o una combinazione di questi elementi”.
E’ evidente come la prima parte dell’articolo si riferisca alle fattispecie di c.d. “risanamento diretto”, ossia ai casi di continuità soggettiva nei quali l’imprenditore si riorganizzi in maniera tale da evitare un peggioramento delle difficoltà nelle quali versa.
Anche le procedure basate sulla prosecuzione oggettiva dell’azienda rientrano nella definizione di quadro di ristrutturazione attesa l’inequivocabilità della norma nella parte in cui equipara la continuazione soggettiva alla vendita dell’impresa o ad altri cambiamenti operativi necessari tra i quali sembrano potersi includere, tra l’altro, l’affitto d’azienda, il conferimento o altre operazioni straordinarie tese a garantire il salvataggio delle attività aziendali fondamentalmente sane.
La struttura attuale della disposizione in parola è tuttavia il risultato di un lungo dibattito causato dall’iniziale diffidenza verso soluzioni fondate sulla continuità indiretta[10].
Una loro esclusione dal campo di applicazione della direttiva avrebbe forse reso vano l’intervento comunitario per quanto concerne il nostro paese, per il semplice fatto che si sarebbe andati ad incidere solo su una piccola parte di procedure concorsuali che oggi garantiscono la continuità aziendale e che sono, comunque, già una netta minoranza rispetto alle soluzioni di tipo liquidatorio.
Pare insomma che in sede comunitaria si sia percorsa una strada non per niente dissimile a quella percorsa in Italia e che ha portato, già da qualche anno ormai, alla valorizzazione di tutte le ipotesi di ristrutturazione che evitino la liquidazione dell’azienda, sia che si sostanzino nella prosecuzione diretta sia che si attuino mediante la continuità indiretta e, in particolare, mediante vendita dell’impresa in regime di going concern[11].
La norma pare del resto ricalcata su quella contenuta oggi nell’art. 186-bis l.f. e nel futuro art. 84 ss. del Codice della Crisi d’Impresa, laddove si prevede l’applicazione delle norme di favore del concordato con continuità aziendale in tutti i casi in cui il relativo piano preveda come esito della procedura il mantenimento sul mercato dell’azienda, a prescindere da eventuali mutamenti che investano la titolarità soggettiva.
Svolte queste precisazioni, traendo le fila del discorso, può dirsi che la normativa comunitaria in tema di ristrutturazione dovrà essere applicata principalmente al concordato preventivo in continuità aziendale ed agli accordi di ristrutturazione dei debiti.
4. Venendo alla disciplina procedurale dei quadri di ristrutturazione preventiva, la Direttiva pare distinguere sei momenti diversificati: l’accesso, la richiesta di misure protettive, la presentazione del piano di ristrutturazione, l’adozione da parte dei creditori interessati, l’omologazione e le possibili impugnazioni.
Per quanto concerne l’accesso alla procedura si concede agli stati membri un certo spazio d’intervento, dovuto principalmente alla mancanza di indicazioni circa l’atto introduttivo.
La ragione di tale scelta pare doversi ravvisare nella tendenziale neutralità del legislatore europeo verso l’intervento dell’autorità amministrativa o giudiziaria[12] nella gestione della crisi ed in quest’ottica postulare che il debitore debba presentare un ricorso o comunque una domanda giudiziale implicherebbe il necessario coinvolgimento dell’autorità.
In merito, come segnalato da autorevole dottrina[13], sono state avanzate critiche imponenti, stigmatizzanti l’assenza di un incisivo controllo dell’Autorità Giudiziaria idoneo a “filtrare” le domande di accesso meritevoli.
Simili contestazioni non paiono meritare accoglimento, sia perché riportano ad una concezione ottocentesca del diritto fallimentare, sia perché si pongono in aperto contrasto con l’obbiettivo di salvare le imprese sane, obbiettivo che, se raggiunto, ha degli effetti positivi per il debitore, per i creditori e per l’intero sistema economico.
Con l’adozione del Codice della Crisi d’Impresa peraltro si è optato per un regime unitario fondato su di un ricorso da presentare al Tribunale in composizione collegiale, introducendo una fase di accesso alla procedura comune al concordato preventivo ed agli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 44, precedente il decreto di apertura del concordato e l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti.
In tema di accesso la Direttiva prevede inoltre che la procedura possa avere inizio non solo su richiesta del debitore bensì anche su istanza degli stessi creditori, con il consenso, in questo caso, del debitore.
Permettere ai creditori dell’imprenditore di attivarsi al fine di risolvere la crisi senza che essa sfoci in un vero e proprio stato di decozione significa salvaguardare ai massimi livelli le imprese sostenibili, consentendo di intervenire il più presto possibile, prima che esse diventino insolventi, seppur l’obbligo di ottenere un assenso del debitore sembri vanificare un pregio di cotanta portata[14].
L’introduzione della legittimazione del creditore a presentare domanda di accesso è comunque misura facoltativa per gli Stati e, del resto, nemmeno il Codice della Crisi ha previsto alternative all’iniziativa del debitore per l’accesso alle procedure di ristrutturazione ferma restando la facoltà per determinati creditori di presentare proposte concorrenti.
Permane inoltre in capo agli Stati la possibilità di strutturare una fase ulteriore, destinata ad un controllo di sostenibilità economica dell’impresa del debitore, senza gravarlo di oneri che compromettano ancor più la sua posizione (art. 4 par. 3).
Ci si domanda, tuttavia, se a tale verifica di sostenibilità possa ricondursi in qualche modo il sindacato di ammissibilità che precede l’apertura della procedura di concordato preventivo.
I dubbi potrebbero sorgere per il fatto che il giudizio di ammissibilità della domanda di concordato ha ad oggetto la fattibilità giuridica ed economica del piano, mentre la norma europea pare riferirsi ad un momento anteriore a quello in cui viene presentato il piano di risanamento, in cui è possibile valutare la sola sostenibilità economica dell’impresa del debitore.
Non pare comunque potersi parlare di incompatibilità tra norme in quanto la decisione sull’ammissibilità della domanda di concordato è pur sempre una decisione sulla sostenibilità economica dell’impresa nonostante sia essa collocata in un momento posteriore alla presentazione del piano ed adottata proprio grazie alla lente d’ingrandimento costituita dal piano stesso, così da poter esprimere un giudizio completo e compiuto sulle prospettive di risanamento.
Sicuramente più dettagliata risulta essere la regolamentazione degli effetti derivanti dall’accesso al quadro di ristrutturazione.
L’art. 5 cristallizza il principio generale di non spossessamento totale dell’imprenditore rispetto al quale sia stata aperta una procedura in continuità aziendale, sancendo inoltre la non essenzialità dell’obbligo di nomina di un professionista che lo affianchi nelle trattative se non nel caso in cui sia richiesta la sospensione delle azioni esecutive individuali, quando il piano debba essere omologato in via “trasversale” oppure su richiesta dello stesso debitore.
Viene poi conferita importanza fondamentale al tema delle misure cautelari protettive e, in particolare, alla sospensione delle azioni esecutive individuali, che gli Stati dovrebbero sempre prevedere, per il semplice fatto di apparire utili al corretto svolgimento ed al successo delle trattative con i creditori.
Il fine che dovrebbe contraddistinguere la sospensione, rimesso al vaglio dell’autorità, pare tuttavia essere troppo ristretto e limitato in quanto le misure non sono funzionali solo al raggiungimento di un accordo, come scritto al par. 1 dell’art. 6, bensì necessarie per la buona riuscita dell’intera procedura[15].
Particolare, da un punto di vista sostanziale, appare anche la possibilità di prevedere una sospensione ad efficacia limitata, nei confronti dei soli creditori coinvolti nella negoziazione da parte del debitore, ferma restando l’opportunità per gli stati di escludere comunque l’applicazione della sospensiva qualora l’azione esecutiva non sia pregiudizievole alla procedura o quando la sua sospensione causi una lesione delle ragioni creditorie.
Una simile limitazione di efficacia della misura non pare tuttavia accoglibile nel nostro ordinamento ed infatti il legislatore italiano non ha previsto alcunchè in merito.
La Direttiva peraltro ricollega alla concessione di un periodo di sospensione altri importanti effetti, tra i quali merita menzione il divieto per i creditori strategici di rifiutare l’adempimento, risolvere o modificare in danno al debitore i contratti con esso stipulati adducendo il sol fatto dell’inadempimento.
Tale limitazione viene estesa a tutti i creditori, strategici e non, qualora intendano derivare simili facoltà da clausole contrattuali che riconoscano al creditore il potere di risolvere il contratto o modificarlo in suo favore in caso di presentazione ed accoglimento di richieste di accesso alle procedure di ristrutturazione o di concessione della sospensione delle azioni individuali.
Sotto il profilo procedurale vi sono state poi delle variazioni apportate dal Parlamento e dal Consiglio rispetto alla proposta della Commissione poiché il sistema dell’”automatic stay”, tutt’ora vigente anche nel nostro paese, non trovava accoglimento nella Direttiva, imponendosi così al debitore di formulare un’apposita istanza all’Autorità giudiziaria qualora avesse voluto profittare di un simile beneficio.
La formulazione letterale odierna dell’art. 6 consente di affermare, tuttavia, che gli stati avranno la possibilità, non l’obbligo, di introdurre un sistema fondato sulla richiesta del debitore rispetto al quale l’Autorità Giudiziaria sarà chiamata ad esprimersi, potendo rifiutare il beneficio qualora difettino i presupposti per una sua concessione[16].
Nonostante in sede Europea si sia optato dunque per una maggiore libertà degli stati membri, si vuole qui ricordare che con il nuovo Codice si è definitivamente abbandonato nel nostro paese il sistema dell’”automatic stay”, dovendosi sempre attivare il debitore per richiedere la sospensiva.
La Direttiva impone comunque l’intervento dell’Autorità tanto nel caso in cui debbano essere autorizzate delle proroghe quanto in quello in cui si debba revocare la sospensione, fermo restando un periodo massimo di efficacia che non può essere superiore ai dodici mesi[17].
Nello specifico, la proroga potrà essere accordata solo al ricorrere di ipotesi tassativamente determinate come, ad esempio, quando si dimostri che le trattative sono in corso, che non siano pregiudicati i diritti dei creditori o non siano pendenti istanze di apertura di procedure liquidatorie.
La revoca dovrà invece essere pronunciata quando venga a mancare il requisito della funzionalità della sospensione rispetto all’obbiettivo di agevolare le trattative, quand’essa comporti l’insolvenza di un creditore o comunque si risolva in un evidente vulnus nei confronti dei creditori.
5. L’art. 8 della Direttiva delinea in maniera analitica quale debba essere il contenuto del piano di ristrutturazione, che può essere presentato sia dal debitore che dai creditori o dal professionista, così come stabilito nell’art. 9, par. 1.
Sul punto non sembrano esservi novità degne di nota rispetto ai contenuti tipici della domanda di concordato di cui all’art. 87 del Codice, se non l’obbligo per il debitore di indicare le “parti interessate” ossia tutti i creditori rispetto alle cui posizioni giuridiche il piano andrà ad incidere, assicurando peraltro il loro classamento secondo categorie di crediti omogenei a norma del diritto nazionale.
Ancor più dettagliata dovrà essere l’elencazione delle parti “non interessate” per le quali andranno esposti i motivi della loro esclusione.
Il proponente dovrà inoltre redigere un’apposita relazione esplicativa in cui siano riassunti i principali argomenti a favore della sostenibilità delle misure proposte, che rendano quantomeno probabile la riuscita dell’operazione di ristrutturazione.
Fondamentale è inoltre il disposto del par. 2 dell’art. 8, che prescrive la pubblicazione di modelli di piani di ristrutturazione ad uso e consumo delle PMI, testimoniando il chiaro intento del legislatore europeo di permettere l’accesso ai quadri a realtà imprenditoriali che nella prassi non hanno la possibilità economica di sostenere la procedura di risanamento, per via anche delle numerose figure professionali coinvolte nella redazione del piano.
Il piano presentato dovrà poi essere adottato solamente dai creditori interessati, indentificati ai sensi dell’art. 2, n. 2) della Direttiva, che dovranno votare per classi, seppur non sia chiaro se vi sia un vero e proprio obbligo di suddivisione per il debitore o se vi sia solo un auspicio che gli Stati la prevedano.
E’ da rilevarsi comunque l’assenza di una disposizione in cui si escluda il diritto di voto del piano di concordato per tutti i creditori garantiti per i quali sia previsto il pagamento integrale o comunque per tutti i creditori rispetto ai quali vi sia un intervento particolarmente tenue[18].
Per quanto concerne la votazione del piano, fatta salva la possibilità di escludere le PMI dall’obbligo di classamento dei creditori, la Direttiva impone che vi debba essere l’adesione da parte della totalità delle classi, secondo maggioranze calcolate in base all’ammontare dei crediti di ciascuna classe e comunque non superiori al tetto del 75%.
Da una prima analisi della nuova disciplina codicistica sull’approvazione del piano di concordato e sull’adesione all’accordo di ristrutturazione emergono tuttavia alcune criticità.
L’art. 110 del Codice della Crisi prevede infatti l’approvazione da parte dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto nel concordato e, qualora il debitore suddivida i creditori in classi, della maggioranza delle classi.
Ivi pertanto sembra porsi un problema di compatibilità tra la normativa nazionale e quella europea, che dovrà essere oggetto di un intervento correttivo.
Nel caso degli accordi di ristrutturazione dei debiti i creditori aderenti dovranno invece rappresentare almeno il sessanta percento dei crediti interessati, il trenta percento qualora si verifichi una condizione di cui all’art. 60 del Codice[19]ed il settantacinque percento per gli accordi ad efficacia estesa disciplinati dall’art. 61.
Anche in tal caso si renderanno dunque necessarie delle modifiche volte ad adeguare le norme sull’adesione dei creditori e sulla formazione delle maggioranze a quelle contenute nella Direttiva.
6. Una volta terminata la fase dell’adozione, si aprono di fronte al debitore ed ai creditori aderenti due strade, a seconda che siano raggiunte o meno le maggioranze previste per l’adozione del piano[20].
Nel primo caso la Direttiva, all’art. 10, impone di ricorrere all’autorità giudiziaria per rendere vincolante l’accordo raggiunto, quando vi siano creditori dissenzienti (i), quando siano previsti nuovi finanziamenti (ii) o una perdita di forza lavoro superiore al 25% (iii).
L’autorità incaricata dell’omologa dovrà in tali circostanze procedere alla verifica circa la correttezza nella formazione delle classi e nell’espressione del voto, la parità di trattamento tra creditori appartenenti alla medesima classe, la regolarità della notifica di presentazione del piano alle parti interessate, la necessità di mantenere finanziamenti iterinali e, per concludere, il miglior soddisfacimento dei creditori qualora vi siano creditori dissenzienti (par. 2).
Emerge dunque ancora una volta come l’obbiettivo del risanamento non sia da perseguire “costi quel che costi” e l’inserimento della clausola del miglior soddisfacimento dei creditori non può che confermarlo.
Gli strumenti di ristrutturazione, come già ampiamente spiegato, sono sicuramente i più idonei, in astratto, a soddisfare l’interesse dei creditori e del debitore ma ciò non implica che si debba elidere un accertamento dell’autorità circa la funzionalizzazione del piano al miglior soddisfacimento dei creditori perché se il favor per il debitore è in re ipsa, altrettanto non può dirsi per i creditori, rispetto ai quali andrà svolto un giudizio in concreto.
Ciò precisato, per quanto concerne il termine comparativo in base al quale dovrà essere verificato il requisito del miglior soddisfacimento dei creditori, l’art. 2 chiarisce che esso si sostanzia nella “verifica che stabilisce che nessun creditore dissenziente uscirà dal piano di ristrutturazione svantaggiato rispetto a come uscirebbe in caso di liquidazione se fosse applicato il normale grado di priorità di liquidazione a norma del diritto nazionale, sia essa una liquidazione per settori o una vendita dell’impresa in regime di continuità aziendale oppure nel caso del miglior scenario alternativo possibile se il piano di ristrutturazione non fosse omologato”[21].
Il par. 3 dell’art. 10, inoltre, introduce anche l’obbligo per gli stati di introdurre un controllo dell’autorità circa i profili di “fattibilità” del piano e di sua funzionalità ad escludere future situazioni d’insolvenza.
A queste condizioni se ne aggiungono delle ulteriori da rispettare per ottenere l’omologazione c.d. “trasversale” di un piano di ristrutturazione non approvato da tutte le classi dei creditori (art. 11).
In quest’ultimo caso il Giudice dovrà verificare che si sia espressa in senso favorevole la maggioranza delle classi, o almeno una che rappresenti crediti garantiti oppure, in mancanza, almeno una classe di parti interessate, comunque diversa dalle classi di creditori che non riceverebbero nessun pagamento o non manterrebbero nessun interesse tanto nel caso di valutazione dell’azienda in regime di continuità quanto in quello di un’ipotetica liquidazione dei beni.
Dovrà peraltro essere rispettata la parità di trattamento tra classi dello stesso rango, verificando inoltre che nessuna classe conservi o riceva in base al piano più dell’ammontare dei crediti che essa rappresenta.
Una volta omologato, che si tratti di omologazione ordinaria o trasversale, il piano avrà efficacia vincolante nei confronti delle sole parti che abbiano partecipato alla sua adozione (art. 15).
La norma attribuisce agli Stati membri la libertà di determinare a che condizioni una parte interessata possa dirsi coinvolta nel procedimento di adozione del piano.
L’estensione degli effetti tanto ai creditori senzienti quanto a quelli dissenzienti potrebbe porsi peraltro in contrasto con le disposizioni codicistiche in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti.
Il Codice, infatti, disciplina all’art. 61 particolari condizioni in base alle quali è possibile vincolare creditori dissenzienti appartenenti alla medesima categoria, in deroga rispetto al regime generale degli accordi, che ordinariamente prevede che essi siano efficaci per il solo debitore ed i creditori aderenti, ai sensi degli art. 1372 e 1441 c.c..
La decisione sull’omologa potrà poi essere impugnata dalle parti interessate senza che la sola presentazione dell’atto introduttivo del gravame possa comportare la sospensione di efficacia del piano, a meno che gli Stati non reputino opportuna la previsione di una sospensione cautelare del provvedimento impugnato al fine di tutelare i diritti del ricorrente (art. 16).
Viene inoltre riconosciuto il diritto ad ottenere un risarcimento del danno in favore di tutte le parti che abbiano impugnato il provvedimento di rigetto, poi accolto, ed abbiano conseguentemente subito perdite monetarie in ragione della mancata omologazione del piano.
Degna di nota è infine la disposizione di cui all’art. 17 relativa alla tutela dei finanziamenti nuovi e temporanei.
La Direttiva, all’art. 2 par.1 n. 8-9, definisce i finanziamenti nuovi come “qualsiasi nuova assistenza finanziaria fornita da un creditore esistente o da un nuovo creditore al fine di attuare il piano di ristrutturazione e inclusa in tale piano di ristrutturazione” ed i finanziamenti temporanei come “qualsiasi assistenza finanziaria fornita da un creditore esistente o nuovo che preveda, come minimo, un’assistenza finanziaria nel corso della sospensione delle azioni esecutive individuali e che sia ragionevole e immediatamente necessaria affinché l’impresa del debitore continui ad operare o mantenga o aumenti il suo valore”.
Ivi si impone agli stati di escludere la possibilità di far valere, rispetto a tali contratti e in una successiva procedura fallimentare, cause di nullità ed annullabilità che siano unicamente fondate sul pregiudizio arrecato ai creditori, così come la possibilità che detto pregiudizio possa essere alla base di illeciti civili, amministrativi e penali contestabili ai finanziatori[22].
La norma costituisce ulteriore riscontro della volontà di agevolare il più possibile la prosecuzione delle attività imprenditoriali in quanto l’esperienza concreta mostra l’impossibilità di un vero e proprio rilancio dell’impresa in assenza di nuove risorse o di risorse temporanee e, tendenzialmente, è proprio l’incerta sorte di tali contratti di finanziamento, in caso di insuccesso del piano, che spinge i finanziatori a non investire.
Il par. 2 dell’art. 17, in ogni caso, autorizza gli Stati a limitare l’applicabilità di tale regime ai soli finanziamenti nuovi qualora il piano sia omologato dall’autorità giudiziaria ed a quelli temporanei che siano stati controllati ex ante.
Vi è di più perché la disciplina in esame dovrà essere applicata non solo alle misure adottate in attuazione del piano ma anche a tutte le operazioni che siano funzionali alla prosecuzione o allo svolgimento delle trattative tra cui si indicano il pagamento degli onorari dei professionisti, dei costi di negoziazione, la corresponsione dello stipendio ai lavoratori e qualsiasi altro pagamento effettuato nell’ambito dell’attività ordinaria.
La disciplina dei finanziamenti temporanei o iterinali, è oggi contenuta nell’art. 99 del Codice della Crisi d’Impresa, ove si qualificano come prededucibili i crediti vantati in ragione di finanziamenti concessi al debitore e necessari al fine di consentire il corretto svolgimento della procedura oltre che funzionali al miglior soddisfacimento dei creditori[23].
Nella successiva liquidazione giudiziale viene tuttavia esclusa la prededucibilità di tali crediti qualora il debitore, presentando l’istanza di autorizzazione al Tribunale, abbia esposto dati falsi o abbia compiuto atti in frode dei creditori.
Disposizioni analoghe sono dettate per i finanziamenti effettuati in esecuzione del concordato o dell’accordo di ristrutturazione omologati.
[1] La Proposta è attualmente al vaglio del Parlamento Europeo per essere formalmente adottata, previo accordo sul testo già raggiunto con il Consiglio Europeo nell’Ottobre 2018.
[2] In realtà, nel 2015, è stato adottato il Regolamento 848/2015/UE, riguardante più che altro i conflitti di giurisdizione relativi ad insolvenze di imprese transfrontaliere, senza esservi una parte dedicata al diritto sostanziale.
[3] Nella Relazione al Provvedimento la Commissione Europea giustifica l’adozione della Direttiva anche sulla base dell’insuccesso ottenuto con la precedente Raccomandazione: “E’ emerso che, pur avendo costituito un’utile guida per gli stati membri impegnati in riforme nel settore dell’insolvenza, la raccomandazione non ha ottenuto l’impatto auspicato in termini di modifiche rilevanti in tutti gli stati membri volte a facilitare il salvataggio delle imprese in difficoltà finanziarie e offrire una seconda opportunità agli imprenditori”.
[4] Viene messo in luce un allarmante circolo vizioso che potrebbe essere attivato dall’insolvenza di un’impresa domestica. Qualora questa fosse infatti fornitrice di un’impresa transfrontaliera l’insolvenza potrebbe riverberarsi anche nei confronti di quest’ultima, potendo avere effetti pregiudizievoli a sua volta su piccole e medie imprese nazionali sue creditrici che rinunciano a far valere le proprie ragioni in seno a procedure concorsuali estranee al proprio ordinamento.
[5] I dati, contenuti nella relazione illustrativa, sono stati rilevati nell’anno 2016
[6] Sul punto illustre dottrina rileva come oggi le imprese siano costituite prevalentemente da beni immateriali, il cui valore viene meno con il cessare dell’attività. Così Panzani, Conservazione dell’impresa, interesse pubblico e tutela dei creditori: considerazioni a margine della proposta di direttiva in tema di armonizzazione delle procedure di ristrutturazione, in ilcaso.it, 2017
[7] La base giuridica è da rintracciarsi nel disposto degli art. 53 e 114 del TFUE
[8] In particolare, al Considerando n. 21 si ricorda che “Il sovraindebitamento del consumatore è un problema di grande rilevanza economica e sociale ed è strettamente correlato alla riduzione dell’eccesso di debito. Inoltre, spesso non è possibile distinguere chiaramente tra debiti maturati in capo all’imprenditore nell’esercizio della sua attività. Gli imprenditori non godrebbero efficacemente di una seconda opportunità per liberarsi dai debiti legati all’impresa e da altri debiti maturati al di fuori di tale attività, se dovessero sottoporsi a procedure distinte con condizioni di accesso e termini. Pertanto, sebbene la direttiva non contenga norme vincolanti in materia di sovraindebitamento del consumatore, sarebbe opportuno che gli stati membri applicassero al più presto le disposizioni della presente direttiva sull’esdebitazione anche al consumatore”
[9] Nella relazione alla proposta di Direttiva presentata al Consiglio dalla Commissione Europea, la distanza tra gli ordinamenti in merito di definizione di insolvenza, disciplina delle azioni revocatorie e della graduazione dei crediti, viene definita “troppo grande per essere colmata” vista anche lo stretto legame con settori del diritto nazionale come il diritto tributario, del lavoro e della previdenza sociale.
[10] La proposta di Direttiva presentata dalla Commissione Europea non conteneva alcun accenno alle fattispecie di continuità indiretta.
[11] Si fa riferimento alle controversie giurisprudenziali e dottrinali in merito alla nozione di continuità aziendale adottata dal Legislatore che, con il D.l. n. 3/2012, ha introdotto l’art. 186-bis l.f. La questione pare essere stata definitivamente risolta dalla Corte di Cassazione, con la sent. 39517/2018 in ilcaso.it, in cui si è ricordato che le norme sul concordato in continuità siano applicabili in tutti i casi in cui il piano preveda la continuazione oggettiva, non soggettiva, delle attività imprenditoriali.
[12] Il considerando n. 29 recita: “Fatta eccezione per i casi in cui la presente direttiva preveda la partecipazione obbligatoria delle autorità giudiziarie o amministrative, gli Stati membri dovrebbero poter limitare la partecipazione di tali autorità alle situazioni in cui essa sia necessaria e proporzionata, tenendo pur sempre conto, tra l’altro, dell’obbiettivo di tutelare i diritti e gli interessi dei debitori e delle parti interessate così come dell’obbiettivo di ridurre i ritardi e i costi delle procedure”
[13] Panzani, op. cit.
[14] Il problema è stato sottolineato da Vella, Ambrosini, Orlando, Stanghellini in seno all’audizione del 24.5.2017 svoltasi presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, avente ad oggetto un’indagine conoscitiva in merito all’esame della proposta di direttiva del Parlamento Europeo.
[15] Così Ambrosini, cit.
[16] Il trentaduesimo considerando specifica che il creditore dovrà beneficiare di una sospensione delle azioni esecutive, sia essa concessa per legge o dall’autorità giudiziaria.
[17] La durata iniziale della sospensione è di quattro mesi, a cui potranno seguire proroghe autorizzate dall’Autorità giudiziaria se richieste dal debitore, dal creditore o da un professionista, e concesse solo al ricorrere di casi tassativi tra i quali il par. 7 dell’art. 6 ricomprende il fatto che siano stati fatti progressi significativi nelle trattative, che la continuazione della sospensione non pregiudichi ingiustamente i diritti delle parti interessate, che nei confronti del debitore non siano state ancora aperte procedure d’insolvenza che possano concludersi con la liquidazione delle attività del debitore.
[18] Cfr.Ambrosini, cit
[19] Il Codice prevede la riduzione delle maggioranze ai fini dell’adozione del piano qualora il debitore non richieda misure protettive o la moratoria per i creditori estranei.
[20] La Direttiva stabilisce un limite massimo alle maggioranze da stabilirsi a livello nazionale, fissato nella soglia del 75%, sia calcolata in base all’ammontare dei crediti rappresentati nelle classi sia che si proceda ad un conteggio pro capite.
[21] Nell’ordinamento concorsuale italiano, per quanto concerne il concordato in continuità aziendale, la verifica del miglior soddisfacimento dei creditori è affidata all’attestatore, potendo il giudice svolgere un mero sindacato esterno inerente alla coerenza, logicità e correttezza della relazione. In merito dottrina e giurisprudenza si sono a lungo interrogate su quale termine comparativo debba considerare il perito al fine di rilasciare il proprio parere sul piano. Fin da subito è parso troppo gravosa una comparazione con tutti gli scenari astrattamente praticabili, essendo più adeguato un confronto tra soluzione concordataria e liquidazione fallimentare o concordataria. La Direttiva pare invece imporre di considerare ogni possibile alternativa al quadro di ristrutturazione preventiva.
[22] Non si tratta, evidentemente, di una limitazione assoluta in quanto i contratti di finanziamento potranno continuare ad essere annullati o dichiarati nulli in base ad altri vizi, così come potrà sorgere responsabilità civile, penale, amministrativa in capo ai finanziatori in ragione di condotte diverse dalla mera concessione del credito.
[23] L’istanza del debitore dovrà essere corredata di un’attestazione del professionista che certifichi l’essenzialità del finanziamento per la prosecuzione della procedura e la funzionalità rispetto al miglior soddisfacimento dei creditori, salvo il caso in cui vi sia un’urgenza determinata dal grave pregiudizio che potrebbe arrecarsi all’attività imprenditoriale qualora si attendesse la redazione dell’attestazione.
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