Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 22/03/2018 Scarica PDF
Recupero dei compensi per prestazioni giudiziali rese dall'avvocato in materia civile
Giuseppe Cardona, Avvocato in MilanoCommento a Cassazione civile, sez. un., 23 febbraio 2018, n. 4485
Sommario: 1. Il quadro normativo e i temi all’attenzione delle sezioni unite. 2. L’esclusività dei procedimenti di cui al decreto di semplificazione dei riti. 3. Il thema decidendum della controversia ricomprende l’an debeatur. Le implicazioni sulla difesa del cliente. 4. Alcune riflessioni a latere.
1. Il quadro normativo e i temi all’attenzione delle sezioni unite
1.1. Il recupero dei compensi professionali per prestazioni giudiziali rese dell’avvocato in ambito civile è stata una materia che, per quasi settant’anni, è stata regolata dalla legislazione speciale (artt. 28, 29 e 30, legge 13 giugno 1942, n. 794).
Segnatamente, l’art. 28 della legge del 1942 prevedeva che «per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente l’avvocato o il procuratore, dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura, deve, se non intende seguire le procedure di cui all’articolo 633 e seguenti del codice di procedura civile, proporre ricorso al capo dell’ufficio giudiziario adito per il processo» (art. 28). Dalla lettura della norma era evidente che all’avvocato fosse concessa l’opportunità di tutelare il proprio diritto di credito tramite rimedi elettivi. Il legale avrebbe potuto avvalersi di un procedimento camerale (artt. 737 e ss. c.p.c.), con alcune regole particolari previsti dalla legge del 1942, oppure avrebbe potuto chiedere la tutela monitoria del credito (artt. 633 e ss. c.p.c.).
Invero, il professionista conservava – anche se non in modo così tranchant come lo si vuol dire adesso – anche la possibilità di promuovere un ordinario procedimento di cognizione (artt. 163 e ss. c.p.c.). A tale strumentario si aggiungeva, con l’entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69, il procedimento sommario di cognizione (artt. 702-bis e ss. c.p.c.). Insomma, il legale disponeva – e di fatto ha disposto fino a poco tempo fa – di quattro strade alternative per richiedere giudizialmente la tutela del compenso.
1.2. Tale quadro normativo era destinato a cambiare – si vedrà infra con quale portata – dall’introduzione della citata legge del 2009. Il legislatore delegante aveva, infatti, dato compito al governo di ricondurre i procedimenti civili di natura contenziosa regolati dalla legislazione speciale (e.g., quello per il recupero dei compensi professionali) ad uno dei tre riti prescelti come modelli informatori del “nuovo” processo civile. Aspetto non marginale è che il legislatore delegato, nel coronare la riforma, non poteva modificare “i criteri di competenza, nonché i criteri di composizione dell’organo giudicante, previsti dalla legislazione vigente” (art. 54 IV comma lett. a), legge del 2009).
Ebbene, il decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, anche noto come “decreto di semplificazione dei riti”, ha disposto – per quanto interessa ai nostri fini – la riformulazione dell’art. 28 della legge del 1942, nel senso che l’avvocato «se non intende seguire le procedure di cui all’articolo 633 e seguenti del codice di procedura civile, procede ai sensi dell’articolo 14 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150»[1] e, giocoforza, con l’art. 14 I comma, ha previsto che «le controversie previste dall’articolo 28 della l. 13 giugno 1942, n. 794, e l’opposizione proposta a norma dell’articolo 645 del codice di procedura civile contro il decreto ingiuntivo riguardante onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati per prestazioni giudiziali sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo».
Il “quadrivio” di tutela a disposizione del professionista ne risulta, allora, aggiornato, quantomeno secondo la prevalente giurisprudenza. Di fatti, l’avvocato non avrebbe più potuto avviare il procedimento camerale il quale veniva interamente ricondotto al rito sommario di cognizione, con alcune particolarità. Tale procedimento, infatti, è soggetto alla normativa codicistica, salvo quanto previsto da determinate regole ad hoc: (i) la non obbligatorietà del ministero del difensore per il cliente-convenuto; (ii) la non impugnabilità dell’ordinanza collegiale[2] che definiva il giudizio[3]; e (iii) la competenza territoriale dell’ufficio giudiziario ove l’avvocato aveva rappresentato il proprio assistito[4] (art. 14 II, III e IV comma, decreto del 2011). Se, dunque, al procedimento camerale veniva sostituito quello che può indicarsi, ai fini del presente contributo, come procedimento sommario sui generis[5], la possibilità di ricorrere al procedimento monitorio restava invariata (variando solo la disciplina dell’opposizione, anch’essa regolata dal procedimento sommario sui generis)[6].
1.3. Può a questo punto dirsi che la possibilità di introdurre la lite avvalendosi del rito ordinario e sommario di cognizione tout court era il frutto di un orientamento giurisprudenziale che professava la natura meramente discrezionale del procedimento speciale ex legge del 1942, quale rimedio finalizzato ad ottenere la rapida formazione di un titolo esecutivo, senza con ciò precludere la facoltà di ottenere l’accertamento giudiziale del credito secondo le norme ordinarie (Cassazione civile, II sezione, 8 gennaio 1966, n. 152).
Quanto appena detto è stato profondamente messo in discussione dalla sentenza n. 4485 pubblicata il 23 febbraio 2018, con cui la Cassazione civile a sezioni unite è stata sollecitata a dirimere un contrasto sorto su di un tema diverso (ma connesso) con quello dei rimedi disponibili per il litigator. È da qualche tempo, infatti, che è sorto in contrasto in giurisprudenza su quale debba essere il perimetro della controversia avviata per il recupero dei compensi professionali ai sensi del rinnovato art. 28, legge del 1942. Il tema è se l’oggetto della contesa sia limitato al quantum debeatur o, piuttosto, se debba estendersi anche all’an debeatur, vale a dire all’esistenza stessa del diritto al compenso.
L’intervento del massimo consesso è stato, dunque, sollecitato dall’ordinanza della Cassazione civile, VI sezione, 25 maggio 2017, n. 13272, con la quale i giudici di legittimità hanno constatato che il quadro normativo (testé compendiato) ha palesato opzioni esegetiche differenti. In sintesi, per un verso, la giurisprudenza di legittimità ha rilevato che le controversie per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti dell'avvocato nei confronti del proprio cliente previste dall'art. 28, legge del 1942, devono essere trattate con la procedura prevista dall'art. 14, decreto del 2011, anche nell'ipotesi in cui la domanda riguardi l'an della pretesa (Cassazione civile, VI sezione, 29 febbraio 2016, n. 4002)[7]. Per altro verso e in linea di continuità con l’orientamento correlato all’assetto normativo previgente, la giurisprudenza di legittimità ha rilevato che il decreto del 2011 ha inciso solo sul rito e che al rito sommario di cognizione sui generis potrà farsi ricorso per le controversie di cui all’art. 28, legge del 1942, allorché si controverta unicamente in ordine al quantum della pretesa e non già quando si controverta anche in ordine all'an. (Cassazione civile, VI sezione, 24 giugno 2016, n. 13175)[8].
Può, allora, dirsi che le sezioni unite, chiamate a prendere posizione fra i contrastanti indirizzi riportati nell’ordinanza, abbiano “colto l’occasione” per affrontare, con il “peso” di un loro provvedimento nomofilattico, anche la questione – sulla quale non vi era alcun contrasto, ma che di certo era di particolare importanza, specie per la fattispecie concreta – su quali rimedi processuali siano ancora disponibili per l’avvocato a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150. Delle due soluzioni offerte, così come dei relativi percorsi argomentativi, si cercherà di dar conto con il presente contributo, non prima però di aver brevemente illustrato il caso giunto dinanzi la Suprema Corte.
1.4. Un avvocato depositava ricorso ex art. 702-bis c.p.c. presso il Tribunale di Civitavecchia e, asserendo di aver svolto attività per un proprio cliente in procedimenti civili dinanzi al giudice di pace, al Tribunale e alla Corte d’appello di Roma, chiedeva la condanna per le relative competenze professionali non corrisposte. Il professionista optava, dunque, per il rito sommario di cognizione e a non per quello sui generis. Si costituiva il cliente, il quale sollevava contestazioni attinenti non solo al quantum, ma anche all’an (e.g., eccezione di prescrizione ex art. 2956 c.c.). Il Tribunale di Civitavecchia dichiarava l’inammissibilità del ricorso presentato dal legale, osservando sia che il procedimento di liquidazione dei compensi non trovi applicazione laddove, a seguito delle difese del resistente, venga esteso il thema decidendum all’an debeatur, sia che le attività professionali erano state svolte presso uffici giudiziari romani, dichiarando il proprio difetto di competenza, in virtù dell’art. 14 II comma del decreto del 2011 (che regola la competenza dell’ufficio giudiziario ove l’avvocato ha patrocinato). Avverso tale ordinanza, il legale proponeva regolamento di competenza che, a seguito della rimessione dinanzi alle sezioni unite, è stato deciso con la sentenza che si annota.
2. L’esclusività dei procedimenti di cui al decreto di semplificazione dei riti
2.1. Le sezioni unite ritengono che il decreto del 2011 abbia introdotto la regola dell’esclusività del procedimento sommario sui generis e del procedimento monitorio (la cui opposizione è disciplinata dal primo) quali strumenti processuali per la trattazione delle controversie ex all’art. 28, legge del 1942 e, per converso, hanno escluso la possibilità che il rito ordinario di cognizione e quello sommario regolato esclusivamente del codice di rito fossero ancora esperibili in subiecta materia.
Tale operazione ermeneutica è affermata sulla scorta del fatto che (i) l’assoggettamento della controversia in esame al procedimento sommario sui generis, consente di ritenere superato il “timore passato” dell’assenza di un corredo di norme per il procedimento camerale a presidio degli interessi sottesi ad una materia contenziosa; (ii) l’utilizzo nell’attuale art. 28, di una forma verbale imperativa («procede») è ora avvenuto in un contesto di evoluzione dell’ordinamento tendente a semplificare le forme processuali e con esclusione della osmosi fra quelle speciali e quelle ordinarie. Dunque il modello del procedimento sommario, con le particolarità previste dall’art. 14, decreto del 2011, tali da renderlo sui generis, può e deve essere il luogo di tutela esclusivo (e non meramente elettivo) per il recupero dei compensi professionali.
La Cassazione aggiunge che, nel caso in cui l’avvocato decida di promuovere un procedimento monitorio – la cui opposizione, per espressa dizione dell’art. 14, decreto del 2011, è regolata dal procedimento sommario sui generis – l’opposizione debba proporsi nelle forme di cui all’art. 702-bis c.p.c. senza che si possa escludere l’applicazione degli artt. 648, 649, 653 e 654 c.p.c.
2.2. Ciò posto, le SS.UU. fanno una sorta di “prova del nove” (anche se, in Sentenza, esposta prima dell’illustrazione della richiamata conclusione) circa la tenuta della ricostruzione esegetica. Di fatto, si è voluto verificare se il criterio di c.d. invarianza della competenza contenuto nella legge delega del 2009, all’art. 54 IV comma lett. a), avrebbe precluso o meno al legislatore delegato di individuare il procedimento sommario sui generis e quello per decreto ingiuntivo come esclusivi – e non meramente elettivi – rispetto al rito ordinario e sommario di cognizione. Va da sé che, laddove tale esclusività avesse implicato un cambiamento dei criteri di riparto della competenza, non si sarebbe potuta affermare tale opzione interpretativa, per il contrasto con la legge delega.
Per effettuare tale valutazione, la Corte di Cassazione fa il punto sui criteri di riparto della competenza al momento della sopravvenienza del decreto di semplificazione dei riti, rappresentando come il concreto riparto dipendesse da quale delle quattro “strade” – prima possibili – avesse preferito intraprendere il professionista. E così: (i) in caso di rito ordinario di cognizione, sotto il profilo della competenza per materia e valore, trattandosi di pretesa relativa a somme di danaro, sarebbe stato competente il giudice di pace (art. 7 c.p.c.) o il tribunale (art. 8 c.p.c.), mentre sotto il profilo della competenza per territorio, avrebbero trovato applicazione i criteri generali di radicazione della competenza (artt. 18 e 19 c.p.c.) e il criterio del foro facoltativo del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione dedotta in giudizio (art. 20 c.p.c.); (ii) in caso di rito sommario di cognizione, nel caso in cui il valore della domanda escludesse la competenza del giudice di pace, con conseguente competenza del tribunale monocratico (art. 50-ter c.p.c.), la domanda sarebbe stata proponibile davanti al tribunale, con le medesime regole per la competenza territoriale in caso di rito ordinario di cognizione (i.e. artt. 18, 19 e 20 c.p.c.); (iii) in caso di rito camerale ex legge del 1942, sarebbe stato competente per materia il capo dell’ufficio giudiziario ove l’avvocato aveva esperito le di lui prestazioni professionali; e, infine, (iv) in caso di procedimento monitorio, la competenza risultava regolata dall’art. 637 c.p.c. e, di conseguenza, ai sensi del I comma, la competenza sarebbe stata dello stesso giudice adito con rito ordinario di cognizione, ai sensi del II comma, dell’ufficio giudiziario che ha deciso la causa alla quale il credito si riferisce, mentre, ai sensi del III comma, sarebbe spettata al giudice competente per valore del luogo ove ha sede il consiglio dell’ordine al cui albo è iscritto il professionista. In tale sistema di regole, occorre poi aggiungere il c.d. foro del consumatore di cui all’art. 33 II comma, lett. u) del codice del consumo (decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206), coincidente con il luogo di residenza o di domicilio elettivo, ove applicabile.
Seconda la sentenza il sistema di regole di competenza (sopra riproposto) non è stato in alcun modo alterato dall’introduzione della regola dell’esclusività dei riti (e la conseguente eliminazione dell’esperibilità dei riti concorrenti) di cui al decreto legislativo del 2011. La conformità al criterio della c.d. invarianza della competenza è stata affermata dai giudici di Piazza Cavour sulla base del che fatto che la riforma non ha modificato né la possibilità di avviare il procedimento monitorio e, dunque, le regole di determinazione della competenza ivi previste sono fatte salve (art. 637 c.p.c.), né le regole di competenza per il rito camerale (ufficio giudiziario ove l’avvocato ha prestato la propria opera), sostituito con il procedimento sommario sui generis. Inoltre, escludere la possibilità di agire con il rito ordinario e sommario di cognizione, ha implicato solo la soppressione di una regola interna e non il mutamento di alcun criterio di competenza, poiché la competenza, in base alla quale poteva agirsi tanto in via ordinaria quanto in via sommaria, è la medesima di quella prevista per agire in via monitoria ai sensi dell’art. 637 I comma c.p.c. (che richiama, tra l’altro, gli artt. 7, 8, 18, 19 e 20 c.p.c.). Ovviamente, infine, nemmeno il foro del consumatore è stato modificato dal decreto del 2011[9].
2.3. Ne segue come l’esclusività dei riti non è in alcun modo in contrasto con la delega e, quindi, in conclusione, deve affermarsi che ilrecupero dei compensi per prestazioni giudiziali rese dell’avvocato in materia civile non può chiedersi con rito ordinario o sommario di cognizione, giacché l’art. 14, decreto legislativo 150/2011, ha segnato l’esclusività delle forme di tutela – elettive tra loro – del procedimento sommario sui generis (artt. 702-bis e ss. c.p.c., ove non derogati dal richiamato art. 14) e del procedimento per decreto ingiuntivo, la cui opposizione è soggetta al procedimento sommario sui generis, ferma l’applicazione degli artt. 648, 649, 653 e 654 c.p.c.
3. Il thema decidendum della controversia ricomprende l’an debeatur. Le implicazioni sulla difesa del cliente
3.1.Secondo gli ermellini, le controversie di cui all’art. 28, legge del 1942 – sottoposte esclusivamente ai riti di cui sopra – non hanno semplicemente ad oggetto la liquidazione del compenso, come la rubrica dell’art. 14, decreto del 2011, lascerebbe intendere prima facie, ma possono riguardare anche l’an debeatur. Quel che principalmente rileva, secondo la sentenza in commento, è che nel testo del richiamato art. 14 il legislatore abbia omesso qualsiasi richiamo alla «liquidazione» riferendosi genericamente a «onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati per prestazioni giudiziali». Tale omissione è da ritenersi significativa giacché ben si sarebbe potuta reinserire tale locuzione, per specificare che il thema decicendum della controversia fosse limitato, appunto, alla liquidazione e, di converso, è possibile proporre una domanda che involga non solo il profilo strettamente liquidatorio, ma anche quello concernente l’esistenza del rapporto professionale e l’an debeatur.
La richiamata conclusione viene, poi, “rafforzata” osservando che, sebbene la relazione illustrativa al decreto di semplificazione dei riti richiami la giurisprudenza che predicava come l’oggetto della controversia sia da ritenersi limitato al quantum, l’attuale formulazione dell’art. 14 è idonea a ritenere superato il precedente orientamento e, inoltre, ai lavori preparatori non può riconoscersi che un valore unicamente sussidiario nell’interpretazione della legge.
Si aggiungano due ulteriori rilievi effettuati dalle sezioni unite: da un lato, la circostanza per cui nelle controversie ex art. 28 sia prevista la difesa personale non assume rilievo ai fini della delimitazione dell’oggetto del procedimento, trattandosi di una mera facoltà, dall’altro lato, la scelta di disporre l’applicabilità del rito sommario sui generis al recupero del credito professionale è conforme all’esigenza di semplificazione giacché il rapporto di prestazione d’opera intellettuale si presta ad accertamenti per i quali il rito sommario risulta più che adeguato.
3.2. Occorre far presente che con la sentenza sono stati criticati gli orientamenti della giurisprudenza ante riforma, specie quello maggioritario, professante un oggetto limitato al quantum e ritenuto applicabile anche all’attuale regime, quantomeno, fino a Cassazione civile, VI sezione, 29 febbraio 2016, n. 4002, la quale ha dato avvio al contrasto giunto dinanzi alle sezioni unite[10].
La sentenza in commento ritiene che tale indirizzo pretorio sia privo di «un serio fondamento» per una serie di ragioni, tra le quali, (i) ipotizzare che la domanda di cui all’art. 28 dovesse limitarsi a postulare la mera liquidazione di un credito avrebbe presupposto che il credito fosse stato previamente accertato mediante un titolo convenzionale o giudiziale e, in mancanza di detto titolo, la domanda non avrebbe potuto realmente essere una domanda di liquidazione mera, necessariamente implicando un accertamento sull’an; (ii) anche la liquidazione suppone l’allegazione dei fatti costitutivi del rapporto di clientela e del loro svolgimento come causa petendi e, dunque, l’an sarebbe comunque oggetto dell’accertamento giudiziale; e (iii) non facendo dipendere dall’atteggiamento del cliente-convenuto la praticabilità del procedimento si sarebbero risolti i problemi concernenti allo strumento di gravame del provvedimento decisorio (ricorso straordinario per cassazione o appello).
3.3. Dopo che con la sentenza le sezioni unite hanno mostrato di voler aderire alla tesi minoritaria (inaugurata da Cassazione civile, VI sezione, 29 febbraio 2016, n. 4002), si sono premurate di indicare quali fossero le implicazioni della soluzione offerta con riguardo alle difese del cliente nell’ambito del giudizio introdotto con procedimento sommario sui generis o convenuto in tale procedimento a seguito di opposizione ex art. 645 c.p.c.
Ebbene, viene subito chiarito come «l’atteggiamento difensivo del cliente […] purché non si concreti nell’ampliamento dell’oggetto del giudizio con l’introduzione di una domanda [riconvenzionale, di compensazione, di accertamento con efficacia di giudicato di un rapporto pregiudicante], non determina alcuna incidenza sulla possibilità che il processo si svolga e si chiuda con il rito sommario [c.d. sui generis]».
Diversamente, qualora la difesa del convenuto si sia concretata nell’allargamento dell’oggetto del giudizio, occorre diversificare:
(a) se la domanda è ricompresa nella competenza del giudice adito ai sensi dell’art. 14, laddove l’istruzione appaia sommaria ex art. 702-ter IV comma c.p.c., anche la riconvenzionale potrà essere trattata con il procedimento sommario sui generis, mentre, nel caso opposto, si dovrà procedere alla separazione delle cause e, dunque, alla trattazione con il rito ordinario a cognizione piena della domanda del cliente (con l’effetto ulteriore della sospensione ex art. 295 c.p.c. qualora la domanda del convenuto risulti pregiudiziale rispetto a quella di pagamento degli onorari); invece
(b) se la domanda esorbiti della competenza del giudice adito ai sensi dell’art. 14, verranno in rilievo, ove applicabili, le norme sulla modificazione della competenza per ragioni di connessione (artt. 31 e ss. c.p.c.), con conseguente possibilità che anche la riconvenzionale esorbitante della competenza sia trattata dallo stesso giudice ex art. 14, mentre dovrà darsi luogo a separazione nel caso opposto. Del pari, va segnalato che qualora sia stata adita la corte d’appello ai sensi dell’art. 14, non potendo essa essere mai competente per la riconvenzionale, dovrà necessariamente inferirsi circa la separazione delle cause e la rimessione al giudice competente in primo grado (con l’eventuale applicazione dell’art. 295 c.p.c.).
3.4. In definitiva, dunque, il thema decidendum delle controversie aventi ad oggetto ilrecupero dei compensi per prestazioni giudiziali rese dell’avvocato in materia civile ex art. 14 d.lgs. 150/2011 non è limitato alla liquidazione del compenso (quantum debeatur), estendendosi anche all’esistenza del rapporto professionale (an debeatur), e non subisce alterazioni dalle difese del convenuto – che potranno essere trattate nella stessa sede in cui si discute del recupero del credito professionale – salvo che il cliente proponga una domanda che postuli un’istruzione non sommaria o, comunque, che esorbiti la competenza del giudice adito (sempreché non siano applicabili le norme sulle modificazioni della competenza per ragioni di connessione).
4. Alcune riflessioni a latere
4.1. Deve, anzitutto, darsi conto di come le sezioni unite abbiano statuito nel caso concreto. La Suprema Corte, facendo applicazione dei principi di diritto elaborati (e sopra riproposti), osservato che la domanda dell’avvocato era stata introdotta con il rito sommario di cognizione tout court (ovvero solo codicistico) e quindi non praticabile, rilevato che le difese del cliente convenuto avessero imposto l’estensione del thema decidendum all’an debeatur, dichiarava la competenza del Tribunale di Civitavecchia (in virtù del foro del consumatore) stabilendo come esso dovrà trattare la controversia, comunque, ai sensi dell’art. 14, cioè con il procedimento sommario sui generis.
4.2. Orbene, non può negarsi che la complessiva operazione ermeneutica delle sezioni uniti realizzi una non trascurabile semplificazione giacché convalida il passaggio da quattro procedimenti esperibili per la tutela del credito professionale (condivisibilmente troppi) ad un vero e proprio “bivio” per la tutela, non senza considerare che i due procedimenti elettivi – solo tra loro – sono entrambi garanzia di un processo breve (e perciò gradito, specie, agli avvocati-attori) poiché destinato a concludersi senza possibilità d’appello ed a valle di un giudizio onnicomprensivo di an e quantum. Su quest’ultimo aspetto, si considerino anche le incertezze superate date dal mezzo di gravame disponibile per l’ordinanza che definisce il giudizio (adesso, ricorribile esclusivamente per cassazione).
Ad opinione di chi scrive, d’altro canto, dire che il decreto legislativo del 2011 abbia utilizzato nell’art. 14 una forma verbale imperativa («procede») per inferirne l’esclusività dei procedimenti, o che l’assenza nel testo della norma del termine presente nella rubrica («liquidazione») per dedurne che la controversia ricomprenda anche l’an, ci sembrano essere argomenti – sì letterali, ma anche – teleologicamente orientati, nel senso di dare al decreto quelle finalità di reale semplificazione e riduzione dei procedimenti cui, con ogni probabilità, ambiva il legislatore delegante.
E con ciò non vuole di certo dirsi che i principi elaborati siano basati su un’attività esegetica rivedibile, ma solo che la Suprema Corte abbia superato un dato letterale che non si prestava ad un’interpretazione agevole – tant’è il sorgere del contrasto – per esaltare l’effettiva semplificazione; il risultato è, allora, uno strumentario processuale più elementare per il professionista che agisca giudizialmente per il recupero dei compensi.
4.3. Meno semplificato ci pare, però, essere il riflesso dell’atteggiamento difensivo del cliente sul rito. Se è vero che, di regola, la difesa del cliente vada trattata nel giudizio ex art. 14, è altrettanto vero che attrarre la domanda riconvenzionale che richieda un’istruzione sommaria in un rito che si conclude con provvedimento non appellabile – pur nella consapevolezza che il doppio grado di giurisdizione non è un principio avente rilevanza costituzionale – forse potrebbe scoraggiare il convenuto a proporre in quella sede una siffatta difesa proprio per il rischio di essere, di fatto, privato di un potenziale riesame nel merito, quale il giudizio di secondo grado.
Ma se ciò si colloca in un contesto di “accelerazione” del processo civile, non ci pare si possa dire lo stesso quando la sezioni unite, nell’affermare l’impossibilità, in via di eccezione, della trattazione unitaria delle cause (i.e., quella dell’avvocato e quella, in riconvenzionale, del cliente che postuli un’istruzione non sommaria[11]) ritengono che si debba procedere alla separazione e quindi alla sospensione in presenza di un nesso di pregiudizialità-dipendenza. E non perché il ragionamento non ci sembri corretto, ma perché il principio si potrebbe prestare a difese strumentali del cliente volte, più che altro, a paralizzare l’efficienza del procedimento sommario sui generis (o dell’eventuale opposizione ex art. 645 c.p.c.), procrastinando la soddisfazione del credito[12].
Ne segue che sarà compito del collegio giudicante – senza che ciò esima l’avvocato da una equilibrata attività difensiva – valutare quando le difese del convenuto siano strumentali e quando, invece, risultino fondate, tenendo a mente un doppio monito. Si tratta, da un lato, dell’interpretazione necessariamente restrittiva che il giusto processo ex art. 111 Cost. impone venga fatta dell’istituto della sospensione necessaria di cui all’art. 295 c.p.c.[13], dall’altro lato, si ritiene, della possibile maggiore estensività dell’interpretazione dell’art. 702-ter IV comma c.p.c. (i.e. giudizio sulla sommarietà o meno dell’istruzione) al fine di garantire, assunta la competenza del giudice adito, contestualità della trattazione delle domande legate da pregiudizialità-dipendenza.
***
Per concludere, alla luce delle considerazioni suesposte, si ritiene di voler proporre una massima della sentenza commentata, nei seguenti termini:
Cassazione civile, sezioni unite, 23 febbraio 2018, n. 4485
Il recupero dei compensi per prestazioni giudiziali rese dell’avvocato in materia civile non può chiedersi con rito ordinario o sommario di cognizione, giacché l’art. 14, decreto legislativo 150/2011, ha segnato l’esclusività delle forme di tutela – alternative tra loro – del procedimento sommario c.d. sui generis (artt. 702-bis e ss. c.p.c., ove non derogati dal richiamato art. 14) e del procedimento monitorio, la cui opposizione è soggetta al primo procedimento, ferma l’applicazione degli artt. 648, 649, 653 e 654 c.p.c. Inoltre, il thema decidendum di tali controversie non è limitato alla liquidazione del compenso (quantum debeatur), estendendosi anche all’esistenza del rapporto professionale (an debeatur), e non subisce alterazioni dalle difese del convenuto – che potranno essere trattate nella stessa sede in cui si discute del recupero del credito professionale – salvo che il cliente proponga una domanda che postuli un’istruzione non sommaria o, comunque, che esorbiti la competenza del giudice adito.
[1] Va chiarito, come del resto puntualizzato dalla stessa sentenza in commento, che il petitum della controversia ex art. 28, della legge del 1942, è rimasto invariato dalla vecchia alla nuova formulazione: si tratta di una domanda con cui l’avvocato chiede la liquidazione (si vedrà nel prosieguo quale significato attribuire a tale espressione in termini di perimetro del giudizio) delle spettanze per l’attività professionale svolta in un giudizio civile o con l’espletamento di prestazioni professionali di tipo stragiudiziale che si pongano, però, «in stretto rapporto di dipendenza con il mandato relativo alla difesa o alla rappresentanza giudiziale, in modo da potersi considerare esplicazione di attività strumentale o complementare di quella propriamente processuale» (Cassazione civile, II sezione, 13 giugno 2007, n. 13847; sulla transazione si cfr. Cassazione civile, II sezione, 4 dicembre 2009, n. 25675). Restano escluse dalla disciplina le modalità di recupero dei crediti maturati per attività professionale stragiudiziale civile (non connessa a quella giudiziale), penale, amministrativa o dinanzi a giudici speciali.
[2] Si veda, sulla necessaria composizione collegiale, Cassazione civile, sezioni unite, 20 luglio 2012, n. 12609, in Resp. civ. e prev. 2012, 6, 2064, «Le controversie in materia di liquidazione dei compensi dovuti agli avvocati per l'opera prestata nei giudizi avanti il tribunale, pendenti al 6 ottobre 2011, data di entrata in vigore del d.lg. 1 settembre 2011 n. 150, e perciò soggette alla disciplina degli art. 28-30 l. 13 giugno 1942 n. 794, rientrano tra quelle da trattare in composizione collegiale in base al comma 2 dell'art. 50 bis c.p.c.»
[3] Tuttavia, ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost., come confermato di recente da Cassazione civile, II sezione, 17 maggio 2017, n. 12411, in Giustizia Civile Massimario 2017, «In tema di liquidazione degli onorari e diritti di avvocato in materia civile, l'ordinanza conclusiva del procedimento ex art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 non è appellabile, ma impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, sia che la controversia riguardi solamente il "quantum debeatur", sia che la stessa sia estesa all'"an" della pretesa, trovando anche in tale ultimo caso applicazione il rito di cui al citato art. 14».
[4] Trattasi di competenza funzionale e inderogabile, come chiarito da Cassazione civile, VI sezione, 11 gennaio 2017, n. 548, in Foro it. 2017, 4, I, 1323: «L'art. 14 del d.lg. n. 150 del 2011 configura, per le controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato di cui all'art. 28 della legge n. 794 del 1942, una vera e propria "competenza funzionale" dell'ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l'avvocato ha prestato la propria opera, stabilendo che tali controversie siano trattate col rito sommario di cognizione, rito che va applicato anche nell'ipotesi in cui la domanda riguardi l'an della pretesa, senza possibilità per il giudice adito di trasformare il rito sommario in rito ordinario o di dichiarare l'inammissibilità della domanda.».
[5] Potrebbe parlarsi anche di procedimento sommario obbligato, visto e considerato che ai sensi dell’art. 4, I comma, decreto del 2011, «quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal presente decreto, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza».
[6] Per un’analisi approfondita, vedi A. Carratta, La «semplificazione» dei riti e le nuove modifiche del processo civile, Torino, 2012, p. 57; G. De Luca, Nuove norme e vecchi problemi del procedimento per la liquidazione degli onorari agli avvocati, in Giusto proc. civ., 2013, p. 127; G. Balena, Il procedimento per la liquidazione degli onorari di avvocato: istruzioni per il non uso, in Giusto proc. civ. 2017, p. 1.
[7] Nella stessa linea esegetica si è anche affermato che «l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2011, ha marcato una forte discontinuità nel sistema […], così da giustificare una revisione profonda dei paradigmi ermeneutici consolidatisi sotto la disciplina previgente» (Cassazione civile, II sezione, 15 febbraio 2017, n. 3993).
[8] Sempre sullo stesso filone giurisprudenziale è stato ritenuto che la controversia promossa ai sensi degli artt. 28, legge del 1942, e 14, decreto del 2011, «può condurre all'emanazione di un'ordinanza inappellabile, in quanto ci si mantenga nell'ambito di una verifica del quantum debeatur; allorchè, invece, dovendosi decidere su un'eccezione riconvenzionale di inadempimento o su una domanda riconvenzionale di risoluzione [o ancora] si contesti l'insorgenza o la persistenza del diritto stesso a percepire gli onorari, viene meno la ragione per la sottrazione ad un controllo di merito in sede di appello della pronunzia terminativa del procedimento» (Cassazione civile, II sezione, 5 ottobre 2015, n. 19873).
[9] Per approfondimenti si veda anche G. Trisorio Liuzzi, Il foro del consumatore e il procedimento per la liquidazione degli onorari di avvocato, in Corriere giur., 2015, 684 ss.
[10] Inoltre, vi è da evidenziare come l’orientamento maggioritario formatosi dopo l’introduzione del decreto del 2011 – senza soluzione di continuità con il vecchio orientamento maggioritario – rilevava, come corollario della limitazione al quantum che, nei casi di ampliamento del perimetro della controversia a seguito delle difese del cliente-convenuto, il giudizio dovesse essere definito con sentenza appellabile, a differenza del provvedimento conclusivo del giudizio ex art. 28.
[11] Fatta salva l’applicazione delle regole sulla modificazione della competenza per ragioni di connessione.
[12] Come, del resto, avveniva nel precedente regime quando si sollevavano contestazioni sull’an debeatur al solo fine di mutare il rito da camerale (o da sommario sui generis) a ordinario.
[13] È nota la tendenza della giurisprudenza di restringere il novero delle ipotesi nelle quali ricorrono i presupposti per la sospensione necessaria del processo, così avallando la tesi restrittiva dell’art. 295 c.p.c. (si pensa a Cassazione civile, sezioni unite, 19 giugno 2012, n. 10027).
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