Diritto Bancario e Finanziario


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 211 - pubb. 01/07/2007

Anatocismo, saldo iniziale e prova

Tribunale Pescara, 18 Novembre 2005. Est. Falco.


Apertura di credito in conto corrente – Anatocismo – Determinazione del saldo iniziale – Omessa produzione del contratto – Omessa prova dell’invio degli estratti conto – Riconduzione a zero del saldo iniziale – Determinazione del TEG – Modalità.



L’omessa produzione da parte della Banca - nei termini perentori di cui all’art. 184 c.p.c. - del contratto disciplinante la prima parte di un rapporto di apertura di credito in conto corrente successivamente “rinegoziato” con il cliente attraverso una pattuizione scritta regolarmente prodotta in giudizio, unitamente alla omessa indicazione del contenuto di siffatto originario titolo contrattuale e dal difetto di prova del fatto, contestato dal correntista, di avergli regolarmente inviato gli estratti conto relativi al periodo di rapporto disciplinato dall’originario contratto, non consente al Tribunale- adito dalla Banca per il pagamento del saldo finale del rapporto di conto corrente rinegoziato in cui sia stato conteggiato, come “saldo iniziale”, anche il saldo passivo asseritamente maturato a debito del cliente prima della rinegoziazione - né di vagliare la giustificazione contabile e negoziale di tale “saldo iniziale”, contestato dal correntista, né di depurarlo dagli anatocismi passivi illegittimi ex art. 1283 c.c. conteggiati nei relativi estratti conto, nè di verificare la rispondenza, contestata dal cliente, dell’originario contratto ai requisiti inderogabili, di forma e di sostanza, di cui all’art. 117 TUB. Ciò comporta la necessità di ricondurre processualmente a “zero” quell’originario saldo debitore perché relativo ad una parte del rapporto disciplinata da un titolo di forme e contenuti rimasti ignoti, potendosi ricostruire in giudizio, depurare dall’anatocismo illegittimo e quindi riconoscere in capo alla Banca soltanto il credito legittimamente maturato nella parte del rapporto contestato successiva alla rinegoziazione e del quale si sia acquisita in giudizio idonea prova negoziale e contabile. Ai fini del calcolo del “Tasso Effettivo Globale” di cui alla Legge n. 108/96, si devono computare tutte le remunerazioni di cui all’art. 2, comma I, della Legge n. 108/96 collegate all’erogazione del credito e che siano state “pattuite” nel contratto, ancorché in forma invalida sotto altro titolo, e prima di effettuare sul rapporto ogni altra depurazione dei costi derivante da altre eventuali forme di invalidità negoziali (nella specie, dall’anatocismo trimestrale passivo pattuito in violazione dell’art. 1283 c.c.), mentre dal medesimo computo vanno esclusi gli addebiti unilateralmente eseguiti dalla Banca al di fuori dei patti contrattuali (nella specie, le variazioni sfavorevoli dei tassi di interesse passivo operate dalla Banca pur in mancanza, nel contratto, di una pattuizione di ius variandi) e che- come tali- costituiscono l’oggetto di una unilaterale pretesa della Banca, indebita ex art. 2033 c.c., e non anche di una convenzione potenzialmente usuraria da esaminare ex L. n. 108/96. (Luca Falco) (riproduzione riservata)


 


omissis

FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del _____.2002, ritualmente notificato, A proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. __/2002 con il quale il Tribunale di Pescara l’aveva condannato a pagare, in favore della Società CASSA DI RISPARMIO DI PESCARA e LORETO APRUTINO S.P.A., la somma complessiva di €. 106.965,16 quale importo (comprensivo di sorte capitale e di interessi capitalizzati annualmente) dei saldi debitori di due conti correnti bancari affidati nn. 103026 e 103964 del 1999, oltre interessi al tasso del prime rate ABI tempo per tempo vigente calcolati dal 1.7.2001 al saldo. A sostegno dell’opposizione A assumeva - per quanto qui interessa - che:
· Il recesso operato dalla BANCA dai contratti bancari in questione era stato illegittimo sia perché non era stato preceduto dal dovuto preavviso - che avrebbe consentito all’esponente di “ripianare eventuali esposizioni debitorie” verso l’istituto di credito - sia perché era stato assolutamente arbitrario in relazione al “comportamento tenuto, per oltre un anno, dalla Banca, incompatibile con la volontà di avvalersi del diritto di recedere dal contratto”.
· I contratti azionati dalla controparte in sede monitoria erano inoltre affetti da nullità perché privi della indicazione - imposta dal D.lgs. n. 385/93 - del dettaglio analitico di tutti gli oneri applicabili, della cui mancanza si sarebbe dato “più ampio chiarimento nelle successive fasi del giudizio”.
· La “presunta obbligazione” dell’esponente avrebbe in ogni caso potuta “considerarsi estinta essendo lo sforzo a cui sarebbe stato tenuto il presunto debitore superiore all’ordinaria diligenza”.
· Le clausole contrattuali relative ai costi, alle commissioni ed agli interessi erano state “applicate in difetto di una specifica e regolare trattativa e pattuizione scritta”.
· Dalla lettura degli estratti conto prodotti dalla Banca in sede monitoria - estratti conto peraltro mai ricevuti dall’esponente - poteva ricavarsi “una costante ed illegittima applicazione di interessi superiori al tasso legale, ed inoltre priva di specifica approvazione”, nonché l’effettuazione di “addebiti di somme non dovute ed in parte mai autorizzate nonché omissioni di storno/registrazioni di partite a credito nei termini di legge”.
· La capitalizzazione degli interessi passivi era avvenuta in modo illegittimo ex art. 1283 c.c.
· Era comunque necessario un ricalcalo a mezzo CTU contabile dei rapporti di dare ed avere tra le parti, attraverso “l’applicazione del tasso di interesse legale e della capitalizzazione annuale delle competenze”.
· L’intera condotta contrattuale della Banca era stata contraria ai canoni di diligenza e buona fede negoziali.

Tanto premesso, la parte opponente concludeva chiedendo la revoca del decreto ingiuntivo, la declaratoria della “invalidità assoluta e/o relativa del contratto di conto corrente e di ogni altro eventuale rapporto di credito e delle clausole predisposte senza una regolare trattativa e pattuizione scritta”, anche per ciò che atteneva “agli interessi legali e/o ultralegali, anatocismo, commissioni e costi vari, comunque in contrasto con le vigenti direttive di settore e norme di legge, nonché per tutti quegli addebiti di somme non dovuti e mai autorizzati e per ogni omessa registrazione di partita nei termini”, la declaratoria della invalidità assoluta e/o relativa del recesso operato dalla Banca, l’accertamento della avvenuta applicazione da parte della Banca di un anatocismo “in contrasto con l’art. 1283 c.c. e con la legge n. 108/96”, la conseguente condanna della opposta alla restituzione di tutte le somme indebitamente riscosse e addebitate, oltre agli interessi, alla rivalutazione monetaria ed al maggior danno ex art. 1224 c.c., ed oltre al risarcimento del danno subito per violazione del principio di buona fede e per responsabilità extracontrattuale per lesione della reputazione professionale e personale”. Con vittoria di spese ed onorari di giudizio.

Con comparsa di risposta depositata in data 15.2.2001 si costituiva in giudizio la Società BANCA CARIPE S.P.A. - già CASSA DI RISPARMIO DI PESCARA e LORETO APRUTINO S.P.A. - (di seguito BANCA), in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione e Legale Rappresentante pro tempore_____, la quale, contestando la fondatezza della proposta opposizione e chiedendone il rigetto, insisteva nella propria pretesa pecuniaria già accolta in sede monitoria ed assumeva la pretestuosità delle avverse difese ed eccezioni, in particolare deducendo che:
· I due contratti di conto corrente erano stati stipulati (l’uno in data 15.3.1999 e l’altro in data 15.7.1999) “in regime di libero mercato e sempre nel pieno rispetto della libera volontà contrattuale” della controparte.
· I tassi e le condizioni concordati erano stati dalla Caripe “successivamente adeguati alle disposizioni di cui alla legge n. 108/96”.
· Gli “adeguamenti migliorativi” applicati al rapporto erano stati ritualmente “comunicati al correntista ovvero debitamente pubblicizzati nelle forme di legge”, in ossequio alla normativa vigente sulla cd. trasparenza bancaria.
· “Poco tempo dopo la stipulazione dei due contratti in questione” la esponente - “in ossequio al D.lgs. n. 342/99 ed alla Delibera del CICR del 9.2.2000” - da un lato aveva “inviato a tutti i propri clienti comunicazione relativa alla nuova disciplina di modalità e criteri per la produzione di interessi”, dall’altro aveva anche “provveduto a pubblicizzare detta disciplina sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana al fine di ottenere la più ampia forma di pubblicità”.
· In ogni caso, i saldi debitori dei due conti correnti azionati in via monitoria erano stati calcolati attraverso una capitalizzazione annuale degli interessi.
· Infine, il recesso operato dalla esponente dai rapporti contrattuali in parola era stato del tutto legittimo in quanto preceduto dall’invio al cliente - in data 29.5.2001 - di due raccomandate con le quali gli si comunicava la revoca degli affidamenti concessi, per l’andamento irregolare dei rapporti.
· Risultava, infine, inammissibile perché esplorativa la richiesta avversa di ammissione di CTU contabile. Tanto premesso, la BANCA concludeva chiedendo il rigetto della opposizione e la conferma del decreto ingiuntivo impugnato.

Acquisita la documentazione prodotta dalle parti, espletata la trattazione della causa, rinviato il processo alle udienze del 6.3.2003 e del 15.1.2004 per mancata comparizione delle parti, all’udienza del 22.4.2004 per pendenza di trattative di bonario componimento, rigettata la richiesta di provvisoria esecuzione del D.I. per le motivazioni di cui alla relativa ordinanza, le parti- ritenendo concordemente la causa matura per la decisione- precisavano le rispettive conclusioni all’udienza del 21.4.2005. All’esito il Giudice tratteneva la causa in decisione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’opposizione proposta da A avverso il Decreto Ingiuntivo n. __/2002 risulta fondata nella misura e per le considerazioni che di seguito vengono esposte.
È in ogni caso doveroso premettere che la delibazione giudiziale quivi legittimamente esperibile deve necessariamente limitarsi all’esame delle questioni ritualmente “versate” in giudizio dalle parti entro i termini di fissazione del thema decidendum nonché delle ulteriori questioni che - in relazione ai titoli delle domande ed eccezioni delle parti medesime - il Giudice possa e debba esaminare d’ufficio. La precisazione è quanto mai opportuna nel caso di specie, posto che l’opponente - depositando una (inusuale) comparsa conclusionale di 151 pagine - ha con essa dedotto circostanze e pretese in parte nuove le quali - introducendo temi d'indagine nuovi e spostando conseguentemente i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte (cfr. in tal senso da ultimo Cass. Sez. 3, Sentenza n.7524 del 2005; Cass. 14.2.2001, n. 2080)- sono come tali inammissibili, come in seguito si dirà.

Fatta questa necessaria premessa, è altresì opportuno sottolineare comeil giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, nel sistema delineato dal codice di procedura civile, si atteggia come un procedimento il cui oggetto non è ristretto alla verifica delle condizioni di ammissibilità e di validità del decreto stesso, ma si estende all'accertamento, con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento della pronuncia della sentenza - dei fatti costitutivi del diritto in contestazione (cfr. ex multis Cass. N. 5186/2003). Ne consegue che il giudice dell'opposizione è investito del potere-dovere di pronunciare sulla pretesa fatta valere con la domanda di ingiunzione e sulle eccezioni proposte "ex adverso" ancorchè il decreto ingiuntivo sia stato emesso (come nella specie dedotto dall’opponente) fuori delle condizioni stabilite dalla legge (nella specie, per asserita inesigibilità del credito) per il procedimento monitorio e non può limitarsi ad accertare e dichiarare la nullità del decreto emesso all'esito dello stesso (cfr. ex multis Cass. N. 7188/2003).

Di conseguenza, il presente giudizio di opposizione, non essendo meraimpugnazione del decreto, volta a farne valere vizi ovvero originarie ragioni di invalidità, ma costituendo un ordinario giudizio di cognizione di merito, teso all'accertamento dell'esistenza del diritto di credito azionato dal creditore con il ricorso "ex" artt. 633 e 638 cod. proc. civ. (cfr. Cass. N. 6421/2003) deve procedere alla verifica - sulla base della documentazione contabile versata in atti - della fondatezza o meno della pretesa sostanziale azionata dall’ingiungente in sede monitoria, ed ove il credito risulti fondato, deve accogliere la domanda indipendentemente dalla circostanza della regolarità, sufficienza e validità degli elementi probatori alla stregua dei quali l’ingiunzione fu emessa, rimanendo irrilevanti, ai fini di tale accertamento, eventuali vizi della procedura monitoria che non importino (come nella specie) l’insussistenza del diritto fatto valere con tale procedura e che possono avere rilievo unicamente - e se del caso - ai fini della disciplina giudiziale delle spese della fase monitoria (Cass. N. 6663/2002).
Fatta questa premessa, necessaria in ordine alla irrilevanza “nel merito” della preliminare eccezione dell’opponente di illegittimità della avversa domanda monitoria per inesigibilità del credito pecuniario ingiunto e per carenza della documentazione contabile allegata al procedimento monitorio - si deve, quindi, a questo punto procedere alla verifica - sulla base delle risultanze processuali acquisite nel presente giudizio “a cognizione piena” - della fondatezza o meno della pretesa sostanziale pecuniaria azionata dall’ingiungente in sede monitoria.
Al riguardo è bene iniziare a sottolineare che nella predetta sede la BANCA ha “azionato” nei confronti di A il proprio asserito credito di €. 106.965,16 ivi espressamente prospettato come comprensivo di sorte capitale e di interessi capitalizzati annualmente e derivante dal saldo debitore di due conti correnti bancari affidati nn. 103026 e 103964 stipulati tra le parti - secondo l’espressa prospettazione della BANCA - rispettivamente nelle date del 15.3.1999 e del 15.7.1999 e girati a sofferenza in data 30.6.2001 (cfr. il ricorso per decreto ingiuntivo).

A questo punto appare imprescindibile una ulteriore precisazione.
· La BANCA - attrice sostanziale nel presente giudizio di opposizione - ha rivendicato in giudizio il proprio credito pecuniario espressamente assumendo che il titolo (cd. causa petendi) del medesimo sarebbe costituito dai due contratti di conto corrente bancario nn. 103026 - stipulato il 15.3.1999- e 103964 - stipulato il 15.7.1999 (cfr. il ricorso per decreto ingiuntivo).
· A sostegno di siffatta domanda l’attrice ha quindi prodotto ritualmente in giudizio i due contratti e gli estratti conto ad essi relativi (cfr. la documentazione in atti).
· La stessa rivendicazione riferita ai due contratti del 1999 è stata quindi strenuamente ribadita dalla BANCA nel presente giudizio di opposizione (cfr. la comparsa di costituzione).
· Tuttavia, dall’esame delle deduzioni processuali svolte dalle parti nel presente giudizio e di altra documentazione quivi versata è emerso all’attenzione del Giudice come in realtà uno dei due conti correnti affidati in questione - solo apparentemente acceso nell’anno 1999 - in realtà preesisteva a tale data (cfr. come il primo estratto del conto n. 103026 allegato in atti sia del 30.6.97 ed attesti una movimentazione sin dal 4.97; cfr. la documentazione contabile dell’andamento in prosieguo di siffatto conto negli anni 1997-1998 e nella prima parte dell’anno 1999 anteriore alla data di stipula del contratto del 15.3.1999 relativo al conto medesimo).
· Dall’esame sommario degli estratti conto prodotti dalla BANCA sembra altresì emergere che quest’ultima - nonostante abbia espressamente dedotto in sede monitoria di agire per il saldo di due contratti “stipulati il 15.3.1999 ed il 15.7.1999” - abbia poi preteso, nella stessa sede monitoria, anche il saldo passivo finale maturato su detto conto in data anteriore alla stipula del contratto del 15.3.1999 ed addebitato come saldo iniziale nella movimentazione del conto relativa al periodo successivo alla stipula del contratto del 15.3.1999 (cfr. in particolare l’addebito del “saldo iniziale” di £. 36.939.336 contabilizzato al 31.3.1999 sul primo estratto conto [al 30.6.99] del c/c 103026 “stipulato” il 15.3.1999 e riferito con evidenza saldo passivo maturato su detto conto in data anteriore alla stipula del contratto del 15.3.1999).
· Non solo, ma è quanto mai singolare che la BANCA medesima non abbia mai neppure dedotto - neanche nel presente giudizio - di essere stata legata al A dal rapporto di conto corrente n. 103026 sin dal 1997, né ha mai neppure indicato di che tipo di rapporto di conto si fosse trattato, quale fossero stati la data della sua stipulazione, il suo contenuto, l’ammontare del capitale eventualmente messo a disposizione del correntista, i tassi e gli oneri ivi concordati.
· Nulla è dato di sapere al riguardo, posto che nessuna delle parti ha prodotto in atti l’originario contratto di conto corrente conto n. 103026 (a quanto pare, stipulato nell’aprile del 1997, come “si scopre” dalla lettura della pag. 25 della comparsa conclusionale dell’opponente nonché dalle movimentazioni di cui agli estratti conto prodotti).
· In altri termini, mancando l’allegazione del contratto di cui gli estratti conto del biennio aprile 1997-marzo 1999 comunque prodotti sarebbero proiezione contabile (quivi contestata dall’opponente), non è dato di conoscere né la data della stipula del medesimo originario contratto, né alcunché circa le condizioni (tasso di interesse attivo, tasso di interesse passivo, anatocismo, spese, valute, CMS, eventuale ius variandi della BANCA) ivi pattuite e circa l’ammontare della somma capitale eventualmente affidata al correntista etc., né l’esistenza stessa di un contratto scritto, né di conseguenza la effettiva conformità del medesimo alle condizioni di validità di cui all’art.117 TUB, ossia proprio di tutte quelle circostanze oggetto di fondata contestazione (limitatamente alla parte del rapporto di conto corrente anteriore alla stipula dei due contratti del 1999) da parte del correntista.
· È infatti noto che poiché l’efficacia dell’estratto conto quale titolo giustificativo della pretesa dell’importo del saldo attivo dallo stesso risultante (efficacia - secondo taluni - derivante dall’approvazione tacita dell’altra parte contraente ex art. 1832 c.c. quivi in ogni caso da escludersi per difetto di prova - da parte della BANCA - del fatto, contestato dal correntista, di avergli regolarmente inviato ex art. 119 TUB) postula l’esistenza di un contratto di conto corrente, il contraente che - deducendo di essere creditore di una somma di denaro a saldo risultante dai complessi rapporti di dare ed avere, produca un estratto conto da lui stesso compilato, nel quale sono indicate le poste dei rispettivi crediti, non soddisfa con ciò l’onere di provare il fondamento della propria pretesa, ma semplicemente ne precisa in forma contabile il dettaglio, senza quindi assolvere che il relativo onore probatorio qualora la controparte abbia contestato- come nella specie - l’esistenza o la consistenza della prestazione cui corrisponde l’esposizione contabile, senza peraltro che a riguardo sia richiesta l’osservanza dei termini e delle modalità previste dall’art. 1832 c.c. (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4793 del 30/07/1988; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 557 del 18/02/1969).
· In ogni caso, sulla base degli elementi di cui sopra, sembra allora lecito ritenere che il contratto di apertura di credito in c/c n. 103026 del 15.3.1999 costituisse solo “in apparenza” la prima fonte negoziale del predetto rapporto di conto (cfr. il chiaro tenore testuale del contratto: “Abbiamo ricevuto la vostra lettera datata 15.4.1999 con la quale ci avete comunicato l’apertura del c/c n. 103026 […]. Nell’esprimere l’accordo sull’intero contenuto della vostra vi confermiamo che il rapporto di c/c sarà regolato dalle condizioni economiche di seguito indicate […]”) essendo invece il medesimo una mera “rinegoziazione” di un non meglio identificato precedente contratto avente ad oggetto il medesimo conto ed il cui saldo passivo finale (sulla cui assoluta non verificabilità già si è detto) sarebbe stato addebitato come saldo passivo iniziale del rapporto relativo all’apertura di credito in c/c n. 103026 del 15.3.1999. Orbene, proiettando siffatte risultanze sul piano della ricostruzione processuale del rapporto bancario dedotto in atti deve a questo punto osservarsi quanto segue.
· È noto che la Banca che rivendichi la sussistenza e legittimità del proprio credito pecuniario nella misura pretesa in sede monitoria ha l’onere - quale attrice sostanziale del giudizio di opposizione - di fornire la prova della fondatezza di siffatta pretesa, attraverso la produzione in giudizio - nei termini perentori di cui all’art. 184 c.p.c. - del contratto e degli estratti conto relativi all’intero rapporto di conto corrente oggetto della sua rivendicazione e della contestazione dell’ingiunto.
· L’omessa produzione da parte della Banca - nei suddetti termini di cui all’art. 184 c.p.c. e, nella specie, per tutta la durata del processo - del titolo contrattuale disciplinante la prima parte (aprile 1997-marzo 1999) del rapporto di apertura di credito di conto corrente intercorso (sino all’anno 2001) tra le parti, accompagnata dal difetto di prova - da parte della BANCA - del fatto, contestato dal correntista, di avergli regolarmente inviato i relativi estratti conto ed altresì accompagnata dalla contestuale omessa allegazione, da parte della BANCA medesima, di qualsivoglia indicazione dell’esistenza stessa e del contenuto di siffatto titolo contrattuale, non consente al Tribunale adito né di conoscere alcunché circa le pattuizioni ivi intercorse tra le parti del rapporto controverso (si ripete che la BANCA non ha addirittura mai detto nulla circa l’esistenza, il contenuto e la forma dell’asserito contratto stipulato nel 1997), né di conseguenza di verificare la rispondenza (contestata dall’opponente) di quelle pattuizioni ai requisiti inderogabili, di forma e di sostanza, di cui all’art. 117 TUB, né la rispondenza alle medesime pattuizioni (parimenti contestata dal cliente) degli addebiti ed accrediti riportati negli estratti conto relativi al periodo di vigenza di siffatto originario contratto, né di vagliare la giustificazione “contabile e negoziale” del saldo finale (“£. 36.939.336 al 31.3.1999: saldo iniziale”) asseritamente maturato a debito del correntista in pendenza dell’efficacia dell’originario titolo contrattuale (non prodotto né mai indicato nei suoi contenuti dalla BANCA) e poi riportato come “saldo iniziale” passivo del primo estratto conto (al 30.6.1999) del rapporto di conto corrente sviluppatosi successivamente alla rinegoziazione di quel contratto, né di depurare quel saldo dagli anatocismi passivi invalidamente conteggiati - ex art. 1283 c.c. - dalla Banca anche nei primi due anni del rapporto (come dalla stessa dichiarato nella domanda monitoria), ossia - in sintesi - non consente al Tribunale di sindacare la effettiva sussistenza di validi “titoli costitutivi” - nella specie contestati dal correntista - della pretesa pecuniaria della BANCA.
· Ciò comporta la necessità di ricondurre processualmente quel primo saldo a “zero” e, conseguentemente, di rigettare la pretesa pecuniaria monitoria relativa a quella parte del rapporto disciplinata da un titolo di forme e contenuti rimasti ignoti, potendosi ricostruire in giudizio e quindi riconoscere in capo alla Banca soltanto il credito legittimamente maturato negli anni successivi del rapporto oggetto di contestazione da parte del correntista ed in relazione a cui la stessa Banca abbia fornito idonea prova documentale, costituita nella specie dai titoli contrattuali del 1999, rinegozianti per il futuro le condizioni, rimaste ignote, del pregresso rapporto, e dai relativi estratti conto.
· La decadenza istruttoria maturata in capo alla Banca per non avere questa prodotto nei termini perentori di cui all’art. 184 c.p.c. la predetta documentazione contrattuale non può essere aggirata attraverso l’attribuzione al nominando CTU del potere di acquisire d’ufficio presso gli uffici della Banca la documentazione da questa colpevolmente non prodotta in giudizio, pena violazione della disciplina dell’onere della prova e della perentorietà dei termini di cui all’art. 184 c.p.c..
· Com’è noto - i termini perentori di cui all’art. 184 c.p.c. riguardano anche le prove documentali, al fine di tutelare la cd. “concentrazione endoprocessuale” del giudizio di I grado, salva la possibilità di produzione di nuovi documenti in appello (cfr. Cass. n. 6383 del 01/04/2004; Cass. N. 15646/2003 anche in motivazione; da ultimo cfr. Cass. S.U. sent. N. 8203 del 20.4.2005; per il principio per cui, posto che “il legislatore, con legge n. 353 del 1990 di riforma del processo civile, ha inteso segnare più nette scansioni tra la fase processuale destinata all'individuazione del thema decidendum, quella in cui si deve definire il thema probandum ed il momento della successiva decisione, assume particolare rilievo, in un simile contesto, la previsione del novellato art. 184 c.p.c., che non solo prevede l'eventuale assegnazione alle parti di un termine entro cui dedurre prova e produrre documenti, ma espressamente stabilisce il carattere perentorio di detto termine (art. cit., c. 2^); il che vale a sottrarre siffatto termine alla disponibilità delle parti, stante il disposto dell'art. 153 c.p.c., come del resto implicitamente è confermato anche dal successivo art. 184-bis, che contempla la possibilità di rimessione in termini, ma solo ad istanza della parte interessata ed a condizione che questa dimostri di essere incorsa nella decadenza per una causa ad essa non imputabile”, cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5539 del 2004).
· Al riguardo la eventuale pretesa di parte di procedere a CTU che ricalcolasse i rapporti di dare ed avere dell’intero rapporto di conto corrente mediante la acquisizione della disciplina convenzionale quivi rimasta ignota sarebbe inammissibile “in rito” sulla base della considerazione della insanabile decadenza istruttoria (art. 184 c.p.c.) in cui la BANCA è già incorsa nella produzione agli atti di causa di siffatta documentazione e nella conseguente inammissibilità di un “aggiramento” della citata sopravvenuta decadenza della parte attraverso una sorta di “delega in bianco” al CTU alla acquisizione del materiale istruttorio necessario per la verifica della fondatezza della domanda (ultroneo rispetto a quello tempestivamente versato in atti dalle parti) colpevolmente non prodotto nei termini perentori di cui all’art. 184 c.p.c. dalla parte che ne avesse avuto interesse.
· È noto infatti che la consulenza tecnica d'ufficio ha la funzione di fornire all'attività valutativa del giudice l'apporto di cognizioni tecniche che questi non possiede e non quella di esonerare una parte dalla prova anche documentale dei fatti dedotti e della quale è onerata (cfr. ex multis Cass.. Sez. 2, Sentenza n. 1132 del 02/02/2000); onde il suddetto mezzo di indagine non può essere disposto al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimamente negato dal giudice qualora la parte tenda con esso- come avverrebbe nella specie- a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerta di prove ovvero a compiere un'attività esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati ( cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3343 del 07/03/2001).
· Sul piano processuale, una tale lacuna probatoria si riverbera nel presente grado di giudizio - ovviamente - a danno della parte attrice che su detta documentazione aveva rivendicato il credito pecuniario dedotto innanzi all’adito Tribunale, ossia sulla parte che era gravata ex art. 2697 c.c. dall’onere della prova dei fatti costitutivi della propria pretesa pecuniaria.
· Peraltro è stata la stessa BANCA - attrice sostanziale - a prospettare come (esclusiva) causa petendi della sua pretesa pecuniaria monitoria i due contratti bancari “stipulati” nelle date del 15.3.1999 e del 15.7.1999 (cfr. il ricorso per decreto ingiuntivo), onde sarebbe in ogni caso inammissibile in rito (a prescindere, quindi, dalla carenza di allegazione e di prova di cui si è sin qui detto) l’avere ivi richiesto (petitum) anche somme che avessero trovato il proprio titolo (causa petendi) in altri non meglio identificati ed anteriori contratti. Orbene, ponendo attenzione esclusivamente ai rapporti scaturiti dai due contratti summenzionati, l’esame della documentazione bancaria allegata agli atti rileva che nei due contratti di apertura di c/c di cui è causa - entrambi debitamente sottoscritti in duplice firma dal correntista all’atto della stipulazione- le parti hanno inizialmente pattuito per iscritto i tassi di interesse (0,15 % per tasso creditore nominale annuo; 14,75% per tasso debitore per scoperto di conto; 14,00% per tasso debitore per apertura di credito a revoca; 14% per tasso debitore per utilizzo S.B.F.), la periodicità di capitalizzazione (annuale per gli interessi creditori; trimestrale per gli interessi debitori), la misura e la periodicità della commissione di massimo scoperto, le spese fisse di chiusura e di tenuta conto, le modalità di computo delle valute (cfr. i due contratti bancari).

Quindi - in pendenza del rapporto - la Banca ha modificato i tassi di interesse, come dimostrato dall’esame degli estratti conto allegati in atti (cfr. gli estratti conto relativi al periodo 1999-2001). Da quanto sopra deriva, innanzitutto, che:
· La preliminare eccezione dell’opponente di invalidità dei contratti in questione - sollevata sulla base di un non meglio identificato difetto di specifica approvazione scritta dei contratti medesimi - risulta infondata (cfr. la già sottolineata duplice sottoscrizione per accettazione apposta dal correntista sui testi negoziali; cfr. la mancanza di allegazione [entro i noti termini perentori deputati alla fissazione del thema decidendum] e di prova di qualsivoglia ulteriore elemento da cui inferire la invalidità del consenso negoziale formatosi tra le parti dei predetti rapporti bancari e consacrato nei due testi contrattuali; cfr. la conseguente palese novità delle doglianze di errore-vizio ed errore ostativo sollevate dall’opponente soltanto in sede di comparsa conclusionale). L’eccezione è invece fondata limitatamente al titolo contrattuale originario relativo al conto n. 103026 , per le ragioni e con gli effetti (azzeramento del saldo passivo finale maturato alla fine del rapporto di conto asseritamente disciplinato da detto titolo contrattuale e contabilizzato come saldo iniziale del “nuovo” rapporto disciplinato dal contratto del 15.3.1999) di cui si è già detto.
· La ulteriore eccezione dell’opponente di nullità ex art.119 TUB dei contratti in questione - sollevata in ragione della asserita mancata analitica indicazione, nei contratti in questione, dei costi e degli oneri connessi all’elargizione del credito bancario - risulta parimenti infondata, in ragione delle già esaminate esplicite pattuizioni dei costi (tassi di interesse, CMS, valute, spese etc.) connessi al credito, ivi esplicitate per iscritto e sulla base di paramenti numerici determinati (e salva l’eventuale invalidità sotto altri aspetti di talune di siffatte pattuizioni, secondo quanto di seguito si dirà). Anche tale eccezione è invece fondata limitatamente al titolo contrattuale originario relativo al conto n. 103026 per le ragioni e con gli effetti (azzeramento del saldo passivo finale prima menzionato) di cui si è già detto.
· Da quanto sopra deriva, altresì, l’infondatezza dell’ulteriore doglianza con cui il correntista ha denunziato l’illegittima pretesa della banca di applicare costantemente “interessi superiori al tasso legale”; è evidente infatti che la esplicita, già richiamata, previsione contrattuale (scritta e sottoscritta) di un tasso (fisso) di interesse corrispettivo ultralegale determinato (cfr. i due contratti di cui è causa) soddisfa a pieno le esigenze di forma scritta e di determinatezza di cui agli artt. 1284/1346 c.c.. Anche tale eccezione è invece fondata limitatamente al titolo contrattuale originario relativo al conto n. 103026 per le ragioni e con gli effetti (azzeramento del saldo passivo finale ad esso relativo) di cui si è già detto.
· Lo stesso dicasi in relazione alla commissione di massimo scoperto, legittimamente concordata e determinata nei due contratti (cfr. il relativo testo negoziale) e priva di per sè - diversamente da quanto eccepito dal correntista (peraltro soltanto in sede di comparsa conclusionale) - di causa illecita.
· La commissione di massimo scoperto rappresenta infatti un elemento retributivo per la banca, aggiuntivo agli interessi praticati, che non ha fonte legale e quindi richiede la necessità di specifica pattuizione.
· È inoltre noto, a tale ultimo riguardo, che la CMS- qualora, come nella specie, legittimamente pattuita ex art. 1346 c.c. - sia un costo, legittimamente concordabile nell’ambito della autonomia privata delle parti, connesso all’elargizione da parte della BANCA ed alla disponibilità da parte del correntista del credito bancario oggetto del fido, essendo oggetto di discussione soltanto se se tale commissione sia un accessorio che si aggiunge agli interessi passivi - come potrebbe inferirsi anche dall'esser conteggiata, nella prassi bancaria, in una misura percentuale dell'esposizione debitoria massima raggiunta, e quindi sulle somme effettivamente utilizzate, nel periodo considerato - che solitamente è trimestrale - e dalla pattuizione della sua capitalizzazione trimestrale, come per gli interessi passivi – ovvero se essa abbia una funzione remunerativa dell'obbligo della banca di tenere a disposizione dell'accreditato una determina somma per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dal suo utilizzo - ed è questa la tesi da ritenere preferibile anche alla luce della circolare della Banca d'Italia del primo ottobre 1996 e delle successive rilevazioni del c.d. tasso di soglia, in cui è stato puntualizzato che la commissione di massimo scoperto non deve esser computata ai fini della rilevazione dell'interesse globale di cui alla legge 7 marzo 1996 n. 108, ed allora dovrebbe esser conteggiata alla chiusura definitiva del conto (cfr. in tal senso, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11772 del 06/08/2002, la quale ha poi correttamente puntualizzato che nell'un caso e nell'altro non è comunque dovuta la capitalizzazione trimestrale perché, se la natura della commissione di massimo scoperto è assimilabile a quella degli interessi passivi, le clausole anatocistiche, pattuite nel regime anteriore all'entrata in vigore della legge 154/1992, sono nulle secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, come tra poco sarà evidenziato; se invece è un corrispettivo autonomo dagli interessi, non è ad esso estensibile la disciplina dell'anatocismo, prevista dall'art. 1283 cod. civ. espressamente per gli interessi scaduti).
· Quanto alle valute, deve osservarsi da un lato come la avvenuta predeterminazione negoziale delle modalità del loro conteggio rende anche da questo punto di vista infondata la eccezione di nullità per indeterminatezza della clausola ad essa relativa sollevata dall’opponente, dall’altro come gli unici profili di illegittimità nel computo delle valute quivi verificabili sono -attraverso una verifica tecnica a mezzo della espletanda CTU- quelli relativi ad una eventuale violazione della norma imperativa di cui all’art. 119, I comma, TUB (“Decorrenza delle valute e modalità di calcolo degli interessi”: 1. Gli interessi sui versamenti presso una banca di denaro, di assegni circolari emessi dalla stessa banca e di assegni bancari tratti sulla stessa succursale presso la quale viene effettuato il versamento sono conteggiati con la valuta del giorno in cui è effettuato il versamento e sono dovuti fino a quello del prelevamento) nel quale deve ovviamente sussumersi - ratione temporis- il rapporto bancario in esame. Anche l’eccezione in parola è invece fondata limitatamente al titolo contrattuale originario relativo al conto n. 103026 per le ragioni e con gli effetti (azzeramento del saldo passivo finale ad esso relativo) di cui si è già detto di cui si è già detto.

Passando a questo punto all’esame più dettagliato del tasso di interesse e delle altre condizioni legittimamente applicabili ai due rapporti bancari in questione, deve sottolinearsi che:
· I due contratti hanno previsto un tasso di interesse debitore determinato in misura numerica fissa (cfr. i due contratti).
· La BANCA - nel corso del rapporto - ha provveduto a variare (in una misura per la cui esatta individuazione necessita il ricorso ad una CTU contabile) il tasso di interesse (cfr. gli estratti conto relativi alle operazioni transitate sui due conti successivamente alla data della stipulazione negoziale e fino alla chiusura).
· I due contratti in parola - in quanto stipulati in data 15.3.1999 ed in data 15.7.1999 - soggiacciono, come già sottolineato, alla disciplina di cui al D.lgs. n. 385 del 1993.
· Ai sensi dell’art. 117, V comma, del predetto D.lgs. n. 385 del 1993, “la possibilità di variare in senso sfavorevole al cliente il tasso di interesse ed ogni altro prezzo e condizione deve essere espressamente indicata nel contratto con clausola approvata specificamente dal cliente”.
· I moduli contrattuali e le condizioni di regolamento sottoscritti dal correntista ed allegati agli atti non contengono alcuna clausola di attribuzione alla Banca di siffatto ius variandi (cfr. in particolare il fascicolo di parte opposta) onde eventuali variazioni - sfavorevoli al cliente - dei tassi di interesse e degli altri costi del credito (unilateralmente ed) eventualmente eseguite dalla BANCA in pendenza di rapporto (qualora accertate dalla espletanda CTU) sarebbero nulle ed inefficaci ex artt. 117/118 TUB.
· Deve invece riconoscersi piena validità alle variazioni di tali costi che la stessa BANCA ha espressamente dedotto di avere operato - in pendenza del rapporto - in modo favorevole al cliente.
· Tale diverso regime di efficacia delle variazioni bancarie in questione è imposto non soltanto dal chiaro disposto degli artt. 6 e 118 TUB (che sanzionano di inefficacia soltanto le variazioni “sfavorevoli” per il cliente) e dell’art. 117 (che esige la specifica pattuizione scritta dello ius variandidella BANCA solo per le variazioni sfavorevoli al cliente) ma anche dall’art. 127 TUB, che sancisce (al pari del previdente art. 11 della Legge n. 154 del 1992) la derogabilità delle disposizioni precedenti “solo in senso più favorevole al cliente”.
· Per questo, è pacifico nella stessa Giurisprudenza di legittimità che, in materia di contratti bancari, ai sensi del combinato disposto degli artt. 6 e 4 legge n. 154 del 1992 e 118 D.Lgs n. 385 del 1993, in ipotesi di variazioni delle condizioni contrattuali in senso sfavorevole per il cliente, l'obbligo di comunicazione al cliente medesimo sussiste per la banca solamente se ed in quanto essa abbia esercitato il diritto, contrattualmente previsto, di variare unilateralmente ed in senso sfavorevole alla controparte talune condizioni del contratto medesimo (cfr. testualmente Cass. Sez. 3, Sentenza n. 16568 del 25/11/2002).
· Ed è appena il caso di notare che la suddetta nullità/inefficacia- “protettiva del cliente e rilevabile d’ufficio ex art. 1421 c.c. - non potrebbe essere superata dalla approvazione tacita degli estratti del conto corrente da parte del correntista, ai sensi dell’art. 1832 c.c.. Ove infatti anche simile approvazione fosse in concreto configurabile nonostante la mancata dimostrazione della ricezione degli estratti (contestata - come già detto - dal cliente: cfr. l’atto di citazione in opposizione), essa non potrebbe riguardare minimamente (e tanto meno sanare) l’eventuale invalidità o inefficacia delle clausole contrattuali o dei comportamenti di una delle parti: infatti è noto che la mancata tempestiva contestazione dell’estratto conto trasmesso da una banca al cliente rende inoppugnabili gli addebiti soltanto sotto il profilo meramente contabile, ma non sotto i profili della validità e dell’efficacia dei rapporti obbligatori dai quali le partite inserite nel conto derivano: in tal caso, infatti, l’impugnabilità investe direttamente il titolo ed è regolata dalle norme generali sui contratti (cfr. Cass. N. 12507/1999; Cass. N. 1978/1996; Trib. Genova sent. 5.5.2002; C.App. Lecce n. 598/2001).
· Ne consegue che gli asseriti “adeguamenti migliorativi” per il cliente (rispetto alle pattuizioni del 1999) operati dalla BANCA in pendenza di rapporto (adeguamenti astrattamente riferibili a maggiorazioni del tasso di interesse creditore, a diminuzioni del tasso di interesse debitore, delle commissioni e delle spese, alla riduzione dello scarto tra data e valuta per le operazioni in accreditamento o aumento dello scarto medesimo per le operazioni di addebito etc.) - qualora effettivamente operati - sono pienamente validi ed efficaci, mentre deve riconoscersi l’inefficacia delle variazioni sfavorevoli al cliente.

Quanto appena detto ha rilievo anche per la verifica della legittimità o meno della pretesa in concreto avanzata in sede monitoria dalla banca di applicare, dal 1.7.2001 successivamente alla revoca del fido, un tasso di interesse moratorio pari al prime rate ABI tempo per tempo vigente calcolato dal 1.7.2001 al saldo (cfr. il ricorso per decreto ingiuntivo).
Al riguardo è bene premettere che la Cassazione costante afferma che “quando il contratto di conto corrente bancario prevede, sulle esposizioni debitorie del cliente- come nella specie- la corresponsione di interessi ultralegali, l’obbligo dei maggiori interessi contrattualmente pattuiti continua anche per il periodo successivo al recesso della banca ed alla revoca dei fidi, in virtù dell’art.1224, comma I, c.c. per il quale, se prima della mora sono dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori vanno corrisposti anche successivamente nella stessa misura convenzionalmente concordata ( cfr. Cass. N. 5438/97; Cass. N.9791/94; Cass. N. 7571/92; Cass. N.3760/85). Inoltre, nel caso in cui il tasso d’interesse ultralegale sia pattuito in misura variabile, gli interessi moratori successivamente alla revoca dei fidi vanno corrisposti anche successivamente nella stessa misura variabile, in quanto l’art.1224 I comma c.c. si riferisce alla disciplina contrattuale dell’obbligazione, che così si perpetua anche dopo la scadenza ( cd.principio della “perpetuatio obligationis” ), e non al tasso di interesse ultralegale dovuto all’atto della scadenza dell’obbligazione; ne consegue che la disciplina di cui all’art. 1224 I comma c.c. è comprensiva delle variazioni del tasso d’interesse che, pur sopravvenendo durante la mora debendi, siano ricollegabili all’originario patto di quantificazione degli interessi oltre la misura legale ( cfr. Cass. N. 5438/97; Cass. N.9791/94; Cass. N. 7571/92; Cass. N.3760/85; Trib. Roma 20.9.1996).
Peraltro, sotto diverso profilo, si deve puntualizzare che la revoca del fido e la chiusura del conto non vanno confuse con l’estinzione del rapporto contrattuale, in quanto il conto corrente di corrispondenza si estingue non già al momento della chiusura contabile del conto, con successivo passaggio a sofferenza, ma soltanto nel momento del pagamento delle somme utilizzate. Infatti, la chiusura del conto è un’operazione soltanto contabile, a fronte della quale il saldo viene “girato” a sofferenza, confluendo così in un altro conto soltanto per ragioni di gestione contabile e non già quale effetto di estinzione del rapporto. Lo stesso recesso della banca che precede questa operazione, se da un lato comporta il venir meno del potere di disporre dell’accreditato, non determina l’estinzione del rapporto che avverrà, invece, soltanto a restituzione avvenuta. Pertanto la BANCA avrà diritto a siffatto tasso di interessi moratori (del quale non esiste in atti prova alcuna di specifica pattuizione né in sede di stipula dei due contratti né nelle more del rapporto) soltanto alla presenza della duplice condizione che esso sia conforme a quello “corrispettivo” applicato in pendenza di rapporto e vigente al momento della revoca dei fidi e che esso sia più favorevole a quello pattuito nei due contratti del 1999 (altrimenti, essendo stato rispetto a quest’ultimo variazione sfavorevole eseguita in difetto di prova di titolarità di un legittimo ius variandi, la sua applicazione sarebbe inefficace verso il correntista). Infatti, è evidente che gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura ultralegale degli interessi corrispettivi anteriori alla mora (cfr. l’art. 1224 c.c.) soltanto se questi ultimi fossero stati legittimamente applicati prima della mora.

Orbene, deve a questo punto essere affrontata la diversa questione della legittimità o meno della capitalizzazione degli interessi passivi operata dalla banca.
Al proposito deve osservarsi innanzitutto che:
a) la BANCA ha espressamente dichiarato nel ricorso per decreto ingiuntivo che la capitalizzazione degli interessi è stata effettuata annualmente (cfr. la domanda monitoria);
b) la documentazione contrattuale versata in atti (evidentemente incompleta anche da tale prospettiva) non contiene alcuna previsione di anatocismo (cfr. i due testi contrattuali ed i relativi allegati);
c) deve comunque procedersi alla depurazione dei saldi debitori da effetti anatocistici ivi pacificamente prodottisi.
Al riguardo questo Giudice condivide l’arresto interpretativo della costante giurisprudenza di legittimità, ormai consacrato anche dalle S.U. della Cassazione (sentenza n. 21095 del 7.10/4.11.2004) e, quindi da ritenersi definitivamente consolidatosi sul punto, il quale- com’è noto- ha statuito l’illegittimità del fenomeno della capitalizzazione trimestrale degli interessi in materia bancaria, in quanto prassi contraria alla norma imperativa di cui all’art. 1283 c.c. e non trasfusa in un uso normativo, con conseguente nullità ex tunc ex artt. 1283/1284/1419 c.c. delle clausole negoziali di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi anche in relazione ai periodi anteriori al noto mutamento giurisprudenziale avvenuto nel 1999 ( cfr. Cass. S.U. n. 21095/2004; Cass. N. 2593/2003; Cass. N. 17813/2002; Cass. N. 8442/2002; Cass. N. 4490/2002; C.Cost. n. 425/2000; per la giurisprudenza di merito cfr. Trib Torino 7.1.2003; Trib. Napoli 27.11.2002; Trib Roma 8.11.2002; Corte App. L’Aquila 11.6.2002).
Inoltre, tale conclusione appare legittima anche con riferimento al contratto di conto corrente bancario, non condividendosi le argomentazioni talvolta utilizzate da una giurisprudenza minoritaria ( cfr. Trib. Roma 27.1.2003; Trib. Palermo 6.9.2002) a sostegno dell’applicabilità a tale “tipo” negoziale dell’anatocismo cd “indiretto” ( in quanto mediato dal meccanismo di chiusura del conto) ex art. 1831 c.c. previsto per il conto corrente ordinario: in particolare si contesta l’applicabilità della norma appena menzionata al conto corrente bancario, sia per l’insuperabilità del dato testuale dell’art. 1857 c.c. ( che non richiama tale norma per il conto corrente bancario), sia in quanto l’interpretazione analogica non può essere richiamata in ragione della profonda diversità di ratio tra il conto corrente ordinario-che prevede l’esigibilità a vista del saldo ex art. 1852 c.c., e conto corrente bancario, che prevede l’inesigibilità delle prestazioni ex art. 1823 c.c.. Per cui, se il saldo del conto corrente bancario è esigibile in ogni momento, non ha senso applicare l’art. 1831 c.c., in quanto tale norma ha la funzione di rendere esigibile il saldo per il conto corrente ordinario (per la indiscutibile applicazione della disciplina di cui all’art.1283 c.c. anche ai contratti bancari in c/c si veda la sentenza delle S.U. Cass. n. 21095/04 più volte citata; cfr. Cass. N. 6558/1997; C. App. Lecce n. 598/2001).
Una capitalizzazione trimestrale delle “competenze” applicata di fuori delle condizioni imperative di cui all’art. 1283 c.c ed in un rapporto bancario nella specie non adeguatosi, come in seguito si dirà, alle possibili “rinegoziazioni anatocistiche” di cui all’art. 120 TUB/ 2 e 7 delibera CICR del 9.2.2000. non può che - quindi - essere dichiarata illegittima.

Né una tale declaratoria di illegittimità è inibita - come già anticipato in relazione alla illegittimità dello ius variandi esercitato dalla BANCA - dalla mancata contestazione da parte degli opponenti degli estratti conto in pendenza di rapporto; infatti è noto che la mancata tempestiva contestazione dell’estratto conto trasmesso da una banca al cliente rende inoppugnabili gli addebiti soltanto sotto il profilo meramente contabile, ma non sotto i profili della validità e dell’efficacia dei rapporti obbligatori dai quali le partite inserite nel conto derivano: in tal caso, infatti, l’impugnabilità investe direttamente il titolo ed è regolata dalle norme generali sui contratti ( cfr. Cass. N. 12507/1999; Cass. N. 1978/1996; Trib. Genova sent. 5.5.2002; C.App. Lecce n. 598/2001). A questo punto, va affrontata la questione relativa agli effetti della illegittimità della capitalizzazione degli interessi: in particolare, occorre stabilire se, al di là della sicura impossibilità di capitalizzare gli interessi con frequenza trimestrale, debba essere esclusa qualsiasi capitalizzazione ovvero possa individuarsi una diversa frequenza di legittima capitalizzazione degli interessi ( a favore di entrambe le parti del rapporto).
Al riguardo una parte della giurisprudenza di merito, seguita anche da alcuni Giudici di questo Tribunale, si è più volte espressa in favore del riconoscimento, pur in presenza di una clausola anatocistica nulla ex art. 1283 c.c., di una capitalizzazione annuale degli interessi comunque ricavabile dal sistema normativo codicistico dettato per le obbligazioni pecuniarie, nel cui alveo e nella cui disciplina sarebbero pienamente riconducibili- secondo la tesi in discorso- anche le obbligazioni di interessi.
In particolare, questa posizione ermeneutica, partendo dalla premessa che “l’art.1283 c.c. non vieta il fenomeno dell’anatocismo in sé ( consentendo, pur nel concorso delle condizioni della convenzione posteriore ovvero della domanda giudiziale, l’applicazione del meccanismo anatocistico agli interessi maturati per almeno sei mesi) bensì vieta soltanto in assoluto una frequenza infrasemestrale di applicazione dell’anatocismo ed in mancanza di determinati requisiti l’anatocismo semestrale”, conclude sostenendo che la medesima norma permetterebbe un “fenomeno anatocistico con cadenza ultrasemestrale”.
Al riguardo, si osserva che “sarebbe possibile individuare nell’art.1284 comma I c.c. la fonte di un fenomeno legale di anatocismo annuale ( ovvero di risarcimento forfettario, con cadenza annuale, del danno da inadempimento dell’obbligazione pecuniaria di interessi)”. Infatti - si osserva - tale norma, nel prevedere che “ il saggio degli interessi legali è determinato […] in ragione di anno”, individuerebbe, oltre ad un criterio di determinazione del tasso degli interessi dovuti, anche un principio generale di naturale scadenza ed esigibilità annuale degli interessi. Da tale scadenza conseguirebbe anche l’effetto, proprio della scadenza di ogni obbligazione, del risarcimento del danno da inadempimento, regolato, per le obbligazioni pecuniarie come quella di interessi, dall’art.1224 c.c.. Da tutto ciò dovrebbe quindi desumersi che “ex lege ( in mancanza di convenzione contraria nei limiti consentiti dall’ordinamento) gli interessi producono interessi con cadenza annuale”. Orbene, a parere di questo Giudice una siffatta tesi non appare condivisibile in quanto non sembra rispettosa di due fondamentali principi di diritto: da un lato della natura imperativa e non derogabile della disciplina codicistica dettata dall’aret. 1283 c.c. per regolare il fenomeno dell’anatocismo, e dall’altro della “specialità” dell’obbligazione di interessi rispetto al “genus” delle obbligazioni pecuniarie.

Al riguardo assume assoluto rilievo quanto le stesse Sezioni Unite della Cassazione hanno chiaramente affermato nella sentenza n. 9653 del 17.7.2001 in relazione sia all’anatocismo sia alla natura dell’obbligazione di interessi.
In particolare le Sezioni Unite - chiamate a dirimere un contrasto giurisprudenziale sorto sulla questione della configurabilità o meno dell’obbligazione di interessi (anche quando sia stata adempiuta l’obbligazione principale) come una qualsiasi obbligazione pecuniaria dalla quale derivi quindi anche il diritto agli ulteriori interessi di mora nonché al risarcimento del maggior danno (ex art. 1224 comma II c.c.) ovvero come una obbligazione sui generis soggetta soltanto alla regola dell’anatocismo, ha affermato i seguenti principi di diritto:
- “Il debito di interessi pur concretandosi nel pagamento di una somma di denaro, non si configura come una obbligazione pecuniaria qualsiasi, ma presenta connotati specifici, sia per il carattere di accessorietà rispetto all'obbligazione relativa al capitale, sia per la funzione (genericamente remuneratoria) che gli interessi rivestono, sia per la disciplina prevista dalla legge proprio in relazione agli interessi scaduti.
- In contrario non varrebbe opporre che il connotato di accessorietà concerne il momento genetico dell'obbligazione di pagamento degli interessi, destinata invece ad assumere nella c.d. fase dinamica una propria autonomia, palesata dall'apposita previsione di un termine di prescrizione (art. 2948, n. 4, cod. civ.), dalla possibilità di disporre separatamente del credito per interessi rispetto a quello di capitale, dalla possibilità di agire in giudizio indipendentemente dalla proposizione della domanda per il credito principale. Questi rilievi sono esatti ma, non incidono sull'obbligazione de qua in guisa tale da trasformarne la natura, perchè non alterano la già segnalata funzione degli interessi e, soprattutto, non valgono a rimuovere le implicazioni desumibili dalla specifica disciplina degli interessi scaduti.
- E lo stesso deve dirsi in relazione all'argomento secondo cui, quando l'obbligazione principale sia già estinta per adempimento da parte del debitore, l'obbligazione per interessi dovrebbe comunque assumere carattere autonomo. Pur postulando tale autonomia (che però non puo' portare a considerare irrilevante il momento genetico di quell'obbligazione), essa non è idonea a trasformare la causa (funzione) dell'obbligazione medesima fino a rendere il debito per gli interessi scaduti una obbligazione pecuniaria come tutte le altre.
- Invero gli interessi scaduti, se equiparati in toto ad una qualsiasi obbligazione pecuniaria (credito liquido ed esigibile di una somma di denaro), sarebbero stati automaticamente produttivi d'interessi di pieno diritto, ai sensi dell'art. 1282 cod. civile.
- Tale effetto, invece, è escluso dal successivo art. 1283 (dettato a tutela del debitore ed applicabile per ogni specie d'interessi, quindi anche per gli interessi moratori), alla stregua del quale, in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi (c.d. anatocismo o interessi composti).
- La citata disposizione non comporta soltanto un limite al principio generale di cui all'art. 1282 cod. civ., ma vale anche a rimarcare la particolare natura che, nel quadro delle obbligazioni pecuniarie, la legge attribuisce al debito per interessi, con la previsione di una disciplina specifica, che si pone come derogatoria rispetto a quella generale in tema di danni nelle obbligazioni pecuniarie, stabilita dall'art. 1224 cod. civile, e che proprio per il suo carattere di specialita' deve prevalere su quest'ultima norma. (sulla natura “eccezionale” della norma di cui all’art. 1283 c.c., cfr. ex multis anche Cass. N. 14912/2001).
- Se così non fosse, del resto, l'art. 1224 c.c. verrebbe ad assorbire tutto il campo applicativo dell'art. 1283, che resterebbe circoscritto ai casi in cui il debito per interessi è quantificato all'atto della proposizione della domanda. Ma una simile limitazione dell'ambito applicativo del citato art. 1283 cod. civ. non emerge da tale norma e viene anzi a porsi con essa in contrasto, perchè trascura la peculiare natura del debito per interessi sopra segnalata ed elude, almeno in parte, la finalità di tutela per la posizione del debitore che la norma ha previsto stabilendo in quali casi e con quali presupposti gli interessi scaduti possono essere produttivi di altri interessi.
- D'altro canto, non sarebbe neppure conforme al principio di ragionevolezza un approdo ermeneutico che, in presenza di obbligazioni di pagamento aventi natura e contenuto identici (interessi), rendesse applicabile al debitore che ha già pagato il debito principale l'art. 1224 cod. civ. ed al debitore totalmente inadempiente, e quindi convenuto per il pagamento del capitale e degli interessi, l'art. 1283 in relazione a questi ultimi.
- Conclusivamente, il debito per interessi (anche quando sia stata adempiuta l'obbligazione principale) non si configura come una qualsiasi obbligazione pecuniaria, dalla quale derivi il diritto agli ulteriori interessi dalla mora nonchè al risarcimento del maggior danno ex art. 1224 comma II cod. civ., ma resta soggetto alla regola dell'anatocismo di cui all'art. 1283 cod. civ., derogabile soltanto dagli usi contrari ed applicabile a tutte le obbligazioni aventi ad oggetto originario il pagamento di una somma di denaro sulla quale spettino interessi di qualsiasi natura” (per il conseguente corollario per cui gli interessi non perdono la loro natura, ai fini della loro eventuale capitalizzazione, per effetto della loro inclusione nei ratei di ammortamento dei mutui, cfr. ex multis Cass. N. 2593/2003).

L’attualità e l’autorità di siffatto precedente ha orientato nello stesso senso la giurisprudenza di legittimità successiva (cfr. Cass n. 2439/2002; Cass. N. 2771/2002; Cass. N. 4133/2003). Orbene, dai predetti chiari e generali principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite della Cassazione, da coordinarsi con gli altri definitivi arresti ermeneutici effettuati dalla Giurisprudenza di Legittimità nella materia bancaria di cui quivi si discute e con una debita considerazione della ratio dell’art. 1283 c.c., derivano - ad avviso di questo Giudice e pur nella consapevolezza di discostarsi dall’orientamento più volte accolto anche da altri Giudici di questo Tribunale - le seguenti obbligate conclusioni:
- L’art. 1283 c.c - norma espressamente dettata dal legislatore per disciplinare il fenomeno dell’anatocismo - è norma imperativa e di natura eccezionale che ammette la capitalizzazione degli interessi soltanto a determinate condizioni, prevedendo che gli interessi scaduti possono produrre a loro volta interessi solo dal giorno della domanda giudiziale (purchè questa sia in modo specifico rivolta ad ottenere il pagamento degli interessi sugli interessi scaduti, non essendo a ciò sufficiente la domanda dei soli interessi principali: cfr. ex multis Cass. N. 22565 in motivazione; Cass. nn. 5271/2002, 15838 e 7407/2001, 8377/2000, 5035/1999Cass. N. 2381/1994; Cass. N. 9311/1990; Cass. N. 4088/1988) o per effetto di una convenzione fra le parti successiva alla scadenza degli stessi, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno un semestre, salvo usi contrari (per le ragioni per cui il codice vigente, con l'art. 1283, mentre ha conservato il requisito della domanda giudiziale ha ridotto, rispetto alla disciplina del codice civile abrogato, l'entità degli interessi scaduti - sui quali si applicano gli interessi anatocistici - a sei mesi, si veda il rilievo risultante dalla relazione sul progetto ministeriale per cui "il valore odierno della moneta consente di ritenere che con l'importo di un semestre di interessi si può costituire una somma rilevante che il creditore potrebbe utilizzare come capitale", rilievo debitamente sottolineato da Cass. N. 9311/1990).
- Ciò - come più volte ribadito dalla stessa Giurisprudenza di Legittimità - onde prevenire fenomeni usurari e consentire al debitore di conoscere i maggiori costi comportati dal suo inadempimento (onere della domanda giudiziale) e comunque di calcolare, al momento della stipula della convenzione, l’esatto ammontare del suo debito. Richiedendo che l’apposita convenzione sia successiva ala scadenza degli interessi, il legislatore mira anche ad evitare che l’accettazione della clausola anatocistica possa essere utilizzata come condizione che il debitore deve necessariamente accettare per poter accedere al credito (così Cass. N. 2593/2003; Corte d’Appello Milano, sent. del 28.1.2003).
- Infatti, la disposizione limitativa di cui all'art. 1283 cod. civ. trova la propria ragione nella natura del debito di interessi e nel particolare sfavore con cui il legislatore- nel solco di una tradizione di avversità ad un fenomeno percepito quale forma di esercizio dell'usura - ha inteso considerare la capitalizzazione degli interessi, in coerenza con le altre restrizioni previste per gli interessi superiori a quelli legali (così testualmente Cass. N. 2381/1994).
- Il tenore letterale e la ratio dell'art. 1283 c.c. consentono di ravvisare nella norma in esame un principio di carattere generale, derogabile soltanto dagli usi contrari (configurati come usi normativi) (così Cass. N. 2381/1994 in motivazione).
- Gli usi contrari di cui all’art. 1283 c.c. sono usi normativi, inesistenti nella specifica materia bancaria di cui si tratta.
- In mancanza di usi contrari e delle condizioni imperative alla cui effettiva sussistenza la norma di cui all’art. 1283 c.c. consente l’anatocismo, la clausola anatocistica pattuita (non per effetto di una “convenzione fra le parti successiva alla scadenza degli interessi” ex art. 1283 c.c. ma) in via anticipata e (non in relazione a “interessi dovuti per almeno un semestre ex art. 1283 c.c.“ ma) prima della scadenza di qualsivoglia interesse, va dichiarata nulla per contrasto con la norma imperativa di cui all’art. 1283 c.c. (cfr. negli stessi termini Corte d’Appello Milano, sent. del 28.1.2003 citata; cfr. Trib. Mantova sentenza 16.1.2004; cfr. App. Torino 21.1.2002).
- Atteso che la contrarietà alla norma imperativa di cui all’art. 1283 c.c. involge - ovviamente - l’intero contenuto della clausola (e non solo, quindi, la parte di essa relativa alla periodicità della capitalizzazione), è la pattuizione in contratto dell’anatocismo ad essere nulla, onde secondo i principi generali, trattasi di contratto ab origine privo di qualsivoglia pattuizione di capitalizzazione, trimestrale come annuale come di diversa periodicità.
- Non vi è possibilità di sostituzione legale o di inserzione automatica di clausole prevedenti capitalizzazioni di diversa periodicità, in quanto l’anatocismo è consentito dal sistema - con norma eccezionale e derogatoria (cfr. le citate Sezioni Unite della Cassazione) - soltanto in presenza di deteminate condizioni (quelle di cui all’art. 1283 c.c.), in mancanza delle quali esso rimane giuridicamente non pattuito tra le stesse.
- Ricavare dal sistema - pur in presenza di pattuizione di anatocismo violativa delle condizioni imperative di cui all’art. 1283 c.c. - una capitalizzazione con periodicità più lenta quale quella annuale “rinvenuta” nel “sistema di cui agli artt. 1282/1284/1224 c.c. vorrebbe dire sia derogare alla natura imperativa ed inderogabile di cui all’art. 1283 c.c., norma dettata “ad hoc” per prevedere a quali condizioni l’interesse semplice può diventare interesse composto, sia “frustrare” la citata ratio di tutela del debitore pecuniario ad essa sottesa (per la quale l’art. 1283 c.c. ha dettato le precise condizioni della capitalizzazione), sia “immaginare” un anatocismo generale e “di sistema” ulteriore e “di riserva” (residuale) rispetto all’anatocismo “di cui all’art. 1283 c.c. (così degradato da anatocismo “esclusivo”, ossia il solo previsto dal sistema, ad anatocismo speciale rispetto a quello “generale” annuale), sia privare di senso e di funzioni la stessa previsione della disciplina di cui all’art. 1283 c.c., sia ed in definitiva assimilare in toto l’obbligazione di interessi alla “remuneratività” delle comuni obbligazioni pecuniarie pur nella riferita differenza ontologica delle stesse.
- Solo in mancanza della previsione legislativa della norma speciale di cui all’art. 1283 c.c., gli interessi scaduti, in quanto costituenti a loro volta un credito liquido ed esigibile di una somma di danaro avrebbero potuto ritenersi in ogni caso produttivi automaticamente di interessi legali di pieno diritto ai sensi dell'art. 1282 (così Cass. N. 9311/1990 in motivazione, la quale ha affrontato per la prima volta la questione del saggio degli interessi anatocistici).
- La disciplina dell'art. 1283 c.c. ha inciso sulla stessa natura degli interessi anatocistici: essi non solo sono previsti dalla legge per ogni specie di interessi e quindi anche per gli interessi moratori (sent. n. 3500/86), ma a loro volta, proprio perché la norma esplica una funzione sostanzialmente protettiva della sfera giuridica del debitore, essi non sono ammessi in ogni caso, ma soltanto alle due condizioni di cui alla norma citata (cosi ancora Cass. N. 9311/1990 citata).
- L’unica forma di legittimo collegamento e coordinamento tra l'art. 1283 c.c. ed il successivo art. 1284 c.c. è quella per cui sugli interessi scaduti almeno per un semestre (art. 1283 c.c.) sono dovuti dalla domanda giudiziale gli interessi anatocistici al tasso legale (art. 1284 comma 1 c.c.), a meno che le parti abbiano convenuto per iscritto un saggio di interessi extralegali posteriormente alla loro scadenza (artt. 1224/1284 c.c.) (cfr. Cass. N. 9311/1990): in altri termini, dall’art. 1284 (e dall’art.1224 c.c.) c.c. si può ricavare soltanto il saggio degli interessi anatocistici, qualora questi siano dovuti ex art. 1283 c.c., non anche una debenza degli stessi pur in mancanza delle condizioni di cui all’art. 1283 c.c..
- Che questo, e questo soltanto, sia il coordinamento tra le due norme trova piena conferma dal raffronto tra l'art. 1283 c.c. ed il corrispondente art. 1232 del codice abrogato
- L'art. 1232 comma 1 c.c. 1865 così statuiva: "Gli interessi scaduti possono produrre altri interessi o nella tassa legale in forza di giudiziale domanda e dal giorno di questa, o nella misura che verrà pattuita in forza di una convenzione posteriore alla scadenza dei medesimi".
- L'art. 1283 c.c. vigente è così concepito: "In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi".
- La Cassazione al riguardo ha già osservato (cfr. Cass. N. 9311/1990 citata) come la ragione per la quale il codice vigente non ha riprodotto letteralmente la locuzione "interessi al tasso legale" del codice abrogato non risiede in una esigenza di innovazione della disciplina anteriore, ma nella circostanza che mentre l'art. 1232 aveva distinto gli interessi anatocistici in interessi al tasso legale dalla domanda giudiziale o nella misura pattuita con convenzione posteriore alla loro scadenza, il nuovo testo, nel riprodurre sostanzialmente la precedente disciplina (con la sola riduzione da un anno, di cui al 3 comma dell'art. 1232 a sei mesi degli interessi scaduti), non ha più fatto riferimento al tasso degli interessi, ritenendo che questi trovassero la loro disciplina nel successivo art. 1284.
- L'art. 1283, in realtà, nella nuova formulazione, sintetizzando il concetto già espresso dal corrispondente art. 1232, lungi dal voler modificare il tasso degli interessi anatocistici, l'ha del tutto confermato secondo la disciplina anteriore. La norma, con la nuova formulazione non poteva più fare riferimento agli interessi anatocistici come interessi al tasso legale sugli interessi scaduti perché nel contesto dello stesso periodo ha fatto anche riferimento agli interessi anatocistici convenzionali per i quali non è estensibile il tasso degli interessi legali che può valere soltanto per gli interessi anatocistici legali (cfr. Cass. N. 9311/1990 citata).
Ne deriva quindi ed in definitiva, che in mancanza, come nella specie, di una valida pattuizione anatocistica, nessuna capitalizzazione, né annuale, né semestrale, può essere riconosciuta alla BANCA, né in pendenza (sugli interessi corrispettivi) né dopo la chiusura (sugli interessi moratori) dei due rapporti (cfr. al riguardo anche Cass. N. 3845/1999).

Al riguardo la difesa della BANCA appare invero alquanto sterile; essa infatti si è limitata a dedurre che “poco tempo dopo la stipulazione dei due contratti in questione - “in ossequio al D.lgs. n. 342/99 ed alla Delibera del CICR del 9.2.2000”- da un lato aveva “inviato a tutti i propri clienti comunicazione relativa alla nuova disciplina di modalità e criteri per la produzione di interessi”, dall’altro aveva anche “provveduto a pubblicizzare detta disciplina sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana al fine di ottenere la più ampia forma di pubblicità” (cfr. la già esaminata comparsa di risposta).
È noto infatti che:
- L’art. 25, comma III, del D.lgs. n. 342/1999, che prevedeva la validità ed efficacia retroattiva delle “clausole relative alla produzione degli interessi sugli interessi maturati contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma II”, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo per contrasto con l’art. 77 Cost. da Corte Costituzionale n. 425 del 17.10.2000.
- L’art. 120, comma II, TUB (comma aggiunto dall’art. 25, comma II, del D.lgs. n. 342/1999 sopra citato, regolante invece pro futuro l’anatocismo bancario), statuisce che “il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori”.
- La relativa delibera attuativa emessa dal CICR in data 9.2.2000 (con efficacia dal 22.4.2000), nello stabilire - conformemente all’art. 120 TUB - che “nell’ambito di ogni singolo conto corrente deve essere pattuita e stabilita la stessa periodicità nel conteggio degli interessi debitori e creditori” (art. 2), ha statuito che “le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati (come nella specie) anteriormente alla data di entrata in vigore” della delibera dovessero “essere adeguate” alle disposizioni in parola entro il 30 giugno, che qualora le nuove condizioni contrattuali non comportassero un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, le banche entro la stessa data avrebbero potuto provvedere all’adeguamento in via generale mediante pubblicazioni nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, dovendo poi fornire di tali nuove condizioni opportuna notizia per iscritto alla clientela alla prima occasione utile e comunque, entro il 31.12.2000; nel caso in cui invece le nuove condizioni contrattuali avessero comportato un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, esse avrebbero dovute essere applicate dalla clientela (cfr. l’art 7).

Per contro nel caso in esame:
- I contratti in questione sono stati stipulati nel 1999 e quindi in data anteriore alla data di entrata in vigore della predetta delibera CICR.
- La BANCA non ha né allegato né di conseguenza provato che l’asserito adeguamento della disciplina dell’anatocismo di cui ai due contratti alla delibera CICR sia stato comunicato per iscritto al cliente.
- Una siffatta prova non sarebbe peraltro stata idonea a legittimare la capitalizzazione pretesa in via monitoria; infatti, posto che le nuove asserite condizioni di anatocismo adeguate alla predetta delibera avrebbero sostituito all’anatocismo applicato in modo illegittimo (e quindi nullo ex art. 1283 c.c.) in virtù dei contratti del 1999, un anatocismo valido e di pari periodicità ex art. 120 TUB, si sarebbe trattato - con evidenza - di condizioni comportanti un “peggioramento” di quelle precedentemente applicate (passaggio da un anatocismo non dovuto perché nullo ad un anatocismo valido ancorché di pari periodicità), e come tali di condizioni esigenti una “approvazione” del cliente, la cui esistenza non è stata nella specie né allegata né di conseguenza provata dalla BANCA.
Nessun adempimento spontaneo di un’obbligazione naturale (con conseguente irrepetibilità di quanto pagato) può infine ed ovviamente rinvenirsi nel comportamento del correntista che abbia versato somme maggiori in pagamento di anatocismi pattuiti in contratto, quindi in adempimento di un’obbligazione giuridica, ancorchè in forma invalida e non già di un mero dovere morale o sociale. Ora è doveroso sottolineare come la ulteriore (pur tempestiva) doglianza dell’opponente circa l’effettuazione da parte della BANCA di “addebiti di somme non dovute ed in parte mai autorizzate nonché omissioni di storno/registrazioni di partite a credito nei termini di legge” sia doglianza generica e come tale processualmente irrilevante.
- È noto infatti che le risultanze dell'estratto di conto corrente allegate a sostegno della domanda di pagamento del saldi legittimano l'emissione di decreto ingiuntivo e, nell'eventuale giudizio di opposizione, hanno efficacia fino a prova contraria, potendo essere disattese solo in presenza di circostanziate contestazioni, addebiti specifici e circostanziati sulle singole poste dalle quali discende quel saldo, non già attraverso il mero rifiuto del conto o la generica affermazione di nulla dovere (cfr. Cass. N. 18578/2004; Cass. Sez. I, sent. n. 12169 del 15-09-2000; Cass. Sez. I, sent. n. 14849 del 16-11-2000).
- Infatti, ove le parti abbiano adottato un regime continuativo di contabilizzazione di complessi rapporti di dare e avere, la allegazione in giudizio dei relativi estratti conto, pur non esaurendo l'onere probatorio di chi si afferma creditore, tuttavia esprime la precisazione in forma contabile dettagliata delle asserzioni ed ammissioni di tale soggetto, dando modo all'altra parte di formulare, a sua volta, le proprie contestazioni, ammissioni e allegazioni in ordine alle poste del conto, con la conseguenza che l'onere probatorio del creditore risulterà limitato a quelle poste che saranno specificamente contestate (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 3967 del 01/04/1992; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 716 del 06/02/1986).
- A tal fine è irrilevante che l’estratto conto non sia già stato reso noto stragiudizialmente al correntista, atteso che la produzione in giudizio costituisce trasmissione ai sensi dell’art. 1832 c.c., onerando pertanto il correntista delle specifiche contestazioni per poter superare l’efficacia probatoria della produzione (cfr. da ultimo Cass. N. 18578 del 15.9.2004).
- Nel caso di specie, la parziale allegazione della illegittimità di taluni addebiti specifici su alcune delle poste a debito - essendo avvenuta soltanto con la comparsa conclusionale e, quindi, ben al di là del rituale contraddittorio delle parti e dei noti termini deputati alla fissazione delthema decidendum - è inammissibile per tardività.
- Né la espletanda CTU potrebbe legittimamente supplire - come detto - alla deficienza delle allegazioni o offerte di prove eseguite al riguardo dall’opponente. La stessa identica conclusione in termini di inammissibilità per palese tardività e “novità” di allegazione vale in ordine alle ulteriori doglianze spiegate dall’opponente soltanto in sede di comparsa conclusionale circa la non certezza della provenienza degli estratti di saldaconto prodotti dalla BANCA ingiungente, circa la inesistenza/invalidità che conseguirebbe per detti documenti, circa il difetto di legittimazione attiva di merito di quest’ultima ad agire in giudizio quale parte dei rapporti bancari controversi, circa finanche l’indeterminatezza della identificazione dello stesso correntista nei due contratti in questione, circa l’errore vizio o errore ostativo in cui l’esponente sarebbe incorso all’atto della sottoscrizione dei due moduli contrattuali.
Quanto alle ulteriori doglianze dedotte dall’opponente, questa volta tempestivamente, in citazione, infondate risultano sia quella relativa ad una asserita sopravvenuta estinzione della obbligazione pecuniaria a debito per essere “lo sforzo a cui sarebbe tenuto il debitore per adempierla superiore alla ordinaria diligenza” (figura di estinzione di obbligazione ignota al Giudicante), sia quella relativa al presunto maggior danno subito ex art. 1224 dalla opposta per l’inadempimento della controparte (maggior danno non allegato né provato), sia quella relativa alla asserita responsabilità aquiliana della banca per lesione della reputazione commerciale e personale del correntista connessa - per quel che è dato di capire - all’avvenuto recesso della BANCA dai rapporti di conto corrente (ma anche la riguardo nulla è stato specificamente allegato né in alcun modo provato circa l’effetto pregiudizievole per la propria immagine che il correntista avrebbe subito agli occhi di [non meglio precisati] terzi).
Deve invece riconoscersi la fondatezza della doglianza di A relativa alla illegittimità del recesso dai due contratti di apertura di credito in conto corrente operato dalla BANCA, ancorché da siffatto riconoscimento non possa derivare - nella specie - alcuna conseguenza pratica favorevole al cliente (ultronea rispetto a quella di ritenere inesigibile il credito ingiunto al momento del deposito della domanda monitoria, con le possibili conseguenze in tema di ripartizione delle spese di quella fase processuale), sia per difetto di allegazione e di prova da parte del cliente di quali danni patrimoniali e non patrimoniali lo stesso avrebbe subito per effetto di siffatto non preavvisato recesso, sia per la mancata proposizione da parte del medesimo di domanda di condanna generica al risarcimento del danno, la sola che avrebbe legittimato una pronuncia genericamente risarcitoria pur in mancanza della allegazione e della prova predette.

Al riguardo è opportuno premettere in diritto che:
- In tema di affidamento bancario, il termine minimo di quindici giorni per la operatività del recesso dell'istituto di credito ex art.1845, secondo comma, cod. civ., termine di carattere dilatorio, è previsto dalla legge a favore del debitore accreditato, onde metterlo in condizione di reperire la somma necessaria per ripianare la propria esposizione verso l'istituto stesso, con la conseguenza che prima della scadenza di detto termine il credito della banca non è esigibile, salvo nelle ipotesi di compensazione di detto credito con debiti che, a diverso titolo, l'istituto abbia verso l'accreditato (ipotesi comunque non ricorrente nel caso di specie), nel qual caso viene meno la necessità del rispetto del termine di cui si tratta, e la operazione di compensazione può essere eseguita allorché vengano in essere le condizioni di cui agli artt. 1242, primo comma, e 1243, primo comma, cod. civ. In tale ipotesi, è, altresì, irrilevante, ai fini della operatività del recesso della banca, la comunicazione dello stesso alla controparte, necessaria, invece, ove vi sia richiesta di pagamento da parte dell'istituto in relazione alle esposizioni che verso di esso abbia il cliente, in quanto tale richiesta deve essere subordinata alla concessione del predetto termine minimo di quindici giorni, il quale non può che decorrere dalla comunicazione del recesso (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 14859 del 16/11/2000; Cass. civ. I sez. 22.5.1963 n 1034; riferimenti normativi: Cod. Civ. art. 1242, Cod. Civ. art. 1243, Cod. Civ. art. 1845).
- Inoltre, è noto che il recesso della banca dal contratto di apertura di credito è atto recettizio, con la conseguenza che, al fine della produzione degli effetti che da esso derivano, è necessaria la prova del ricevimento della relativa dichiarazione da parte del destinatario della stessa (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15066 del 22/11/2000: nella specie, alla stregua di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione dei giudici di merito, i quali avevano escluso la fondatezza della richiesta di un istituto di credito - che aveva già ottenuto un decreto ingiuntivo per il pagamento delle somme dovute a seguito della comunicazione, da parte della banca stessa ad una società che fino ad allora aveva intrattenuto con essa un rapporto di apertura di credito in conto corrente, ed al suo fideiussore, del recesso da tale rapporto, con richiesta, non adempiuta nel termine di un giorno, di rientro dalla relativa esposizione - per non essere stata raggiunta la prova del ricevimento della comunicazione relativa al recesso nel rispetto del termine in essa intimato per il rientro, non potendosi ritenere all'uopo sufficiente, di fronte alle contestazioni della controparte, la fornita dimostrazione della spedizione del telegramma contenente la dichiarazione di volontà di recedere, ne' la successiva comunicazione dell'amministrazione postale - che, pure, non aveva emesso alcun avviso di mancato deposito di detto telegramma - concernente la impossibilità di certificare la consegna del messaggio ai destinatari, non essendo stata conservata, a distanza di tempo, la relativa documentazione).
- La buona fede contrattuale, cui è vincolata anche una BANCA nei rapporti con i propri clienti, è da intendersi, in termini generali, come atteggiamento di cooperazione e di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di tenere, al di là degli specifici obblighi scaturenti dal vincolo contrattuale e dal dovere del neminem laedere, quei comportamenti che senza comportare apprezzabile sacrificio a suo carico risultino idonei a salvaguardare gli interessi dell'altra parte (cfr. Cass. N. 5974/2005; Cass. N. 20399/2004; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15066 del 22/11/2000, in motivazione).
- Onde, ad esempio, deve considerarsi illegittimo il recesso operato dalla Banca senza giusta causa, connotato dall'imprevedibilità e dall'arbitrarietà ( Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13823 del 23/09/2002).

Invero nel caso di specie:
- I conti debitori dei due contratti bancari sono stati girati a sofferenza in data 30.6.2001 (cfr. la documentazione contabile in atti) e sono stati “azionati” monitoriamente dalla BANCA con ricorso per decreto ingiuntivo del 14.6.2002.
- Il cliente ha ritualmente allegato (dedotto) il fatto (negativo) di non avere mai ricevuto alcuna comunicazione di recesso (cfr. l’atto di citazione in opposizione).
- La BANCA ha “controeccepito” di avere ritualmente inviato in data 29.5.2001, sia al cliente personalmente, sia alla ditta del medesimo, due raccomandate di avviso di revoca, ma non ha fornito nessuna prova - della quale era onerata ex art. 2697 c.c. - al riguardo.
- Ne consegue che il recesso in concreto operato dalla BANCA è risultato essere - processualmente - illegittimo perché non debitamente preavvisato.
Dall’accertamento di siffatta illegittimità non può tuttavia farsi discendere alcun diritto risarcitorio del cliente in quanto:
- Egli si è limitato a dedurre che un preavviso di recesso gli avrebbe consentito di “ripianare eventuali esposizioni debitorie” verso l’istituto di credito.
- Nessuna prova al riguardo è stata fornita al riguardo dall’esponente.
- Parimenti nulla è stato specificamente allegato né in alcun modo provato circa l’effetto pregiudizievole per la propria immagine personale e professionale che il correntista avrebbe subito agli occhi di (non meglio precisati) terzi per effetto del patito recesso dal rapporto bancario.
- Nessuna ulteriore conseguenza patrimoniale dannosa da siffatto illegittimo recesso è stata allegata dall’opponente (cfr. la citazione in opposizione), onde può ritenersi che da siffatto difetto di allegazione derivi - sul piano processuale - sia l’infondatezza nel merito della domanda (per il noto principio della risarcibilità del solo danno effettivo che permea l’intero sistema della responsabilità civile e contrattuale), sia ed ancor prima la stessa carenza dell’interesse concreto della parte all’accertamento della illiceità della avversa condotta negoziale.
- A ben vedere, manca una stessa domanda di risarcimento di danni patrimoniali in ipotesi derivati al correntista da siffatto illegittimo recesso (cfr. le conclusioni di cui all’atto di citazione in opposizione).
- La mancata proposizione da parte di A di una domanda di condanna generica della controparte al risarcimento del danno non consente di ricorrere alla valutazione della sussistenza del danno attraverso un apprezzamento sommario e, quanto alla prova, di valutazione probabilistica che - come precedentemente ricordato - si deve ritenere necessaria e sufficiente ai fini della pronuncia di una condanna generica (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15066 del 22/11/2000, in motivazione).

All’esito delle ampie considerazioni sopra esposte, risulta quindi indispensabile rimettere la causa in istruttoria - come da separata ordinanza - per espletare una CTU contabile al fine di determinare i rapporti di dare ed avere tra le parti sulla base dei principi quivi enunciati.
Deve inoltre procedersi alla verifica tecnica dell’eventuale superamento o meno, da parte dei contratti bancari di cui è processo, dei cd. “tassi soglia antiusura” di cui alla legge n. 108/96, nel cui alveo di operatività devono - ovviamente - sussumersi entrambi i contratti di cui è causa, in quanto stipulati (anno 1999) in data posteriore alla prima rilevazione trimestrale ministeriale (D.M. 22.3.1997) dei predetti tassi-soglia.
Al riguardo appare opportuno sin da ora precisare che nell’alveo del “patto” contrattuale da sottoporre al vaglio di usurarietà (e quindi al calcolo del cd. “TEG” - Tasso Effettivo Globale - di cui all’art. 2 L. n. 108/96) dovranno essere ricondotte le “remunerazioni” come concordate nei due contratti del 1999 e come comunque variate (rispetto alle “pattuizioni scritte di cui ai due contratti del 1999) nel corso del rapporto in senso “favorevole” al cliente, posto che esse- proprio in quanto favorevoli al cliente - diventano per ciò solo (ossia a prescindere - come prima ampiamente esposto- dall’esistenza di un legittimo patto di ius variandi ex art. 117 TUB e della pubblicità ex art. 118 TUB di siffatte variazioni) “condizioni ed oggetto del contratto”.
Dovranno invece escludersi dal vaglio di usurarietà del “rapporto” le eventuali diverse remunerazioni variate dalla BANCA - nelle more dell’esecuzione del contratto - in misura “peggiorativa” per il cliente: infatti, posto che - nella specie - come detto, si tratta di variazioni da considerarsi effettuate dalla BANCA unilateralmente ed “al di fuori” del contratto (in ragione del rilevato difetto assoluto di prova- nel caso di specie- della esistenza nel predetto contratto di una legittima pattuizione attributiva alla BANCA di uno ius variandi peggiorativo ex art. 117 TUB), dette variazioni sfavorevoli dei “costi” del rapporto non possono considerarsi “pattuite nel contratto”, ma - in quanto operate dalla BANCA senza avere (dato prova del) potere negoziale - devono qualificarsi come pretese unilaterali illegittime conteggiate dalla Banca senza titolo (senza patto) nel corso del rapporto; esse - di conseguenza - costituiscono l’oggetto di un indebito ex art. 2033 c.c. operato dalla BANCA senza titolo (indebito già “risolto” con le depurazioni contabili di cui ai punti a, b, c, d, e, f, g), ma non anche e contemporaneamente oggetto di un “patto” potenzialmente usurario da esaminare ex Legge n. 108/96, per la quale ha rilievo - civilisticamente - esclusivamente il “pactum sceleris” e non già la mera pretesa usuraria; trattasi - lo si ripete - di remunerazioni non previste in contratto (e proprio per questo da escludersi dal saldo debitore del cliente) ma semplicemente pretese, in via unilaterale ed indebita ex art. 2033 c.c., dalla Banca “al di fuori” del contratto medesimo.

Al riguardo, è appena il caso di notare che la conferma del fatto che ai sensi della legge sull’usura rilevi - sul piano civilistico - l’“accordo” usurario e non anche la “pretesa unilaterale” usuraria attuata al di fuori di qualsivoglia “convenzione usuraria”, si rinviene sia nella lettera dell’art. 1815, comma II, c.c. (il quale fa esplicito riferimento alla convenzione usuraria: “Se sono convenuti interessi usurari”), sia nella lettera della legge n. 24 del 2001 di interpretazione autentica della legge n. 108/96 (la quale fa espresso riferimento alla necessità dell’esistenza di una promessa ovvero una convenzione usuraria, entrambi “ontologicamente” presupponenti un incontro di volontà negoziale: “Ai sensi dell’art. 1 del D.L. 29.12.2000 n. 394 […] si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”), sia nella lettera del novellato art. 644 c.p. (che individua la condotta del reato [consumato] di usura in comportamenti (il “farsi dare o promettere, come corrispettivo di una prestazione in denaro […] interessi o altri vantaggi usurari” ovvero il “farsi dare o promettere, per procurare a taluno una somma di denaro, un compenso usurario per la mediazione”) costituenti - con evidenza - l’effetto di una “negoziazione” usuraria) sia e non da ultimo nella necessità sistematica di (continuare a) poter distinguere penalisticamente tra il reato di usura consumata (che presuppone la formazione dell’accordo usurario nelle forme appena descritte, il solo a ledere - secondo lo spirito della legge - l’oggettività giuridica della fattispecie penale) e reato di usura (meramente) tentata ex art. 56/644 c.p. (che - invece - presuppone una unilaterale proposta ovvero pretesa usuraria la quale - non sfociando nell’accordo usurario - per questo “attenta” ma non “attinge” il bene giuridico sotteso alla fattispecie).

Inoltre appare altresì opportuno precisare che dovrà procedersi al calcolo del predetto “TEG” conteggiando tutte le remunerazioni di cui all’art. 2, comma I, della Legge n. 108/96 che siano state “pattuite” nel contratto - nel senso prima precisato - ancorché in forma invalida sotto altro titolo (ex. anatocismo trimestrale o annuale passivo; valute pattuite in violazione dell’art. 120 TUB etc.) dovendosi ovviamente operare il vaglio di usurarietà anche su patti eventualmente invalidi ovvero inefficaci - sul piano civilistico - per altra causa (cfr. gli artt. 1 e 2 della L. n. 108/96) e prima di effettuare sul rapporto ogni altra depurazione derivante da altre eventuali forme di invalidità.
Infatti, è evidente che non possono sottrarsi al “preventivo” vaglio ed alle sanzioni di cui alla legge n. 108/96 né un tasso di interessi in ipotesi concordato e preteso in misura oggettivamente usuraria nell’ambito di un contratto di prestito orale, cui generalmente ricorre- com’è noto e per intuibili ragioni - l’usuraio (qui la mancanza di forma scritta dell’accordo sul tasso di interessi ultralegale renderebbe quest’ultimo inefficace ex art. 1284 c.c. con sostituzione dell’interesse legale), né un tasso di interessi concordato in forma variabile entro una “forbice indeterminata” (ex tra il 10 ed il 30%) e poi preteso in una misura usuraria (ex 30%: qui l’indeterminatezza originaria del tasso ne comporterebbe la nullità ex art. 1346 c.c. con sostituzione automatica ex artt. 1418/1284 c.c. con il tasso legale), né un anatocismo pattuito in violazione dell’art. 1283 c.c. (che qui andrebbe eliminato e sostituito dal mero interesse semplice).

Diversamente opinando, si sottoporrebbe al vaglio di usurarietà - e la specificazione appare forse superflua - non il costo “effettivo” del rapporto bensì il costo che il medesimo avrebbe avuto in mancanza delle clausole invalidamente pattuite sotto altro titolo.
È peraltro evidente che il vaglio di usurarietà ed il vaglio imposto da altre forme di validità del contratto, nelle ipotesi prima richiamate a titolo esemplificativo, operino su piani ed a tutela di interessi diversi.
Il primo tutela l’interesse del debitore pecuniario a non subire l’“imposizione” di costi eccessivi (usurari) per l’accesso al credito, il secondo tutela il diverso interesse del medesimo debitore di conoscere preventivamente i costi - ancorché non usurari - connessi all’erogazione del credito e di non pagare poste patrimoniali concordate in violazione di altre norme imperative.
Ed è indubbio che debba tutelarsi, ad esempio, l’interesse di un debitore pecuniario che - vincolato alla debenza di un tasso di interessi ultralegale pattuito in modo indeterminato ovvero orale - sia perciò già “garantito” dalla sanzione di indeterminatezza ex art. 1346 c.c. ovvero di inefficacia ex art. 1284 c.c. di quel tasso (che già gli assicura di dover pagare in sostituzione un mero tasso legale) ma che voglia far rilevare l’eventuale usurarietà di quel tasso (già inefficace ad altro titolo), per poter beneficiare, ex art. 1815/L. n. 108/96, della sanzione della non debenza di alcun interesse, neanche legale. Infine, potrà darsi rilievo alla eventualmente accertata rilevazione del superamento del tasso soglia nella sola ipotesi in cui il tasso usurario rilevato fosse (già) usurario al momento della pattuizione (o variazione favorevole), ossia alla sola cd. “usurarietà originaria” del contratto, senza quindi attribuire alcun rilievo alla eventuale usurarietà dei tassi (non originaria ma) soltanto sopravvenuta al momento della loro pattuizione (cfr. la Legge n. 24/01; cfr. l’art. 1815 comma II c.c.; cfr. la Corte Cost. n. 29/2002; cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13868 del 24/09/2002; Cass. Sez.. 3, Sentenza n. 17813 del 13/12/2002; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4380 del 25/03/2003).
In caso di accertata usurarietà originaria dei due contratti in questione, dovrà quindi procedersi all’applicazione - per i relativi periodi in cui si sia accertata detta usurarietà originaria - della sanzione ex art. 1815, comma II c.c. (“nessun interesse è dovuto”), sanzione da intendersi ovviamente applicabile - ex art 644 c.p/ L. n. 108/96 - non solo ad un contratto di mutuo ma anche ad contratto di conto corrente o di erogazione di credito (originariamente) usurario.

Il CTU rideterminerà il saldo dei due contratti bancari azionati dalla BANCA in sede monitoria (contratto del 15.3.1999 e contratto del 15.7.1999), ricostruendo l’andamento dei relativi rapporti come sviluppatisi da dette date di stipulazione sino alla loro chiusura, attraverso le seguenti operazioni contabili:
a) riconduzione “a zero” del saldo iniziale, eventualmente addebitato sui conti dei due contratti del 15.3.1999 e del 15.7.1999, ancorchè saldo relativo alla parte del rapporto anteriore a quella regolamentata dai due predetti contratti.
b) applicazione del tasso di interesse convenzionale come pattuito tra le parti nei due contratti citati nella misura numerica ivi indicata, ovvero applicazione del diverso tasso come eventualmente modificato dalla Banca nel corso del rapporto in senso favorevole al cliente (posto che - come ampiamente detto - tali variazioni sono consentite senza vincoli di sorta sia dalla L. n. 154/92 sia dall’art. 118 TUB), con esclusione invece delle variazioni eventualmente variate in modo sfavorevole al cliente (per difetto di prova della valida pattuizione nei due contratti del relativo ius variandi).
c) applicazione della c.m.s., come pattuita tra le parti nei due contratti citati nella misura numerica ivi indicata, ovvero applicazione della CMS in una diversa percentuale come eventualmente modificata dalla Banca nel corso del rapporto in senso favorevole al cliente;
d) esclusione di qualsiasi altra remunerazione contabilizzata a carico del correntista ma non pattuita nei due contratti citati, ad eccezione delle imposte e tasse come dovute ex lege;
e) verifica del rispetto - nel calcolo delle valute come in concreto conteggiate dalla BANCA - dell’art. 120 TUB e delle previsioni negoziali relative ad esse e - in caso negativo - ricalcalo delle valute come dovute secondo le previsioni contrattuali (se non violative dell’art. 120 TUB) e dell’art. 120 TUB.
f) quanto all'anatocismo, determinazione del saldo dei due conti senza alcuna capitalizzazione (neanche annuale) né degli interessi (cd. “interesse semplice”), corrispettivi e moratori, nè di ogni altra remunerazione da intendersi ai sensi dell’art. 1, IV comma, della Legge n. 108/96 e come tale comprensiva anche della CMS.
g) Applicazione sulla quota capitale finale dei saldi dei due contratti, come sopra individuati, dalla data di chiusura dei conti alla data del deposito del ricorso per decreto ingiuntivo, degli interessi di mora al tasso che risulti inferiore (e quindi più favorevole al cliente) tra quello pattuito nei due contratti del 1999, quello applicato e vigente alla data di chiusura dei rapporti e quello preteso dalla BANCA nel ricorso monitorio (posto che - mancando nei due contratti una esplicita pattuizione del tasso degli interessi moratori - esso si identifica, ex art. 1224 c.c. e secondo la già citata cd. perpetuatio obligationis - con il tasso degli interessi corrispettivi contrattuali vigenti prima della mora e quest’ultimo a sua volta si identifica con il tasso pattuito nei due contratti ovvero successivamente variato in senso favorevole al cliente).
h) Conseguente individuazione del saldo dei due rapporti, in ragione delle operazioni contabili di cui ai punti a, b, c, d, e, f, g, alla data del deposito del ricorso per decreto ingiuntivo. Quindi, in relazione alla verifica di usurarietà dei tassi:
i) calcolo del TEG ex L. n.108/96.
j) conseguente determinazione del “costo” del rapporto ex L. n.108/96.
k) nel caso di rilevazione del superamento del tasso soglia ma nella sola ipotesi in cui il tasso usurario rilevato fosse (già) usurario al momento della pattuizione (o variazione favorevole) [cd. “usurarietà originaria”, senza quindi attribuire alcun rilievo alla eventuale usurarietà dei tassi sopravvenuta al momento della loro pattuizione], applicazione- per i relativi periodi in cui si sia accertata detta usurarietà originaria- della sanzione ex art. 1815, comma II c.c. (“nessun interesse è dovuto”).
l) eventuale rideterminazione del saldo finale dei due contratti di cui è causa di cui al precedente punto h) attraverso le eventuali depurazioni “antiusura” di cui al punto k)
m) nelle predette operazioni contabili il CTU si limiti all'esame della solaproduzione documentale già acquisita agli atti con produzione di parte ai sensi dell'art. 184 c.p.c.

Peraltro, la constatata nullità dell’anatocismo conteggiato dalla BANCA per la quantificazione della pretesa monitoria nonché la descritta necessità di ricondurre a zero il saldo iniziale addebitato al conto corrente 103026 del 15.3.99, comportano sin da ora la revoca del decreto ingiuntivo opposto, emesso per somme in parte non dovute e quindi insuscettibile di conferma con la futura decisione definitiva.
Il regolamento delle spese deve essere rimesso alla sentenza definitiva.

P.Q.M.

il Tribunale, in persona del Giudice Unico, non definitivamente pronunciando nel giudizio di opposizione iscritto al R.G. N. ____/2002 promosso da A nei confronti della BANCA CARIPE, già CASSA DI RISPARMIO DI PESCARA e LORETO APRUTINO S.P.A., con atto di citazione del______ .2002, avverso il decreto ingiuntivo n. ___/2002 emesso dal Tribunale di Pescara, così decide :

REVOCA
Il decreto ingiuntivo impugnato, per le causali di cui in motivazione.

RIMETTE
Le parti in fase istruttoria come da separata ordinanza.
Spese al definitivo.
Pescara, 18.11.2005
Il Giudice Dott. Gianluca Falco