Diritto del Lavoro


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20579 - pubb. 06/10/2018

Pignorabile il TFR spettante al pubblico dipendente

Cassazione civile, sez. VI, 25 Luglio 2018, n. 19708. Est. D'Arrigo.


Esecuzione forzata – Pignorabilità del TFR – Spettante a dipendente pubblico



Anche dopo la riforma del settore disposta con il decreto legislativo n.252 del 2005, le quote accantonate del trattamento di fine rapporto, tanto che siano trattenute presso l’azienda, quanto che siano versate al Fondo di Tesoreria dello Stato presso l’I.N.P.S. ovvero conferite in un fondo di previdenza complementare, sono intrinsecamente dotate di potenzialità satisfattiva futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido del lavoratore, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina solo l’esigibilità, con la conseguenza che le stesse sono pignorabili e devono essere incluse nella dichiarazione resa dal terzo ai sensi dell’art.547 c.p.c.. Tale principio, valevole per i lavoratori subordinati del settore privato, si estende anche ai dipendenti pubblici, stante la totale equiparazione del regime di pignorabilità e sequestrabilità del trattamento di fine rapporto o di fine servizio susseguente alle sentenze della Corte Costituzionale n.99 del 1993 e n.225 del 1997. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide - Presidente -

Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere -

Dott. SCRIMA Antonietta - Consigliere -

Dott. ROSSETTI Marco - Consigliere -

Dott. D’ARRIGO Cosimo - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

ORDINANZA

C.A. ha sottoposto a pignoramento l'indennità di fine servizio dovuta dall'I.N.D.A.P. (ora dall'I.N.P.S.) ad Ca.As., dipendente del MIUR ancora in servizio. Stante l'omessa comparizione del terzo pignorato, ha chiesto procedersi, ai sensi dell'art. 348 c.p.c., (nella versione applicabile ratione temporis), all'accertamento del relativo obbligo.

Il giudizio si concludeva con esito favorevole in primo grado, ma la Corte d'appello di Bari, con la sentenza indicata in epigrafe, dichiarava l'inefficacia del pignoramento, affermando la non assoggettabilità a pignoramento di somme non ancora esigibili.

Contro tale decisione la C. ha proposto ricorso per cassazione articolato in quattro motivi. L'I.N.P.S. ha resistito con controricorso. La Ca. ha depositato una memoria di costituzione.

Il consigliere relatore, ritenuta la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 380 bis c.p.c., (come modificato dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1 bis, comma 1, lett. e), conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197), ha formulato proposta di trattazione del ricorso in camera di consiglio non partecipata.

In applicazione del principio della ragione più liquida (Sez. U, Sentenza n. 9936 del 08/05/2014, Rv. 630490), vanno esaminati congiuntamente anzitutto il terzo e il quarto motivo, relativi alla pignorabilità del trattamento di fine servizio spettante ai dipendenti pubblici.

Questa Corte ha già chiarito che le quote accantonate del trattamento di fine rapporto sono intrinsecamente dotate di potenzialità satisfattiva futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina solo l'esigibilità, con la conseguenza che le stesse sono pignorabili e devono essere incluse nella dichiarazione resa dal terzo ai sensi dell'art. 547 c.p.c. (Sez. L, Sentenza n. 1049 del 03/02/1998, Rv. 512156).

Tale principio va tenuto fermo pur dopo la modifica della disciplina del trattamento di fine rapporto, che prevede, per le aziende con almeno 50 dipendenti, il versamento degli accantonamenti per il trattamento di fine rapporto sul Fondo Tesoreria dello Stato costituito presso l'I.N.P.S.. Infatti, pur nel nuovo e più composito panorama normativo (che prevede altresì la possibilità per il lavoratore di optare per un sistema di previdenza complementare), resta fermo il fatto che il trattamento di fine rapporto costituisce, a tutti gli effetti, un credito che il lavoratore matura già in costanza di rapporto di lavoro, sebbene la sua esigibilità sia subordinata al momento della cessazione del rapporto stesso. Poichè, come attestato anche dall'art. 553 c.p.c., commi 1 e 2, i presupposti per l'assoggettabilità di un credito a pignoramento sono solamente la certezza del credito e la sua liquidità (o liquidabilità in base a parametri oggettivi), ma non la sua esigibilità, nulla osta alla pignorabilità del trattamento di fine rapporto, fermo restando che l'ordinanza di assegnazione non potrà essere eseguita prima che maturino le condizioni per il pagamento. Infatti, poichè il terzo pignorato viene giudizialmente ceduto al creditore procedente, egli potrà opporre a quest'ultimo tutte le eccezioni che poteva opporre al proprio creditore originario (ossia al debitore esecutato), ivi inclusa la non esigibilità delle somme.

Il problema della pignorabilità del t.f.r., dunque, si colloca semmai sul piano soggettivo, poichè il soggetto che erogherà il trattamento potrebbe essere diverso dal datore di lavoro.

Tanto chiarito, in relazione ai lavoratori dipendenti del settore privato, la questione non si pone in termini diversi per i dipendenti pubblici. Infatti, l'originario regime di impignorabilità del trattamento di fine servizio è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con le sentenze della Corte costituzionale n. 99 del 1993 e n. 225 del 1997.

In particolare, risulta inappropriato il richiamo contenuto nella sentenza impugnata al D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, art. 21, (Testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti dello Stato).

La Corte d'appello afferma che le somme dovute alla Ca. a titolo di trattamento di fine rapporto non sarebbero pignorabili, in forza del disposto del citato art. 21, che ne limita la sequestrabilità e pignorabilità al solo caso di risarcimento del danno eventualmente causato dal dipendente all'amministrazione. In realtà, il dettato normativo deve ritenersi superato per effetto della già menzionata sentenza della Corte costituzionale n. 99 del 1993, che, intervenendo sul D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, art. 2, (Testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni), ha esteso, anche con riferimento al trattamento di fine rapporto, ai dipendenti pubblici il regime di pignorabilità - meno favorevole previsto per i lavoratori privati dall'art. 545 c.p.c..

Successivamente, il Giudice delle leggi è tornato sul tema con la sentenza n. 225 del 1997, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 1032 del 1973, art. 21, nella parte in cui prevedeva, per i dipendenti dello Stato, la sequestrabilità o la pignorabilità delle indennità di fine rapporto di lavoro, anche per i crediti da danno erariale, senza osservare i limiti stabiliti dall'art. 545 c.p.c., comma 4. Con tale pronuncia, la Corte costituzionale ha inteso dichiaratamente completare, anche in relazione ai crediti da danno erariale, il percorso di totale equiparazione del regime di pignorabilità (e sequestrabilità) degli emolumenti (compreso il t.f.r.) dei dipendenti pubblici e privati. Nella sentenza si legge: "Occupandosi del regime giuridico dell'indennità di fine rapporto erogata ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni (D.P.R. n. 180 del 1950), questa Corte è intervenuta, con la sentenza n. 99 del 1993, sul trattamento loro riservato, e ha esteso la sequestrabilità o pignorabilità per ogni credito, negli stessi limiti stabiliti dall'art. 545 c.p.c., comma 4. Ciò per l'ingiustificata disparità fra i dipendenti pubblici, fino ad allora privilegiati, e quelli del comparto privato che erano sottoposti alla soggezione, sebbene limitata, del potere legalmente esercitato dai creditori ordinari. Disparità non più tollerabile, secondo tale pronuncia, per la progressiva eliminazione delle differenze in materia, quale sviluppo della tendenza a omogeneizzare i due settori". Dunque, alla luce dell'interpretazione fornita dalla stessa Corte costituzionale, non residua alcun dubbio sul fatto che la sentenza n. 99 del 1993, pur intervenendo sul D.P.R. n. 180 del 1950, art. 2, ha implicitamente dichiarato costituzionalmente illegittimo anche il D.P.R. n. 1032 del 1973, art. 21, il cui dettato era perfettamente compreso nell'ambito applicativo dell'altra disposizione, la cui fattispecie si distingue per una maggiore ampiezza oggettiva (in quanto comprensiva non solo del t.f.r., ma anche degli stipendi e delle pensioni) e soggettiva (giacchè si riferisce ai dipendenti non solo dallo Stato, bensì da tutte le pubbliche amministrazioni).

Va conclusivamente affermato il seguente principio di diritto:

"Anche dopo la riforma del settore disposta con il D.Lgs. n. 252 del 2005, le quote accantonate del trattamento di fine rapporto, tanto che siano trattenute presso l'azienda, quanto che siano versate al Fondo di Tesoreria dello Stato presso l'I.N.P.S. ovvero conferite in un fondo di previdenza complementare, sono intrinsecamente dotate di potenzialità satisfattiva futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido del lavoratore, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina solo l'esigibilità, con la conseguenza che le stesse sono pignorabili e devono essere incluse nella dichiarazione resa dal terzo ai sensi dell'art. 547 c.p.c.. Tale principio, valevole per i lavoratori subordinati del settore privato, si estende anche ai dipendenti pubblici, stante la totale equiparazione del regime di pignorabilità e sequestrabilità del trattamento di fine rapporto o di fine servizio susseguente alle sentenze della Corte costituzionale n. 99 del 1993 e n. 225 del 1997".

In applicazione di tale principio, vanno accolti il terzo e il quarto motivo di ricorso, con assorbimento dei restanti, e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte d'appello di Bari, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

 

P.Q.M.

accoglie il terzo e il quarto motivo ricorso, assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata e in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Bari, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2018.