Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 15701 - pubb. 11/01/2016

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Cassazione civile, sez. III, 16 Ottobre 1995, n. 10805. Est. Preden.


Responsabilità patrimoniale - Cause di prelazione - Patto commissorio - Divieto del - Contratto di "SALE AND LEASE BACK" - Negozio in frode al divieto di patto commissario - Esclusione - Condizioni



Nel contratto di sale and lease back, con il quale una impresa commerciale o industriale vende un bene immobile di sua proprietà ad un imprenditore finanziario che ne paga il corrispettivo, diventandone proprietario, e contestualmente lo cede in locazione finanziaria (leasing) alla stessa venditrice, che versa periodicamente dei canoni di leasing per una certa durata, con facoltà di riacquistare la proprietà del bene venduto, corrispondendo al termine di durata del contratto il prezzo stabilito per il riscatto, la vendita ha scopo di leasing e non di garanzia perché, nella configurazione socialmente tipica del rapporto, costituisce solo il presupposto necessario della locazione finanziaria inserendosi nella operazione economica secondo la funzione specifica di questa, che è quella di procurare all'imprenditore, nel quadro di un determinato disegno economico di potenziamento dei fattori produttivi, liquidità immediata mediante l'alienazione di un suo bene strumentale, conservandone a questo l'uso con facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto. Tale vendita, ed il complesso rapporto atipico nel quale si inserisce, non è, quindi, di per se, in frode alla divieto di patto commissorio che, essendo diretto ad impedire al creditore l'esercizio di una coazione morale sul debitore spinto alla ricerca di un mutuo (o alla richiesta di una dilazione nel caso di patto commissorio ab intervallo) da ristrettezze finanziarie, ed a precludere, quindi, al predetto creditore la possibilità di fare proprio il bene attraverso un meccanismo che lo sottrarrebbe alla regola della "par condicio creditorum", deve, invece, ritenersi violato ogni qualvolta lo scopo di garanzia non costituisca solo motivo, ma assurga a causa del contratto di vendita con patto di riscatto o di retrovendita, a meno che non risulti in concreto, da dati sintomatici ed obiettivi, quali la presenza di una situazione credito-debitoria preesistente o contestuale alla vendita o la sproporzione tra entità del prezzo e valore del bene alienato ed, in altri termini, delle reciproche obbligazioni nascenti dal rapporto, che la predetta vendita, nel quadro del rapporto diretto ad assicurare una liquidità all'impresa alienante, è stato piegato al rafforzamento della posizione del creditore-finanziatore, che in tal modo tenta di acquisire l'eccedenza del valore , abusando della debolezza del debitore (nella specie, la Corte ha ritenuto la nullità di un contratto di sale and lease back nel quale il finanziatore acquirente del bene versava solo la metà del prezzo concordato, depositando la rimanente somma presso un notaio a garanzia del corrispettivo del leasing dovuto dall'imprenditore venditore). (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
SEZIONE III



Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Alberto SCIOLLA LAGRANGE Presidente
" Paolo VITTORIA Consigliere
" Roberto PREDEN Rel. "
" Luigi F. DI NANNI "
" Sandro OCCHIONERO "
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto
da
SARDALEASING S.P.A. con sede in Sassari, Via IV Novembre n. 27, in persona del presidente e legale rappresentante prof. Lorenzo Idda, elett.te dom.to in Roma, Via Virgilio n. 8, c-o lo studio dell'avv. Enrico Ciccotti, che lo rappresenta e difende anche disgiuntamente agli avv.ti Luigi Passivo e Antonio Serra giusta procura a margine del ricorso.

Ricorrente


contro
AMMENDOLA NICOLA FRANCESCO n.q. di titolare dell'impresa individuale O.M.A., elett.te dom.to in Roma, Via Barberini n. 3, c-o lo studio dell'avv. Salvatore Patti, che lo rappresenta e difende anche disgiuntamente all'avv. Giancarlo Congiatu giusta procura a margine del controricorso.

Controricorrente


Visto il ricorso avverso la sentenza n. 71-93 della Corte d'appello di Cagliari del 23.10.92 - 3.3.93 (RG 608-90).
Udito il Consigliere relatore dott. Roberto Preden nella pubblica udienza del 12.5.95.
Sentito il P.M., nella persona del Sost. Proc. Gen. dott. Michele Lugaro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato il 22.1.86, la Sardaleasing S.p.a. conveniva davanti al Tribunale di Sassari Nicola Ammendola, esponendo che, con atto del 22.11.83, aveva concesso in leasing al convenuto un capannone ad uso industriale sito in Tortolì; che il convenuto si era reso moroso nel pagamento dei canoni; che, ottenuto decreto ingiuntivo, divenuto definitivo, per i canoni, aveva richiesto, con esito positivo, il sequestro giudiziario dell'immobile. Tanto premesso, chiedeva la convalida del sequestro e la risoluzione del contratto, con conseguente condanna del convenuto alla restituzione dell'immobile ed al risarcimento dei danni.
Il convenuto deduceva che, al fine di ricostituire adeguate riserve liquide, aveva concluso con la Sardaleasing un contratto di sale and lease back, in forza del quale aveva ceduto alla controparte il capannone ad uso industriale per il prezzo di L. 400.000.000, conseguendone quindi la disponibilità titolo di locazione, per il canone bimestrale di L. 16.619.000, per otto anni, con facoltà di opzione, alla scadenza, per il prezzo di L. 20.000.000; che la Sardaleasing non aveva corrisposto l'intero prezzo, in forza di espressa clausola, secondo la quale la metà del relativo importo doveva essere accantonata presso il Banco di Sardegna di Lanusei a garanzia del pagamento delle due prime annualità di canone; che in ragione di tale limitato ricavo l'operazione non aveva consentito il raggiungimento dello scopo perseguito Tanto dedotto, chiedeva che il contratto fosse dichiarato nullo, con le conseguenti pronunce. Il tribunale revocava il sequestro; dichiarava la nullità della vendita del capannone; rigettava la domanda di restituzione dell'immobile proposta dalla Sardaleasing; rigettava le domande restitutorie dell'Ammendola; condannava quest'ultimo al risarcimento del danno da inadempimento della locazione finanziaria. Pronunciando sull'appello principale della Sardaleasing e su quello incidentale dell'Ammendola, la Corte d'appello di Cagliari, con sentenza del 3.3.93, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarava la nullità del contratto di lease back;
condannava l'Ammendola alla restituzione della somma di L. 159.714.740 oltre agli interessi legali; condannava la Sardaleasing alla restituzione della somma di L. 66.472.00000 oltre agli interessi legali; condannava la Sardaleasing al risarcimento dei danni in favore dell'Ammendola, liquidati in L. 267.579.300; condannava la Sardaleasing al pagamento delle spese del doppio grado. Considerava la corte che l'operazione contrattuale posta in essere dalle parti integrava un unitario contratto rientrante nella figura del sale and lease back; che tale contratto, normativamente non disciplinato, ma diffuso nella pratica degli affari, presenta, nella sua configurazione socialmente tipica, una causa apparente volta al perseguimento di interessi socialmente ed economicamente non apprezzabili, ed una causa effettiva che si sostanzia di un mutuo assistito da garanzia atipica, in violazione del divieto di patto commissorio (art. 2744 c.c.), ed è pertanto affetto da nullità, in linea generale, quale contratto in frode alla legge (art. 1344 c.c.), alla stessa stregua di una vendita con patto di riscatto (o di retrovendita) stipulata allo scopo di costituire una garanzia reale a favore del creditore (Cass. n. 1611-89); che, peraltro, anche a voler escludere la nullità del lease back come figura generale, nel caso di specie si configurava un lease back anomalo, potendosi desumere dalla corresponsione, da parte della Sardaleasing, della sola metà del prezzo di vendita del capannone, restando la residua quota vincolata per due anni a garanzia del pagamento dei canoni, uno stravolgimento dei normali effetti del contratto, mediante la realizzazione di una situazione caratterizzata da sproporzione tra controprestazioni, volta a costituire una garanzia reale atipica a tutela di un preesistente credito, in pregiudizio del debitore, quale contraente più debole, con conseguente nullità del contratto ex art. 2744 c.c.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la Sardaleasing sulla base di sette motivi, illustrati con memoria, ai quali resiste, con controricorso, l'Ammendola.


MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo - denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1344, 2744 c.c., nonché difetto di motivazione - la ricorrente censura l'impugnata sentenza nella parte in cui ha ritenuto che il contratto atipico di sale and back (vendita con locazione di ritorno) sarebbe sempre nullo, nella sua configurazione socialmente tipica, poiché integra, in frode alla legge, elusione al divieto di patto commissorio sancito dall'art. 2744 c.c.
Con il secondo motivo - denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1344 e 2744 c.c. in relazione agli artt. 1500 e 1813 c.c., nonché difetto di motivazione - la ricorrente addebita alla corte d'appello di aver applicato al contratto di lease back principi enunciati dalla giurisprudenza di questa S.C. in tema di vendita in garanzia sottoposta a condizione risolutiva - suscettiva di integrare frode alla legge, e quindi sanzionabile con la nullità (sent. S.U. n. 1611-89 e n. 1907-89) - senza cogliere la diversità strutturale e funzionale delle fattispecie considerate.
Osserva la ricorrente che il contratto di lease back costituisce tipo negoziale diffuso nella pratica degli affari, e quindi socialmente tipico, la cui causa consiste nel perseguimento dell'interesse del venditore-utilizzatore di avere la disponibilità giuridica del bene da utilizzare, messogli a disposizione dall'impresa di leasing attraverso un contratto di locazione finanziaria. E l'individuazione di una causa tipica non consente di ravvisare nell'operazione economica in esame il mascheramento, dietro un regolamento negoziale di per sè lecito, di un mutuo assistito da garanzia atipica.
Nè sembra corretto - prosegue la ricorrente - trasporre meccanicamente al contratto di lease back l'orientamento giurisprudenziale che ha ravvisato nelle alienazioni a scopo di garanzia soggette a condizione risolutiva (vendita con patto di riscatto o con patto di ritrasferimento) portata elusiva del divieto di patto commissorio, in quanto sussiste, tra le fattispecie considerate, diversità di causa e di struttura. Nel lease back invero la vendita non è in funzione di garanzia di un preesistente credito, ma costituisce presupposto necessario per l'instaurazione della locazione finanziaria del bene, e non è, inoltre, soggetta a condizione risolutiva, dovendo il venditore-utilizzatore, per riacquistare la proprietà, esercitare il diritto di opzione. 1.2. Le questioni sottoposte all'esame di questa Corte - incentrate sul rapporto tra contratto di lease back e alienazione in garanzia integrante patto commissorio - impongono una preliminare ricognizione dei problemi connessi all'individuazione dell'ambito di applicazione del divieto di patto commissorio, sancito dall'art. 2744 c.c..
L'art. 2744 c.c., compreso nel titolo III del libro VI del codice civile (Della responsabilità patrimoniale, delle cause di prelazione e della conservazione della garanzia patrimoniale), dispone quanto segue: "È nullo il patto con il quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell'ipoteca o del pegno." Analoga previsione reca l'art. 1963 c.c. in tema di anticresi. L'espressa comminatoria di nullità avendo, ovviamente, espulso dalla pratica degli affari la realizzazione della fattispecie legale illecita, concernente il patto commissorio aggiunto ad ipoteca, pegno o anticresi, è sorta questione se la nullità riguardasse, o meno, anche il patto commissorio autonomo, e cioè l'operazione contrattuale, di regola integrata da una alienazione in funzione di garanzia, che di per sè preveda che la proprietà della cosa alienata in garanzia passi al creditore in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato. E la risposta della giurisprudenza di questa S.C. (sent. n. 282-74) e della dottrina è stata concordemente positiva, sul rilievo, tra l'altro, che il risultato giuridico-economico dell'operazione è equivalente a quello espressamente sanzionato.
Minor concordia - ed anzi ampia divergenza di opinioni (significativa della loro elevata opinabilità) - ha contrassegnato, come è noto, l'individuazione della ragione giustificatrice della sancita nullità del patto commissorio (sia adietto che autonomo). Senza pretesa di completezza, sarà qui sufficiente ricordare che le tesi tradizionali hanno individuato il fondamento del divieto nell'esigenza di tutela dei debitori - esposti, a causa del bisogno, a subire il rischio di un approfittamento da parte dei creditori -, ovvero di tutela dei creditori - risultando leso il principio della par condicio -, o di entrambe le categorie. Su un piano diverso, è stato sottolineato il contrasto del potere di autosoddisfacimento del creditore con l'esclusiva statale della funzione esecutiva. Secondo altra tesi, infine, il divieto si giustificherebbe con l'esigenza di evitare che il patto, quale clausola di stile, determini l'instaurarsi di un sistema di garanzia inidoneo ad esprimere un assoggettamento del patrimonio del debitore esattamente adeguato alla funzione di garanzia.
A sua volta, la giurisprudenza di questa S.C. per lungo tempo ritenne di impostare la soluzione del problema della liceità o illiceità del patto commissorio autonomo, integrato da una alienazione in garanzia, con riferimento alla decorrenza degli effetti del trasferimento della cosa alienata in garanzia. Si affermò, invero, la liceità della vendita fiduciaria a scopo di garanzia, accompagnata da patto di riscatto o di ritrasferimento, caratterizzata da un trasferimento effettivo ed immediato della proprietà al creditore, il quale tuttavia assume l'impegno, in forza di accordo consistente nel patto di riscatto o in quello di retrovendita, di ritrasferire il bene al venditore se questi estinguerà, nel termine previsto, il debito garantito. Per converso. si ritenne nulla, ai sensi dell'art. 2744 c.c., la vendita dissimulante un mutuo con patto commissorio, ricorrente nell'ipotesi in cui le parti, pur dichiarando formalmente di voler vendere ed acquistare, concordano in sostanza che il creditore acquirente diventerà proprietario soltanto se il debitore ed alienante non estinguerà il debito nel termine pattuito, attuando così una vendita sottoposta a condizione sospensiva (per tutte: sent. n. 1004-62 e n. 642-80).
Il problema venne posto quindi, per l'ipotesi illecita, in chiave di simulazione, e l'illiceità del contratto dissimulato venne fatta discendere dalla violazione diretta del divieto ex art. 2744 c.c. (estensivamente interpretato come relativo anche al patto commissorio autonomo).
La soluzione adottata fu oggetto di critica e ad essa si contrapposero difformi pronunce (significativo esempio si riscontra nella sent. n. 3800-83), che abbandonarono il suindicato criterio distintivo, rilevando come anche nella vendita con patto di riscatto o di retrovendita, se conclusa a scopo di garanzia, l'effetto traslativo diviene definitivo ed irrevocabile soltanto a seguito dell'inadempimento del mutuatario. Ne consegue che, ove risulti l'intento primario delle parti di vincolare il bene a garanzia ed in funzione del rapporto di mutuo, la complessa convenzione - in quanto produttiva degli stessi effetti di una alienazione sottoposta a condizione sospensiva e caratterizzata da un nesso teleologico e strumentale tra i due negozi di mutuo e di compravendita - presenta una causa effettiva divergente da quella tipica della compravendita, ed avente natura di causa illecita, in quanto volta a frodare il divieto del patto commissorio attraverso il ricorso ad un procedimento simulatorio.
Il nuovo orientamento venne fatto proprio, con alcune precisazioni, dalle Sezioni Unite, con due sentenze dell'anno 1989 (n. 1611 e n. 1907). Premesso, in adesione alla tesi tradizionale, che il divieto di patto commissorio è diretto ad impedire al creditore l'esercizio di una coazione morale sul debitore, spesso spinto alla ricerca di un mutuo (o alla richiesta di una dilazione, nel caso di patto commissorio ex intervallo) da ristrettezze finanziarie, con facoltà di far proprio il bene, attraverso un meccanismo che gli consenta di sottrarsi alla regola della par condicio creditorum, hanno affermato le Sezioni Unite che nella vendita con patto di riscatto o di retrovendita a scopo di garanzia questa non costituisce soltanto motivo, ma assurge a causa del contratto, in quanto il trasferimento della proprietà trova obiettiva giustificazione nel fine di garanzia. E tale causa è inconciliabile con quella della vendita, posto che il versamento del denaro non costituisce pagamento del prezzo, ma esecuzione di un mutuo, mentre il trasferimento del bene non integra l'attribuzione al compratore, bensì l'atto costitutivo di una posizione di garanzia innegabilmente provvisoria, in quanto suscettibile di evolversi a seconda che il debitore adempia o meno. Ed è proprio la provvisorietà che costituisce l'elemento rivelatore della causa di garanzia, e quindi della divergenza tra causa tipica del negozio prescelto e determinazione causale concreta, indirizzata alla elusione di una norma imperativa, qual è l'art. 2744 c.c.: le parti invero, adottando uno schema negoziale astrattamente lecito per conseguire un risultato vietato dalla legge, realizzano un'ipotesi di contratto in frode alla legge (art. 1344 c.c). In senso conforme si è espressa la sent. n. 2126-91.
In tale quadro, va quindi ribadito che è sanzionabile con la nullità, nei sensi suindicati, la vendita con patto di riscatto (o di retrovendita) che, risultando inserita in una più complessa operazione contrattuale, caratterizzata dalla sussistenza di un rapporto credito-debitorio tra venditore ed acquirente, sia piegata al perseguimento non già di un trasferimento di proprietà, bensì MOTIVI DELLA DECISIONE
di un rafforzamento, in funzione di subordinazione e di accessorietà rispetto al mutuo, della posizione del creditore, suscettivo di determinare la (definitiva) acquisizione della proprietà del bene in mancanza di pagamento del debito garantito, così realizzando il risultato giuridico ed economico vietato dall'art. 2744 c.c. (che, sotto tale profilo, integra quindi una norma materiale). Merita per contro un ulteriore approfondimento l'analisi degli elementi sintomatici idonei a denunciare la sussistenza di una operazione fraudolenta del tipo delineato. Al riguardo, più che l'indagine sull'atteggiamento soggettivo delle parti (valorizzata dalla sent. n.3800-83, non seguita, sul punto, dalle Sezioni Unite), sarà utile l'accertamento di dati obiettivi, quali la presenza di una situazione credito-debitoria (preesistente o contestuale alla vendita), e, soprattutto, la sproporzione tra entità del debito e valore del bene alienato in garanzia, di regola presente nelle fattispecie in esame e costituente significativo segnale di una situazione di approfittamento della debolezza del debitore da parte del creditore, che tende ad acquisire l'eccedenza di valore, così realizzando un abuso che il legislatore ha voluto espressamente sanzionare.
A conferma di ciò, deve considerarsi che l'illiceità è invece esclusa, pur in presenza di costituzioni di garanzie che postulano un trasferimento di proprietà, qualora queste siano integrate da schemi negoziali che il menzionato abuso escludono in radice, come avviene nel caso del pegno irregolare (art. 1851 c.c.), del riporto finanziario e del c.d. patto marciano, in virtù del quale al termine del rapporto si procede alla stima, ed il creditore, per acquisire il bene, è tenuto al pagamento dell'importo eccedente l'entità del credito. La ratio del divieto posto dall'art. 2744 c.c. risulta quindi desumibile argomentando a contrario dalla liceità delle figure ora menzionate.
Non vale opporre che sproporzione tra entità del credito e valore del bene, e conseguente abusiva appropriazione dell'eccedenza non sono espressamente richieste dall'art. 2744 c.c., potendosi replicare che il legislatore, nel formulare un giudizio di disvalore nei riguardi del patto commissorio, ha fondatamente presunto, alla stregua dell'id quod plerumque accidit, che in siffatta convenzione il creditore pretende di regola una garanzia eccedente l'entita del credito.
Appare quindi corretto ritenere che la sussistenza di una sproporzione tra valore del bene ed entità del credito possa offrire, in sede di indagine, uno degli indizi di maggior peso (sent. n. 736-77, in motivazione; sent. n. 776-60, in motivazione; sembrano invece svalutare tale elemento indiziario le sentenze n. 1611 e 1907 del 1989 delle Sezioni Unite, che peraltro richiamano proprio la sent. n. 736-77).
E non giova argomentare dalla disciplina generale dettata dall'art. 1448 c.c., per desumerne la sanzionabilità della sproporzione tra prestazioni soltanto mediante l'azione di rescissione, poiché resta da dimostrare la assoluta coerenza del sistema sanzionatorio previsto dal codice civile, nel quale si rinvengono ipotesi di tutela del contraente debole mediante l'irrogazione della nullità (artt. 1341, 1815, comma 2), e può opporsi che l'art. 2744 c.c. esprime una specifica valutazione legale di riprovevolezza del patto commissorio, in virtù della sua intrinseca elevata potenzialità - per frequenza di impiego e facilità di realizzazione - a determinare il rischio (presunto) di produrre effetti che l'ordinamento non consente, e che si risolvono, in definitiva, in un eccesso di garanzia per il creditore e di responsabilità patrimoniale per il debitore.
1.3. Ora, l'impugnata sentenza ha operato una pedissequa trasposizione dei principi affermati dalle menzionate sentenze delle Sezioni Unite n. 1611 e n. 1907 del 1989, in relazione alla vendita a scopo di garanzia risolutivamente condizionata, al contratto di lease back nella sua configurazione socialmente tipica, postulando la piena coincidenza tra le due figure, ed ha quindi formulato, in linea principale, un giudizio di nullità, ai sensi degli artt. 1344 e 2744 c.c., del contratto di lease back in quanto tale. In sostanza, tale figura contrattuale socialmente tipizzata integrerebbe uno schema negoziale coincidente, per struttura e funzione, con la fattispecie negoziale fraudolenta individuata dalle suindicate sentenze delle Sezioni Unite.
L'assunto non merita adesione. Secondo un'opinione largamente diffusa in dottrina, il contratto di lease back costituisce uno schema negoziale socialmente tipico - in quanto frequentemente applicato, sia in Italia che all'estero, nella pratica degli affari - contrassegnato da specificità di struttura e di funzione - e quindi. da originalità ed autonomia rispetto ai tipi negoziali legalmente tipici -, e rientrante tra i c.d. contratti di impresa. Con il contratto di sale and lease back (vendita con leasing di ritorno), nella sua configurazione socialmente tipica, un'impresa (o un lavoratore autonomo) vende un proprio bene (immobile o mobile), di natura strumentale per l'esercizio dell'impresa o dell'attività, ad una impresa di leasing, la quale lo concede contestualmente in leasing all'alienante, che corrisponde per l'utilizzazione del bene un canone ed ha la facoltà, alla scadenza del leasing, di riacquistare la proprietà esercitando un diritto di opzione, per un predeterminato prezzo.
Come tutti i contratti atipici, anche quello in esame presenta punti di contatto con figure negoziali tipiche, sicché, volendolo sezionare, ben si potrebbe ridurlo ad un mero assemblaggio di tipi legali (vendita; mutuo; locazione; opzione). Ma si tratterebbe, appunto, di un'operazione riduttiva, non rispettosa della funzione integratrice dell'ordinamento svolta dall'autonomia contrattuale nel settore dei traffici commerciali.
Unitariamente considerato, per converso, il lease back si configura come operazione economica complessa, rispondente ad una specifica esigenza, caratteristica dell'attività imprenditoriale (o di lavoro autonomo), e cioè all'esigenza del venditore-utilizzatore, nel quadro di un determinato disegno economico di potenziamento dei fattori produttivi di natura finanziaria, di ottenere con immediatezza liquidità, mediante l'alienazione di un suo bene strumentale - e quindi di norma funzionale ad un determinato assetto produttivo (si pensi ad un capannone industriale o ad altro bene inserito in uno specifico contesto produttivo) e pertanto non agevolmente collocabile sul mercato -, conservando di questo l'uso, e con facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto. È innegabile che, nella vita di un'impresa, siffatta esigenza può fisiologicamente manifestarsi, ove ricorra l'opportunità di smobilizzare precedenti investimenti sfruttando il valore di scambio degli strumenti di impresa, e di avvalersi della liquidità così ottenuta per finanziare riconversioni o acquisizioni di nuovi impianti tecnologici, continuando ad utilizzare, in leasing, il bene strumentale alienato con i relativi benefici fiscali, e riservando alla cessazione del rapporto la scelta tra il riacquisto del bene o la sua restituzione.
Nell'ambito di tale schema, caratterizzantesi come momento di normale svolgimento dell'attività di impresa, la vendita all'impresa di leasing non risulta quindi piegata a scopo di garanzia, quale accessorio di un preesistente o concomitante mutuo, ma costituisce necessario presupposto per la concessione del bene in leasing: non è quindi, come si è rilevato, una vendita a scopo di garanzia, bensì una vendita a scopo di leasing.
Le assonanze tra lease back e alienazione in garanzia collegata ad un mutuo sono indubbiamente consistenti, e potrebbero fondare un giudizio di piena assimilazione, qualora l'interprete si limitasse a porre a raffronto i due schemi negoziali astrattamente considerati. La diversificazione appare tuttavia apprezzabile, qualora si proceda al valutare il lease back come operazione economica tipizzata dal suo essere inserita in un contesto socio-economico ben definito, e cioè nella realtà dell'economia delle imprese (e vale precisare: delle imprese sane).
Non trascurabile rilievo, ai fini della tipizzazione dello schema, assumono quindi vari elementi, costituiti dalla qualità delle parti contraenti, di regola rappresentate da una impresa (o lavoratore autonomo) e da una impresa di leasing; dalla natura del bene, che deve essere strumentale per l'esercizio dell'impresa; dai criteri di determinazione del prezzo di vendita, dei canoni e del prezzo di opzione, di regola omogenei in una corretta contrattazione; dalla considerevole durata del rapporto; dalla conformità delle condizioni del contratto di utilizzazione del bene a quelle generalmente praticate per un leasing.
In conclusione, quindi, lo schema negoziale socialmente tipico del lease back presenta autonomia strutturale e funzionale, quale contratto d'impresa, e caratteri peculiari, di natura soggettiva ed oggettiva, che non consentono di ritenere che esso integri, per sua natura, e nel suo fisiologico operare, una fattispecie negoziale fraudolenta sanzionabile ai sensi degli artt. 1344 e 2744 c.c. (ovvero, quale negozio atipico, affetto da illiceità della causa concreta, ex art. 1343 c.c., per violazione di norma imperativa, e cioè dell'art. 2744 c.c.).
La fondatezza delle osservazioni svolte sul punto dalla ricorrente non consente tuttavia l'accoglimento del ricorso, atteso che l'impugnata sentenza ha svolto ulteriori considerazioni a sostegno della declaratoria di nullità, che, come sarà precisato più avanti, si sottraggono a censura.
2.1. Con il terzo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1344 e 2744 c.c., in relazione all'art. 1362 e seguenti c.c., nonché motivazione insufficiente, erronea e contraddittoria.
Deduce la ricorrente che erroneamente la corte d'appello avrebbe ulteriormente giustificato la declaratoria di nullità con riferimento ad una pretesa anomalia che il contratto di lease back in esame presentava in concreto - consistente in una sproporzione tra controprestazioni, causata dal versamento della sola metà del prezzo di vendita del capannone, restando la residua parte vincolata per due anni a garanzia del pagamento dei canoni, idonea a determinare, per la sua gravità, lo stravolgimento dei normali effetti del lease back -, sicché poteva desumersi una originaria posizione di debolezza del venditore, costretto a concludere una alienazione in garanzia in dispregio del divieto del patto commissorio.
Sostiene, infatti, che della quota di prezzo vincolata il venditore aveva la disponibilità, tanto è vero che vennero consentiti prelievi, e che indimostrate erano rimaste la situazione di debolezza del predetto e la preesistenza di crediti. 2.2. Il motivo non è fondato.
Giova premettere che anche il lease back, come qualsiasi altro contratto, può essere impiegato per scopi illeciti o fraudolenti, ed in particolare, in ragione della già ricordata indubbia assonanza tra schemi negoziali, a fini di violazione o di elusione del divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c. (ma di sola violazione sembra corretto parlare, poiché l'atipicità legale del contratto lo rende in concreto idoneo a perseguire scopi direttamente vietati da norme imperative, caratterizzandosi quindi come operazione economica a causa illecita ex art. 1343 c.c.).
Spetterà pertanto al giudice, con valutazione da eseguirsi caso per caso (come, d'altra parte, deve avvenire anche in relazione alle vendite soggette a condizione risolutiva, delle quali sia denunciato lo scopo di garanzia), stabilire se la concreta operazione economica si atteggi in modo tale da perseguire un risultato confliggente con il divieto posto dall'art. 2744 c.c.
A tal fine dovrà procedersi a riscontrare l'eventuale sussistenza di alterazioni dello schema negoziale socialmente tipico, idonee a denunciare che l'operazione non tende al perseguimento dell'assetto di interessi proprio del lease back come contratto di impresa, bensì al perseguimento di uno scopo d garanzia con caratteristiche integranti la realizzazione del risultato materiale vietato dall'art. 2744 c.c., avuto riguardo alla ratio del divieto, come sopra precisata sub n. 1.2.
Oltre all'assenza di uno o più degli elementi caratterizzanti di tipo soggettivo ed oggettivo sopra menzionati, il perseguimento di uno scopo di garanzia in violazione dell'art. 2744 c.c. potrà, quindi, essere denunciato dalle difficoltà economiche dell'impresa venditrice, legittimante il sospetto di un approfittamento della sua condizione di debolezza, nonché dalla concreta valutazione economica dell'affare, in termini di adeguata proporzionalità delle prestazioni corrispettive. Valutazione, questa, da condursi avuto riguardo ai criteri adottati per la stima del prezzo di vendita del bene strumentale (onde accertarne la corrispondenza a correnti valori di mercato, correlati, peraltro, alle peculiarità del bene strumentale ed alla sua eventuale ridotta commerciabilità), per la determinazione dei canoni del leasing (se in conformità alle tecniche proprie di siffatta figura contrattuale), e per la quantificazione del prezzo di opzione (se coerenti con il complessivo disegno economico perseguito).
Orbene, la corte territoriale, ad ulteriore supporto del suo giudizio di nullità del contratto in esame, ha affermato che esso integrava un lease back anomalo, in quanto, per il suo concreto atteggiarsi, perseguiva uno scopo primario di garanzia, in violazione dell'art. 2744 c.c. In particolare, ha rilevato la corte che l'operazione economica di cui trattasi non realizzava gli effetti normali del contratto di lease back, come socialmente tipizzato, e consistenti nell'assicurare ad una impresa liquidità, mediante alienazione di un bene strumentale, conservandone, in virtù di contestuale concessione in leasing, l'utilizzazione. E ciò in quanto, a fronte di un corrispettivo di L. 400.000.000 convenuto per la vendita del capannone, l'impresa di leasing aveva in effetti versato meno della metà della detta somma, essendo stato previsto, con apposita clausola, il deposito vincolato della somma di L. 215.814.566 presso un istituto di credito (azionista di controllo dell'impresa di leasing), a garanzia del pagamento dei canoni per le prime due annualità.
Nella specie, quindi, ha concluso la corte territoriale, il contratto di lease back risultava stravolto, poiché il ridotto conseguimento di liquidità ne aveva vanificato lo scopo, mentre la palese sproporzione tra le prestazioni denunciava una operazione economica da ritenersi conclusa, in pregiudizio di un contraente in difficoltà economiche, in violazione del divieto di patto commissorio.
Tali conclusioni resistono alle censure loro mosse. Lo stravolgimento del lease back correttamente risulta desunto dall'avvenuto versamento di una sola parte del prezzo, di poco inferiore alla metà, restando vincolata la residua quota a garanzia del pagamento dei canoni, in quanto idonea ad impedire il conseguimento di liquidità perseguito dal venditore e ad esaltare lo scopo di garanzia dell'operazione. Nè vale opporre che, successivamente, vennero consentiti prelievi parziali (per circa L. 70.000.000) dal fondo vincolato a garanzia del pagamento dei canoni, dovendosi avere riguardo, ai fini della valutazione di conformità del contratto al tipo sociale, al momento della conclusione del vincolo, come in effetti la corte territoriale ha fatto. Del pari corretta è la deduzione, in via presuntiva, dello stato di debolezza economica dell'impresa venditrice dall'accettazione di condizioni contrattuali sproporzionate.
3.1. Con il quarto motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1344 e 2744 c.c. in relazione agli artt. 1448 e 1467 c.c., nonché difetto di motivazione, la ricorrente deduce che erroneamente la corte d'appello avrebbe dichiarato la nullità del contratto in ragione della sproporzione fra prestazioni, potendo l'eventuale squilibrio tra controprestazioni determinare solo la rescissione o la risoluzione del contratto.
3.2. Il motivo non è fondato.
La ravvisata sproporzione è stata invero considerata dalla corte territoriale quale significativo indizio di violazione dell'art. 2744 c.c., sicché la nullità è stata correttamente pronunciata sotto MOTIVI DELLA DECISIONE
tale profilo.
Quanto alla rilevanza, ai fini della configurazione di un patto commissorio, di una sproporzione tra valore del bene e credito, è sufficiente richiamare le osservazioni precedentemente svolte sub n. 1.2.
4.1. Con il quinto motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1227 e 2056 c.c., nonché insufficiente, erronea e contraddittoria motivazione, la ricorrente si duole della condanna al risarcimento dei danni a favore dell'Ammendola, sia perché viziata da ultrapetizione, sia perché inficiata, nel merito, da erronea liquidazione equitativa. 4.2. Il motivo è infondato.
Va preliminarmente rilevato che, a fronte di generica domanda risarcitoria da parte dell'Ammendola, la corte territoriale ha interpretato detta domanda come diretta a conseguire il risarcimento dei danni conseguenti alla dedotta nullità del contratto, sicché infondata è la doglianza di ultrapetizione.
Circa i criteri di quantificazione del risarcimento, va osservato che la corte d'appello ha proceduto a liquidazione equitativa dei danni tenuto conto della presumibile incidenza negativa della mancata disponibilità dell'intera somma di L. 400.000.000 sulle iniziative economiche dell'impresa, e considerando altresì il concorrente comportamento colposo dell'Ammendola, e tale valutazione, correttamente e logicamente argomentata, si sottrae a censura in questa sede.
5.1. Con il sesto motivo, denunciando insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo, la ricorrente si duole della condanna alla restituzione della somma di L. 66.472.000, versata dall'Ammendola a titolo di canoni anticipati. Sostiene, infatti, che tale somma era stata direttamente trattenuta al momento della corresponsione del prezzo di acquisto del capannone, sicché nessun esborso vi era stato da parte dell'Ammendola.
5.2. Il motivo è inammissibile.
La corte d'appello ha invero fondato la sua pronuncia sull'affermata esistenza di un versamento della detta somma da parte dell'Ammendola (in tal senso si esprime la sentenza, sia nella parte motiva che nel dispositivo).
Ne consegue che, ove tale versamento fosse incontestabilmente escluso dagli atti e documenti di causa - come sembra postulare la ricorrente -, unico rimedio sarebbe la revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c.
6.1. Con il settimo motivo, denunciando insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo, la ricorrente addebita alla corte d'appello di non aver tenuto conto, nel computo delle somme che l'Ammendola era tenuto a restituire, della somma di L. 59.000.000 dal predetto prelevata dal deposito, in aggiunta a quella di L. 70.000.000 considerata dalla corte.
6.2. Il motivo è infondato.
La ricorrente introduce infatti, in sede di legittimità, una questione nuova, necessitante di accertamenti di fatto. 7. In conclusione, il ricorso va rigettato.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite.


P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Spese compensate.
Così deciso in Roma il 12.5.95.