Diritto Societario e Registro Imprese
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6270 - pubb. 01/08/2010
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Cassazione civile, sez. I, 02 Agosto 1995, n. 8468. Est. Rordorf.
Società - Di persone fisiche - Società semplice - Rapporti tra soci - Partecipazione ai guadagni e alle perdite - In genere - Socio d'opera - Presunzione di eguale obbligo di conferimento e di uguale partecipazione agli utili - Configurabilità - Esclusione.
La presunzione di eguale obbligo di conferimento del socio della società semplice e di eguale partecipazione del medesimo alla società, stabilita, in mancanza di patto contrario, dagli artt. 2253 e 2263 cod. civ., è esclusa per il socio d'opera la cui quota,in considerazione della particolare natura della prestazione d'opera, di per se variabile, perché, tra l'altro, legata a fattori personali destinati a modificarsi nel tempo, deve essere determinata dal giudice, ai sensi dell'art. 2263 cod. civ., con un giudizio equitativo che sappia tener conto degli elementi che di volta in volta caratterizzano la fattispecie. (massima ufficiale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Michele CANTILLO Presidente
" Giuseppe BORRÈ Consigliere
" Alessandro CRISCUOLO "
" Giulio GRAZIADEI "
" Renato RORDORF Rel. "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
Sig.ra MARIA MILANO, elettivamente domiciliata in Roma, largo S. Pio V, n. 16, presso l'avv. Alfonso Porretta, che la rappresenta e difende unitamente all'avv. Roberto Moroni del foro di Sanremo, giusta procura in calce al ricorso,
Ricorrente
contro
Il Sig. ANTONIO PIANA, elettivamente domiciliato in Roma, via Satrico, n. 65, presso l'avv. Luigi Fernandez, che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso,
Controricorrente
avverso la sentenza non definitiva n. 54-92 della corte d'appello di Genova, emessa il 21 gennaio 1992;
udita la relazione del consigliere dr. Rordorf;
uditi gli avvocati Moroni per il ricorrente e Fernandez per il controricorrente;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore generale dr. Domenico Nardi, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 13 novembre 1985, Antonio Piana convenne la propria moglie Maria Milano in giudizio dinanzi al tribunale di Sanremo per far accertare che un'azienda florivivaistica corrente in Bordighera sotto la denominazione "Piana Maria - Vivaio Eucaliptus e piante ornamentali di Milano Maria & C.", costituiva un bene comune ad entrambi i coniugi. Chiese altresì che fosse ordinato alla moglie di rendere il conto della gestione di detta azienda e che ella fosse condannata a corrispondergli quanto dovuto in base al rendiconto.
Radicatosi il contraddittorio, la Milano si difese sostenendo di essere titolare di diritti esclusivi sull'azienda a lei intestata. Chiese, in via riconvenzionale, che il Piana fosse condannato a restituirle le somme abusivamente prelevate su un conto corrente bancario cointestato ad entrambi i coniugi.
Il tribunale di Sanremo, premesso che le risultanze documentali della causa e le ammissioni dello stesso attore portavano ad escludere che l'azienda rientrasse nel regime di comunione legale tra i coniugi, respinse le domande del Piana perche ritenne indimostrato qualsiasi diritto dell'attore sull'azienda intestata alla moglie. In accoglimento della domanda riconvenzionale, il Piana fu invece condannato a corrispondere alla Milano la somma complessiva di L. 46.483.100, comprensiva di interessi e rivalutazione monetaria. La decisione del tribunale, a seguito di gravame proposto dal Piana, fu però parzialmente riformata dalla corte d'appello di Genova, con sentenza non definitiva emessa in data 21 gennaio 1992. La corte sottolineò, innanzitutto, l'esistenza di un primo, pur modesto, nucleo aziendale installato dal Piana per la coltivazione floreale in epoca anteriore al matrimonio con la Milano; osservò che solo in conseguenza del matrimonio la Milano era stata coinvolta nella suaccennata attività, la cui successiva espansione era da attribuire al contributo finanziario e lavorativo di entrambi i coniugi; ritenne quindi che il progressivo occultamento della posizione del Piana, impiegato alle dipendenze di un locale istituto di credito, fosse da imputare unicamente all'intento di eludere le censure dei dirigenti di detto istituto, fermamente contrari a che il dipendente svolgesse un doppio lavoro. La corte, pertanto, ravvisò un rapporto di continuità tra l'attività iniziale del Piana ed il successivo sviluppo dell'azienda intestata alla Milano, ed osservò inoltre che la cui sostanziale unità di detta azienda non poteva esser posta in dubbio dalla sua articolazione in una pluralità di strutture site in luoghi diversi. Quindi, tenuto conto della comune partecipazione all'attività dell'impresa ed ai relativi guadagni (almeno fin quando il rapporto personale tra i coniugi non si era guastato), nonché della conservazione del nome "Piana" nella denominazione dell'impresa e del fatto che in essa figurava espressamente la dizione "e C.", tipica delle attività societarie, la corte concluse per l'esistenza di una vera e propria società (definita occulta o di fatto) tra il Piana e la Milano, avente ad oggetto l'attività economica dell'azienda nel suo complesso. Escluse, perciò, qualsivoglia profilo d'inammissibilità nell'ampliamento del petitum della domanda del Piana anche ad impianti aziendali non specificamente indicati in primo grado ed, in applicazione della presunzione fissata dal secondo comma dell'art. 2253 c.c., dichiarò che la più volte menzionata azienda appartiene, in tutte le sue componenti, al Piana ed alla Milano in parti uguali, restando in ciò superata la problematica relativa alla prospettata simulazione di atti traslativi riguardanti detta azienda. Ferma restando la condanna del Piana a restituire alla moglie le somme indebitamente prelevate, (con ulteriori interessi e rivalutazione maturati nelle more del giudizio di gravame), fu perciò ordinato alla Milano di rendere il conto della gestione dell'impresa comune e gli atti furono rimessi all'istruttore per la prosecuzione del giudizio avente ad oggetto la resa del conto ed i provvedimenti conseguenti.
Contro tale sentenza è ricorsa in cassazione la Milano deducendo cinque distinti motivi di censura.
Ha resistito il Piana, depositando controricorso, cui la ricorrente ha replicato con una memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - Con il primo motivo di ricorso la Milano denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2135 e segg. e 2555 e segg., nonché degli artt. 1414 e 1417 c.c., oltre vizio di illogicità, contraddittorietà e mancanza della motivazione su punti decisivi della causa.
La ricorrente sostiene che la corte d'appello avrebbe sbagliato (e non sufficientemente motivato) nel dedurre la partecipazione del Piana all'impresa commerciale della moglie dal fatto che lo stesso Piana, prima ancora del matrimonio con la Milano, aveva impiantato da solo una piccola attività di floricoltura. Questa, secondo la ricorrente, sarebbe stata un'attività meramente agricola, che nulla avrebbe perciò avuto a che fare con la successiva impresa commerciale esercitata, in nome proprio, dalla Milano. Stabilendo un legame tra le due suindicate attività, la corte territoriale avrebbe, quindi, fatto mal governo delle norme che disciplinano e distinguono l'impresa agricola da quella commerciale; ed, inoltre, avrebbe trascurato di valutare le risultanze delle prove documentali ed orali, da cui era chiaramente emersa l'estraneità del Piana all'attività imprenditoriale della moglie, finendo così immotivatamente per accreditare un fenomeno simulatorio del quale era invece del tutto mancata in causa la dimostrazione.
La doglianza non ha fondamento.
La corte d'appello, con motivazione ampia ed esauriente, ha dato conto delle ragioni per le quali ha ritenuto esistente l'accennato vincolo di continuità tra la pur modesta attività di floricoltura inizialmente svolta dal solo Piana e la successiva attività imprenditoriale sviluppatasi sotto la denominazione di "Piana Maria - Vivaio Eucaliptus e piante ornamentali di Milano Maria". Lungi dal postulare apoditticamente tale richiamato vincolo di continuità, l'impugnata sentenza chiaramente indica gli elementi ritenuti a tal riguardo decisivi dal giudice di merito, che risiedono: a) in primo luogo, nel fatto che il nucleo aziendale originario impiantato dal Piana è ricompreso nell'azienda intestata alla Milano, la quale azienda non cessa tuttavia di risultare unica pur constando di strutture dislocate in luoghi diversi; b) in secondo luogo, nella mancanza, nei documenti prodotti, di qualsiasi dato indicativo di una reale diversificazione dei centri d'imputazione dei rapporti intersoggettivi facenti capo prima al Piana e poi, in apparenza, alla sola Milano; c) in terzo luogo, nella pretestuosità degli argomenti addotti nella corrispondenza con i clienti per giustificare la sostituzione della moglie al marito nella titolarità formale dell'attività; d) infine, nella volontà di conservare l'avviamento inerente all'azienda originaria del Piana, dimostrata dal mantenimento del cognome di quest'ultimo nella denominazione della più articolata impresa che pure risultava intestata alla Milano e si fregiava anche del cognome di lei.
Un tale convincimento, così compiutamente argomentato, non è censurabile in sede di legittimità. Non giova quindi sottoporre al vaglio della cassazione - come fa invece la difesa della ricorrente - altre possibili alternative letture del materiale probatorio. E neppure può sostenersi che, ragionando come ha fatto, la corte territoriale avrebbe violato o male applicato le norme dettate dal codice in tema d'impresa agricola e d'impresa commerciale. Il giudice d'appello, come s'è detto, ha semplicemente ravvisato un elemento di continuità tra l'attività di floricoltura esercitata in via individuale dal Piana, prima, e quella successivamente posta in essere dall'impresa di cui è formalmente titolare la Milano; ne' mai, del resto, era stato sostenuto in corso di causa che tra l'attività originaria e quella svolta successivamente al matrimonio, entrambe sicuramente aventi ad oggetto la floricoltura, vi fosse altro che una differenza meramente quantitativa. Ma, anche a voler ammettere che l'ampliamento dell'impresa abbia comportato il sopravvenire di un requisito d'industrialità prima non ravvisabile, ed abbia quindi implicato la trasformazione dell'impresa stessa da agricola in commerciale, non per questo ne risulterebbe inficiata l'affermazione secondo la quale l'attuale impresa deriva dal progressivo sviluppo del preesistente nucleo aziendale creato dal Piana: giacché la pretesa diversa natura dell'attività aziendale non postula affatto, sul piano logico, che l'ipotizzata trasformazione abbia anche comportato una soluzione di continuità nella titolarità dell'azienda trasformata; onde, anche in tal caso, resterebbero pur sempre pienamente valide le conclusioni che dalla suaccennata premessa storica la corte di merito ha tratto. Pertanto, una volta accertata la titolarità originaria in capo al Piana dei beni facenti parte del nucleo originario dell'azienda ora gestita dalla Milano, non essendo ne' postulato ne' dimostrato un qualche atto di trasferimento di quei beni in favore della Milano stessa, la configurazione dell'accaduto in termini di apporto societario, così come operata dalla corte territoriale, sembra persino ovvia. Onde si sottrae alle censure della ricorrente l'iter logico dell'impugnata sentenza: la quale, muovendo dalla già indicata premessa, ed avendo accertato l'esistenza di apporti diretti o indiretti di entrambi i coniugi all'attività dell'impresa, la prestazione da parte loro di attività, manuale o direttiva, nell'impresa stessa e la partecipazione sia dell'uno che dell'altra ai guadagni dell'attività commerciale rifluiti su un conto corrente ad entrambi intestato o sul quale, comunque, anche il Piana aveva titolo per operare, ne ha desunto l'esistenza di quell'affectio societatis che solo il successivo dissidio personale ha in seguito appannato; ed ha ravvisato, nella specie, una società di fatto la cui rilevanza nei rapporti interni non è inficiata dall'intento di uno dei soci di non apparire tale anche nei confronti dei terzi. Ragion per cui, difettando persino l'enunciazione di un eventuale successivo recesso o di altra causa di scioglimento del vincolo sociale facente capo al Piana, la conclusione cui la corte d'appello è pervenuta in proposito risulta perfettamente logica e condivisibile.
Il che basta a dimostrare come non sia affatto pertinente, in tale contesto, il richiamo operato dalla ricorrente alla disciplina della simulazione dei contratti e della relativa prova. Disciplina che ha comunque poco a che fare con la figura del socio occulto di una società di fatto, se non in quanto l'occultamento del socio sia eventualmente realizzato facendo ricorso a strumenti negoziali simulati: del che, nella specie, non si tratta, giacché la richiesta ed il rilascio di autorizzazioni amministrative intestate ad uno solo dei soci non configura certo un fenomeno di simulazione negoziale riconducibile alla previsione degli artt. 1414 e segg. c.c. o comunque rilevante nei rapporti interni tra i soci della società di fatto.
2. - Il secondo motivo di ricorso si richiama ancora alla figura giuridica della simulazione, perche con esso si lamenta che la corte non abbia dato peso ad un'eccezione di prescrizione sollevata dalla Milano con riguardo all'azione che il Piana avrebbe proposto al fine di far accertare la simulazione dell'intestazione dell'azienda ad essa Milano.
L'infondatezza dell'indicato motivo deriva, però, dalla non condivisibilità della premessa da cui esso muove: non essendo l'azione del Piana (al di la delle definizioni giuridiche più o meno correttamente da lui stesso adoperate) volta a far valere gli effetti di eventuali negozi dissimulati, bensì a far accertare una situazione in concreto corrispondente alla gestione in comune di un'impresa e, quindi, all'esistenza di una società di fatto. 3. - Con il terzo motivo la ricorrente denuncia come illogica e contraddittoria la motivazione dell'impugnata sentenza. Lamenta, in particolare, che la corte territoriale, al fine di suffragare l'assunto dell'esistenza di una società di fatto tra la Milano ed il marito, abbia senza ragione attribuito rilievo all'indicazione figurante su un certificato della Camera di commercio in data 21 agosto 1982, prodotto dal Piana, nel quale la denominazione dell'impresa della Milano era seguita dalla dizione "e C.". Con il che la corte genovese, secondo la ricorrente, oltre a trascurare immotivatamente altri elementi documentali di segno opposto, avrebbe finito per contraddire il suo precedente assunto in ordine al preteso occultamento della partecipazione del Piana alla società. Neppure questo motivo di gravame può però essere accolto: per l'assorbente considerazione che i rilievi formulati dalla corte territoriale in ordine alla predetta dizione figurante sul certificato rilasciato dalla locale Camera di commercio hanno, nell'economia dell'impugnata sentenza, un peso assolutamente marginale, non certo tale da mettere in dubbio il nucleo argomentativo che si è già dianzi riferito; sul quale soltanto, in definitiva, la decisione del giudice di merito si fonda, e rispetto al quale l'accenno alle risultanze del menzionato certificato camerale assume il valore di un mero (ma non necessario) rafforzamento, che ben potrebbe essere espunto - aderendo ai rilievi critici della ricorrente - senza in alcun modo incidere sulla saldezza delle conclusioni raggiunte.
4 - Per intendere compiutamente il quarto motivo di ricorso è indispensabile una breve premessa.
Occorre ricordare che, all'inizio della causa, il Piana aveva fatto riferimento, nelle sue domande, solo ad un'azienda corrente in Bordighera, via Iride n. 11, mentre in appello ha parlato di impianti siti in Vallecrosia, località Ramasso, in Bordighera, regione Borghi (o Sapergo), ed in località Selvadolce. La corte d'appello ha reputato che ciò non comportasse la formulazione di una domanda nuova, come tale non consentita dall'art. 345 c.p.c., bensì una MOTIVI DELLA DECISIONE
semplice ed ammissibile emendatio libelli, in quanto si sarebbe pur sempre trattato della medesima azienda, facente capo allo stesso imprenditore (individuale o collettivo che fosse). La ricorrente contesta tale assunto, obiettando che nulla consente di presumere la riconducibilità alla pretesa società di fatto di tutte le attività commerciali impiantate singolarmente da uno solo dei soci, ed in specie di quella in località Selvadolce. L'obiezione, sul piano processuale, non coglie però nel segno:
perché l'ammissibilità dell'ampliamento della domanda del Piana deriva linearmente dal fatto che, in tale domanda, è espressamente postulata l'unitarietà delle strutture aziendali sopra indicate, onde appare corretto sostenere che già nell'originario petitum, rivolto all'azienda nel suo complesso, fosse per almeno implicito ricompreso il riferimento all'insieme di dette strutture, ovunque dislocate.
La doglianza della Milano sottintende, peraltro, anche un profilo sostanziale, giacché la ricorrente afferma che dalle dichiarazioni rese dal Piana in sede di interrogatorio e dal suo atteggiamento processuale in primo grado si dedurrebbe addirittura la prova della infondatezza delle di lui pretese in ordine ad impianti aziendali diversi da quello di via Iride n. 11. E questo in quanto il Piana avrebbe cessato di partecipare all'attività florivivaistica sin dal 1982, cioè da epoca anteriore a quella in cui venne impiantata l'azienda di Selvadolce (ciò che, anzi, sarebbe avvenuto addirittura a causa gia intrapresa).
Ma la questione così prospettata, com'è evidente, attiene unicamente ad aspetti di fatto, dei quali non è dato in questa sede conoscere, avendo il giudice di merito congruamente motivato in ordine alla partecipazione del Piana all'impresa formalmente intestata alla Milano, nonché in ordine all'unicità di detta impresa - che ha infatti un'unica denominazione e come tale risulta essere stata iscritta alla Camera di commercio - alla quale naturalmente percio accedono tutte le acquisizioni aziendali successive.
5. - Il quinto ed ultimo motivo di ricorso esprime un'articolata censura all'affermazione del giudice di merito secondo cui, in difetto di prova del contrario, i conferimenti dei soci si presumerebbero uguali e del pari uguali, in conseguenza, dovrebbero considerarsi, nella specie, le rispettive quote di partecipazione in società.
La ricorrente obietta, in primo luogo, che la legge non presume l'uguaglianza dei conferimenti, ma piuttosto, in difetto di contrari accordi, la prescrive; in secondo luogo che, in concreto, le risultanze processuali offrirebbero ampio materiale da cui invece desumere il maggior valore dell'apporto all'impresa della Milano rispetto a quello del Piana, in ordine al quale sarebbe mancata ogni effettiva valutazione da parte della corte d'appello. Il primo dei due accennati profili di censura non ha pregio. L'art. 2253, secondo comma, c.c., nel fissare la presunzione secondo cui i soci, in difetto di diverso patto, sono obbligati a conferimenti di pari valore, per ciò stesso fonda anche la presunzione di pari partecipazione (sempre, ovviamente, in mancanza di diversa indicazione del contratto sociale) di ciascun socio alla società. Tale partecipazione, infatti, trova la sua misura appunto nell'entità del conferimento cui il socio si è obbligato, e se poi quest'obbligo resti in tutto o in parte inadempiuto, ciò non vale a modificare la misura dell'anzidetta partecipazione, ma tutt'al più apre la strada ad eventuali iniziative volte a costringere il socio moroso all'adempimento o a provocarne l'esclusione dalla società. Vero è però - e con questo si passa al secondo aspetto della censura formulata dalla ricorrente - che la norma da ultimo menzionata dev'esser letta avendo riguardo anche a quanto dispone il successivo art. 2263, il quale ribadisce la presunzione (semplice) di pari valore dei conferimenti e ne fa scaturire un'analoga presunzione di pari diritto di ciascun socio nella partecipazione agli utili ed alle perdite, ma poi (al secondo comma) aggiunge che la parte spettante al socio d'opera, se non determinata nel contratto, è fissata dal giudice secondo equità.
La ragione di quanto disposto dal citato secondo comma dell'art. 2263 (che ha apportato un significativo mutamento rispetto a quanto stabiliva l'abrogato codice di commercio, in forza del quale la partecipazione del socio d'opera nei guadagni e nelle perdite era equiparata a quella di colui che nella società avesse conferito la somma o porzione minore) risiede - a giudizio della corte - non solo nell'illogicità di una presunzione di pari valore che accomuni prestazioni per loro natura invece assai diverse, quali sono quelle di capitale e di prestazione d'opera, ma altresì nell'obiettiva ben maggiore variabilità del valore di una prestazione d'opera, che sovente è legato a fattori di carattere personale, suscettibili, oltre tutto, di modificarsi nel corso del tempo. Il che spiega come la valutazione a mezzo di un criterio presuntivo ed astratto, ove le parti non vi abbiano convenzionalmente provveduto nel contratto sociale, appaia in tal caso assai meno plausibile di quanto non lo sia rispetto ai conferimenti di capitale: donde la necessità di provvedervi, ad opera del giudice, con un giudizio equitativo che sappia tener conto degli elementi da cui di volta in volta la fattispecie è caratterizzata.
Stando così le cose, ed avendo posto la premessa secondo cui, nel presente caso, il Piana e la Milano hanno entrambi conferito in societa (anche) le rispettive prestazioni d'opera, non avrebbe potuto la corte d'appello stabilire la misura della partecipazione societaria del Piana unicamente in base al suaccennato criterio presuntivo di parità dei conferimenti. Se tale presunzione può valere per la parte dei conferimenti di capitale imputabile ai due menzionati soci, altrettanto non è a dirsi - come s'è chiarito - per i conferimenti d'opera; e ciò comporta la necessità di valutare, con il metro di un giudizio equitativo che dev'essere però congruamente motivato in rapporto alle specifiche circostanze del caso concreto, se ed in qual misura anche i conferimenti d'opera effettuati dal Piana e dalla Milano siano paritetici o quale sia, altrimenti, il loro rispettivo valore e quale, di conseguenza, l'entità della quota di partecipazione spettante al Piana nella società.
6. - Con riferimento al solo motivo di gravame da ultimo esaminato l'impugnata sentenza della corte d'appello di Genova dev'essere quindi cassata, con rinvio ad altra sezione della stessa corte, la quale si atterrà al principio di diritto sopra enunciato e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M.
La corte:
respinti i primi quattro motivi del ricorso proposti da Maria Milano, accoglie il quinto, e pertanto cassa l'impugnata sentenza della corte d'appello di Genova, con rinvio ad altra sezione della stessa corte anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso, in Roma, il 19 aprile 1995.