Diritto Societario e Registro Imprese
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6248 - pubb. 01/08/2010
L'oggetto sociale determinato o determinabile è elemento essenziale dell'atto costitutivo di una società occulta avente oggetto commerciale
Cassazione civile, sez. I, 30 Gennaio 1995, n. 1106. Est. Sgroi.
Società - Di persone fisiche - Società irregolare e di fatto - In genere - Società occulta avente oggetto commerciale - Oggetto sociale determinato o determinabile - Elemento essenziale dell'atto costitutivo - Configurabilità.
Costituisce elemento essenziale dell'atto costitutivo di una società occulta avente oggetto commerciale, ai sensi dell'art. 2295 n. 5 cod. civ., in relazione agli art. 2249, primo comma, e 2297 stesso codice, l'oggetto sociale, che deve essere determinato o determinabile (art. 1346 cod. civ.). (massima ufficiale)
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Michele CANTILLO Presidente
" Renato SGROI Rel. Consigliere
" Giancarlo BIBOLINI "
" Ernesto LUPO "
" Enrico ALTIERI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
PARISI MARIA CRISTINA, PARISI MAURIZIO, PARISI PIERALBERTO E PARISI TIZIANA, figli ed unici eredi del defunto notaio Pasquale Parisi, elettivamente domiciliati in Roma Via di Porta Pinciana n. 6 c-o l'Avv. Carlo Maria Barone che li rappresenta e difende per delega a margine del ricorso;
Ricorrenti
contro
FALL.TO SOCIETÀ DI FATTO "DE PASQUALE FILIPPO, SICA MICHELE, MASINI BENEDETTO, ROMITO MICHELE E PARISI PASQUALE", nonché del Fallimento dei singoli soci, in persona del curatore Gaetano Vignola, elettivamente domiciliato in Roma Via degli Scipioni, 268-A c-o l'Avv. Domenico Battista, rappresentato e difeso dall'Avv. Lucio Riccardi per delega a margine del controricorso;
Controricorrente
e contro
COOP. OLIMPIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via Cavour n. 101 c-o l'Avv. Roberto Forlani, rappresentata e difesa dall'Avv. Tommaso Siciliani per delega a margine del controricorso;
Controricorrente
e contro
FILIPPO DE PASQUALE, elettivamente domiciliato in Roma Corso V. Emanuele, 142 c-o l'Avv. Basilio Forti, rappresentato e difeso dall'Avv. Domenico Conserva per delega in calce al controricorso;
Controricorrente
e contro
MICHELE SICA, BENEDETTO MASINI, MICHELE ROMITO, BERARDINO DIANA, FRANCESCO TAMMA, FILIPPO TAMMA, ADA MARIA ROSARIA CASTOLDI ved. Tamma, FRANCESCO PAOLO DIANA, MARIO TAMMA, FRANCESCO PAOLO TAMMA, GAETANA TAMMA, MARGHERITA FERRARA, BARTOLOMEO CAPOCHIANI DE JUDICIBUS, ANGELA CAPODICHIANI DE JUDICIBUS, BARTOLOMEO CAPOCHIANI DE JUDICIBUS, quale procuratore di PATRIZIA ARGNANI e di ALESSANDRA ARGNANI, FELICE D'AUCIELLO;
Intimati
E sul secondo ricorso n. 2538-93 proposto
DA:
SICA MICHELE, MASINI BENEDETTO e i sig.ri VENEZIANI DOROTEA, ROMITO VITO E ROMITO MARIA, quali eredi di Romito Michele, elettivamente domiciliati in Roma Via Dell'Olmata, 30 c-o l'Avv. Pasquale Cippone, rappresentati e difesi dall'Avv. Andrea Violante per delega a margine del ricorso;
Ricorrenti
contro
EALL.TO SOCIETÀ DI FATTO "DE PASQUALE FILIPPO, SICA MICHELE, MASINI BENEDETTO, ROMITO MICHELE E PARISI PASQUALE" nonché del Fall.to dei singoli soci, in persona del curatore Gaetano Vignola, ut sopra;
Controricorrente
e contro
FILIPPO DE PASQUALE, ut sopra;
Controricorrente
e contro
FERRARA MARGHERITA, CAPODICHIANI DE JUDICIBUS ANGELA E CAPOCHIANI DE JUDICIBUS BARTOLOMEO in proprio e quale procuratore di patrizia e ALESSANDRA ARGNANI, PARISI MARIA CRISTINA, PARISI MAURIZIO, PARISI PIERALBERTO, PARISI TIZIANA, quali eredi del Notaio Parisi Pasquale, FRANCESCO TAMMA, FILIPPO TAMMA, CASTOLDI ADA MARIA ROSARIA ved. Tamma, DIANA BERARDINO E DIANA FRANCESCO PAOLO; curatela del FALL.TO DE PASQUALE FILIPPO in persona del curatore Gaetano Vignola;
Intimati
avverso la sentenza 862-92 della Corte di Appello di Bari dep. il 5.12.1992;
udita la relazione della causa svolta dal Consigliere Relatore Dott. Sgroi nella pubblica udienza del giorno 27.9.1994;
udito per il ricorrente (ricorso n. 2439-93) l'Avv. C. M. Barone;
per l'altro ricorrente (Ricorso n. 2538-93), l'Avv. A. Violante che chiedono l'accoglimento ognuno del proprio ricorso;
udito per i resistenti gli Avv.ti L. Riccardi e D. Conserva che chiedono il rigetto;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Cinque che conclude per il rigetto di entrambi i ricorsi. (N.D.R.: La discordanza fra i nomi delle Parti citate nell'intestazione e nel testo della sentenza è nell'originale della sentenza).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 30 giugno - 1 luglio 1980 il Tribunale di Bari dichiarava il fallimento dell'imprenditore edile Filippo De Pasquale, con uffici in Bari e Bitonto. A seguito di esposti del De Pasquale e di relazioni del curatore avv. G. Vignola, lo stesso Tribunale (applicando l'art. 147 legge fall.) con sentenza del 9 giugno 1983 dichiarava il fallimento della società di fatto fra il fallito Filippo De Pasquale e Michele Sica, Michele Romito, Benedetto Masini, nonché il notaio Pasquale Parisi e dei singoli soci, ritenendo che la suddetta società di fatto aveva avuto ad oggetto l'attività edilizia mascherata dal comodo paravento di innumerevoli cooperative edilizie con scopo mutualistico a senso unico (in modo, cioè, che ogni utile, invece di riversarsi sui soci, era indirizzato verso il predetto gruppo di operatori) col costante e fattivo apporto del notaio Parisi.
Avverso detta sentenza proponevano opposizione tutti i suddetti falliti; il Tribunale di Bari, con sentenza 13 novembre 1990, rigettava le opposizioni e l'appello dei predetti veniva respinto dalla Corte d'appello di Bari con sentenza 5 dicembre 1992. Hanno proposto separati ricorsi per cassazione:
a) Maria Cristina, Maurizio, Pieralberto e Tiziana Parisi (figli ed eredi del defunto Pasquale Parisi), notificato al curatore fallimentare, a Filippo De Pasquale, alla Cooperativa Olimpia, a Francesco Tamma, a Filippo Tamma, ad Ada Maria Rosaria Castoldi ved. Tamma, a Bernardino Diana, a Francesco Paolo Diana, a Mario Tamma, a Francesco Paolo Tamma, a Gaetana Tamma, a Margherita Ferrara, a Bartolomeo Capodichiani De Judicibus, ad Angela Capodichiani De Judicibus, a Bartolomeo Capodichiani De Judicibus, in proprio e quale procuratore di Alessandra Argnani, a Felice D'Auciello. Hanno resistito con controricorso: il Fallimento della società di fatto "De Pasquale Filippo, Sica Michele, Masini Benedetto, Romito Michele e Parisi Pasquale", nonché il fallimento dei singoli soci, in persona del curatore avv. Gaetano Vignola; Filippo De Pasquale; la Cooperativa Olimpia soc. a.r.l..
Tutti gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
b) Michele Sica, Benedetto Masini e Veneziani Dorotea, Vito Romito e Maria Romito (gli ultimi tre quali eredi di Michele Romito), notificato al curatore fallimentare, a Margherita Ferrara, ad Angela Capodichiani De Judicibus, a Bartolomeo Capodichiani De Judicibus, in proprio e quale procuratore di Patrizia ed Alessandra Argnani, a Filippo De Pasquale, ai Parisi; alla Cooperativa olimpia soc. a r.l.;
a Francesco Tamma, a Filippo Tamma, a Ada Maria Rosaria Castoldi ved. Tamma, a Diana Bernardino, a Diana Francesco Paolo; alla curatela del Fallimento Filippo De Pasquale.
Hanno resistito con controricorso: il Fallimento della Società di fatto "De Pasquale Filippo, Sica Michele, Masini Benedetto, Romito Michele e Parisi Pasquale", nonché il fallimento dei singoli soci, in persona del curatore avv. Gaetano Vignola; Filippo De Pasquale; la soc. a r.l. Coop. Olimpia.
Tutti gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva, in questa sede.
Il curatore del fallimento ed il De Pasquale hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I due ricorsi, proposti contro la medesima sentenza, devono essere riuniti, ai sensi dell'art. 335 c.p.c..
I) Ricorso n. 2439-93 dei Parisi.
Col primo motivo, i Parisi denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 18 r.d. 16 marzo 1942 n. 267 e dell'art. 105 c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3 e 19 medesimo r.d., nonché omessa o quanto meno insufficiente motivazione su punti decisivi osservando che - avendo dedotto l'esistenza di un preteso credito nei confronti di Masini, Romito e Sica, per danni dai medesimi assertamenti determinati durante il periodo in cui erano stati amministratori della soc. Olimpia - quest'ultima ha fatto valere una posizione prive di attualità, perché basata sull'aspirazione al riconoscimento giudiziale di crediti di assai difficile configurazione e, comunque, non collegata alle ragioni invocate dalla curatela, concernenti l'esistenza della società di fatto fra De Pasquale, Masini, Romito, Sica e Parisi, nonché la loro qualità di soci illimitatamente responsabili. E poiché il presunto, futuro ed incerto credito della Cooperativa verso Masini, Romito e Sica si riferiva a responsabilità attribuite ai medesimi non come soci (e-o del notaio), ma come amministratori della cooperativa (estranea al fallimento), l'accertamento della società ed il riscontro delle finalità in ipotesi perseguite dai soci in nessun caso potevano dare fondamento ad un'azione di responsabilità, basata sulle asserite irregolarità commesse dai suoi amministratori. Inoltre, essendo stati dichiarati i fallimenti personali di Masini, Sica e Romito, l'eventuale riconducibilità della pretesa della cooperativa all'art. 105 c.p.c. poteva essere - al più - verificata con riferimento a siffatti fallimenti e non certo con riguardo a quello del Parisi e-o della società di fatto.
In definitiva, secondo i Parisi, la Coop. Olimpia, non essendo titolare di alcuna posizione creditoria certa, attuale e definitiva nè nei confronti dei suoi ex amministratori, ne' nei riguardi della società di fatto ritenuta sussistente, ne tanto meno verso il notaio, si poneva come un quisquis de populo rispetto al giudizio proposto da quest'ultimo, privo quindi di titolo per intervenirvi, attesa anche l'obiettiva impossibilità di ricondurre la situazione dedotta nell'ambito della fattispecie delineata dall'art. 105, 2 comma c.p.c..
Il motivo è infondato.
L'intervento adesivo dipendente, contemplato dall'art. 105 comma 2 c.p.c. non richiede la titolarità di un diritto nei confronti delle parti originarie del processo, ma è consentito in presenza di un interesse giuridicamente rilevante ad un esito della controversia favorevole alla parte adiuvata (Cass. 11 luglio 1988 n. 4570). Il terzo interveniente deve presentarsi come titolare di un rapporto giuridico connesso con quello dedotto in lite da una delle parti originarie contro l'altra o da esso dipendente; connessione o dipendenza che comporta un pregiudizio del diritto di cui al terzo si asserisca titolare, nell'ipotesi di soccombenza della parte originaria adiuvata (Cass. 12 aprile 1983 n. 2575).
Pertanto, è irrilevante che la Cooperativa non sia titolare di un diritto attuale nei confronti del Parisi, dato che essa pretende (e la mera postulazione è sufficiente al riguardo) di essere stata danneggiata dai suoi amministratori passati, mediante la costituzione di quella società di fatto (tramite la quale si perseguivano interessi personali di quegli amministratori) di cui faceva parte secondo l'assunto anche il Parisi. Invero, l'oggetto del giudizio è la conferma o la revoca della dichiarazione di fallimento di quella società, a sua volta dipendente dall'accertamento della sua sussistenza, di guisa che la sentenza emananda farà stato necessariamente nei confronti anche del preteso socio Parisi (ed ora dei suoi eredi).
La Cooperativa intervenuta ha interesse a dimostrare l'esistenza di detta società, perché anche da essa dipende la fondatezza della sua pretesa contro i suoi ex amministratori; e non ha rilievo il fatto che non vi sia alcun rapporto diretto fra la Cooperativa ed il Parisi. Se la società sarà dichiarata inesistente, la Cooperativa sarà pregiudicata nella tutela delle sue pretese suddette; e poiché la sentenza del 1983, che ha dichiarato il fallimento sociale, coinvolge anche il Parisi, la cui opposizione è stata riunita a quella degli altri (asseriti) soci che hanno (asseritamente) danneggiato la Cooperativa, l'intervento è stato legittimamente spiegato anche nei confronti del Parisi, perché il giudizio di opposizione ha per oggetto "quella" particolare società, costituita da "quei" soci (vedi infra).
Con il secondo motivo i Parisi deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 31 e 147 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, 99 e 737 c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3 stesso codice, nonché omessa o insufficiente motivazione su punti decisivi, osservando che la c.d. estensione del fallimento non è affatto una procedura speciale e sommaria, ma un vero e proprio procedimento giurisdizionale, anche se promosso d'ufficio, per cui deve escludersi che l'istanza di estensione proposta dal curatore abbia solo la funzione di sollecitare il potere d'ufficio del Tribunale; quando l'istanza è proposta da uno dei soggetti legittimati, il procedimento e ad iniziativa di parte, con applicazione soltanto delle regole ad esso relative (nella specie, procedimento ad istanza del curatore) e non di quelle del procedimento d'ufficio.
La domanda del curatore di cui all'art. 147 legg. fall. deve quindi, essere autorizzata dal giudice delegato, per cui nella specie il curatore (che non era stato autorizzato) difettava di capacità processuale, con conseguente nullità della sentenza. Il motivo è infondato.
A parte l'osservazione che nella sentenza impugnata è detto che MOTIVI DELLA DECISIONE
la sentenza "di estensione" del 1983 è stata pronunciata anche a seguito di "esposti" (e ciò su domanda) del fallito (v. Corte Cost. n. 127 del 1975), si osserva che la disposizione dell'art. 31 secondo comma della legge fall., secondo cui il curatore non può stare in giudizio senza l'autorizzazione scritta del giudice delegato (salve le eccezioni ivi previste) non si attaglia alla "domanda" del curatore di cui all'art. 147 secondo comma, che riguarda non un giudizio promosso dal curatore (o da lui subito, come convenuto) nei riguardi dei terzi, ma lo stesso atto iniziale della procedura, e cioè la sentenza dichiarativa del fallimento, nel senso che sarà chiarito infra, che deve contenere i requisiti di cui all'art. 16 legge fall., fra cui la nomina del curatore (art. 148) e del giudice delegato e cioè l'istituzione dell'ufficio fallimentare. Sarebbe veramente assurdo che tale tipo di procedimento, istitutivo della procedura fallimentare contro il socio illimitatamente responsabile (non noto e poi scoperto) dovesse essere condizionato da un'autorizzazione del giudice delegato già precedentemente nominato per il fallimento della società (ovvero dell'imprenditore a torto ritenuto individuale, ma in realtà "collettivo" secondo l'interpretazione da dare all'art. 147 secondo comma). La "domanda" di cui all'art. 147 non è niente di più che una sollecitazione al Tribunale, perché attuì la regola della responsabilità illimitata dei soci, nei fallimenti delle società a cui si riferisce il predetto art. 147. L'autorizzazione sarà necessaria nel giudizio di opposizione ex terzo comma, ma non prima. Col terzo motivo, i Parisi denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 16, 147, 149 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, 2266, 2267 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.; nonché omessa o insufficiente motivazione su punti decisivi, osservando:
A) I precedenti giurisprudenziali (a cui si è richiamata la Corte d'appello) secondo cui è applicabile l'art. 147 legge fall. allorché dal fallimento del singolo si passi a quello della società successivamente accertata, non sono condivisibili, perché l'art. 147 è norma di carattere eccezionale, insuscettibile di analogia, in quanto disciplina solo l'ipotesi in cui, dopo l'accertamento dell'insolvenza e la dichiarazione di fallimento di una società, si scopra l'esistenza di soci illimitatamente responsabili, mentre il fenomeno che viene ricondotto al cit. art. 147 è considerato dall'art. 149, che detta la regola secondo cui dal fallimento del socio non si possa risalire a quello della società;
B) L'applicazione dell'art. 147, in luogo dell'art. 149, non può giustificarsi affermando che questo si riferisce all'ipotesi in cui il socio fallisce per l'esercizio di un'attività autonoma, distinta da quella esercitata dall'impresa (sociale). Infatti (a parte il rilievo che l'assunto è inattendibile, perché introduce nella previsione dell'art. 149 legge fall. elementi ad essa estranei) nella specie i punti di riferimento della sentenza sono, da un lato, l'imprenditore individuale De Pasquale, costruttore edile, operante quale singolo, e dall'altro la presunta società occulta svolgente anch'essa attività edilizia, per cui, per escludere l'applicabilità dell'art. 149 non bastava affermare che l'imprenditore individuale agiva mediante struttura sociale, ma era necessario dimostrare che - malgrado la originaria e persistente differenza soggettiva degli operatori - l'attività iniziata e svolta in proprio dal De Pasquale si identificava in tutto e per tutto, anche sotto il profilo temporale, con quella attribuita alla società occulta, dichiarata fallita (senza accertamento dello stato d'insolvenza) tre anni dopo. L'omissione di tale dimostrazione è tanto più grave, in quanto la Corte barese non ha spiegato come si potessero imputare all'asserita società occulta attività ed obbligazioni del De Pasquale, in assenza di qualsiasi elemento idoneo ad evidenziare che il medesimo o altri presunti soci illimitatamente responsabili avessero disimpegnato la prima ed assunto le seconde in nome e per conto della fantomatica società; il difetto di tale contemplatio societatis, oltre ad imporre l'applicazione dell'art. 149 legge fall., precludeva anche l'utilizzazione dell'art. 147, non sussistendo identità di ragione fra la medesima ed i soci occulti;
C) Se la vicenda rientra nella previsione dell'art. 149, l'accertamento dell'insolvenza della società era imprescindibile; se si ritiene di applicare l'art. 147, l'accertamento dell'insolvenza della società era necessario perché: 1) la verifica della sussistenza dell'insolvenza deve essere condotta con riferimento alla situazione in atto al momento della dichiarazione di fallimento; 2) l'art. 147 non prevede alcuna estensione del fallimento già dichiarato, ma dispone che si dichiari altro fallimento, la cui funzione è quella di individuare un nuovo soggetto obbligato nei confronti dei creditori; le dichiarazioni di fallimento producono effetti ciascuna dalla data in cui è resa, con esclusione di qualsiasi retroattività; 3) i vari fallimenti pronunciati in base all'art. 147, pur essendo riuniti per l'identità di alcuni organi, hanno vita autonoma e separate masse attiva e passiva. Pertanto, i presupposti e le condizioni del fallimento della pretesa società occulta andavano accertati alla data del 9 giugno 1983 e non potevano identificarsi, retroattivamente, con quelli accertati con riferimento al solo imprenditore individuale De Pasquale il 1 luglio 1980. Osservavano, ancora, i ricorrenti che per l'imputabilità delle obbligazioni alle società non iscritte è necessario che i soci abbiano agito in nome e per conto delle medesime; di modo che, quando la menzionata contemplatio manca, come accade per definizione nelle società occulte, le obbligazioni dei soci non possono che rimanere a loro carico, determinando, in caso di insolvenza dei medesimi, solo il fallimento di essi e non anche quello delle società occulte; se le obbligazioni assunte dal De Pasquale, senza spendita da parte di nessuno del nome della società occulta erano e sono rimaste a carico di esso imprenditore, anche la sua insolvenza restava circoscritta alla sfera personale del medesimo debitore, con conseguente impossibilità di essere posta a fondamento del non consentito fallimento della società occulta di fatto, in quanto dichiarato in difetto di obbligazioni alla stessa imputabili e del correlativo stato di insolvenza.
Il Collegio osserva che non mancano - nel terzo motivo - osservazioni fondate, che saranno riprese nel più ampio discorso che sarà condotto in sede di esame degli ultimi tre motivi (quale è quella della necessaria identità, ai sensi dell'art. 147 secondo comma c.c., fra l'impresa individuale già dichiarata fallita e l'impresa della società occulta successivamente scoperta e poi dichiarata conseguenzialmente fallita), ma che l'impostazione fondamentale del motivo non può accogliersi.
In caso di insolvenza della società, la sentenza che ne dichiara il fallimento produce anche (art. 147, comma 1 legge fall.) il fallimento dei soci illimitatamente responsabili. L'art. 147, al secondo comma dispone il fallimento dei soci l'esistenza dei quali "non risultava" al momento della dichiarazione del fallimento sociale; l'esistenza dei quali - cioè - è stata scoperta (su istanza degli altri soci o dei creditori o del curatore o, infine, d'ufficio) nel corso della procedura fallimentare. La legge, quindi, prevede in modo espresso il fallimento dei soci "occulti" nonostante che i creditori sociali (appunto perché si trattava di socio occulto) non potevano aver fatto affidamento sulla sua responsabilità, e ciò anche se la dichiarazione del suo fallimento (ed il conseguente concorso sul suo patrimonio dei creditori della società) lede le aspettative dei suoi creditori personali. L'art. 147 secondo comma, che riguarda in modo espresso il socio occulto di una società palese (cioè manifesta ai terzi, mentre occulta è soltanto l'esistenza di un altro o di più altri soci) non può considerarsi norma di carattere eccezionale, perché anzi applica - in sede fallimentare - il principio che è immanente nelle società con soci a responsabilità illimitata (a cui si riferisce la norma): quello sancito dall'art. 2291 e dell'art. 2297, che lo conferma per le società non iscritte: la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci. Esso, pertanto, è suscettibile di interpretazione analogica, applicandosi anche al caso di socio occulto di società occulta. È questo il caso dell'imprenditore che agisce, nei rapporti con i terzi, come imprenditore individuale, ma che ha un rapporto occulto (destinato, cioè, a non apparire nei confronti dei terzi) con uno o più soci. Allora chi agisce nei rapporti con i terzi non esteriorizza la società (e quindi non ne può spendere il nome); ma i terzi possono provare che i debiti assunti, in proprio nome da un imprenditore apparentemente individuale, sono debiti di una società della quale egli è l'amministratore (che tratta con i terzi) ed invocare la responsabilità illimitata e solidale degli altri soci, chiedendone il fallimento.
Pertanto, a siffatta situazione non si attaglia l'art. 149, che, per non contravvenire ai principi dei citati articoli 2291 e 2297 c.c., non può che riguardare la diversa ipotesi del socio (di una società regolata dal principio della responsabilità illimitata dei suoi soci) che fallisce per una propria personale attività imprenditoriale, distinta da quella della società. Si vedrà, infra, che l'esame della sentenza impugnata non esclude affatto (e pertanto essa deve essere cassata) l'esistenza di tale situazione, nella specie concreta (come accertata dal giudice del merito). Ma, sul presupposto (che qui si dà per ammesso, salva la sua verifica, di cui infra) affermato dalla sentenza impugnata, dell'identità dell'attività imprenditoriale del soggetto che agisce come individuo (ma in realtà è legato da un rapporto occulto con uno o più soci) e della suddetta società occulta, sarebbe assurdo applicare l'art. 149, e cioè esonerare dal fallimento i soci occulti, trattandoli in modo diverso dai soci occulti di società palese (ai quali pacificamente si applica invece l'art. 147 secondo comma).
L'imprenditore individuale solo apparentemente tale, ma in realtà socio di una società occulta, se è dichiarato fallito, non può che provocare il fallimento della società mantenuta segreta e, quindi, di tutti i soci, ancorché occulti (art. 147 primo comma). Deve quindi confermarsi l'indirizzo - assolutamente prevalente in giurisprudenza - (da ultimo, Cass. 6 giugno 1975 n. 2238; 17 marzo 1976 n. 977; 28 luglio 1977 n. 3371, etc.) secondo cui, se dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore apparentemente individuale, risulti che egli era socio di una società di fatto, anche occulta, deve essere dichiarato il fallimento della società, con l'effetto che tale nuova dichiarazione non comporta la sostituzione di altri soggetti all'imprenditore individuale già dichiarato fallito, ma la sola individuazione di altri soggetti da sottoporre alla medesima procedura.
Ed è vero che tale successiva dichiarazione di fallimento ha effetti ex nunc (per esempio ai fini dell'azione revocatoria: Cass. 10 agosto 1991 n. 8757); ma - appunto - si tratta di effetti. Quanto alle cause, cioè all'insolvenza, essa è quella già accertata nei confronti dell'imprenditore apparentemente individuale, ma in realtà fallito come socio di una societa occulta, perché l'insolvenza della società occulta è la stessa insolvenza dell'imprenditore apparentemente individuale gia dichiarato fallito (e non occorre provare l'insolvenza personale dei soci occulti, perché il loro fallimento è conseguenza automatica del fallimento sociale: art. 147 primo comma). Come è stato acutamente notato in dottrina, la automatica soggezione a fallimento del socio occulto, per effetto dell'insolvenza già accertata nei confronti dell'altro socio, mira a costringere il primo socio a pagare i debiti, prima della dichiarazione di fallimento della società ed al fine di evitarne il fallimento. Invero, se il socio occulto fallisse solo a seguito dell'autonomo accertamento della sua personale insolvenza, egli tenderebbe a non intervenire, quando la società diventa insolvente, per pagare i debiti sociali, confidando di non essere scoperto. Con ciò sarebbe frodato il principio di legge della sua responsabilità illimitata e personale.
Naturalmente, occorre l'identità dell'impresa: se l'imprenditore individuale (già dichiarato fallito) fosse titolare di una propria impresa e socio occulto di un'altra impresa (nel senso che sarà chiarito infra), si dovrà accertare l'autonoma insolvenza della società occulta (Cass. 11 gennaio 1958 n. 68) e verificare se fra i crediti fatti valere contro l'imprenditore individuale vi siano crediti relativi all'impresa esercitata dalla società occulta. Tali accertamenti (come si vedrà) non sono stati compiuti dalla sentenza impugnata, che pertanto anche per tali motivi deve essere cassata: ma di ciò si dirà infra. Per intanto, vale riaffermare il principio dell'automaticità, nel senso già detto, dell'accertamento dell'insolvenza del socio già dichiarato fallito, in quanto partecipe della società occulta (Cass. n. 1632 del 1982). Quanto alla spendita del nome, essa non può pretendersi, nei confronti della società occulta (senza negarne la stessa ammissibilità, il che è contrario alla costante giurisprudenza: fra le altre, v. Cass. 17 marzo 1976 n. 977; 12 novembre 1976 n. 4180; 2 ottobre 1975 n. 3104). La conseguenza deriva ineluttabilmente dai patti sociali della società occulta, che si concretano, fra l'altro, (si fa, per attenersi alla specie, il caso dell'imprenditore individuale che agisce per conto di una società occulta) nell'autorizzare il suddetto imprenditore a non spendere il nome della suddetta società, agendo solo per suo conto. In deroga all'art. 1705 c.c., i soci assumono responsabilità personale ed illimitata, anche per gli atti compiuti dal socio che ha agito in proprio nome, ma per conto della società dagli stessi stipulata. La necessità di dare attuazione prioritaria al principio (che non può essere derogato nei confronti dei terzi: vedi art. 2291, secondo comma) della responsabilità personale illimitata, stabilito dall'art. 2291 primo comma, deroga all'esigenza della spendita del nome (art. 2266 c.c.); altrimenti, verrebbe posta in forse la stessa figura della società occulta, il che sarebbe contrario alla realtà delle relazioni commerciali, prima ancora che ai principi di legge. Resta ferma l'esigenza che le obbligazioni riguardino l'attività sociale (vedi infra), siano cioè assunte nell'interesse sociale. I restanti rilievi dei ricorrenti saranno ripresi in esame in occasione della trattazione degli ultimi motivi.
Con il quarto motivo, i Parisi deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 10, 16, 147, 149 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, 2193, 2266, 2267, 2290, 2300 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.; nonché omessa e contraddittoria motivazione su punti decisivi, osservando che (premesso che, in tema di società occulta, non esiste alcun obbligo di comunicare ai terzi il recesso dei soci, realizzato dal dato di fatto della cessazione dell'erogazione di denaro) il notaio Parisi era sicuramente receduto a partire dal momento (ottobre 1977) in cui, per confessione del De Pasquale, aveva smesso di prestargli soldi, per cui tanto alla data della dichiarazione del fallimento De Pasquale (1 luglio 1980) che a quella della dichiarazione del fallimento della pretesa società (9 giugno 1983) non aveva più la qualità di socio, e non poteva essere dichiarato fallito, perché non illimitatamente responsabile per tutte le obbligazioni sociali, ma per alcune soltanto (art. 2290 e 2300 c.c.). D'altra parte, e comunque, il socio receduto può essere dichiarato fallito solo se l'insolvenza (e non l'esistenza di obbligazioni) si sia manifestata al momento del recesso; di conseguenza, poiché l'unica insolvenza emersa (a carico del De Pasquale) risaliva al 1 luglio 1980, mancavano le condizioni per assoggettare a fallimento il notaio, receduto nell'ottobre 1977. MOTIVI DELLA DECISIONE
Inoltre, non essendo stata accertata ne' l'imputabilità delle obbligazioni alla società, ne' la sua insolvenza, difettava il dato temporale di riferimento della responsabilità del notaio, cui ricollegare l'applicazione nei suoi confronti dell'art. 147 legge fall.
Peraltro - aggiungono i ricorrenti - la Corte d'appello ha omesso di individuare le obbligazioni sorte nel 1977, attraverso l'indicazione degli importi, dei soggetti, delle causali e delle scadenze delle medesime, nonché di chiarire quando ed in relazione a quante ed a quali di tali obbligazioni si fosse verificato il preteso stato d'insolvenza; ne' era sufficiente il riferimento a "molti debiti dell'impresa fallita antecedenti al 1977", in quanto tale proposizione, oltre a confondere i debiti con lo stato d'insolvenza, era generica ed indeterminata, perche rende impossibile l'individuazione del numero e della specie dei debiti suddetti, impedisce di stabilirne le date di scadenza e quelle dell'eventuale mancato pagamento; non consentiva di verificare se ed in relazione a quali di essi si fosse e si sia manifestata l'insolvenza; ne precludeva di riscontrare il tempo di emersione e la sua eventuale anteriorità rispetto al 1 luglio 1980.
Il Collegio vuole premettere che l'esame del motivo (a stretto rigore logico) dovrebbe seguire a quello concernente la partecipazione del Parisi alla pretesa società; ma che - dovendo osservarsi l'ordine posto dai ricorrenti - questo esame è condotto ovviamente sul presupposto della suddetta partecipazione, caduta la quale, la problematica andrà ovviamente riconsiderata, in sede di rinvio.
Nei suddetti limiti, il motivo è infondato.
È vero, in primo luogo, che la Corte d'appello ha ritenuto erroneamente necessario che i terzi fossero stati resi edotti del recesso, mal coordinando tale affermazione con le successive nelle quali (malgrado una premessa concernente la c.d. esteriorizzazione delle società di fatto, realizzata da più soggetti che abbiano tenuto un comportamento idoneo ed ingenerare nei terzi il ragionevole convincimento dell'esistenza del vincolo sociale), il nucleo fondamentale è costituito dall'elencazione di prove idonee a dimostrare l'esistenza di una società occulta. A parte la preliminare contraddizione fra Società "apparente" ed "occulta", intanto si deve affermare che, se la società è occulta, o comunque se si tratta di socio occulto, il recesso è opponibile ai terzi ancorché non pubblicizzato (Cass. 19 gennaio 1991 n. 508); invero, come si è già rilevato, la società occulta fallisce nonostante che i terzi non siano stati posti in grado di fare affidamento sulla sua esistenza.
Tuttavia, la motivazione, sul punto, si regge sufficientemente sull'altra, riguardante l'insolvenza della società al momento del recesso (cfr. Cass. 8 marzo 1966 n. 765; 22 maggio 1990 n. 4626). Invero, l'ambigua espressione usata dalla sentenza, si chiarisce nel senso suddetto, non appena la si coordini con quanto già accertato dalla sentenza di primo grado (confermata), secondo cui il recesso del socio finanziatore e l'insolvenza della società furono contestuali (vedi il brano della sentenza di I grado, riportata a pag. 67-68 del ricorso).
Quanto alla mancata identificazione dei debiti antecedenti al 1977, sembra evidente che la frase della sentenza impugnata, secondo cui non era dubbio che molti debiti dell'impresa fallita erano antecedenti al 1977, si riferisce allo stato passivo, per cui non vi era l'onere di una più precisa puntualizzazione (restando a carico degli opponenti la prova contraria).
Con il quinto motivo, i Parisi denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 10, 16 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, 112, 115, 116, 324, 345 c.p.c.; 2909 c.x., 28 c.p.c. (1930) e 654 c.p.p. vigente, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., nonché omessa o quanto meno insufficiente motivazione su punti decisivi, osservando:
a) la sentenza 5 novembre 1990 della Corte d'appello di Bari, passata in giudicato, assolutoria di De Pasquale, Masini, (Parisi), Romito e Sica dal reato di associazione a delinquere "perché il fatto non sussiste" ha svolto il periodo "l'ipotizzato accordo fra gli imputati realizza la figura giuridica del concorso di persone nel reato continuato" non come motivazione e-o statuizione, ma solo come conseguenza di un'ipotesi formulata senza alcun riferimento a specifico reato cui rapportare l'ipotizzata continuazione, tant'è che i condannati in primo grado furono assolti in appello, per cui l'unico collegamento possibile fra la pronuncia penale e la società è quello secondo cui la esclusione del reato di associazione a delinquere, basata sull'accertamento dell'inesistenza di un accordo fra i medesimi, finalizzato al compimento di una serie di operazioni illecite costituiva dimostrazione del difetto di un requisito essenziale, e cioè dell'affectio societatis, intesa come duraturo vincolo associativo preordinato all'esercizio di un'attività economica, stabilmente organizzata ad impresa. Poiché non sono stati dedotti, ne' valutati elementi contrari, dall'impugnata sentenza, la prospettata inesistenza dell'affectio societatis impediva la configurabilità della societa di fatto.
b) per quanto riguarda la cessazione al 30 giugno 1980 dell'ipotetica società di fatto, enunciata dalla sentenza 15 gennaio 1990, del Tribunale di Bari, passata in giudicato, investendone la configurazione e non l'attività materiale (come erroneamente ritenuto dalla Corte d'appello), si poneva come affermazione obiettiva di verità, superabile solo da elementi probatori di pari efficacia, ma di segno opposto, mentre la sentenza impugnata si è limitata ad introdurre un'arbitraria distinzione fra cessazione dell'attività sociale e persistenza di non meglio identificati rapporti economici e giuridici. Siffatta differenziazione, secondo i ricorrenti, è ingiustificata, illegittima ed immotivata, posto che, da un lato, ne' il De Pasquale ne' gli altri presunti soci avevano mai assunto obbligazioni in nome e per conto della società e, dall'altro, di questa non è stato mai accertata e dichiarata l'insolvenza, essendosi il Tribunale di Bari, in data 1 luglio 1980, limitato a pronunciare solo il fallimento dell'insolvente De Pasquale.
Senza dire che, avendo il Tribunale penale escluso qualsiasi coinvolgimento di Sica, Masini, De Pasquale, Romito (e Parisi) nella gestione delle considerate cooperative, in collegamento con l'ipotetica ed indimostrata società di fatto, il riferimento della Corte d'appello a presunti, persistenti rapporti giuridici ed economici era travolto dall'affermazione obiettiva di verità dei giudici penali.
c) Per quanto riguarda la decisione della Commissione Tributaria, l'accertamento dell'inesistenza di qualsiasi obbligo della pretesa società di fatto e dei suoi soci, di corrispondere l'IRPEF e l'ILOR per gli anni 1980, 81, 82 ed 83 confermava l'impossibilità obiettiva di ritenere in vita e di assoggettare ad imposta l'una e gli altri; e c'è da chiedersi come tali soggetti potessero essere legittimamente dichiarati falliti nel 1983, quando per il Fisco, fin dal 1980, avevano perso la loro identità.
Il motivo è infondato.
a) In ordine alla prima censura, è sufficiente osservare che non vi è alcuna inconciliabilità fra l'esclusione tanto della imputazione di associazione per delinquere quanto del concorso di persone nel reato ipotizzato, da un lato, e l'affermazione di una società commerciale fra i soggetti imputati (ed assolti) dall'altro, essendo fin troppo evidente che i due accertamenti sono compiuti con finalità diverse, in quanto nelle società commerciali è escluso che abbia rilievo tutto ciò che è rilevante ai fini penalistici (si pensi solo all'accertamento del dolo, che deve riguardare gli elementi costitutivi del fattoreato, non integrato da un qualsiasi accordo su elementi fattuali penalmente irrilevanti, ma apprezzabili sotto il profilo civilistico, con piena autonomia: non è il pactum sceleris che integra l'accordo costitutivo di una società commerciale).
b) La seconda censura è inammissibile, perché non è stata criticata l'altra autonoma motivazione della sentenza impugnata, secondo cui la sentenza penale del 15.9.1990 non è opponibile alle altre parti del presente giudizio, ai sensi dell'art. 28 c.p.p. del 1930 e 654 del vigente c.p.p.
c) In ordine alla terza censura, si osserva che - trattandosi dell'interpretazione di un giudicato esterno - è incensurabile la motivazione secondo cui la pronuncia della Commissione Tributaria (sulla cessazione della società al 30 giugno 1980) non aveva alcun rilievo sulla soluzione del diverso problema che la Corte d'appello doveva valutare e risolvere (quello dell'osservanza del termine annuale, ex art. 10 legge fall., nei confronti della società "cessata", ma ancora in vita per la persistenza di rapporti attivi e passivi non definiti). In altri termini, la Corte ha
incensurabilmente ritenuto che la Commissione Tributaria doveva risolvere un diverso problema (quello degli obblighi tributari della società e dei suoi soci), nel quale la tematica dell'art. 10 legge fall. non veniva coinvolta, perche riguardante anche debiti diversi da quelli tributari.
Per quanto attiene alle altre osservazioni (mancata spendita del nome della società; dichiarazione d'insolvenza del solo De Pasquale), si rinvia a quanto è stato detto esaminando il terzo motivo e si dirà ancora infra.
II) Col VI motivo, i Parisi denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 147, 149 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, 2297, 2511, 2514, 2517, 2523 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi, premettendo che le cooperative edilizie dovevano essere considerate non dei simulacri e-o delle scatole vuote, ma dei soggetti giuridici, vitali ed operanti e che quindi incomprensibile appariva l'affermazione della sentenza secondo cui è proprio l'attività di cooperative formalmente in regola (ma piegata ai fini speculativi) che realizza il programma della società, consentendo di eludere la legge e di conseguire indebiti benefici fiscali e finanziari; osservano pertanto che l'estrema genericità della suddetta enunciazione, la mancanza di concreti riferimenti e l'omessa descrizione della "piega a fini speculativi" impressa all'attività di ben individuate cooperative, impediscono di attribuire alla suddetta statuizione l'idoneità a contraddire la tesi della completa autonomia delle cooperative, in quanto contro la prospettata, ma indimostrata identificazione dell'attività della fantomatica società di fatto con la gestione delle cooperative militano due rilievi: a) l'accertamento della sentenza penale 15 gennaio 1990, sul mancato coinvolgimento dei presunti soci dell'ipotetica società occulta nella gestione; b) l'impossibilità di inserire società con personalità giuridica nella compagine di una società di fatto. Che la regolare gestione delle cooperative non potesse essere assunta ad espressione di una società di fatto fra gli amministratori ed altri soggetti, è stato avvertito dalla Corte d'appello, che ha ripiegato sulla generica ed astratta possibilità di eludere la legge con strumenti diversi dal negozio simulato; è poi contraddittorio il riconoscimento della possibilità di risolvere le questioni relative all'esistenza, all'attività ed ai rapporti delle cooperative edilizie in base a principi generali, incompatibili con la disciplina delle società di fatto.
Parimenti contraddittorie - continuano i Parisi - sono le considerazioni circa l'irrilevanza, ai fini della sussistenza della società di fatto, della validità degli atti delle cooperative e dell'accertamento se la gestione delle cooperative sia servita ai fini speculativi della società di fatto: il primo assunto smentisce l'impostazione del Tribunale, che, dando per pacifico il carattere fittizio delle cooperative, aveva tratto da tale arbitraria postulazione la conseguenza dell'esistenza della società occulta e del suoi soci. Una volta stabilito dalla Corte d'appello che le cooperative erano state costituite legittimamente ed operavano, ogni possibilità di istituire un collegamento fra le cooperative stesse e l'ipotetica società di fatto era eliminata alla radice. Sul secondo punto, la Corte d'appello non ha dato risposta alle confutazioni delle affermazioni dei giudici di primo grado, contenute nell'appello.
Col VII motivo, i Parisi denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 62, 112, 115, 116, 132, 195, 324, 342, 345 C.P.C. nonché degli artt. 1988, 2297, 2727, 2729, 2909 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 e n. 4 c.p.c., nonché omessa o insufficiente e contradditoria motivazione su punti decisivi, osservando:
a) la Corte d'appello ha ignorato le censure mosse alla sentenza di primo grado;
b) la Corte d'appello ha contraddittoriamente ignorato gli stessi presupposti da lei enunciati, per l'esistenza di una società di fatto;
c) la Corte d'appello si è basata sulla ricostruzione dei fatti che era stata data dal Tribunale penale, con sentenza 17 novembre 1989, non considerando che essa era stata riformata dalla Corte d'appello, con sentenza 5 novembre 1990.
d) per quanto riguarda il Parisi, gli atti costitutivi di 25 cooperative sono stati rogati dal notaio nell'esercizio di attività professionale;
e) i dipendenti del notaio, entrati a far parte delle cooperative non sono stati vari, ma appena tre su centottanta, per cui non era possibile il controllo delle Cooperative, da parte del notaio;
f) la scrittura 1 ottobre 1974 non era stata firmata dal notaio e non lo poteva impegnare. Le affermazioni dei sottoscrittori circa l'esistenza di debiti, per sorte ed interessi, propri e delle cooperative, nei confronti del notaio, e circa il modo di estinguere dette obbligazioni, non impegnavano il notaio, valendo al più come ricognizione su debiti verso costui; ne' aveva rilievo la scrittura del 21 ottobre 1974, priva di collegamento con quella precedente e riguardando vicende svincolante dalla gestione delle cooperative. g) le dichiarazione del De Pasquale, per riconoscimento della Corte d'appello, erano inutilizzabili e, attribuendo al notaio la funzione di erogatore di prestiti, verso corresponsione di interessi convenzionali, erano inidonee a trasformare il professionista in un socio;
h) l'affermazione della partecipazione del notaio alla gestione delle cooperative, con le precedenti modalità, non risultava da alcun riscontro obiettivo ed era generica ed indeterminata;
i) non era possibile utilizzare i rilievi della sentenza penale di I grado, riformata in appello;
l) il riferimento al carattere strumentale della gestione delle cooperative, disgiunto dalla prova di accertamenti di irregolarità amministrative da parte degli organi competenti, giudiziari ed amministrativi, non aveva alcun senso;
m) i viaggi a Roma del Parisi con Sica erano compatibili con l'esercizio dell'attività professionale del notaio;
n) non avendo dimostrato l'opponibilità della scrittura 1 ottobre 1974 al Parisi, la Corte d'appello discetta di partecipazione del soggetto estraneo ad esso, sulla base delle sue risultanze;
o) pur dandosi atto che a partire dal 1974 i lavori delle cooperative non erano stati più affidati al De Pasquale, non si esita attrarre dal rilievo l'unica conseguenza di una limitazione dell'oggetto della società occulta;
p) viene invocata più volte la c.t.u., che è stata poi disattesa in toto, perché inattendibile.
Le prove - concludono i ricorrenti - devono riguardare fatti specifici, episodi determinati, tempi precisi, circostanze individuate, mentre nella sentenza tutto è avvolto nell'indistinto, nel fumoso e nell'indeterminato.
Con l'VIII motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 62, 112, 115, 134, 194, 195, 324, 342, 345, 409 c.p.c., 2297, 2727, 2729, 2909 c.c., in relazione all'art. 360 C.P.C.; nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi, osservando che, per quanto riguarda la pluralità dei ruoli del notaio, i giudici ne hanno accertato solo due: quello del pubblico ufficiale, investito di attività professionali (redazione degli atti costitutivi di 25 cooperative edilizie tra il 30 novembre 1971 ed il 12 giugno 1973) e quello dell'erogatore di prestiti; dietro corresponsione di interessi al MOTIVI DELLA DECISIONE
tasso convenuto; ruoli che non avevano alcun collegamento con le finalità perseguite dai firmatari della scrittura 1 ottobre 1974, di data posteriore.
Ed infatti: A) la stipula degli atti costitutivi delle cooperative e prestazione professionale; B) la fissazione da parte di alcune cooperative della sede in un locale di proprietà del notaio, in base a contratto di locazione e dietro pagamento del canone, evidenzia l'incongruenza della motivazione; C) i tre dipendenti del notaio furono cooptati soltanto in due delle cooperative e non potevano avere alcuna incidenza sull'amministrazione e sul funzionamento delle medesime; D) la cura delle fasi del finanziamento ministeriale a favore di alcune di esse, compensata comunque, era prestazione di attività professionale; E) l'erogazione di mutui da parte del notaio è sempre avvenuta in via diretta, perché le cooperative non furono mai utilizzate come enti finanziatori, perché amministrate dagli organi statutari, nell'ambito di gestioni autonome, distinte tanto da quella della supposta società, quanto dall'attività del notaio, come è confermato dal mancato coinvolgimento delle stesse nella vicenda fallimentare; F) le fideiussione prestate dal notaio furono due: una in data 1 settembre 1971, a favore del Credito Italiano, fino a lire 45 milioni, non utilizzata per estinzione del debito principale; l'altra del 14 gennaio 1977, a favore della COMIT, rimasta senza implicazioni; G) i prestiti erogati dal notaio hanno avuto unico corrispettivo negli interessi convenuti, che non potevano equipararsi ad utili di una gestione imprenditoriale; H) l'acquisto da parte del notaio di alcuni appartamenti costruiti dalle cooperative non si poneva in relazione di corrispettività rispetto ai prestiti erogati ma si configurava come un'usuale operazione commerciale, stante il pagamento del prezzo.
Proprio perché dotate di specifiche connotazioni, le prestazioni del notaio non potevano essere accomunate in una valutazione unitaria, ai sensi dell'art. 2729 c.c.
Inoltre, nessuna contestualità poteva istituirsi fra le suddette prestazioni perché: - gli atti costitutivi delle 25 cooperative erano stati rogati fra il 1971 ed il 1973; - i viaggi a Roma erano stati episodi isolati, intervallati l'uno dall'altro; - i prestiti in denaro si erano concentrati fra il 1971 ed il 1973, lontani sia dalla firma della scrittura 1 ottobre 1974, sia dalla dichiarazione di fallimento del De Pasquale e della società; - le fideiussione erano state due, una nel 1971 ed una nel gennaio 1977.
Peraltro, in difetto dell'accertamento di un fondo comune, dei riferimenti ad esso da parte del notaio, della sua condivisione dell'alea d'impresa e dell'affectio societatis, l'eventuale coincidenza temporale di alcune delle prestazioni non bastava a trasformarle in comportamenti di soci di società commerciali; ne' siffatta trasformazione poteva ricavarsi dalla c.d. gestione impropria delle cooperative, iniziata soltanto il 1 ottobre 1974, in relazione al perseguimento di scopi voluti solo dai sottoscrittori della scrittura.
In ordine alla valutazione della C.T.U., i ricorrenti osservano che i consulenti non avevano espresso giudizi giuridici, ma di tecnica economico-finanziaria; che dalle risultanze peritali non poteva ritenersi confermato il carattere fittizio delle cooperative, perché non potevano dichiararsi "fittizie" società cooperative non dichiarate ne' simulate, ne' nulle, ne' fallite, costituite nei modi e nelle forme di legge.
Quanto al "coacervo di rapporti economici e finanziari dei falliti" era sufficiente rilevare l'indistinta nebulosità delle statuizioni sul punto; circa il sodalizio composto dai cinque interessati a partire quanto meno dall'ottobre 1974, sino a quando il Parisi se ne disimpegnò finanziariamente, era sufficiente replicare che l'estraneità del Parisi alla scrittura 1 ottobre 1974 impediva di estenderne previsioni, contenuto e portata al notaio. III ) È opportuno esaminare, contestualmente ai suddetti motivi del ricorso Parisi, quelli del ricorso n. 2538-93 di Sica, Masini ed eredi Romito.
Col primo, essi deducono la violazione falsa applicazione dell'art. 2729 c.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi, lamentando che la Corte d'appello, mentre da un lato ha richiamato la scrittura del 1 ottobre 1974 fra Rossi, Sica e Masini, per desumere indizi sufficienti per l'esistenza della società fra i tre ricorrenti, il De Pasquale ed il Parisi, di contro ha omesso di considerare gli elementi da cui si evinceva che la scrittura non aveva mai avuto attuazione ed era stata risolta consensualmente. Infatti:
a) nella scrittura 1 .10.1974 era previsto che il Rossi avrebbe trasferito a favore di Sica e Masini un suolo edificatorio in S. Spirito ed un altro in Cozze; al contrario, entrambi i suoli, in data 21 ottobre 1974, furono trasferiti in data 21 ottobre 1974 dal Rossi al De Pasquale Filippo; b) nella scrittura si dava atto di un'esposizione debitoria delle Cooperative nei confronti del Parisi per circa Lire 450 milioni, rappresentate da effetti che il Rossi aveva emesso quale Presidente di più cooperative in favore dell'impresa De Pasquale Filippo, scontati presso il notaio; al contrario, sempre in data 21 ottobre 1974, il Rossi, in proprio, provvedeva a sanare la suddetta esposizione nei confronti del notaio, trasferendo a quest'ultimo alcune unità immobiliari di sua proprietà; c) il Rossi, che intanto si era dimesso dalle Cooperative, rilasciava una dichiarazione a Michele Sica, quale Presidente delle Cooperative già da lui presiedute, nella quale si dava atto che tutti gli effetti in circolazione, scaduti e da scadere, emessi all'ordine dell'impresa Filippo De Pasquale erano da ritenersi di favore, per cui alle scadenze avrebbero dovuto essere onorati dall'impresa De Pasquale e restituiti alle Cooperative; d) nella stessa data del 21 ottobre 1974 il De Pasquale riconosceva esatta e veritiera la dichiarazione del Rossi e dichiarava di non avere nulla da pretendere per gli effetti rilasciatigli dal Rossi nella qualità di Presidente, impegnandosi a ritirare i suddetti effetti alle rispettive scadenze ed a consegnarli al Presidente delle Cooperative; e) sempre il 21 ottobre 1974 il De Pasquale rilasciava al Sica altra dichiarazione con cui dava atto che le cessioni di immobili effettuate dal Rossi a suo favore erano state effettuate allo scopo di sanare la situazione deficitaria delle Cooperative di cui il Rossi era stato Presidente.
Le dichiarazioni di cui supra facevano emergere un contrasto di interessi, incompatibile col sussistere di un presunto rapporto associativo con gli altri due presunti soci, De Pasquale e Parisi. La Corte d'appello - osservano i ricorrenti - si è limitata a richiamare le dichiarazioni scritte del 21 ottobre 1974 solo al fine di suffragare l'esistenza di un rapporto associativo fra Rossi, De Pasquale e Parisi, anteriormente all'ottobre 1974, mentre non ha speso una parola per giustificare come fosse possibile conciliarla con l'affermazione della mancanza di prova della risoluzione consensuale, nonché conciliare il contrasto di interessi che si desumeva dalla documentazione con un'ipotetica formazione societaria successiva all'ottobre 1974. L'unica proposizione che si legge sul punto rinvia genericamente a quanto sarebbe stato detto nella sentenza penale di primo grado, non solo senza considerare che essa era stata riformata, ma in ogni caso senza specifici e puntuali richiami agli elementi e circostanze che avrebbero dato luogo agli assunti rapporti, considerato che gli unici rapporti emergenti dagli atti sono quelli intercorsi fra i ricorrenti, quali rappresentanti legali delle Cooperative committenti, ed il De Pasquale, quale impresa appaltatrice (come risultava dalla C.T.U., ingiustamente criticata).
Inoltre, la Corte Barese, pur avendo dato atto che il trio Sica-Masini-Romito cominciò ad operare nel 1974 e che da quell'epoca la realizzazione dei programmi edilizi delle cooperative era stata affidata ad imprese diverse dal De Pasquale, in modo illogico e contraddittorio perviene alla conclusione che questo fatto vale solo a limitare l'oggetto della società dal costruttore De Pasquale con il contributo del notaio Parisi, e cioè quelli anteriori alla comparsa in scena di Sica, Masini e Romito. La Corte ha omesso di considerare che, per quanto concerne le Cooperative le quali avevano già iniziato i programmi edilizi anteriormente all'ottobre 1974, allorché erano presiedute dal Rossi, solo alcune avevano commesso l'appalto per la costruzione all'impresa De Pasquale (ed i relativi contratti erano stati firmati dal Presidente Rossi), mentre le altre Cooperative avevano commesso i lavori in appalto ad altre imprese. Nessuna motivazione è contenuta nella sentenza a confutazione degli elementi addotti per dimostrare che dall'ottobre 1974 si sviluppò un contenzioso fra le cooperative e l'impresa De Pasquale, che escludeva l'affectio societatis; nonché sul punto dell'esistenza di eventuali utili percepiti dai presunti soci, mentre i ricorrenti avevano rilevato in appello come non esistesse la benché minima prova che comprovasse un qualsiasi movimento di denaro a titolo personale fra essi ed il De Pasquale.
Infine, erano state trascurate le risultanze delle sentenze penali e di quella della Commissione Tributaria.
Col secondo motivo, i ricorrenti denunciano l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo; la violazione e falsa applicazione dell'art. 2929 c.c., nonché degli artt. 147 legge fall. e 2247 e ss. c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c., osservando che, in ragione dell'estensione del fallimento De Pasquale alla società ed ai soci, sarebbe stato necessario accertare non solo e non tanto elementi da cui potessero desumersi rapporti fra Sica, Masini e Romito, quanto elementi da cui potesse desumersi un'affectio societatis fra il De Pasquale ed il Parisi (che hanno avviato i programmi delle Cooperative e ne hanno seguito le sorti fino al 1974) ed i ricorrenti, che invece non sono stati indicati; infatti, la scrittura del 1 ottobre 1974 è stata sottoscritta solo da Rossi, Sica e Masini e la Corte d'appello non ha detto perché avrebbe valore indiziante nei confronti di De Pasquale e Parisi. Inoltre, la Corte non dice quali sono ed a che periodo risalgono, gli intensi rapporti col De Pasquale e col Parisi, emergenti dalla sentenza 17 novembre 1989 del Tribunale di Bari; ne' dice da quali elementi ha desunto il pieno accordo a cinque, da cui si evincerebbe il trapasso della gestione ai concludenti, e quali sarebbero i fini su cui sarebbe stato raggiunto l'accordo; infine, illegittimo è il riferimento alla deposizione dell'avv. Catapano. I ricorrenti osservano ancora che la Corte ha trascurato di prendere in considerazione gli elementi che dimostravano che dall'ottobre 1974 la gestione delle cooperative è sempre rimasta autonoma e slegata da alcun rapporto col De Pasquale e col Parisi Infatti: a) successivamente all'ottobre 1974 tutte le cooperative che non avevano ancora iniziato, sotto la presidenza Rossi, alcuna attività edilizia, realizzarono i loro programmi commettendo gli appalti ad imprese diverse da quelle del De Pasquale; b) i finanziamenti da parte del Parisi cessarono proprio quando Sica e Masini divennero Presidenti delle Cooperative; c) non esiste alcuna prova di versamenti effettuati dai concludenti a titolo personale, come apporto all'attività economica del De Pasquale, ovvero riscossioni da parte dei concludenti di somme date loro dal De Pasquale e rivenienti dall'attività economica di quest'ultimo. Col terzo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2729 c.c., dell'art. 147 legge fall. e degli artt. 2247 e ss. c.c., nonché omessa ed insufficiente motivazione su punti decisivi (art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.), lamentando che la Corte barese abbia trascurato di accertare gli elementi costitutivi della società, nonché della sua esteriorizzazione (tanto che, prima del fallimento, mai nessun creditore aveva adombrato pretese di alcun genere nei confronti di soggetti diversi dall'imprenditore individuale De Pasquale).
Col quarto motivo, i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli artt. 147 legge fall. e 2247 e ss. c.c., nonché dell'art. 2729 c.c., ed omessa ed insufficiente motivazione su punto decisivo (art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.), osservando che la Corte d'appello, pur avendo affermato che la società avrebbe svolto la sua attività dietro il paravento formale di cooperative edilizie, definite spurie e fittizie, in altra parte della motivazione ha dato atto che le stesse cooperative erano giuridicamente esistenti, dotate di piena autonomia patrimoniale ed hanno realizzato i rispettivi programmi, così pervenendo, in modo illogico e contraddittorio, a riconoscere l'operatività sostanziale delle Cooperative. Inoltre la Corte d'appello non ha motivato sul: "piegamento" della struttura sociale tipica delle cooperative verso altri fini e in modo specifico verso il conseguimento della presunta società di fatto. Infine, i ricorrenti lamentano che dall'assunto che Sica, Romiti e Masini erano i veri padroni delle cooperative, in modo illogico la Corte è pervenuta alla conclusione della sussistenza di una formazione societaria a cinque, quando sarebbe stato logico desumere dalla predetta circostanza che l'attività di gestione delle cooperative è stata espletata da Sica, Masini e Romito nel loro interesse e non nell'interesse di una fantomatica società di fatto col De Pasquale ed il Parisi, senza che l'attività di gestione delle cooperative potesse essere finalizzata ad attività economiche cui fossero cointeressati il De Pasquale ed il Parisi.
IV ) I motivi sono, nel loro complesso, fondati, nei limiti che risulteranno dall'esposizione che segue.
La Corte d'appello era chiamata a risolvere il problema dell'esistenza di una società fra il De Pasquale (imprenditore dichiarato fallito, quale titolare di un'impresa edile individuale, nel 1980) ed i soci Parisi, Sica, Romito e Masini società dichiarata fallita, ai sensi dell'art. 147 secondo comma legge fall., nel 1983;
il primo quesito che si poneva era pertanto quello della coincidenza fra le due imprese. La proponibilità del quesito discende dal rilievo che - se un imprenditore individuale esercita più imprese - ciò ai fini fallimentari è di regola irrilevante, nel senso che tutte le imprese devono confluire nell'unica procedura a suo carico (tranne che una di dette imprese sia sottratta al regime concorsuale, per esempio perché di natura agricola, salva sempre restando la destinazione di tutti i beni a tutti i creditori, ex art. 2740 comma 1 c.c.).
Se, invece, un imprenditore esercita un'impresa propria e sia nel contempo socio di un'impresa collettiva, la distinzione fra le due imprese può emergere da quanto si è già detto, a proposito dell'interpretazione da dare ai rapporti fra l'art. 147 e l'art. 149 legge fall.: se l'impresa sociale (di cui l'imprenditore fallito è socio) esercita un'attività diversa da quella dell'impresa individuale, il fallimento di quest'ultima non è causa del fallimento della società. Pertanto, in quella interpretazione analogica dell'art. 147 supra riconfermata non può trascurarsi mai il suddetto rapporto di identità, fra l'imprenditore in un primo tempo ritenuto individuale e poi, nel corso della procedura fallimentare a suo carico, scoperto socio di una società (a sua volta distinguibile nelle tre tipologie della società di fatto, della società apparente e della società occulta). Soltanto tramite il rapporto di identità potrà farsi ricorso all'art. 147; se l'identità non sussiste, potrà dichiararsi un autonomo fallimento della società emersa in un secondo momento (ma preesistente), in base ad autonomi presupposti, soprattutto in relazione all'insolvenza, che deve riguardare i debiti di quella diversa società della quale il fallito faceva parte, senza possibilità di trasferire automaticamente l'accertamento della sua personale insolvenza in quella sociale, come è avvenuto nella specie, in maniera giustificabile (secondo quanto si è già avvertito) solo se sussistono tutti gli elementi che giustificano a loro volta il ricorso all'art. 147 secondo comma, legge fall..
La Corte d'appello non ha dato una risposta logica e
MOTIVI DELLA DECISIONE
giuridicamente accettabile al suddetto quesito, come è agevolmente dimostrabile anche solo sulla base dell'analisi della decisione impugnata, condotta senza contestarne (il che si farà più oltre) gli accertamenti di fatto e le premesse giuridiche.
In primo luogo, la sentenza ha espressamente affermato che l'oggetto della società occulta concerneva i programmi edilizi delle cooperative realizzati dal costruttore De Pasquale con il contributo (non solo finanziario) del notaio Parisi, e cioè i "programmi" di quelle cooperative che avevano stipulato contratti di appalto col De Pasquale fino all'ottobre 1974, ed in corso in tale momento (cioè anche terminati successivamente: vedi pagg. 29-30). Tale delimitazione è però del tutto insufficiente, perché la espressione "programmi edilizi" non esprime in modo preciso la nozione di oggetto sociale, la quale è essenziale nel contratto di società, e come in ogni altro contratto deve essere determinato o determinabile (ex art. 1346 c.c.), ai sensi dell'art. 2295 n. 5 c.c., che è senza dubbio applicabile all'atto costitutivo di una società destinata a restare occulta nei confronti dei terzi, in quanto avente un oggetto commerciale (art. 2249 primo comma, in relazione all'art. 2297, sulla mancata registrazione).
L'oggetto sociale è costituito da una determinata attività economica, la quale non può che essere individuata in rapporto all'art. 2082 (produzione o scambio di beni o di servizi) ed alle varie tipologie di cui all'art. 2195 c.c. L'attività edilizia può riguardare tanto l'intero ciclo, dall'acquisto del terreno alla vendita (previa costruzione) degli immobili, quanto una parte di tale ciclo (per esempio, la sola costruzione o la sola vendita). Nella specie, dalla sentenza impugnata non è affatto dimostrato che l'attività edilizia della società occulta riguardasse anche la costruzione degli edifici, piuttosto che soltanto la loro vendita (con fini speculativi). Invero, la sentenza ha affermato che detta società di fatto ha esercitato la stessa attività delle cooperative edilizie (pag. 23 e ss.).
La sentenza non ha potuto però negare, ma anzi ha espressamente ammesso, che tale "attività edilizia" è stata espletata mediante contratti di appalto (oltre che non imprese diverse, che, giusta la precisione gia richiamata, non avevano niente a che vedere con la società di cui è stato dichiarato il fallimento) stipulati con l'impresa De Pasquale. È evidente che tali contratti - appunto perché tali - non potevano costituire un elemento della società de qua, perché vi è incompatibilità fra la disciplina derivante da un rapporto contrattuale d'appalto e quella derivante da un rapporto societario.
Tale incompatibilità non si supera, affermando, come fa il resistente De Pasquale a pag. 5 del controricorso, che i lavori erano stati affidati al De Pasquale apparentemente dalle Cooperative, ma in realtà erano stati commessi dalla società di fatto. Invero, anche ammesso ciò, restava la realtà di un appalto, in cui era simulato soltanto uno dei termini di riferimento soggettivi (il committente). Anzi, a maggior ragione vi sarebbe stata incompatibilità fra l'appalto e la società, dal momento che quest'ultima sarebbe stata committente effettiva, in un rapporto regolato da un "corrispettivo corrisposto" (dal committente) all'impresa costruttrice (pag. 23 del controricorso del fallimento), e cioè non dalla distribuzione di utili societari, ma dal prezzo di un diverso contratto di scambio, non associativo (pag. 24 e 34 dello stesso controricorso). Nella sentenza di primo grado è scritto che il De Pasquale conferì nella società l'attività della sua impresa edile; nel controricorso della Coop. Olimpia (pag. 6) si dice che il De Pasquale aveva il compito di provvedere alla costruzione degli immobili; nella sentenza impugnata, a proposito dell'identificazione della società dichiarata fallita nel 1983, si usano le seguenti espressioni:
a) a pag. 10 (richiamando la sentenza impugnata) si afferma che il De Pasquale pur continuando a svolgere sostanzialmente l'attività di acquisto di suoli, realizzazione e vendita degli appartamenti, aderì alla proposta del notaio Parisi di dar vita a cooperative edilizie, che in effetti furono costituite (e di cui il Tribunale - ma non la Corte d'appello, come meglio si vedrà - ha dichiarato il carattere fittizio, finalizzato alle finalità lucrative dei soci della società di fatto effettiva);
b) a pag. 16 (per affermare la compatibilità della decisione con la sentenza penale) si afferma che la società può avere per oggetto un'attività ben determinata e circoscritta nel tempo (e, quindi può essere circoscritta ai lavori di una o più cooperative edilizie). L'affermazione riguarda il caso di specie, come è ribadito a pag. 29, con l'affermazione, già ricordata, che il "trio
Masini-Sica-Romito" (come in precedenza il Rossi e con le stesse modalità) proseguì nel governo dei programmi edilizi (in corso nel 1974) delle società cooperative, in pieno accordo e per gli stessi fini del De Pasquale e del Parisi.
c) a pag. 30 si esprime il convincimento della Corte che l'oggetto della società occulta era limitato solo a quei programmi edilizi (delle cooperative) realizzati dal costruttore De Pasquale con il contributo (non solo finanziario) del notaio Parisi;
d) a pag. 25 si dice che le cooperative sono state, fin
dall'inizio, sotto il controllo del trio Rossi-De Pasquale-Parisi;
e) alle pagg. 25 e seguenti si esamina la scrittura 1 ottobre 1974;
f) alle pagg. 27 e ss. si duole dimostrare perché la suddetta scrittura prova il vincolo sociale anche nei confronti del Parisi e del De Pasquale.
A parte (perché presentano una problematica diversa) saranno esaminate le motivazioni concernenti il Parisi, in modo specifico. La Corte ritiene che, al fine fondamentale di dimostrare, sia l'identità fra l'impresa dichiarata fallita nel 1980 e quella dichiarata fallita nel 1983, sia la partecipazione del Di Pasquale alla società costituita dal "trio" nonché dal notaio, le suddette motivazioni sono insufficienti (o addirittura conducenti ad una conclusione diversa da quella ritenuta dalla sentenza impugnata) o estremamente generiche o contraddittorie fra di loro. Gioverà un'analisi delle suddette proposizioni:
a) La corte d'appello non ha confermato il carattere fittizio delle cooperative, ma anzi le ha ritenute effettive ed operanti (sia pure con un fine deviato verso scopi speculativi prefissati dalla società di fatto: di ciò infra); ma evidentemente ha ritenuto di confermare l'altra espressione della sentenza di primo grado, secondo cui lo schema suggerito dal notaio (e realizzato) serviva per continuare l'attività di acquisto dei suoli, di realizzazione e vendita degli appartamenti, già effettuata in veste individuale dal Di Pasquale.
L'esigenza della continuità e della correlata identità delle due imprese e del resto (correttamente) affermata dalla sentenza impugnata a pag. 13, là dove si dice che, nell'ipotesi regolata dall'art. 147 secondo comma, essendo stata già accertato lo stato d'insolvenza dell'imprenditore (ritenuto a torto individuale), poiché la società di fatto effettivamente esistente gestisce la stessa impresa, non è richiesto un ulteriore accertamento dello stato di insolvenza della società di fatto.
Ciò premesso, possono esporsi le seguenti considerazioni critiche. La stessa sentenza (proposizione sub b) e sub c) afferma che la società riguardava soltanto i programmi edilizi delle cooperative di cui agli appalti col De Pasquale fino al 1974, con esclusione dei programmi deliberati successivamente, perché il De Pasquale non vi partecipò, neppure come appaltatore. Si può condividere l'osservazione che i programmi predisposti fino al 1974 furono eseguiti di fatto negli anni successivi e che, non essendovi prova che nel 1980 essi fossero tutti definiti (col pagamento di tutti i debiti ad essi relativi) era possibile dichiarare il fallimento nel 1980 del De Pasquale (estendendolo poi alla società di fatto nel 1983).
Resta però del tutto oscuro, perché non dimostrato, se il fallimento dichiarato nel 1980 fosse in correlazione esclusiva con i programmi e con quei debiti. Dovrebbe, infatti, ammettersi che, successivamente all'ottobre 1974, il De Pasquale non abbia avuto altra attività che quella suddetta, e cioè non avesse continuato la sua attività di impresa costruttrice con modalità diverse da quelle afferenti alla società di fatto. Ciò (oltre a non risultare dalla sentenza), sembra contraddetto dal fatto che il fallimento è stato dichiarato soltanto nel 1980.
Ma, a parte ciò, la critica piu penetrante è quella secondo cui dalla stessa sentenza risulta che, in realtà, non vi fu continuità, ma - se mai, a tutto concedere - scorporo dell'attività di costruttore da quella di acquisto dei suoli e di vendita degli appartamenti costruiti.
Infatti, sono indicati in sentenza dati relativi all'attività di acquisto dei suoli della società, quando a pag. 24 sono stati confermati tutti gli elementi di fatto indicati nella sentenza di I grado, fra cui - quindi - quello richiamato a pag. 34 del controricorso del curatore fallimentare secondo cui i proprietari dei suoli, contrariamente a quanto veniva fatto risultare nell'atto di vendita, non ricevevano il prezzo, ma stipulavano separata permuta prevedente l'assegnazione in loro favore di unità immobiliari (evidentemente delle cooperative); nonché dati relativi alla vendita delle suddette unità immobiliari (realizzata anche mediante il commercio delle quote sociali: vedi pag. 24 della sentenza). Non è invece indicato alcun dato relativo all'attività di costruzione delle suddette unita immobiliari, che non sia quello del loro affidamento all'impresa costruttrice mediante un appalto, del cui significato contrastante, rispetto all'affermazione di un vincolo societario col De Pasquale, si è già detto supra.
Pertanto, in prima approssimazione (salvo più radicali contestazioni, di cui infra) dalla stessa sentenza risulta, da un lato, una società avente ad oggetto l'acquisto dei suoli e la vendita delle unità immobiliari, e dall'altro lato un'impresa individuale del De Pasquale esercitante l'attività di costruzione. Se il fallimento è stato dichiarato per debiti contratti in quest'ultima attività (ciò non risulta chiaramente dalla sentenza impugnata), non si vede come avrebbe potuto essere esteso alla diversa società (anche ammesso e non concesso che della stessa facesse parte il De Pasquale, ma soltanto per le attività di acquisto dei suoli e di vendita delle unita immobiliari). È da osservare che il rilievo non muta, anche ammettendo che uno o più dei soci che gestivano in modo anomalo le cooperative (che mai - però - hanno esercitato attività di impresa costruttrice in proprio degli immobili) si dovessero considerare soci occulti (o apparenti) del de Pasquale nell'attività di costruzione (il discorso vale soprattutto per il Parisi, per le sue erogazioni di denaro al De Pasquale). Si tratterebbe, invero, di società diversa da quella dichiarata fallita, sia pure collegata con essa.
E non muta neppure se (come affermano i resistenti) i soci che gestivano in modo anomalo la cooperativa si fossero occupati direttamente delle forniture attinenti agli impianti ed alle rifiniture delle unità immobiliari, perché per quanto riguarda la loro costruzione nella sentenza impugnata si parla soltanto di appalto.
Viene a mancare, pertanto, la base giuridica, per definire come "conferito" nella pretesa società, da parte del De Pasquale, la sua attività di costruttore, in quanto esercitata mediante appalti con le cooperative (contratti firmati dal Rossi quale Presidente delle Cooperative; in realtà stipulati dalla società di fatto, afferma a pag. 5 il resistente De Pasquale). Un contratto può essere conferito in società con altri soggetti (cfr. Cass. n. 5761-81), quando, essendo stato stipulato con terzi (per esempio: una concessione di esclusiva di vendita di un prodotto) può apportare una ricchezza che può essere sfruttata in concorso con altri soci (nell'esempio fatto:
la vendita in comune del prodotto acquisito in esclusiva da un solo dei soci). Non può certamente costituire un apporto in società un contratto stipulato con la medesima, che sia fonte di un debito per corrispettivo dovuto dalla società stessa.
Esclusa, pertanto, alla stregua della stessa sentenza, dall'oggetto sociale l'attività di costruzione degli immobili "sociali", resta in forse la stessa partecipazione del De Pasquale alla società occulta di fatto, perché non è spiegato quale sia stato il suo apporto e quale sia stata l'attività economica esercitata in comune con gli altri soci, per gestire quel conferimento; quale sia stata la sua partecipazione agli utili ed alle perdite della sola attività sociale (di acquisto dei suoli e di vendita degli appartamenti).
A tale interrogativo non rispondono certamente le frasi di pag. 28 della sentenza impugnata: "gli intensi rapporti (quali e di che genere) col De Pasquale e col Parisi sono descritti diffusamente nella sentenza penale (quindi a tutti altri fini) del 17.11.89 del Tribunale di Bari e trovano riscontro anche nelle perizie contabili" (che non hanno mai parlato di rapporti "sociali"); ne' è sufficiente (v. pag. 29) che il Romito fosse entrato nell'organizzazione a fine 1974 sulle insistenze del De Pasquale; che il Masini era persona di fiducia del De Pasquale e figurava fra i soci promotori delle cooperative; che il Sica aveva già lavorato per l'impresa De Pasquale; che il Sica si sarebbe qualificato (in un'occasione) socio del De Pasquale, senza chiarire i termini dell'intero discorso, come giustamente rileva la sua difesa; che nelle cooperative fossero entrati il fratello del De Pasquale e vari suoi dipendenti (pag. 25) di guisa che esse erano sotto il controllo del trio Rossi-De Pasquale-Parisi.
Invero, a parte la limitazione dell'oggetto delle cooperative (che non comprendeva l'attività di costruzione, svolta in proprio da De Pasquale, eventualmente con soci costituenti, una società diversa rispetto a quella che gestiva le cooperative in modo anomalo e per fini speculativi dei suoi amministratori), si osserva che quelle partecipazioni di soggetti legati al De Pasquale non dimostrano la partecipazione sociale di costui mediante gli elementi giuridici tipici della società: conferimento, esercizio di un'attività comune; partecipazione ai guadagni ed alle perdite (si ripete, relativamente all'oggetto sociale delle cooperative, coincidente con quello della pretesa società di fatto). Esse possono dimostrare, infatti, soltanto la predisposizione di strumenti atti ad assicurare che l'attività di quest'ultima non si svolgesse in contrasto con gli interessi dell'impresa De Pasquale, ma non dimostra la società in tutti i suoi elementi costitutivi.
b) In ordine alla proposizione sub b, si è già sottolineata l'importanza di essa, al fine di limitare l'oggetto della pretesa società, escludendo da essa l'attività di costruzione edilizia. La conseguenza che ne avrebbe dovuto trarre la Corte d'appello, in termini di riscontro delle ragioni dell'insolvenza, è stata già detta: il fallimento avrebbe potuto essere dichiarato, nei confronti della società, soltanto per un'insolvenza relativa a debiti contratti nell'acquisto dei suoli e nella vendita delle unità immobiliari (per esempio: in quell'esecuzione delle opere di rifinitura delle unita immobiliari, di cui si è parlato), e cioè per un'insolvenza sociale; altrimenti, avrebbe dovuto applicarsi l'art. 149, e non l'art. 147.
I fini del De Pasquale e del Parisi, i richiamati dalla Corte d'appello, sono irrilevanti, se non si estrinsecano in una partecipazione sociale.
Le medesime considerazioni possono quindi farsi, in ordine all'affermazione riportata sub d).
Per quanto riguarda l'affermazione sub c), si esaminerà infra la posizione del Parisi.
Sub e) ed f): L'esame della scrittura 1 ottobre 1974 conduce la Corte d'appello ad affermare che fra Rossi (a cui poi si sostituì il Romito), Sica e Masini, fu costituita un'organizzazione strumentale delle cooperative (come se fossero beni nella totale disponibilità delle parti) per svolgere un'attività imprenditoriale di tipo speculativo. Si pone in rilievo, fra l'altro, che la scrittura MOTIVI DELLA DECISIONE
prevedeva che tutte le parti avrebbero curato le vendite e che le parti avrebbero ripartito in parti uguali gli utili "per tutte le cooperative". Si può convenire con la Corte d'appello che la scrittura dimostrava l'esistenza di una società di fatto fra i tre sottoscrittori (salva restando l'esatta qualificazione giuridica di essa: vedi infra), ma la Corte ha trascurato totalmente di trarre le dovute conseguenze dalla sua ricostruzione. Infatti, coordinando i seguenti quattro elementi:
1) l'oggetto del contratto sociale erano le cooperative, considerate come beni nella "totale disponibilità delle parti", ovvero come "strumento dell'attività economica del gruppo";
2) Gli utili erano quelli derivanti dall'attività delle cooperative;
3) L'attività che veniva presa in considerazione era quella di vendita degli appartamenti costruiti;
4) i rapporti col notaio Parisi erano definiti di "debito"; quelli con l'impresa De Pasquale (significativamente indicata come "impresa" estranea alle parti contraenti) come rapporti derivanti dall'emissione di cambiali di favore, che in effetti avrebbero dovuto essere pagate dal De Pasquale, a sua volta creditore delle cooperative (si veda, in particolare, il ricorso Di Sica ed altri);
coordinando - si diceva - detti elementi, le conclusioni che se ne potevano trarre erano:
a) dal punto di vista oggettivo, la limitazione dell'oggetto sociale a quello stesso che costituiva oggetto delle cooperative (acquisto dei suoli e vendita, invece che assegnazione a soci, degli appartamenti; con esclusione dell'attività di costruzione edile, salvo restando eventualmente il settore delle rifiniture e della manutenzione delle costruzioni). E, pertanto, non si spiega come si sia potuto tout court estendere il fallimento del costruttore De Pasquale, al fallimento di una società che non esercitava imprenditorialmente l'attività di costruzione;
b) dal punto di vista soggettivo, non si spiega adeguatamente la partecipazione alla società di fatto suddetta sia del De Pasquale che del Parisi, che in base ad essa risultavano parti estranee (e cioè controparti) di rapporti di credito e debito, in base anche ad altre scritture del 21 ottobre 74, queste sottoscritte dai predetti. Ma il contenuto riportato in sentenza delle altre scritture niente dice, in ordine al rapporto sociale con essi, perché (pag. 27) riguarda la situazione deficitaria delle cooperative; gli effetti a firma Rossi e la cessione di immobili da parte di quest'ultimo per sanare il deficit delle cooperative. Vi è la dimostrazione di rapporti di interesse fra cooperative (e società di fatto, ma limitata al "trio") da un lato e De Pasquale e Parisi (in posizione peraltro differenziata) dall'altro; ma non dimostrazione di un rapporto sociale, nella sua genesi e nei suoi effetti. Ancora una volta, non si spiega l'estensione del fallimento De Pasquale alla suddetta società di fatto.
Resta da esaminare la proposizione sub c), che riguarda il contributo, non solo finanziario, del notaio Parisi alla realizzazione del programma sociale.
Si osserva che, una volta scissa l'attività imprenditoriale di costruzione da quella di acquisto dei suoli e vendita degli appartamenti, il contributo finanziario suddetto avrebbe dovuto essere valutato separatamente, per quanto riguarda il finanziamento del De Pasquale e quelli delle cooperative (e della società di fatto composta dal trio). Inoltre, avrebbero dovuto essere valutate sotto altra luce tutte le altre attività del notaio, riassuntivamente indicate a pagg. 30-31 della sentenza:
1) redazione degli atti costitutivi delle cooperative;
2) fissazione della loro sede in un suo immobile;
3) induzione di suoi dipendenti ad assumere la qualità di soci;
4) interessamento delle pratiche relative ai mutui;
5) finanziamento diretto del costruttore;
6) finanziamento del costruttore tramite le cooperative;
7) prestazione di fideiussioni;
8) percezione di utili sotto forma di interessi;
9) percezione di utili con l'acquisto di alloggi per sè e per i congiunti.
Contrariamente a quanto assume la sentenza, in ordine alla valutazione di tali dati nel loro complesso e nella loro contestualità e sistematicità, le suddette prestazioni (date o ricevute dal Parisi) andavano valutate separatamente, per quanto attiene, da un canto, all'attività dell'impresa di costruzioni De Pasquale, e dall'altro canto, la gestione anomala delle cooperative. Sotto il primo profilo, andavano valutate soltanto quelle sub 5), 7) ed 8), tenendo conto, peraltro, da un lato, che le fideiussioni erano distanziate nel tempo e non attenevano all'intero capitale di rischio dell'impresa De Pasquale, bensì a finanziamenti bancari limitati; nonché tenendo conto dello svolgimento dei due rapporti fideiussori in relazione ai debiti garantiti; e, dall'altro lato, che la stessa sentenza parla di interessi, per i finanziamenti, elevati, che non risultano correlati agli utili di gestione dell'impresa costruttrice; interessi pagati, mentre niente dice la sentenza circa gli utili conseguiti effettivamente dal De Pasquale, di guisa che la differenza di trattamento fra i due supposti soci esigeva una spiegazione meno affrettata di quella desumibile dalla sentenza stessa (cfr. Cass. n. 2985-94).
Per quanto riguarda la gestione anomala delle cooperative, in primo luogo le prestazioni (date o ricevute) sub 1), 2), 3), 4, 6), 9) non avrebbero avuto alcun rilievo, ai fini del decidere se andava o meno confermata la sentenza dichiarativa del fallimento della società occulta col De Pasquale, fino a che non fosse stato dimostrato (e non lo è stato) che il De Pasquale partecipasse a detta gestione anomala in veste di socio e non soltanto di persona genericamente interessata. In secondo luogo, avrebbe dovuto tenersi conto (altre che dei rilievi che saranno svolti infra) della circostanza che, anche affermata la partecipazione del De Pasquale alla società occulta che si occupava della suddetta gestione anomala, avrebbe dovuto separatamente accertarsi l'insolvenza della suddetta, che non poteva confondersi ipso facto con l'insolvenza personale del De Pasquale, come più volte si è chiarito. V ) A parte ed in aggiunta ai suddetti rilievi, ben più
penetranti devono essere quelli riguardanti i presupposti giuridici e la valutazione delle prove enunciati dalla sentenza impugnata. Essa sembra confondere due problemi nettamente diversi: quello della violazione della normativa (sia civilistica che pubblicistica) concernente le cooperative e quella della sussistenza di una società occulta fra i suoi amministratori (o "domini"), eventualmente associati con altre persone.
Invero, a pag. 23 si afferma (richiamando le figure del negozio indiretto e di quello fiduciario, nonché quella del collegamento negoziale, al fine di eludere la legge) che l'esistenza delle società cooperative edilizie, con piena autonomia patrimoniale, e le loro attività giuridiche non sono incompatibili con la società di fatto di cui è causa; che anzi e proprio l'attività di cooperative formalmente in regola (ma piegata ai fini speculativi) che realizza il programma della società, consentendo di eludere la legge e di conseguire indebiti benefici fiscali e finanziari. Si osserva che detta premessa, da sola, è del tutto insufficiente a dare la traccia utile per la ricerca di una società di fatto collaterale alle cooperative (non fittizie, ma esistenti e legalmente operanti). Invero, l'art. 2540 secondo comma dispone che sono soggette a fallimento le società cooperative che hanno per oggetto un'attività commerciale, di guisa che il solo fine speculativo, se esso e giuridicamente imputabile alla società, anche tramite le modalità concrete della sua gestione in contrasto con la legge civile e pubblicistica, comporta una qualificazione "commerciale" della cooperativa, ma non l'aggiunta ad essa di un altro organismo. In altri termini, il solo accordo fra i soci, gli amministratori e le altre persone, diretto a quella elusione e all'appropriazione di utili, non comporta una società fra di loro, ma comporta la messa in opera di atti che trovano la loro sanzione soltanto nell'affermazione di responsabilità verso i soci lesi, verso i terzi, verso la stessa società, ed anche verso lo Stato (per esempio, per i finanziamenti agevolati illecitamente ottenuti).
Per l'esistenza della società occorre l'elemento indefettibile dell'esercizio in comune di un'attività economica; elemento che soltanto indirettamente (ed incidentalmente) è affermato dalla sentenza impugnata con la frase "commercio delle quote sociali" già ricordata. Tramite essa, può risalirsi a quella che sembra la qualificazione da dare alla società in argomento.
Si deve, invero, escludere la semplice "società di servizi" od ausiliaria dell'attività cooperativistica, perché essa (a tacer d'altro) sarebbe stata del tutto irrilevante, ai fini della dichiarazione di fallimento, attenendo ad attività diverse (di mera organizzazione, di ricerca dei soci ed assegnatari, di consulenza, di prestazione di attività di collaborazione, etc.) da quella di un'impresa edile, dichiarata fallita come tale.
Sembra pure da escludere la configurazione della società puramente "finanziaria", perché non tutti i soci conferivano i mezzi patrimoniali per l'esercizio dell'attività delle cooperative. Quella che più si attaglia alla materia è la figura, della societa di partecipazione: quei soggetti erano gli effettivi titolari delle quote delle varie cooperative (in tutto o in parte) e la loro imprenditorialità si esercitava tramite l'acquisto ed il commercio, a scopo di lucro, delle quote stesse. In tal modo si identificherebbe l'oggetto sociale, tramite il riferimento ad una attività elencata nell'art. 2195 c.c.; i soggetti si accordarono per acquistare partecipazioni in altre società, allo scopo di operare insieme in funzione di dare un unico indirizzo a tutte le società cooperative, per ricavare una remunerazione dalle risorse (sia patrimoniali che personali) investite in quell'acquisto, in conseguenza degli incrementi realizzati dalle società stesse, mediante la costruzione delle unità immobiliari; gli stessi soggetti (o alcuni di essi) si occuparono di fornire direttamente (tramite i finanziamenti sistematici) o indirettamente (tramite i mutui esterni) il necessario fabbisogno operativo delle partecipate.
La società, in altri termini, aveva per oggetto l'acquisto e la cessione di partecipazioni in altre società (regolari), nonché il coordinamento e la direzione delle stesse ed infine la provvista dei mezzi finanziari occorrenti, ai fini del raggiungimento degli scopi delle partecipate. Tale società poteva essere reale e manifesta od apparente (con spendita del nome proprio, negli atti negoziali che ne costituiscono l'esplicazione); ma poteva anche essere occulta, nel senso non di "segreta", ma di società che agisce, nel mondo esterno, tramite la spendita del nome di un imprenditore apparentemente individuale, anche se qualche terzo ne conosca l'esistenza o riesca a darne la prova, tramite la prova dei patti sociali.
Nella specie, alla stregua delle considerazioni già fatte, la qualificazione (espressa dalla sentenza impugnata) in termini di società "occulta" non appare giustificata dal rilievo che l'imprenditore individuale che agiva nel mondo esterno era il De Pasquale, quale costruttore, perché si è già detto che la materia della costruzione, quale l'attività tipicamente commerciale, non poteva essere imputata alla società, perché non coinvolgeva affatto alcun soggetto diverso dal De Pasquale (salvo, ma è da dimostrare, il Parisi: vedi supra), che si presentava in posizione di parte contrapposta in un contratto di appalto e non di parte esercente in comune con gli altri soggetti un'attività di costruzione edile (che non era oggetto sociale delle cooperative partecipate). Per quanto riguarda le altre attività, esse dovevano inerire alla società di fatto, avente come proprio oggetto, si ripete, l'acquisto, la gestione e la cessione della partecipazioni nelle altre cooperative, anche mediante atti simulati d'accordo con gli apparenti titolari delle quote di società realmente esistenti (essendo ovviamente compatibile il fenomeno della simulazione dell'intestazione di quote, rispetto a quello della realtà effettiva delle società partecipate), nonché ogni altra attività collaterale e strumentale (esclusa la costruzione, data in appalto). E l'indagine della Corte d'appello, poiché non si trattava di dichiarazione di fallimento autonomo di siffatta società, ma di dichiarazione di fallimento "in estensione" rispetto a quella concernente l'imprenditore individuale De Pasquale, doveva riguardare principalmente quest'ultimo. In modo del tutto insufficiente la sentenza impugnata ha preso in esame la posizione del De Pasquale, quasi come se fosse già dimostrata la sua partecipazione alla società che gestiva le cooperative come strumento delle sue finalità.
Mentre, nei riguardi degli altri soci (e soprattutto del così detto "trio") l'indagine e stata sufficiente, nei riguardi del De Pasquale la motivazione è del tutto carente, perché si esaurisce nei seguenti elementi:
1) l'adesione al disegno del notaio di costituire le cooperative (per costruire a costi più bassi e godere dei benefici fiscali e dei tassi agevolati dei finanziamenti): si è già detto che l'operazione significava uno "scorporo" dall'iniziale attività complessiva del De Pasquale (a cui restava solo quella di costruttore), ma non significa ancora partecipazione effettiva all'attività scorporata;
2) l'attività materiale di costruzione di alloggi: si è già detto che essa non può considerarsi compresa nell'oggetto della societa, così come ricostruito dalla sentenza impugnata;
3) l'intenzione dell'imprenditore edile di svolgere la sua attività con maggior lucro (ed in frode alla legge) mediante la costituzione e la gestione di cooperative edilizie: si osserva che doveva più puntualmente dimostrarsi che il De Pasquale avesse partecipato alla costituzione ed alla gestione predette. Sotto il primo profilo, non appare sufficiente l'osservazione che il fratello ed alcuni dipendenti o persone di fiducia del De Pasquale, pur non essendo interessati ai programmi delle cooperative, vi fossero entrati con incarichi vari, senza la dimostrazione che le quote apparentemente ad essi intestate fossero in realtà nella titolarità del costruttore, dato che avrebbero potuto essere puramente figurative.
Sotto il secondo, sarebbe stato necessario accertare che quelle quote (od altre) fossero state "commerciate" d'intesa con il De Pasquale allo scopo di attribuire anche a lui gli utili conseguenti;
4) le dichiarazioni dello stesso De Pasquale, da esaminare con prudenza, dato il suo interesse a coinvolgere altri soggetti nel suo personale fallimento;
5) la dichiarazione scritta del De Pasquale del 21 ottobre 1974, in ordine alla quale si sono gia espresse considerazioni negative circa la sua utilizzabilità per dimostrare un rapporto societario;
6) gli "intensi rapporti" col De Pasquale, che ovviamente dovevano sussistere (dato che si trattava del costruttore degli edifici sociali), ma non vengono chiariti in modo preciso (pagg. 28-29), se non come diretti a perseguire i programmi edilizi in corso nel 1974, attraverso la gestione strumentale delle cooperative; ma, mentre per il c.d. "trio" gli atti di gestione risultano dalla sentenza, non ne viene indicato neppure uno, per quel che riguarda il De Pasquale, che non riguardi i rapporti di debito nei suoi confronti, in relazione alla sua attività di costruttore (che è fuori dalla "società di fatto");
7) la successione del "trio" nella posizione del Rossi, il quale viene considerato socio del De Pasquale (pag. 25) soltanto perché si occupava della sua contabilità, fu nominato Presidente delle Cooperative edilizie e si è riconosciuto come tale in dichiarazioni di cui non viene riportato il contenuto. È evidente che tali dichiarazioni possono rilevare non per la qualifica attribuitasi, ma per l'elencazione di fatti rilevanti, che il giudice e in grado di qualificare come attinenti ad un rapporto di società, tenuto conto delle osservazioni più volte fatte in ordine al suo oggetto. Quindi, è ben vero che il "trio" risulta succeduto nella posizione del Rossi, ma non risulta affatto che quest'ultimo fosse socio, in senso MOTIVI DELLA DECISIONE
tecnico giuridico, del De Pasquale (ed in quale attività: se quella di costruttore e-o quella di venditore delle costruzioni). Tutte le considerazioni fatte sono sufficienti per cassare la sentenza impugnata, restando assorbiti gli altri rilievi del ricorrenti.
La causa va rimessa per nuovo esame, alla stregua del principi qui enunciati e per una completa e soddisfacente motivazione in fatto, ad altra sezione della Corte d'appello di Bari, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte di cassazione riunisce i ricorsi; rigetta i primi cinque motivi del ricorso n. 2439-93; accoglie - per quanto di ragione - gli altri motivi dello stesso ricorso, e del ricorso n. 2538-93. Cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Bari, anche per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso a Roma il 27 settembre 1994.