Diritto Penale
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 25021 - pubb. 20/03/2021
Illecito del magistrato che nega ad una donna in detenzione domiciliare l'autorizzazione ad abortire
Cassazione Sez. Un. Civili, 15 Febbraio 2021, n. 3780. Pres. Cassano. Est. Giusti.
Disciplina della magistratura - Illeciti disciplinari - Art. 2, comma 1, lett. l), del d.lgs. n. 109 del 2006 - Magistrato di sorveglianza - Diniego di autorizzazione ad allontanarsi dall'abitazione per sottoporsi a interruzione volontaria di gravidanza - Motivazione - Generica affermazione dell'insussistenza dei presupposti normativi - Configurabilità dell'illecito
Integra l'illecito disciplinare di cui all'art. 2, comma 1, lett. l), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, il comportamento di un magistrato di sorveglianza che - per negare ad una donna ristretta in regime di detenzione domiciliare l'autorizzazione ad allontanarsi dall'abitazione per sottoporsi ad un intervento di interruzione volontaria della gravidanza - abbia adottato un provvedimento la cui motivazione consiste nella sola declamazione dell'insussistenza dei presupposti di cui all'art. 284, comma 3, c.p.p., richiamato dall'art. 47 ter della legge n. 354 del 1974, privando così la richiedente della possibilità di cogliere la ragione della decisione, destinata a risolversi nell'espressione di un immotivato diniego. (massima ufficiale)
Fatto
1. - Il Dott. A.B., all'epoca dei fatti magistrato di sorveglianza del Tribunale di *, è stato sottoposto a procedimento disciplinare perchè - adito in data (*) dalla signora C.D., ristretta in regime di detenzione domiciliare, con istanza di autorizzazione ad allontanarsi dall'abitazione per sottoporsi ad un intervento di interruzione volontaria di gravidanza, programmato per il successivo (*) presso il reparto di ginecologia dell'ospedale di (*) - respingeva la richiesta con provvedimento in data 8 maggio 2012, del seguente tenore: "non ravvisandosi i presupposti di cui all'art. 284 c.p.p., comma 3, richiamato dall'art. 47-ter ord. pen.".
Secondo il capo di incolpazione, tale motivazione sarebbe stata fondata su una interpretazione dell'art. 284 c.p.p., comma 3, intenzionalmente e palesemente in violazione di legge, strumentalizzata al fine di impedire all'istante di eseguire il programmato intervento che lo stesso riteneva non praticabile perchè contrario ai suoi principi religiosi, così come reso palese dal successivo provvedimento del 22 maggio, adottato su nuova istanza della detenuta, con il quale il Dott. A. rimetteva il fascicolo alla presidente della Sezione con la seguente motivazione: "(...) ritenendo questo magistrato di astenersi dall'emissione del richiesto provvedimento per ragioni di coscienza e ritenendo che il diritto all'obiezione di coscienza debba essere riconosciuto anche agli appartenenti all'ordine giudiziario (stante la particolare ristrettezza dei tempi non è possibile sollevare questione di legittimità costituzionale)".
Il Dott. A. è stato incolpato dell'illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1 e art. 2, comma 1, lett. a) e g).
Con la descritta condotta - si legge nel capo di incolpazione - il magistrato, violando i doveri di imparzialità, correttezza, equilibrio e rispetto della dignità della persona di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, avrebbe arrecato grave discredito all'istituzione giudiziaria ed all'istante un ingiusto danno, consistito nella necessità di riproporre l'istanza e di rinviare l'intervento chirurgico spostandolo dal (*), data per la quale era stato originariamente programmato, al successivo (*) e, dunque, in data assai prossima alla scadenza (indicata nel 2 giugno 2012) dei novanta giorni entro i quali poter praticare l'intervento; nonchè una lesione dei diritti personali dell'istante e, nella specie, del diritto alla salute di cui all'art. 32 Cost..
2. - Con sentenza n. 88/2020, depositata in segreteria il 22 luglio 2020, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha dichiarato il Dott. A. responsabile degli illeciti di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1 e art. 2, lett. a) e l), così diversamente qualificata la condotta contestata, e gli ha inflitto la sanzione disciplinare della censura.
2.1. - La Sezione disciplinare, dopo aver premesso che la richiesta della donna era senz'altro intesa ad ottenere l'autorizzazione a recarsi fuori dal luogo della detenzione domiciliare per sottoporsi a trattamento di interruzione volontaria della gravidanza, ha osservato che le ragioni oggettive della richiesta rientrano sicuramente tra quelle indispensabili esigenze di vita la cui sussistenza consente l'autorizzazione ad assentarsi dal luogo di detenzione domiciliare per il tempo necessario a provvedere alla loro soddisfazione.
Secondo la Sezione disciplinare, il provvedimento emesso dal Dott. A. non fa alcun riferimento a una dedotta deficienza probatoria delle esigenze di vita invocate a fondamento della richiesta; esso piuttosto - apoditticamente affermando che non sussistono "i presupposti di cui all'art. 284 c.p.p., comma 3" - ha finito per affermare, non già che l'esigenza rappresentata non risultava documentata, bensì che le ragioni addotte a sostegno della richiesta non rientravano tra quelle per le quali l'adozione del provvedimento richiesto risultava astrattamente possibile.
Di qui il rilievo che il provvedimento assunto, "per l'abnormità della sua apodittica affermazione", costituisce "un provvedimento privo di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge" - nella specie, pretesa inesistenza delle indispensabili esigenze di vita di cui dell'art. 284 c.p.p., comma 3 - "senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti".
Per le modalità che lo hanno caratterizzato, l'emissione del provvedimento contestato - ha osservato la Sezione disciplinare - risulta integrare, più che la generica violazione di legge di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g), l'illecito espressamente previsto dello stesso art. 2, comma 1, lett. l).
Così diversamente qualificata in termini giuridici la condotta, disciplinarmente rilevante, posta in essere dall'incolpato, la Sezione del CSM ha rilevato che essa costituisce altresì un comportamento, lesivo dei doveri di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, tale da arrecare un ingiusto danno alla richiedente. Infatti, per effetto dell'illegittimo provvedimento emesso, la signora C.D. ha dovuto: (a) rivolgersi ad un legale per la presentazione di una nuova istanza, a garanzia della protezione dei propri interessi; (b) rinviare a data successiva, prossima alla scadenza del termine di legge per l'effettuazione dell'intervento programmato, la soddisfazione di quelle fondamentali esigenze di vita richiamate dall'art. 284 c.p.p., comma 3, ingiustificatamente compromesse e messe a rischio dal provvedimento contestato.
Quanto all'adozione del secondo provvedimento (del 22 maggio), la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha ritenuto che esso, pur se fondato su una impropria evocazione dell'obiezione di coscienza, valga almeno come richiesta di astensione implicitamente accolta dal capo dell'Ufficio; pertanto, ne ha escluso la specifica rilevanza disciplinare.
3. - Per la cassazione della sentenza della Sezione disciplinare del CSM, notificata il 30 luglio 2020, il Dott. A. ha proposto ricorso, con atto depositato il 28 settembre 2020, sulla base di quattro motivi.
Il Ministro della giustizia ha resistito con controricorso.
4. - Fissato all'udienza pubblica del 9 febbraio 2021 con avviso notificato il 28 ottobre 2020, il ricorso è stato trattato in Camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal sopravvenuto del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla Legge di Conversione n. 176 del 2020, senza l'intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.
Il pubblico ministero, in prossimità della Camera di consiglio, ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
Il ricorrente, a sua volta, ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c., anche in replica al controricorso del Ministro della giustizia e alla requisitoria del Procuratore generale.
Motivi
1. - Con il primo motivo (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b ed e, in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. l, e all'art. 125 c.p.p.) il ricorrente lamenta inosservanza ed erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale, nonchè mancanza assoluta di motivazione e difetto di motivazione emergente dal testo del provvedimento impugnato e da altri atti del processo con riferimento alla statuizione con la quale la Sezione disciplinare ha ritenuto l'incolpato responsabile dell'illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. l). Ad avviso del ricorrente, la sentenza impugnata avrebbe errato nell'assumere come abnorme il contenuto sostanziale del provvedimento dell'8 maggio 2012, omettendo di esaminare il provvedimento oggetto di incolpazione in correlazione al fine cui era diretto e con gli effetti (di corretta riproposizione) che ha determinato. La Sezione disciplinare avrebbe opposto inammissibilmente una propria interpretazione del provvedimento medesimo, meramente astratta ed ipotetica, formale, sostitutiva e suppletiva della libertà decisoria del giudice e contraddetta, alla prova di resistenza, dalla condotta dell'istante. Il provvedimento adottato rispecchierebbe, ad avviso del ricorrente, la situazione di insussistenza dei presupposti di quanto richiesto, non affermando, neppure implicitamente, alcun principio abnorme. Tale provvedimento avrebbe raggiunto in pieno il suo scopo, avendo l'istante perfettamente compreso le ragioni ed il motivo di rigetto della sua richiesta, adeguandosi di conseguenza. Poichè l'interruzione di gravidanza consente l'autorizzazione di cui all'art. 284 c.p.p., comma 3, al solo ricorrere di adeguato riscontro probatorio delle relative condizioni, la difesa del ricorrente sostiene che il Dott. A. non avrebbe fatto altro che ribadire che, all'atto pratico, l'esigenza delle indispensabili esigenze di vita deve essere corredata da idoneo supporto documentale che soltanto l'istante può fornire per il conseguente apprezzamento. La sentenza impugnata avrebbe dovuto considerare che la mancanza di prova a sostegno della istanza è compendiabile nella formula di rigetto per mancanza dei presupposti di cui all'art. 284 c.p.p., comma 3. La decisione della Sezione disciplinare, inoltre, avrebbe errato nel ritenere il provvedimento adottato dal magistrato di sorveglianza idoneo ad "ingannare" la parte, senza considerare che la donna ha poi provveduto ad assestare il tiro, documentando i presupposti della richiesta.
Con il secondo motivo (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b ed e, in relazione all'art. 192 c.p.p. e al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. l) il Dott. A. censura inosservanza ed erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale, nonchè mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo, anche sub specie del travisamento della prova, in relazione alla (ritenuta non) esaustività e completezza del provvedimento dell'8 maggio 2012 e comunque sussistenza dell'illecito ritenuto. Ad avviso del ricorrente, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura avrebbe del tutto omesso di valutare le ragioni ed i documenti posti a sostegno del provvedimento di rigetto dell'8 maggio 2012, omettendo di effettuare la prova di resistenza del proprio ragionamento alla luce dell'avvenuta riproposizione dell'istanza in maniera più articolata e documentata. La sentenza impugnata, secondo il ricorrente, si sostanzierebbe in una congettura, o in una presunzione sfornita di adeguato riscontro, circa il potenziale errore in cui la parte sarebbe potuta incappare nel ritenere di non avere astrattamente diritto al permesso. La Sezione disciplinare non avrebbe considerato: che l'istanza è stata in un primo tempo respinta in data 8 maggio 2012 unicamente per motivi riguardanti il non pieno assolvimento dell'onere probatorio da parte dell'interessata, la quale, tra l'altro, non aveva documentato la tipologia di trattamento cui intendeva sottoporsi; che la stessa istante non solo non è incappata nell'equivoco apoditticamente paventato, ma - evidentemente ben consapevole del deficit della prima istanza - ha ripresentato la domanda corredandola di adeguati documenti giustificativi.
1.1. - Il primo e il secondo motivo possono essere esaminati congiuntamente, data la loro stretta connessione.
Essi sono, entrambi, infondati.
1.2. - Il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. l), sanziona come illecito disciplinare nell'esercizio delle funzioni "l'emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è richiesta dalla legge".
1.3. - Nella specie, l'interessata, in stato di detenzione domiciliare, si è rivolta al magistrato di sorveglianza di * con una istanza scritta in data (*) con la quale, "certificata la propria gravidanza" come da allegata documentazione, ha chiesto di essere autorizzata ad allontanarsi da casa per sottoporsi ad un intervento di interruzione volontaria della gravidanza programmato per il giorno (*) presso il reparto di ginecologia dell'ospedale di (*), deducendo di non essere intenzionata a portare a termine la gravidanza.
Il magistrato di sorveglianza Dott. A. ha rigettato l'istanza con provvedimento dell'8 maggio 2012, del seguente tenore: "non ravvisandosi i presupposti di cui all'art. 284 c.p.p., comma 3, richiamato dall'art. 47-ter o.p.".
1.4. - Correttamente la Sezione disciplinare del CSM ha ritenuto che l'emissione del provvedimento contestato, per le modalità che lo hanno caratterizzato, integra l'illecito disciplinare di cui al citato art. 2, comma 1, lett. l).
Al riguardo, il primo dato dal quale occorre muovere attiene alla interpretazione del contesto normativo di riferimento. In tema di autorizzazione ad assentarsi dal luogo di detenzione domiciliare, la nozione di "indispensabili esigenze di vita", contemplata dall'art. 284 c.p.p., comma 3, deve essere intesa non in senso meramente materiale o economico, bensì tenendo conto della necessità di tutelare i diritti fondamentali della persona, tra cui è compresa la libertà di scelta e di autodeterminazione della donna di interrompere volontariamente la gravidanza al ricorrere delle condizioni previste dalla L. n. 194 del 1978, a tutela della sua salute anche psichica. La scelta di sottoporsi all'intervento di interruzione volontaria della gravidanza costituisce infatti - come puntualmente ha osservato il pubblico ministero nelle sue conclusioni scritte - manifestazione ed esercizio "di un diritto personalissimo, che non tollera limitazioni a causa dello stato di detenzione". Ne consegue che le ragioni oggettive della richiesta presentata dall'interessata, consistenti nella interruzione volontaria della gravidanza presso una struttura ospedaliera pubblica, indiscutibilmente rientrano tra quelle "indispensabili esigenze di vita", la cui sussistenza consente l'autorizzazione ad assentarsi dal luogo della detenzione domiciliare per il tempo necessario a soddisfare alla loro realizzazione.
Il secondo aspetto riguarda l'analisi del provvedimento adottato dal magistrato incolpato. E' un dato inoppugnabile, emergente dalla piana lettura del provvedimento compiuta dalla Sezione disciplinare, che nel provvedimento di rigetto non vi è alcun riferimento, neppure nella forma più sintetica, a una carenza di adeguata documentazione probatoria nell'istanza presentata dall'interessata, essendovi la sola, apodittica, affermazione che non si ravvisano "i presupposti di cui all'art. 284 c.p.p., comma 3".
1.5. - In questo contesto, si appalesa logico e coerente il rilievo del giudice disciplinare secondo cui il provvedimento emesso dall'incolpato si presenta come un provvedimento assolutamente privo di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola declamazione della insussistenza dei presupposti di legge senza l'indicazione degli elementi di fatto da cui tale insussistenza risulti. Un provvedimento, per di più, che, esaurendosi nell'affermazione di non ricorrenza dei presupposti di legge, ha finito per affermare che le ragioni addotte a sostegno della richiesta non rientravano tra quelle per le quali l'adozione della richiesta autorizzazione risultava astrattamente possibile; il che avrebbe addirittura potuto determinare nell'istante il convincimento di non avere astrattamente diritto ad ottenere l'autorizzazione ad allontanarsi dal luogo della detenzione domiciliare per sottoporsi al programmato intervento di interruzione volontaria della gravidanza.
1.6. - L'assenza di alcun riferimento a deficienze probatorie della istanza di autorizzazione e la, immotivata ed apodittica, affermazione di non ricorrenza dei presupposti di legge, integrano l'illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. l).
Il provvedimento giurisdizionale, infatti, tanto più quando riferito ad una richiesta che attiene ad indispensabili esigenze di vita e attraverso la quale si esprime l'intenzione di esercitare un diritto personalissimo in un ambito in cui l'ordinamento conferisce rilievo alla salute psico-fisica della gestante e alla particolarità della sua condizione, non può risolversi nella espressione di un immotivato diniego, che lasci la persona che ne è destinataria nelle condizioni di non potere neppure comprendere le effettive ragioni alla base del rigetto.
1.7. - Si tratta di conclusione conforme alla giurisprudenza di questa Corte. E' stato infatti chiarito (Cass., Sez. Un., 6 settembre 2013, n. 20570) che integra l'illecito disciplinare nell'esercizio delle funzioni per l'emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, il comportamento di un magistrato che abbia omesso di motivare, anche solo in forma succinta (come richiesto dall'art. 134 c.p.c., comma 1), un'ordinanza di ingiunzione di pagamento di somme non contestate emessa a norma dell'art. 423 c.p.c., comma 2, privando così le parti della possibilità di cogliere la ragione di fondo che sorregge il provvedimento giurisdizionale, destinato a risolversi nell'espressione di un immotivato comando. "Dire sufficiente una motivazione sommaria" si sottolinea nel citato precedente di queste Sezioni Unite - "non equivale... ad affermare che la motivazione può completamente mancare. E una motivazione completamente manca quante volte chi legge non è posto in condizione di cogliere neppure la ragione di fondo che sorregge il provvedimento giurisdizionale, in quanto tale incompatibile con la mera espressione di un immotivato comando".
Invero, la mancanza della motivazione assurge a illecito disciplinare non per le sue conseguenze processuali, ma in quanto lesiva di un valore fondamentale della giurisdizione, la cui legittimazione è strettamente connessa alla trasparenza delle decisioni e alla conoscibilità delle ragioni che hanno condotto il giudice ad assumere una determinata decisione. Attraverso la motivazione è possibile verificare se il giudice abbia applicato la legge in conformità all'obbligo esclusivo di soggezione ad essa, posto dall'art. 101 Cost., comma 2.
1.8. - Il ricorrente sostiene che il provvedimento adottato sarebbe corretto perchè, in carenza di adeguato supporto probatorio nell'unico documento prodotto dall'istante in data (*), legittimamente sarebbe stata rigettata la richiesta autorizzazione di assentarsi dal luogo di detenzione domiciliare, sul rilievo che in tanto i presupposti di legge sussistono in quanto esista la prova dei medesimi. Si addebita inoltre alla sentenza impugnata di non avere considerato che il provvedimento di rigetto aveva comunque raggiunto il suo scopo, mettendo l'istante, che ben sapeva cosa aveva scritto ed allegato, nelle condizioni di riformulare al meglio le proprie richieste.
Le doglianze sollevate non colgono nel segno.
L'esistenza e la sufficienza della motivazione di un provvedimento giurisdizionale vanno valutate esaminando il provvedimento medesimo, rimanendo esclusa la possibilità di attingere a circostanze fattuali esterne per valutarne l'adeguatezza. Pertanto, le, dedotte dal ricorrente, carenze probatorie nella documentazione allegata all'istanza avrebbero dovuto costituire la base argomentativa del provvedimento di rigetto. Viceversa, il provvedimento adottato dall'incolpato contiene la mera asserzione della insussistenza dei presupposti di legge, senza alcun riferimento a lacune sul piano probatorio o documentale.
Non può essere condivisa l'obiezione secondo cui la valutazione, compiuta dal magistrato di sorveglianza, di insussistenza dei presupposti applicativi della disposizione di legge di cui all'art. 284 c.p.p., comma 3, sarebbe di per sè idonea ad esprimere, e a compendiare, il giudizio sulla mancanza di prova a sostegno della istanza presentata dalla detenuta. Per un verso, infatti, l'assunto difensivo non tiene conto che la non ricorrenza dei presupposti di legge e la mancanza di prova a sostegno dell'istanza presentata dalla persona interessata coprono ambiti diversi e non sovrapponibili, riferendosi, l'una, ai presupposti ai quali in astratto l'applicazione della disposizione di legge è subordinata, l'altra, alla ricorrenza in concreto dei presupposti di legge. Per altro verso, l'osservazione del ricorrente non considera, ancora una volta, il dato, incontrovertibile, che il provvedimento adottato è assolutamente "muto" con riguardo alla supposta mancanza di prova a sostegno dell'istanza formulata dalla donna in stato di detenzione domiciliare: esso non reca il benchè minimo riferimento, neppure indiretto o in forma anche soltanto vagamente accennata, al fatto che la richiesta era rigettata a causa dell'insufficiente corredo documentale della domanda.
Neppure coglie nel segno la critica rivolta alla sentenza della Sezione disciplinare, là dove questa - dando rilievo al rischio che il provvedimento emesso avrebbe potuto determinare nell'istante il convincimento di non avere astrattamente diritto, per le ragioni indicate, ad ottenere la richiesta autorizzazione - avrebbe fatto riferimento, ad avviso del ricorrente, ad un argomento meramente formale e tautologico, non tenendo nel debito conto la circostanza che la donna ha poi correttamente riproposto l'istanza, documentandola congruamente, così mostrando di avere compreso senza difficoltà il motivo determinante il rigetto della sua prima domanda.
La censura non appare meritevole di seguito perchè, rispetto allo standard richiesto dalla disposizione incolpatrice con riguardo alla motivazione, costituisce provvedimento gravemente immotivato quello che - nel dare risposta ad una istanza, rivolta alla soddisfazione di un diritto personalissimo, proveniente direttamente dall'interessata, senza il tramite di un difensore - non renda percepibile il fondamento della decisione di rigetto nè faccia conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, a tal punto come sottolineato dalla Sezione del CSM - da porre l'interessata nella condizione di doversi rivolgere ad un legale per la presentazione di nuova istanza, a garanzia della protezione dei propri interessi.
Il giudice disciplinare, in altri termini, non ha affatto omesso di considerare la circostanza che la signora C.D., dopo il provvedimento di rigetto dell'8 maggio 2012, ha reiterato l'istanza (poi accolta da altro magistrato, dopo che il Dott. A. aveva fatto richiesta di astensione, impropriamente evocando l'obiezione di coscienza). Al contrario, la Sezione disciplinare ha - con argomentazione del tutto logica e congrua - individuato nella reiterazione non già la dimostrazione che l'interessata avesse correttamente compreso che la prima istanza era stata rigettata in quanto non adeguatamente documentata, quanto piuttosto la conferma della difficoltà di comprendere le effettive ragioni alla base del rigetto: una conferma tratta dall'essersi dovuta, la destinataria, rivolgere ad un legale che la assistesse nel procedimento nel quale l'istanza fu ripresentata.
1.9. - Si sottrae, pertanto, alle censure articolate con i motivi di ricorso l'affermazione di responsabilità del Dott. A. ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. l), avendo l'incolpato emesso un provvedimento assolutamente privo di motivazione, nel quale non è presente nessun riferimento ad una ritenuta deficienza probatoria della richiesta di autorizzazione ad assentarsi dal luogo della detenzione domiciliare per sottoporsi ad interruzione volontaria della gravidanza, e dove quindi manca qualsiasi giustificazione a sostegno della affermazione, in sè apodittica, della insussistenza dei presupposti di legge rispetto alla istanza proposta.
2. - Sotto la rubrica "art. 606 c.p.p. comma 1, lett. b) ed e), in relazione all'art. 192 c.p.p. e al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1 e art. 2, comma 1, lett. a) e l)", con il terzo motivo il ricorrente si duole della inosservanza ed erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale, nonchè della mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo, anche sub specie del travisamento della prova, in relazione: (a) alla ritenuta illegittimità del provvedimento dell'8 maggio 2012; (b) alla ritenuta lesione dei doveri di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1; (c) al ritenuto ingiusto danno arrecato alla parte (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. a e l). Il ricorrente sostiene: che il provvedimento dell'8 maggio 2012 non potrebbe dirsi illegittimo perchè non è contra legem, nè illegittimamente emesso, essendo al contrario stato legittimamente e legalmente dato nell'ambito di adeguata e corretta attività giurisdizionale; che la sentenza sarebbe del tutto carente in punto di motivazione con riferimento alla violazione dei doveri del magistrato e dei pregiudizi subiti dalla istante, non rendendo neppure conto dell'eventuale ingiustizia di tali pregiudizi e non essendo in grado di porre alcun nesso tra il fatto disciplinare per come ritenuto con i presunti danni ingiusti; che la motivazione su tali punti sarebbe dovuta essere particolarmente rigorosa, atteso il fatto che solo in presenza di danni ingiusti sussiste e si integra un illecito disciplinare.
2. - Il motivo è infondato.
2.1. - Non si appalesa fondata la deduzione del ricorrente rivolta a dolersi della qualificazione in termini di illegittimità del provvedimento emesso.
Allorquando (a pagina 6) ha qualificato come "illegittimo" il provvedimento di diniego, l'impugnata sentenza della Sezione disciplinare ha infatti inteso censurare il comportamento deontologicamente scorretto del magistrato incolpato, il quale, affermando apoditticamente l'insussistenza dei presupposti di legge per l'accoglimento della richiesta autorizzazione, ha emesso un provvedimento assolutamente privo di motivazione, laddove la motivazione era richiesta dalla legge, così allontanandosi dal modello costituzionale di giudice e di giustizia.
2.2. - Il ricorrente censura inoltre che la sentenza impugnata avrebbe dovuto specificare quale tra i doveri di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, sarebbe stato violato attraverso la condotta ritenuta disciplinarmente rilevante. Nessuna parola - si assume - sarebbe stata spesa per individuare i doveri violati e la ragione specifica di tale violazione; nè la violazione di una qualunque tra le fattispecie disciplinari implicherebbe ipso facto anche la violazione di tali doveri, perchè l'art. 2, comma 1, lett. a), lo escluderebbe, quando specifica che i comportamenti di cui al catalogo, per essere disciplinarmente rilevanti, debbono violare anche i doveri di all'art. 1, oltre che determinare un ingiusto danno.
La doglianza così articolata muove dall'inesatto presupposto che la Sezione disciplinare sia pervenuta al riconoscimento della responsabilità dell'incolpato prescindendo dal riscontro della violazione di uno o più tra i doveri - imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio, rispetto della dignità della persona - elencati nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e richiamati nella descrizione della condotta di cui all'art. 2, comma 1, lett. a), dello stesso D.Lgs..
Si tratta di una lettura erronea della sentenza impugnata, appena si consideri che essa, al punto 8 e al punto 9 dei Motivi della decisione, contiene l'affermazione che il comportamento del magistrato è evidentemente lesivo dei doveri di cui all'art. 1 e si apprezza come rilevante anche in relazione a tale disposizione.
Per effetto dell'illegittimo provvedimento emesso - si legge nella sentenza della Sezione disciplinare - la richiedente ha dovuto: (a) rivolgersi ad un legale per la presentazione di una nuova istanza, a garanzia della protezione dei propri interessi; (b) rinviare a data successiva, prossima alla scadenza del termine di legge per l'effettuazione dell'intervento programmato, la soddisfazione di quelle fondamentali esigenze di vita richiamate dall'art. 284 c.p.p., comma 3, ingiustificatamente compromesse e messe a rischio dal provvedimento contestato.
La sentenza della Sezione del CSM non solo lascia intendere con evidenza quale sia il dovere violato, ma anche spiega le ragioni della affermata lesione. A venire in rilievo è il mancato rispetto, nell'esercizio delle funzioni, della dignità della persona. Nel ragionamento seguito dai giudici del merito disciplinare ci sono, infatti, la considerazione e l'evidenziazione - esattamente colte dal pubblico ministero nelle sue conclusioni scritte - del patema che è suscettibile di causare, specie in una persona che versi in condizioni restrittive, l'adozione di un provvedimento immotivato che neghi, allo stato, la soddisfazione di una fondamentale esigenza di vita strettamente connessa alla salute psico-fisica.
2.3. - Nè miglior fondamento ha la censura rivolta alla statuizione della sentenza impugnata che ha riconosciuto il diniego immotivato del Dott. A. produttivo di ingiusto danno.
Va premesso che ai fini della sussistenza dell'illecito disciplinare previsto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. a), è necessaria la verificazione di un evento costituito dall'ingiusto danno (o dall'indebito vantaggio) per una delle parti del procedimento, non essendo sufficiente la sola condotta del magistrato, consistente nella violazione dei doveri di cui al precedente articolo (Cass., Sez. Un., 27 novembre 2013, n. 26548).
Tanto premesso, il Collegio osserva che la sentenza impugnata ha specificamente valutato nel merito la sussistenza dell'elemento costitutivo rappresentato dall'ingiusto danno, dandone conto con una motivazione stringente, adeguata e logica.
La Sezione disciplinare del CSM ha chiaramente individuato l'ingiusto danno, patito dall'istante in conseguenza del diniego immotivato di autorizzazione, sia nella necessità di rivolgersi ad un legale per la presentazione di una nuova istanza, a garanzia della protezione dei propri interessi, sobbarcandosi agli oneri di una difesa tecnica, sia nel rinvio dell'esecuzione dell'intervento programmato per altra data. Soprattutto in questa seconda conseguenza il giudice disciplinare ha ravvisato il concreto pregiudizio, giacchè il dovere rinviare a data successiva, prossima alla scadenza dei termini di legge, l'effettuazione dell'intervento di interruzione volontaria della gravidanza - disagevole sotto il profilo psicologico e fisico per ogni donna, tanto più quando questa versa in condizioni di detenzione -, ha ingiustificatamente compromesso e messo a rischio la soddisfazione di un interesse primario per la persona coinvolta.
3. - Con il quarto motivo, prospettato in via subordinata, il ricorrente denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale, nonchè assenza assoluta di motivazione con riferimento alla norma di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis, il quale afferma che l'illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza (art. 606 c.p.p., lett. b ed e, in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, art. 2, comma 1, lett. a e l, art. 3-bis). Ad avviso del ricorrente, la Sezione disciplinare avrebbe del tutto omesso, essendo invece a ciò tenuta, di valutare l'esistenza dell'esimente di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis.
3.1. - All'esame della doglianza occorre premettere che, come enunciato in più di un'occasione da queste Sezioni Unite, del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis, secondo cui l'illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza, è applicabile, sia per il tenore letterale della disposizione, che per la sua collocazione sistematica, a tutte le ipotesi previste negli artt. 2 e 3 del medesimo D.Lgs..
L'art. 3-bis, introduce nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, per cui richiede un riscontro, in concreto ed ex post, della lesione del bene giuridico tutelato (Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2020, n. 29823).
Ai fini dell'applicazione di tale esimente, il giudice disciplinare deve procedere ad una valutazione d'ufficio, sulla base dei fatti acquisiti al procedimento e prendendo in considerazione le caratteristiche e le circostanze oggettive della vicenda addebitata, anche riferibili al comportamento dell'incolpato, purchè strettamente inerenti allo stesso, con giudizio globale diretto a riscontrare se l'immagine del magistrato sia stata effettivamente compromessa dall'illecito.
In particolare, l'accertamento della condotta disciplinarmente rilevante in applicazione della citata esimente deve compiersi senza sovvertire il principio di tipizzazione degli illeciti disciplinari. Pertanto, nell'ipotesi in cui il bene giuridico individuato specificamente dal legislatore in rapporto al singolo illecito disciplinare non coincida con quello protetto dal citato art. 3-bis, il giudizio di scarsa rilevanza del fatto dovrà anzitutto tenere conto della consistenza della lesione arrecata al bene giuridico specifico e, solo se l'offesa non sia apprezzabile in termini di gravità, occorrerà ulteriormente verificare se quello stesso fatto, che integra l'illecito tipizzato, abbia però determinato un'effettiva lesione dell'immagine pubblica del magistrato, risultando applicabile la detta esimente in caso di esito negativo di entrambe le verifiche (Cass., Sez. Un., 22 novembre 2019, n. 31058).
La valutazione degli elementi di fatto che legittimano il riconoscimento della scarsa rilevanza del fatto costituisce compito esclusivo della Sezione disciplinare del CSM, soggetta a sindacato di legittimità soltanto ove viziata da un errore di impostazione giuridica oppure motivata in modo insufficiente o illogico (Cass., Sez. Un., 13 luglio 2017, n. 17327).
3.2. - Nel caso in esame si assume criticamente che la sentenza impugnata non conterrebbe alcun riferimento alla verifica della sussistenza dell'esimente, nè sotto il profilo della apprezzabilità e gravità del fatto nè sotto quello della lesione della immagine del magistrato.
3.3. - La censura trascura di considerare che la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura non si è limitata a ritenere sussistenti gli illeciti disciplinari nella loro configurazione tipica, ma ha rimarcato la gravità della vicenda nel suo complesso: sia quando, nel censurare il comportamento consistito nell'adozione di un provvedimento di rigetto immotivato, ha evidenziato che il diniego si è basato sulla "abnormità della... apodittica affermazione (non ricorrenza dei presupposti di legge)"; sia quando, del provvedimento di rigetto, ha messo in luce l'incidenza negativa, in termini di ingiustificata compromissione e messa a rischio, sulle fondamentali esigenze di vita della richiedente.
3.4. - Quindi vi è, insieme al riscontro, in concreto ed ex post, della lesione dei beni giuridici tutelati, una valutazione di gravità del caso, additiva rispetto a quella ordinaria per la sussistenza degli illeciti disciplinari di cui dell'art. 2, comma 1, lett. l) e a), nella loro configurazione tipica; il che comporta una implicita, ma innegabile e motivata, esclusione della possibilità di ritenere le violazioni di scarsa rilevanza (cfr. Cass., Sez. Un., 12 marzo 2015, n. 4953; Cass., Sez. Un., 10 settembre 2019, n. 22577).
4. - Il ricorso è rigettato.
Quanto alle spese, la necessità della cui regolamentazione viene in rilievo esclusivamente nei rapporti tra l'incolpato ricorrente e il Ministro della giustizia che ha svolto attività difensiva in questa sede, il Collegio ritiene sussistenti, data la complessità delle questioni trattate e la particolarità del caso, i requisiti di legge che consentono, attraverso la compensazione, di temperare il rigore del principio di soccombenza.
5. - Ai sensi dell'art. 52 del Codice in materia di protezione dei dati personali, va disposto che, in caso di diffusione della sentenza, sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi dell'incolpato e della parte privata che ha presentato la richiesta di autorizzazione.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e dichiara compensate le spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi dell'art. 52 del Codice in materia di protezione dei dati personali, dispone che, in caso di diffusione della sentenza, sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi dei soggetti coinvolti.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2021.