Deontologia
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23327 - pubb. 05/03/2020
Pagamento dei compensi dell’Avvocato: la competenza quando l’opera è stata prestata in più gradi o fasi del giudizio
Cassazione Sez. Un. Civili, 19 Febbraio 2020, n. 4247. Pres. Curzio. Est. Tria.
Avvocato - Pagamento dei compensi - Opera prestata in più gradi e/o fasi del giudizio - Competenza
Nel caso in cui un avvocato abbia scelto di agire ai sensi della L. 13 giugno 1942, n. 794, ex art. 28, come modificato dalla lett. a) del comma 16 del D.Lgs. 1° settembre 2011, n. 150, art. 34, nei confronti del proprio cliente, proponendo l’azione prevista dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14 e chiedendo la condanna del cliente al pagamento dei compensi per l’opera prestata in più gradi e/o fasi del giudizio, la competenza è dell’ufficio giudiziario di merito che ha deciso per ultimo la causa. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)
Fatti di causa
1. Con ordinanza in data 15 giugno 2018 il Tribunale di Napoli ha dichiarato la propria incompetenza in relazione alla domanda di liquidazione dei compensi professionali proposta dall’avvocato X.X. per il patrocinio svolto in favore del Condominio (*), nel giudizio definito in primo grado dal medesimo Tribunale con sentenza n. 5826/2014 e in sede di gravame dalla locale Corte d’appello con sentenza n. 4007/2015.
Ad avviso del Tribunale se la domanda ha ad oggetto la richiesta di compensi per l’attività professionale svolta in più gradi del giudizio, l’intera lite rientra nella competenza del giudice di secondo grado (o di quello che abbia conosciuto per ultimo della controversia), essendo solo questi in condizione di valutare l’intera attività svolta e di liquidare il compenso nella misura più adeguata.
Avverso detta decisione l’avvocato P. ha proposto ricorso per regolamento di competenza strutturato in un unico motivo.
Il Condominio (*) ha depositato memoria difensiva.
2. La trattazione del regolamento di competenza è stata disposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. dinanzi alla Sesta Sezione Civile, Sottosezione Seconda.
In quella sede il ricorrente ha sostenuto che il Tribunale adito avrebbe disatteso le indicazioni della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 4485 del 2018, secondo cui nei procedimenti D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 14, quando le prestazioni del difensore siano svolte dinanzi ad uffici giudiziari diversi, per ottenere il relativo compenso occorrerebbe proporre domande autonome dinanzi a ciascun giudice adito per il processo, con esclusione della possibilità di riconoscere al giudice di secondo grado (o al giudice che abbia trattato per ultimo il giudizio) la competenza per l’intera controversia.
3. La Sezione remittente ha rilevato che:
a) nella originaria formulazione della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 28 era stabilito che il legale per ottenere la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente, dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura, se non intendeva seguire la procedura di cui all’art. 633 c.p.c. e segg., doveva proporre ricorso al capo dell’ufficio giudiziario adito per il processo;
b) secondo l’indirizzo prevalente della giurisprudenza di legittimità formatosi in riferimento alla originaria formulazione della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 28 il carattere funzionale ed inderogabile della competenza ivi prevista - con conseguente necessità di proporre la domanda al Capo dell’ufficio giudiziario adito per il processo - comunque non impediva al difensore che avesse svolto il patrocinio in più gradi di instaurare un unico giudizio per ottenere l’intero corrispettivo;
c) in tale ultimo caso la domanda doveva essere proposta all’ufficio giudiziario che per ultimo avesse trattato il processo, sull’assunto che solo quest’ultimo fosse in condizione di valutare l’opera svolta nella sua globalità e liquidare il compenso in misura adeguata, sicché per le prestazioni rese in primo ed in secondo grado, la competenza restava radicata dinanzi al giudice d’appello (Cass. n. 13586/1991; Cass. n. 6033/1987; Cass. n. 4704/1989; Cass. n. 4215/1983; Cass. n. 3256/1953);
d) con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2011 - il cui art. 14 contiene la disciplina delle controversie prima disciplinate dall’art. 28 cit. e ss., stabilendo che tali controversie nonché l’opposizione proposta a norma dell’art. 645 c.p.c., contro il decreto ingiuntivo riguardante onorari, diritti o spese spettanti agli avvocati per prestazioni giudiziali sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto - gran parte della giurisprudenza di legittimità si è orientata nel senso di considerare attratte al rito sommario speciale di tutte le controversie riguardanti i compensi dei difensori, pure se concernenti l’an della pretesa;
e) l’elemento principale che ha portato a tale conclusione è da rinvenire nel D.Lgs. n. 150 del 2001, art. 3, comma 1, che per tutte le controversie disciplinate dal neo-istituito rito sommario di cognizione ha escluso l’applicabilità delle disposizioni di cui agli all’art. 702-ter c.p.c., commi 2 e 3, con conseguente impossibilità di disporre il passaggio della causa al rito ordinario ove le difese svolte delle parti richiedano un’istruzione non sommaria;
f) quest’ultima norma è stata ritenuta legittima dalla Corte costituzionale anche per il fatto che è sembrato che la disposizione abbia confermato "l’impossibilità di ricorrere al procedimento speciale nel caso in cui il thema decidendum si estenda a questioni che esulano dalla mera determinazione del compenso" (così, testualmente, Corte Cost., sentenza n. 65 del 2014);
g) con la sentenza delle Sezioni unite n. 4485 del 2018, richiamata dal ricorrente, la soluzione dell’ampliamento del thema decidendum anche all’an delle pretese è stato ribadito ed ulteriormente sviluppato e dalla generale regolazione con la procedura prevista dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14 di tutte le controversie afferenti alle questioni concernenti il diritto agli onorari forensi si è fatta derivare la preclusione per il difensore della possibilità di utilizzare il rito ordinario di cognizione piena ovvero il rito sommario codicistico di cui agli artt. 702-bis c.p.c..
4. Con specifico riguardo alla ipotesi, che ricorre nella specie, di attività professionale svolta per il medesimo cliente dinanzi a più uffici giudiziari nell’ambito dello stesso processo, la Sezione remittente sottolinea che nella anzidetta sentenza delle SU è stato puntualizzato che, in tali casi, in base al combinato disposto dell’art. 28 cit. e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14 il difensore può:
a) proporre distinte domande davanti a ciascuno degli uffici di espletamento delle prestazioni senza far luogo al cumulo (soluzione desunta dal comma 2 dell’art. 14 cit.);
b) proporre le domande in cumulo con il rito monitorio davanti al tribunale competente in via ordinaria ex art. 637 c.p.c., comma 1, ovvero davanti al tribunale del luogo indicato dall’art. 637 c.p.c., comma 3, salva, in tutti i casi, la prevalenza del foro del consumatore, con riguardo alla competenza territoriale (D.Lgs. n. 206 del 2005, ex art. 33, comma 2, lett. u).
5. La soluzione del presente regolamento di competenza dipende dalla valutazione della tesi del Tribunale di Napoli secondo cui se la domanda ha ad oggetto la richiesta di compensi per l’attività professionale svolta dell’avvocato in più gradi del giudizio in favore del medesimo cliente, l’intera lite rientra nella competenza del giudice di secondo grado (o di quello che abbia conosciuto per ultimo della controversia), essendo solo questi in condizione di valutare l’intera attività svolta e di liquidare il compenso nella misura più adeguata.
Tale valutazione deve essere effettuata alla luce dei principi affermati da questa Sezioni unite nella sentenza n. 4485 del 2018 cit.
6. Di qui la formulazione dei seguenti quesiti, entrambi volti a chiarire il quadro sistematico e le indicazioni operative che emergono dalla suddetta sentenza delle Sezioni Unite n. 4485 del 2018 sul punto indicato:
a) se, nell’attuale quadro normativo, esclusa la possibilità di proporre la domanda in via ordinaria o ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c. e ss., resti tuttora impregiudicata la possibilità di chiedere i compensi per attività svolte in più gradi in un unico processo dinanzi al giudice che abbia conosciuto per ultimo della controversia (e, quindi, nello specifico, alla Corte di appello di Napoli), dando continuità all’orientamento maggioritario formatosi nel vigore della L. n. 794 del 1942, art. 28, anche tenendo conto dell’affermata natura non inderogabile della competenza del giudice adito per il processo;
b) se, invece, i criteri di competenza per dette controversie vadano ricercati esclusivamente sulla base del coordinamento tra il D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, comma 2, e l’art. 637 c.p.c., lasciando al ricorrente la sola alternativa di proporre più domande autonome (per i compensi relativi a ciascun grado di causa) dinanzi ai singoli giudici aditi per il processo o di cumularle dinanzi al tribunale competente ex art. 637 c.p.c. (con salvezza del cd. foro del consumatore), restando in ogni caso esclusa la competenza del giudice che abbia conosciuto per ultimo del processo.
7. La Sesta Sezione Civile, Sottosezione Seconda, ritenendo che la questione cui si riferiscono entrambi i suddetti quesiti si profili come "questione di massima di particolare importanza", ai sensi dell’art. 374 c.p.c., ha ritenuto opportuno rimettere gli atti al primo Presidente per l’eventuale assegnazione a queste Sezioni unite.
8. Il Primo Presidente ha disposto in conformità e la causa è stata discussa all’odierna udienza, previa acquisizione della relazione dell’Ufficio del Massimario.
9. Il pubblico ministero ha, quindi, depositato le proprie conclusioni scritte, nelle quali ha concluso per l’affermazione della competenza del Tribunale di Napoli, in composizione collegiale, a decidere sulle domande proposte dall’avv. P..
10. In prossimità dell’udienza l’avv. P. ha depositato una memoria nella quale ha ribadito quanto sostenuto nel ricorso.
Ragioni della decisione
I - Sintesi delle censure.
1. Con l’unico motivo del ricorso per regolamento di competenza si sostiene l’erroneità della tesi seguita dal Tribunale di Napoli, secondo cui se la domanda dell’avvocato si riferisce a compensi professionali relativi all’attività svolta in più gradi del giudizio, l’intera lite rientra nella competenza del giudice di secondo grado o di quello che abbia conosciuto per ultimo della controversia, essendo solo questi in grado di valutare l’intera attività svolta e di liquidare il compenso nella misura più adeguata.
Ad avviso del ricorrente tale conclusione si basa su una isolata sentenza della Corte di cassazione (Cass. 17 dicembre 1991, n. 13586), seguita da alcuni giudici del merito, ma antecedente rispetto all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2011 e comunque non conforme alle indicazioni contenute nella sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 4485 del 2018, secondo cui nei procedimenti D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 14, quando le prestazioni del difensore siano svolte dinanzi ad uffici giudiziari diversi, per ottenere il relativo compenso occorrerebbe proporre domande autonome dinanzi a ciascun giudice adito per il processo, con esclusione della possibilità di riconoscere al giudice di secondo grado (o al giudice che abbia trattato per ultimo il giudizio) la competenza per l’intera controversia.
II - Esame delle censure.
3. Il ricorso non è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.
4. Deve essere, in primo luogo, precisato che - diversamente da quel che sostiene il ricorrente - l’indirizzo favorevole alla proponibilità al giudice che ha deciso per ultimo la causa della domanda cumulativa relativa a tutti i compensi relativi alle prestazioni professionali svolte dall’avvocato per il medesimo cliente in più gradi o fasi del processo L. 13 giugno 1942, n. 794, ex art. 28 (nella formulazione originaria), non ha la sua fonte in una isolata sentenza di questa Corte (Cass. 17 dicembre 1991, n. 13586), ma in un risalente e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (vedi, per tutte: Cass. 9 ottobre 1953, n. 3256; Cass. 20 giugno 1983, n. 4215; Cass. 10 luglio 1987, n. 6033; Cass. 8 novembre 1989, n. 4704; Cass. 18 maggio 1994, n. 4824; Cass. 16 luglio 1994, n. 6700; Cass. 8 febbraio 1996, n. 1012 nonché successiva giurisprudenza in materia, ove il suddetto indirizzo non risulta essere stato motivatamente contraddetto).
A sostegno di tale tesi, si rilevava che - per l’indicata ipotesi - il testo normativo non stabiliva una competenza dei Capi degli uffici giudiziari pronunciatisi nel corso del processo inderogabile dei giudici dei diversi gradi del processo nè reciprocamente l’obbligo del legale di proporre più ricorsi a tali diversi Capi dei vari uffici giudiziari e che, d’altra parte, la previsione della suindicata facoltà era finalizzata a consentire di ottenere il provvedimento richiesto da parte del giudice più di ogni altro in grado di valutare le prestazioni professionali inerenti all’intero procedimento.
5. Tale orientamento peraltro, per ragioni logico-sistematiche, va collegato all’altro indirizzo in base al quale, l’art. 28 cit., nella parte relativa alla previsione dell’attivazione dello speciale procedimento in oggetto "dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura" espressione presente anche nel testo dell’art. 28 attualmente vigente - deve essere interpretato nel senso che per "decisione della causa" deve intendersi il provvedimento conclusivo che definisce l’intero procedimento (Cass. 21 dicembre 2007, n. 27137), salvo restando che la procedura può essere attivata anche in caso di prestazioni relative a giudizi non compiuti per ragioni processuali oppure a giudizi giunti regolarmente a termine ma non compiuti dal professionista per revoca o rinuncia al mandato o anche a giudizi definiti con transazione (Cass. 12 luglio 2000, n. 9241).
6. A fronte di tali orientamenti maggioritari, soltanto in poche pronunce è stata esclusa la possibilità di proporre l’anzidetta domanda cumulativa in un unico giudizio dinanzi al giudice che emesso l’ultima decisione nell’ambito del processo (in particolare: Cass. 9 gennaio 1973, n. 21 e Cass. 16 luglio 1997, n. 6493).
Peraltro, tali decisioni - oltre ad essere numericamente esigue non possono dirsi realmente in contrasto con l’indirizzo dominante perché, dalle relative motivazioni, si desume che, in realtà, sono il frutto di un differente approccio ermeneutico basato sul valore preminente attribuito all’interpretazione letterale dell’art. 28 cit. dell’epoca, mentre l’orientamento maggioritario risulta il frutto di una esegesi della norma non soltanto letterale ma anche logico-sistematica e teleologica.
7. Le premesse teoriche su cui è basato tale indirizzo minoritario sono le seguenti:
a) il procedimento speciale di cui alla L. n. 794 del 1942, artt. 28 e ss. è caratterizzato da peculiare semplicità di forme e da almeno tendenziale estrema rapidità - ed è stato concepito come strumento finalizzato ad attribuire agli avvocati per l’attività professionale prestata ai loro clienti in materia giudiziale civile la liquidazione di compensi spettanti, sul presupposto della pacifica esistenza di un rapporto di patrocinio fra le parti;
b) per assicurare meglio il conseguimento del suddetto scopo e, "presumibilmente, anche per assegnare ai contendenti un giudice, per quanto possibile, autorevole ed esperto in cause eccezionalmente sottratte alla garanzia del doppio grado di merito, dato che l’ordinanza conclusiva delle stesse risulta impugnabile solo con il ricorso per cassazione a mente dell’art. 111 Cost.";
c) di qui la affermata necessità di interpretare il testo dell’art. 28 cit. nel senso di riservare in modo inderogabile il compito di conoscere delle controversie in questione al Capo dell’ufficio giudiziario adito dal professionista istante per ottenere la liquidazione dei rivendicati emolumenti (Cass. n. 27 gennaio 1995, n. 993).
8. Tale ultima statuizione trova riscontro in un nutrito orientamento che, in base alla valorizzazione dell’uso della forma verbale "deve" - presente nell’art. 28 dell’epoca - è pervenuto a configurare come funzionale ed inderogabile la competenza del Capo dell’ufficio giudiziario adito per i vari gradi o le varie fasi del processo (Cass. 14 aprile 1983, n. 2613; Cass. 6 marzo 1991, n. 2347; Cass. 24 marzo 1992, n. 3620; Cass. 27 gennaio 1995, n. 993; Cass. 12 settembre 1995, n. 9628; Cass. SU 23 marzo 1999, n. 182; Cass. 23 ottobre 2001, n. 13001; Cass. 16 luglio 2002, n. 10293; Cass. 6 dicembre 2013, n. 27402).
Con tale orientamento si è quindi giunti ad attribuire in via giurisprudenziale natura inderogabile alla competenza (all’epoca del Capo dell’ufficio giudiziario), oltretutto sulla base di una interpretazione esclusivamente letterale dell’art. 28 cit. effettuata senza indagare - come prescrive l’art. 12 preleggi l’intenzione del legislatore alla stregua dei criteri di interpretazione logico-sistematica e teleologica (vedi, per tutte: Corte Cost., sentenza n. 223 del 1991) ai quali va aggiunto il canone preferenziale dell’interpretazione conforme a Costituzione, rinforzato dal concorrente canone dell’interpretazione non contrastante con la normativa UE nonché con la CEDU (vedi, per tutte: Corte Cost., sentenza n. 206 del 2015).
10. Deve comunque essere precisato che entrambi i suddetti orientamenti - pur se muovendo da prospettive diverse e, quindi, utilizzando strumenti rispettivamente differenti - sono diretti a perseguire il medesimo obiettivo di garantire una risposta adeguata alla domanda azionata dal legale, partendo dalla considerazione anch’essa comune - delle peculiari caratteristiche del procedimento in oggetto, destinato a concludersi con un provvedimento sottratto alla garanzia del doppio grado di merito.
Ebbene, in base all’indirizzo che esclude la possibilità di proporre una domanda unica al giudice che abbia conosciuto per ultimo la controversia lo strumento migliore per dare risposta a tali esigenze è stato configurato nel riservare la competenza per il procedimento ex art. 28 ad un giudice, per quanto possibile, autorevole ed esperto (il Capo dell’Ufficio).
Per l’indirizzo maggioritario, che invece consente la proposizione di una unica domanda nell’anzidetta ipotesi, la soluzione migliore per garantire una risposta il più possibile adeguata, pur nell’estrema semplicità dello strumento processuale, è stata individuata nell’attribuzione della competenza al giudice che ha emesso la decisione definitiva nell’ambito del processo, sul presupposto che il giudice del grado e della fase finale del processo sia "quello particolarmente in grado di valutare le prestazioni professionali inerenti all’intero procedimento, dovendo per compito istituzionale seguire, ai fini della decisione richiestagli, lo svolgersi delle attività processuali dall’atto introduttivo della lite al momento in cui il professionista ha proposto il ricorso di liquidazione in oggetto" (vedi per tutte: Cass. 10 luglio 1987, n. 6033).
E il fatto che a tale ultimo risultato si giunga in via giurisprudenziale non ne diminuisce la rilevanza, tanto più che, come si è detto, anche l’affermazione della inderogabilità della competenza del giudice - che costituisce la base dell’altro orientamento e che è da escludere nell’attuale quadro normativo, come affermato nella sentenza n. 4485 del 2018 cit. - è di fonte giurisprudenziale e non legale.
11. Peraltro, deve essere sottolineato che l’orientamento minoritario, cui fa riferimento l’attuale ricorrente, si fonda sul riconoscimento della inderogabilità della competenza.
Ebbene, va posto in luce che nella richiamata sentenza 23 febbraio 2018, n. 4485 - dopo l’osservazione secondo cui "non parrebbe segnare una significativa differenza" il fatto che nel nuovo art. 28 il verbo "deve" presente nel vecchio testo è stato sostituito dal verbo "procede" - si è precisato che il criterio di competenza previsto dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, comma 2, "non è dichiarato inderogabile espressamente dal legislatore e non si può nemmeno considerarlo tale" per il fatto che le prestazioni oggetto della domanda sono legate allo svolgimento della funzione del giudice.
12. Alla suddetta condivisibile osservazione, che mina alle radici l’orientamento minoritario, nella sentenza n. 4485 cit. si aggiunge che:
a) "il criterio di competenza di cui all’art. 14, comma 2, concerne soltanto l’ipotesi in cui si utilizzi la forma di introduzione con il procedimento sommario e si adisca l’ufficio presso il quale sono state svolte le prestazioni";
b) "se l’avvocato non chiede il decreto ingiuntivo ed agisce con il ricorso ex art. 702-bis, direttamente utilizzando uno dei criteri di competenza di cui al comma 1 ed al comma 3 dell’art. 137 - recte: 637 - (non quello di cui al comma 2, che coincide con quello di cui dell’art. 14, comma 2), l’azione resta comunque regolata dal rito sommario speciale di cui all’art. 14, salvo appunto che per il profilo di competenza".
Ne deriva che, nella suindicata sentenza, l’azione cumulativa ex art. 14 cit. è stata considerata ammissibile, punto quindi ormai fermo, ma si è affermato che l’individuazione del giudice competente in tal caso deve essere effettuata in base ai commi primo e terzo dell’art. 637 c.p.c. e non in applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, comma 2.
13. A tale ultimo riguardo, va preliminarmente rilevato che la precisazione richiesta dalla Sezione remittente porta ad escludere la suindicata opzione secondo cui, in caso di cumulo dell’azione per compensi relativi a vari gradi del medesimo giudizio, la soluzione possa essere costituita dalla combinazione tra le regole della competenza fissate dall’art. 14 cit. con le regole sulla competenza fissate dall’art. 637 c.p.c., commi 1 e 3, per il procedimento di ingiunzione.
Infatti, il sistema delineato dal nuovo testo della L. n. 794 del 1942, art. 28 prevede due procedimenti per il recupero nei confronti del cliente dei compensi spettanti all’avvocato per l’attività svolta nei giudizi civili: quello di cui agli artt. 633 c.p.c. e segg. e il procedimento speciale disciplinato dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 14).
In entrambi i casi, come indicato anche nel testo dell’art. 28 attualmente vigente, l’azione può essere proposta "dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura", espressione complessivamente da intendere, come si è detto, nel senso che la "decisione della causa" è il provvedimento conclusivo che definisce l’intero procedimento (Cass. 21 dicembre 2007, n. 27137), ma l’azione è proponibile anche in caso di prestazioni relative a giudizi non compiuti per ragioni processuali oppure a giudizi giunti regolarmente a termine ma non compiuti dal professionista per revoca o rinuncia al mandato o anche a giudizi definiti con transazione (Cass. 12 luglio 2000, n. 9241) (vedi sopra punto 5).
I due procedimenti sono però regolati in modo differente, anche con riguardo all’individuazione del giudice competente. E tali discipline non devono essere confuse.
14. Peraltro, nè il comma 1, nè il comma 3 dell’art. 637 c.p.c. appaiono applicabili senza problemi al suindicato procedimento speciale.
Basta pensare che:
a) il comma 1 dell’art. 637 prevede: "Per l’ingiunzione è competente il giudice di pace o in composizione monocratica, il tribunale che sarebbe competente per la domanda proposta in via ordinaria", mentre l’art. 14, comma 2, stabilisce che la decisione relativa al procedimento ex art. 28 cit. è assunta dal Tribunale "in composizione collegiale". Pertanto, si determinerebbe una asimmetria nel sistema se si affermasse che l’azione per i compensi proposta in forma distinta, qualora sia competente il Tribunale (per essere l’ufficio dinanzi al quale si è svolta la controversia), debba essere proposta ai sensi dell’art. 14, comma 2, dinanzi al Tribunale collegiale, mentre quella in cumulo possa essere proposta dinanzi al Tribunale monocratico ai sensi del 637 c.p.c., comma 1;
b) il comma 3 dell’art. 637 cit. stabilisce che: "Gli avvocati o i notai possono altresì proporre domanda d’ingiunzione contro i propri clienti al giudice competente per valore del luogo ove ha sede il consiglio dell’ordine al cui albo sono iscritti o il consiglio notarile dal quale dipendono". La norma è strettamente collegata al parere di congruità che deve corredare la domanda di decreto ingiuntivo nei casi previsti dall’art. 633 c.p.c., nn. 2 e 3, anche dopo l’abrogazione delle tariffe e il vivace dibattito che ne è scaturito (vedi, per tutte: Cass. 15 gennaio 2018, n. 712; Cass. 5 gennaio 2011 n. 236). Mentre, nel caso in cui l’avvocato scelga la via del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14 l’allegazione del suddetto parere non è prevista come obbligatoria.
15. Ma al di là di queste distonie, l’applicabilità dei criteri dell’art. 637 c.p.c., commi 1 e 3, quando per l’azione in giudizio l’avvocato abbia scelto la strada del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14 porterebbe all’individuazione di nuove e diverse competenze rispetto alla disciplina previgente e quindi l’interpretazione della normativa che ne deriverebbe sarebbe in contrasto con il principio fissato dalla L. Delega 18 giugno 2009, n. 69, art. 54, comma 4, lett. a), che imponeva al legislatore delegato di tener fermi i criteri di competenza fissati dalla legislazione previgente (principio della c.d. invarianza delle competenze, più volte richiamato da Cass. SU n. 4485 del 2018).
16. Il rispetto di tale ultimo principio è alla base anche della risposta che qui viene fornita al quesito proposto nell’ordinanza di rimessione, nel senso indicato dalla prima delle soluzioni alternative prefigurate ("resti impregiudicata la possibilità di chiedere i compensi per le attività svolte in più gradi in un unico processo dinanzi al giudice che ha conosciuto per ultimo la controversia").
17. Da Cass. SU n. 4485 del 2018 e dalla successiva giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 5 ottobre 2018, n. 24515; Cass. 18 settembre 2019, n. 23259) si desume chiaramente che le modifiche introdotte dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, con riguardo alla suddetta questione, non hanno certamente introdotto innovazioni incompatibili con l’indirizzo maggioritario di cui si è detto - al quale viene data sostanziale continuità - visto che in linea generale il legislatore ha anzi seguito gli orientamenti consolidati di questa Corte in materia, in coerenza del resto con i principi e criteri direttivi dettati dalla legge di delega n. 69 del 2009.
Infatti, la nuova normativa si è limitata sul punto a eliminare la competenza funzionale del Capo dell’ufficio stabilendo che: "è competente l’ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l’avvocato ha prestato la propria opera", aggiungendo che "il tribunale decide in composizione collegiale" (art. 14, comma 2, cit.).
18. Come osservato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 65 del 2014, la riserva di collegialità prevista per i procedimenti di liquidazione degli onorari forensi de quibus - caratterizzati da molteplici peculiarità che non si esauriscono nella sola riserva di collegialità, ma attengono anche ai criteri di determinazione della competenza, al regime delle impugnazioni, alla possibilità di incardinare il giudizio in unico grado dinanzi alla Corte di appello, nonché di partecipare personalmente al procedimento, senza l’assistenza di un difensore - in un’ottica di valorizzazione delle garanzie defensionali, può giustificarsi in termini di bilanciamento che il legislatore, con valutazione discrezionale insindacabile, ha ritenuto adeguato per compensare la riduzione dei rimedi e delle garanzie connessa, da un lato, all’esclusione dell’appello e, dall’altro lato, alla possibilità di partecipare personalmente al giudizio, rinunciando ad avvalersi dell’assistenza tecnica di un difensore.
Di qui la conclusione della Corte costituzionale secondo cui la riserva di collegialità per i procedimenti in esame ben può costituire "una delle modalità" attraverso le quali il legislatore ha disciplinato in maniera differenziata situazioni processuali eterogenee rispetto al modello ordinario, il che trova riscontro nell’orientamento espresso da Cass. SU 20 luglio 2012, n. 12609 e dalla successiva giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 3 ottobre 2019, n. 24754).
19. Ne deriva che - ad avviso della Corte costituzionale - per i giudizi di competenza del Tribunale la riserva di collegialità è da considerare come lo strumento utilizzato dal legislatore del 2011 per perseguire l’obiettivo di offrire una risposta adeguata - e rispettosa del diritto di difesa - alla domanda azionata dal legale con lo speciale procedimento in oggetto, onde compensare la riduzione dei rimedi e delle garanzie che caratterizza il procedimento stesso.
Ma deve essere precisato che la questione di costituzionalità esaminata nella sentenza n. 65 del 2014 cit. si riferiva esclusivamente alla composizione collegiale, anziché monocratica, del Tribunale e che, d’altra parte, la riserva di collegialità in contestazione è stata configurata come "una delle modalità" attraverso le quali il legislatore ha disciplinato il suddetto procedimento speciale.
Ne consegue che tali statuizioni della Corte costituzionale risultano del tutto compatibili con la competenza per lo speciale procedimento de quo del Giudice di pace, con riguardo alla domanda di liquidazione dei compensi relativi a controversie decise da tale Giudice. Tale competenza, infatti, si deve considerare pacificamente esistente - in analogia con quanto accadeva prima con il Pretore e il Conciliatore - anche in assenza della collegialità, potendosi desumere dalla anzidetta sentenza n. 65 del 2014 della Corte costituzionale - e, quindi, con un’interpretazione conforme alla Costituzione - che, nel caso del Giudice di pace, non è la "riserva di collegialità" lo strumento previsto per compensare la riduzione dei rimedi e delle garanzie propria del procedimento speciale de quo, perché in questo caso tale obiettivo viene perseguito attraverso la presumibile snellezza della procedura e la semplicità della controversia, caratteristiche che peraltro, per la Corte costituzionale, sono "identificative" del procedimento speciale.
20. Infatti, da quanto affermato dalla Corte costituzionale nelle diverse occasioni in cui ha avuto modo di esaminare il procedimento speciale in oggetto - vedi, per tutte sentenze n. 22 del 1973; n. 238 del 1976; n. 197 del 1998; n. 96 del 2008; n. 65 del 2004 - si desume che la permanenza nell’ordinamento di tale procedimento speciale la cui originaria disciplina è antecedente alla Costituzione - e che "si correla ontologicamente ad uno specifico giudizio contenzioso finalizzato soltanto alla sollecita liquidazione degli onorari di avvocato" per le controversie di un tipo ben delimitato (civili) - si giustifica per la sua snellezza e la tendenziale celerità (spec. Corte Cost., sentenza n. 96 del 2008, richiamata da Cass. 25 luglio 2013, n. 18070).
La snellezza e la tendenziale celerità del procedimento, unitamente con la tutela delle garanzie defensionali, condizionano, pertanto, anche l’individuazione del giudice competente, al pari delle molteplici peculiarità dell’istituto, la cui fisionomia non è stata modificata dal D.Lgs. n. 150 del 2011 nè poteva esserlo, visto che la finalità del decreto era solo quella della riduzione e semplificazione dei riti civili (Corte Cost. sent. n. 65 del 2014 cit.).
Alle suddette caratteristiche e alla correlata tutela del diritto di difesa, risponde anche la proponibilità da parte dell’interessato di un giudizio in unico grado dinanzi alla Corte di appello (cui, anzi, la Corte costituzionale fa espresso riferimento nella sentenza n. 65 del 2014 cit.) per chiedere i compensi per attività svolte in più gradi o fasi di un unico processo, di cui la Corte d’appello sia il giudice che abbia conosciuto per ultimo della controversia.
E sempre in linea con le medesime esigenze va letto l’art. 14, comma 2, cit., ove fa riferimento allo "ufficio giudiziario di merito", con ciò escludendo la possibilità di utilizzare il procedimento speciale dinanzi alla Corte di cassazione, visto che esso può richiedere l’espletamento di attività istruttoria. E ciò nemmeno nel caso in cui gli onorari di cui si chiede il pagamento siano dovuti per il patrocinio dinanzi alla Corte stessa e la conseguente necessità, a pena di inammissibilità, della proposizione, per l’attività svolta dall’avvocato dinanzi alla Corte di cassazione: (a) in caso di cassazione senza rinvio o di mancata riassunzione del giudizio di rinvio, dinanzi al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; (b) nel caso di cassazione con rinvio seguita da riassunzione del giudizio, dinanzi al giudice di rinvio (Cass. 1 agosto 2008, n. 20930). Questo trova conferma nell’art. 14, comma 2, cit., si fa riferimento allo "ufficio giudiziario di merito".
21. La soluzione qui data alla questione proposta con l’ordinanza di rimessione oltre a rispondere alle suindicate esigenze è anche compatibile con la lettera dell’art. 14, comma 2, del D.Lgs. n. 150 cit. ove 3i parla di "ufficio adito per il processo nel quale l’avvocato ha prestato la propria opera". Infatti, l’uso del singolare ("ufficio", e soprattutto "processo") induce a pensare che, se l’opera è stata prestata in più gradi del processo sia possibile un’azione unitaria e l’ufficio sia da intendere come quello che ha definito il processo e quindi l’ultimo (di merito).
22. Tale soluzione è altresì la più coerente sul piano della interpretazione teleologica e sistematica (come si è detto sopra: vedi punto 4 e 5).
Il giudice che decide la causa nel grado superiore ha una migliore visione d’insieme dell’opera prestata dall’avvocato.
Inoltre, questa soluzione meglio risponde alle ragioni di economia processuale che presidiano l’ordinamento e mirano ad evitare moltiplicazioni dei giudizi, in linea con i principi del giusto processo.
Secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale (vedi, per tutte: Corte Cost. sent. n. 281 del 2010) l’applicazione dei principi del giusto processo comporta che, per assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., in coerenza con l’art. 6 della CEDU, devono essere evitati i frazionamenti di tutela processuale per la medesima vicenda e comunque si deve dare una risposta, possibilmente celere, alla domanda di giustizia proposta, con una decisione di merito che sia esauriente.
Ne consegue che alla possibilità, nell’anzidetta ipotesi, di rivolgersi con un’unica domanda cumulativa al giudice del merito che abbia conosciuto per ultimo della controversia - originariamente configurata come ampiamente facoltativa - ora deve essere attribuita una configurazione adeguata ai suddetti principi.
23. Al riguardo, in particolare, sono ormai consolidati nella giurisprudenza di questa Corte i seguenti indirizzi:
a) non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità si traduce in una unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, ponendosi in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale (tra le tante: Cass. SU 15 novembre 2007, n. 23726;
b) le domande aventi a oggetto diversi e distinti diritti di credito relativi a un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo - sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale - la loro proposizione in autonomi e separati è possibile soltanto se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata del credito (vedi, per tutte: Cass. SU 16 febbraio 2017, n. 4090; Cass. 13 agosto 2018, n. 20714; Cass. 15 ottobre 2019, n. 26089;
c) pertanto, non viola il suddetto divieto di frazionamento della tutela processuale e non incorre in abuso del processo l’attore che, a tutela di un unico credito dovuto in forza di un unico rapporto obbligatorio - nella specie per il pagamento di compensi professionali non di tipo forense - agisca con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua, in quanto tale comportamento non si pone in contrasto nè con il principio di correttezza e buona fede nei confronti del debitore, nè con il principio del giusto processo, dovendosi riconoscere il diritto del creditore a una tutela accelerata mediante decreto ingiuntivo per i crediti provati con documentazione sottoscritta dal debitore (Cass. 18 maggio 2015, n. 10177; Cass. 7 novembre 2016, n. 22574).
24. Il suddetto adeguamento comporta quindi che, come regola generale, nel procedimento L. n. 794 del 1942, ex art. 28 (come modificato dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, artt. 14 e 34) in caso di attività professionale svolta dall’avvocato in più gradi e/o fasi di un giudizio in favore del medesimo cliente la domanda per i relativi compensi deve essere proposta al giudice collegiale che abbia conosciuto per ultimo della controversia.
La proposizione da parte dell’avvocato di distinte domande davanti a ciascuno degli uffici di espletamento delle prestazioni professionali senza far luogo al cumulo è meramente residuale ed è una strada percorribile soltanto se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata del credito.
25. Alla luce delle suindicate precisazioni, la controversia oggetto della causa deve quindi essere decisa sulla base del seguente principio di diritto:
"Nel caso in cui un avvocato abbia scelto di agire L. 13 giugno 1942, n. 794, ex art. 28, come modificato dalla lett. a) del comma 16 del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 34, nei confronti del proprio cliente, proponendo l’azione prevista dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14 e chiedendo la condanna del cliente al pagamento dei compensi per l’opera prestata in più gradi e/o fasi del giudizio, la competenza è dell’ufficio giudiziario di merito che ha deciso per ultimo la causa".
III – Conclusioni.
26. In applicazione del suddetto principio il ricorso deve essere rigettato e deve essere dichiarata la competenza della Corte d’appello di Napoli, in quanto l’azione è stata proposta cumulativamente ed il processo si è svolto in due gradi, l’ultimo dei quali dinanzi alla Corte d’appello di Napoli.
27. La novità delle questioni esaminate giustifica la compensazione delle spese del regolamento di competenza.
28. Poiché con il ricorso per regolamento di competenza ha natura impugnatoria, in considerazione del rigetto del ricorso si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012, ove il versamento ivi previsto risulti dovuto.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e dichiara la competenza della Corte d’appello di Napoli. Compensa le spese del giudizio di regolamento di competenza.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, ove dovuto.
Depositato in cancelleria il 19 febbraio 2020.