Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19314 - pubb. 11/01/2018

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Cassazione Sez. Un. Civili, 10 Dicembre 1993, n. 12159. Est. Cantillo.


Nuova attività di impresa esercitata dal fallito dopo la data di apertura della procedura concorsuale - Operazioni finanziarie ad essa inerenti - Apertura di un conto corrente bancario - Versamenti eseguiti sul conto - Acquisizione da parte del curatore delle somme versate - Limiti



Qualora il fallito, dopo la data dell'apertura della procedura concorsuale, intraprenda una nuova attività d'impresa, e si avvalga, per le operazioni finanziarie ad essa inerenti, di un conto corrente bancario, i relativi atti non ricadono nella sanzione di inefficacia dell'art. 44 del r.d. 16 marzo 1942 n. 267, la quale riguarda le diverse ipotesi in cui il fallito disponga di beni esistenti a quella data (e quindi a lui già sottratti), ma restano soggetti alle disposizioni dell'art. 42 secondo comma del citato decreto, in tema di sopravvenienze di ulteriori beni per titolo successivo al fallimento (cioè non dipendenti dalla gestione del patrimonio fallimentare o da rapporti giuridici preesistenti). Ne consegue che la curatela, in applicazione di tale ultima norma, ha facoltà di appropriarsi dei risultati positivi dell'indicata attività, al netto delle spese incontrate per la loro realizzazione, e, pertanto, può reclamare dalla banca il versamento soltanto del saldo attivo del predetto conto corrente, corrispondente all'utile dell'impresa, non anche la restituzione delle somme dal conto stesso uscite per pagamenti effettuati nell'esercizio dell'impresa medesima. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Antonio BRANCACCIO Primo Presidente

" Vincenzo SALAFIA Pres. di Sez.

" Francesco E. ROSSI "

" Pasquale PONTRANDOLFI Consigliere

" Michele CANTILLO Rel. "

" Raffaele NUOVO "

" Alfredo ROCCHI "

" Francesco AMIRANTE "

" Vincenzo CARBONE "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 1921-89 del R.G. AA.CC., proposto da

FALLIMENTO DI CAMPI NINO, in persona del Curatore p.t., elett.te dom.to in Roma, Via Oslavia n. 6 c-o lo studio dell'avv.to Giuseppe Alessi che lo rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso.

Ricorrente

contro

BANCA CATTOLICA DEL VENETO S.p.A., in persona del Direttore generale p.t., elett.te dom.ta in Roma, Via di Porta Pinciana n. 6 c-o lo studio dell'avv.to Michele Giorgianni che la rappresenta e difende unitamente all'avv.to Armando Massignani, giusta delega a margine del controricorso.

Controricorrente

Avverso la sentenza n. 29 della Corte d'Appello di Bologna dep. il 12.1.1988.

Udita nella Pubblica Udienza tenutasi il giorno 21.5.93 la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Dr. Cantillo.

Uditi il P.M. nella persona del Dr. Di Renzo, avv.to gen.le c-o la Corte Suprema di Cassazione che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il fallimento del commerciante di bestiame Nino Campi, con atto di citazione del 5 dicembre 1984, premesso che dopo l'inizio della procedura concorsuale il fallito aveva intrapreso una nuova attività d'impresa consistente nella compravendita di bovini acquistati all'estero e a questo scopo aveva intrattenuto un conto corrente presso la Banca Cattolica del Veneto che all'epoca presentava un saldo attivo di lire 28.662.247, deduceva che, ai sensi dell'art. 14 legge fall., erano inefficaci tutti i pagamenti effettuati con le somme affluite sul conto, le quali dovevano essere acquisite al fallimento; e poiché la banca, in tal senso compulsata, si era limitata a versare il detto saldo, la conveniva innanzi al Tribunale di Ferrara per sentirla condannare al pagamento della somma di lire 48.209.233 pari alla differenza tra l'importo globale delle somme depositate sul conto e il saldo medesimo, oltre interessi di legge. All'udienza di prima comparizione, in contumacia della convenuta, la causa veniva rimessa al Collegio; e il Tribunale accoglieva la domanda con sentenza del 5 giugno 1986, autorizzandone la provvisoria esecuzione.

La Corte di Appello di Bologna, con la sentenza ora denunziata del 12 gennaio 1988, è andata in contrario avviso, rigettando la domanda e compensandone le spese.

La Corte si è anzitutto occupata di un'eccezione di nullità del giudice di primo grado formulata dalla Banca appellante per violazione dell'art. 293 c.p.c., in base al rilievo che l'immediata rimessione alla causa al collegio le aveva impedito di costituirsi tardivamente. In sentenza si obietta che la rimessione al collegio già nella prima udienza è espressamente consentita dall'art. 80 bis delle disposizioni di attuazione e che la norma si applica anche in contumacia di una delle parti, siccome nessuna deroga è prevista per questo caso e la costituzione tardiva può aversi sempre che sia possibile, non configurandosi al riguardo un diritto del contumace. Nel merito, richiamato il principio sancito dall'art. 42 comma 2 l. fall., per cui l'acquisizione alla massa dell'utile di un'impresa esercitata dal fallito impedisce di ritenere inopponibili i costi inerenti all'attività, la Corte ha osservato che il Campi aveva intrapreso il commercio di bestiame importando dalla Francia 40 capi al prezzo di lire 46.000.000, con pagamento posticipato; che le somme versate in conto, per un ammontare complessivo di circa 76.000.000, costituivano i ricavi della vendita di detti animali; e che l'unico assegno di rilievo, di poco più di lire 46.000.000, era stato emesso dal fallito a favore di una società francese in pagamento del prezzo dei bovini acquistati. Stante, quindi, la stretta inerenza alla produzione del reddito, tale somma non poteva essere acquisita dal fallimento ne' a danno della banca, che si era limitata ad eseguire il pagamento, ne' a danno del venditore del bestiame, che aveva diritto a conservare il prezzo del venduto.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso il fallimento in base a tre motivi.

Resiste la Banca Cattolica con controricorso.

Sono state presentate memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. - Con i primi due motivi del ricorso, che vanno esaminati insieme perché strettamente connessi, la curatela del fallimento Campi - denunziando la violazione degli artt. 42 comma 2 e 44 legge fall., nonché vizi della motivazione - sostiene che erroneamente la sentenza impugnata ha deciso la controversia in base alla prima di dette norme, la quale, invece, per due ordini di ragioni non sarebbe applicabile nel caso del conto corrente intrattenuto dall'imprenditore già dichiarato fallito; in primo luogo, perché l'art. 42 cit. si riferisce ai beni materiali pervenuti al fallito dopo la dichiarazione di fallimento, che vengono acquisiti e liquidati della curatela in forza dei principi sulla responsabilità patrimoniale; in secondo luogo, perché nell'ambito del rapporto di conto corrente le rimesse in danaro del correntista hanno soltanto le funzioni di ripristinare le disponibilità, senza fare acquisire al fallito alcun bene suscettibile di valutazione economica. Pertanto, a parere del ricorrente, la disposizione applicabile è soltanto l'art. 44, per cui sono inefficaci sia i versamenti accreditati sul conto dal fallito e sia le erogazioni a terzi eseguite dalla banca per ordine del fallito.

2. - Il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite per comporre il contrasto che si è determinato presso la Prima Sezione della Corte in ordine alla disciplina applicabile agli atti compiuti del fallito, dopo la dichiarazione di fallimento e ai relativi effetti, con particolare riguardo al fallito che intraprenda una nuova attività d'impresa e in relazione ad essa intrattenga un conto corrente bancario. Si tratta di stabilire se il fallimento possa acquisire tutte le somme corrispondenti alle rimesse attive e ai pagamenti effettuati attraverso il conto, prescindendo dalla loro inerenza, o meno, alla produzione del reddito d'impresa, ovvero possa far proprio solo il saldo attivo del conto, corrispondente all'utile realizzato.

La prima soluzione, seguita dalle sentenze meno recenti (dalla n. 1851 del 1975 alla n. 6777 del 1988), fa perno sull'art. 44 l. fall., che dichiara inefficaci rispetto ai creditori "tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento"; in tali sentenze si afferma che la disposizione rende inefficaci sia il contratto di conto corrente che le relative operazioni, in particolare i pagamenti, per cui la banca è tenuta a riversare non solo le somme ancora disponibili sul conto, ma anche quelle erogate in precedenza a fornitori e, in genere, a creditori dell'imprenditore.

L'altra soluzione, adottata con le sent. n. 1417 del 1989 e confermata dalla sent. n. 5334 del 1991, muove dal coordinamento dell'art. 44 con l'art. 42 comma 2 legge fall., secondo cui i beni che pervengono al fallito dopo il fallimento sono acquisiti alla massa previa detrazione delle "passività incontrate per l'acquisto e la conservazione dei medesimi". In forza di tale disposizione - è stato affermato - per i beni sopravvenuti il principio di inefficacia degli atti dispositivi compiuti dal fallito opera subordinatamente all'acquisizione dei beni medesimi nel modo suddetto, cioè previa deduzione delle spese connesse al loro acquisto. In relazione all'esercizio di un'attività d'impresa ciò significa che sono appresi al fallimento gli utili, ma con i costi e, dunque, i ricavi reinvestiti per produrli, con la conseguenza che quando le operazioni finanziarie siano compiute utilizzando un conto corrente bancario, il fallimento consegue il saldo attivo del conto, corrispondente, in pratica, all'utile non reinvestito, ma non le somme erogate a terzi nell'esercizio dell'impresa.

3. - Le Sezioni unite condividono quest'ultimo orientamento. Nell'esegesi degli artt. 42 comma 2 e 44 l. fall., sono anzitutto da respingere le risalenti opinioni - maggiormente accreditate in passato e hinc-inde riproposte in questo giudizio - secondo cui la prima disposizione sarebbe applicabile solo agli acquisti di beni materiali pervenuti al fallito per una causa esterna, cui egli non abbia partecipato direttamente (ad es. per successione ereditaria), e a seconda norma riguarderebbe solo i beni esistenti al tempo della dichiarazione di fallimento.

All'interpretazione restrittiva dell'art. 42 comma 2 (qui sostenuta dal ricorrente), si è giustamente obiettato che la norma non consente alcuna discriminazione ne' quanto al titolo di acquisto, sicché comprende anche gli acquisti derivanti da rapporti giuridici posti in essere dal fallito (il quale, come è noto, non perde la capacità negoziale), ne' quanto alle categorie dei beni acquisibili, sicché comprende - nei sensi in appresso precisati - anche quelli relativi ad un'attività d'impresa. E per la stessa ragione deve essere respinta l'interpretazione restrittiva dell'art. 44 (sostenuta dal resistente), posto che la norma sancisce l'inefficacia dei pagamenti e degli atti di disposizione compiuti dal fallito senza distinguere tra quelli relativi a beni esistenti alla data del fallimento e quelli relativi a beni sopravvenuti.

4. - Ma proprio quest'ultima affermazione, che per lo specifico problema in esame sembra dar forza alla tesi seguita in passato, in realtà ne evidenzia il limite in ciò, che suppone una generalizzata inefficacia degli atti compiuti dal fallito dopo il fallimento che non è compatibile con la fattispecie normativa di acquisizione alla massa fallimentare dei beni sopravvenuti.

Al riguardo occorre considerare, infatti, che nel sistema della disciplina relativa all'attuazione e alla tutela del patrimonio destinato all'esecuzione concorsuale, l'art. 42 comma 2 e l'art. 44 l. fall. hanno finalità diverse ed operano in modo esattamente opposto.

L'art. 44 ha finalità di conservazione dell'attivo fallimentare e di tutela della par condicio creditorum, sancendo l'inefficacia rispetto ai creditori concorsuali dei pagamenti e degli atti compiutori concorsuali dei pagamenti e degli atti compiuti dal fallito, dopo la dichiarazione di fallimento, relativamente ai beni di cui ha perduto l'amministrazione e la disponibilità (ex art. l. 42 comma 1 l. fall.). La conseguenza è che le somme o i beni di cui il fallito abbia inefficacemente disposto continuano a far parte del patrimonio fallimentare e, se ne sono usciti, vi debbono essere riservati dall'accipiens.

L'art. 42 comma 2, invece, in coerenza con il principio che estende la responsabilità patrimoniale del debitore ai beni futuri (art. 2740 c.c.), attribuisce alla massa attiva - come si è anticipato i beni che pervengono al fallito per un qualsiasi titolo successivo al fallimento, vale a dire elementi patrimoniali che ne' dipendono dalla gestione del patrimonio fallimentare ne' erano dovuti al fallito in virtù di un rapporto giuridico preesistente. Ma il diritto di apprensione dei beni sopravvenuti, ipso iure spettante al fallimento dal momento in cui essi entrano nel patrimonio del fallito, può essere esercitato dalla curatela solo previa deduzione delle passività incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi, in quanto, cioè, il fallimento si assuma le obbligazioni derivanti dal titolo o, comunque, inerenti all'acquisto, le quali diventano debiti della massa e vanno, quindi, soddisfatte in prededuzione, appunto perché necessarie per consentire ai creditori concorsuali di soddisfarsi (anche) su detti beni. Inoltre tale precetto - la cui ratio risiede nell'esigenza di evitare un ingiustificato arricchimento degli stessi creditori in pregiudizio di quelli postconcorsuali (per i quali la normativa fallimentare deroga alla regola di cui all'art. 2740 c.c.) - comporta che il fallimento può acquisire il bene sempre che le passività ad esso inerenti non ne superino il valore, del quale vanno "dedotte" (altrimenti l'apprensione sarebbe onerosa per la massa), con la conseguenza che è rimesso agli organi fallimentari stabilire in concreto se assoggettare all'esecuzione concorsuale gli acquisti effettuati dal fallito ovvero disinteressarsene.

Pertanto, ai fini che qui si considerano, risulta evidente che la fattispecie regolata dall'art. 42 comma 2 è opposta a quella cui fa riferimento l'art. 44 l. fall., giacché mentre quest'ultima disposizione toglie efficacia nei confronti della massa all'attività del fallito, la prima implica il riconoscimento degli atti giuridici del medesimo, che gli organi fallimentari, se vogliono giovarsene, sono tenuti a rispettare, ancorché senza subentrare nei rapporti così costituiti, provvedendo altresì ad adempiere le obbligazioni relative. Esattamente è stato osservato in dottrina che sul piano sistematico la norma è in linea con la disciplina prevista dagli artt. 72 ss. l. fall. per i rapporti pendenti alla data del fallimento, nella quale ugualmente vige il principio secondo cui la curatela, se intende acquisire alla massa il risultato di certi atti compiuti dal fallito, deve adempiere per intero alle obbligazioni assunte da quest'ultimo (l'analogia è particolarmente evidente per i rapporti post-fallimentari nei quali il risultato utile, che la curatela intende acquisire, postula l'adempimento di obbligazioni a carico del fallito).

Rispetto ai beni e, in genere, alle situazioni giuridiche attive conseguite dal fallito durante la procedura, il riferimento all'art. 44 non è, quindi, pertinente allo scopo di acquisire tali attività all'esecuzione concorsuale: una volta accertato che si tratta di beni sopravvenuti, l'acquisizione al fallimento non può che avvenire ai sensi dell'art. 42 comma 2, ritenendo operante il titolo dell'acquisto e deducendo le eventuali passività inerenti, alle quali, se non già estinte, occorre provvedere in prededuzione. In definitiva, dal coordinamento delle due disposizioni risulta che l'inefficacia degli atti e contratti posti in essere dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento non è assoluta, in quanto non comprende quelli con i quali il fallito consegue beni acquisibili al patrimonio fallimentare. È vero che l'inefficacia ex art. 44 colpisce anche gli atti aventi ad oggetto tali beni, ma essa può operare, manifestamente, solo se gli stessi siano stati acquisiti al patrimonio fallimentare, avendo la curatela esercitato il diritto di apprensione nei modi suddetti.

5. - Con la sent. n. 1417 del 1989 è stato anche chiarito che il criterio di individuazione delle passività da dedurre (rispetto alle altre non opponibili al fallimento) risiede nel rapporto di inerenza che si riscontra quando vi sia un collegamento causale tra tali passività e l'acquisto o la conservazione del bene, nel senso che esse hanno direttamente influenzato l'esistenza e l'acquisizione all'esecuzione concorsuale del nuovo elemento patrimoniale attivo. Applicando tale criterio al caso che il fallito, dopo la dichiarazione di fallimento, abbia esercitato una nuova attività d'impresa - rispetto alla quale in astratto è dato alla curatela di acquisire, oltre che singoli beni aziendali, l'azienda nel suo complesso (in modo che la massa consegue anche l'avviamento) ovvero gli utili dell'impresa - con la medesima sentenza è stato esattamente affermato che in quest'ultima ipotesi, la quale soltanto viene in rilievo nella vicenda in esame, l'acquisizione è necessariamente limitata agli utili netti, non potendo essere acquisiti anche i ricavi che sono stati reinvestiti nell'esercizio dell'impresa, per i quali chiaramente sussiste il rapporto di inerenza richiesto dall'art. 42 comma 2.

Il risultato dell'attività non può essere acquisito, cioè, senza considerare i debiti che il fallito ha dovuto assumere o adempiere per conseguirlo; è a dire, anzi, che l'utile realizza un bene sopravvenuto, ha destinare al soddisfacimento dei creditori concorsuali, proprio perché già depurato dei costi. 6. - Alla medesima conclusione occorre pervenire quando le operazioni finanziarie inerenti all'attività d'impresa sono state compiute utilizzando un conto corrente bancario.

Al riguardo occorre considerare, infatti, che nel contratto di conto corrente - il cui contenuto caratterizzante è dato dal servizio di cassa che la banca, nei limiti della sua organizzazione, presta su ordine del cliente - gli atti dai quali prendono origine le rimesse che affluiscono sul conto non perdono la loro individualità nè modificano la loro natura per effetto dell'inclusione nel conto medesimo.

Com'è stato puntualmente osservato dalla stessa sentenza n. 1417 del 1989, nell'ipotesi che qui si considera la stipulazione del contratto di conto corrente e i pagamenti ed i versamenti all'uopo eseguiti dal fallito costituiscono atti di esercizio dell'impresa, opponibili al fallimento anche dalla banca presso cui il conto è stato aperto in quanto presentano il carattere di passività incontrate dal fallito per il conseguimento dell'utile. Pertanto, la curatela se vuole acquisire al patrimonio fallimentare tale nuovo bene giuridico, non può disconoscere ne' il contratto di conto corrente ne' i pagamenti effettuati a terzi attraverso il conto medesimo nella gestione aziendale, e può conseguire, quindi, solo il saldo attivo del conto, corrispondente all'utile netto dell'attività d'impresa.

Per converso, alla pretesa della curatela che intenda far dichiarare inefficace, il contratto di conto corrente per ottenere la restituzione dei versamenti eseguiti dal fallito, la banca è legittimata ad eccepire che in realtà tali somme costituiscono provento derivante dall'esercizio dell'impresa e che i pagamenti a terzi, a mezzo di assegni bancari tratti su quel conto, costituiscono passività e costi inerenti alla realizzazione di quel provento, da esso deducibile.

A tali principi si è puntualmente attenuta la Corte di appello di Bologna e sono perciò infondati entrambi i motivi di ricorso innanzi esaminati.

7. - Con il terzo motivo la curatela, denunziando vizi della motivazione, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato l'inerenza dell'acquisto dei vitelli alla produzione delle somme immesse nel conto corrente e ha escluso l'esistenza di altre attività del fallito; sostiene che in ordine ad entrambe le circostanze la Corte non ha esposto validi elementi di convincimento, esprimendo, in pratica, un giudizio di mera probabilità. La censura è palesemente infondata.

La sentenza impugnata ha puntualmente ricostruito, attraverso l'analisi delle rimesse annotate nel conto corrente, le operazioni compiute dal fallito nell'esercizio dell'attività d'impresa, per altro di breve durata, pervenendo a dimostrare la specifica inerenza dei versamenti eseguiti dal correntista e dei successivi pagamenti alla compravendita dell'unica partita di animali trattata. Pertanto il ricorso deve essere rigettato, con conseguenziale condanna del fallimento al pagamento delle spese.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite

- rigetta il ricorso;

- condanna il Fallimento ricorrente al pagamento, nei confronti della resistente, delle spese di questo giudizio di cassazione, che liquida in lire 2.108.000 comprese lire 2.000.000 (duemilioni) di onorari. Così deciso in Roma il 21 maggio 1993.