Crisi d'Impresa e Insolvenza
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1310 - pubb. 07/09/2008
Liquidazione dei beni nel concordato preventivo, natura dei provvedimenti del GD e ricorso straordinario per cassazione
Cassazione Sez. Un. Civili, 16 Luglio 2008, n. 19506. Est. Rordorf.
Concordato preventivo con cessione dei beni – Attuazione del provvedimento di omologa – Reclamo al tribunale avverso i provvedimenti del giudice delegato in tema di vendita dei beni – Natura di giurisdizione esecutiva – Ricorso straordinario per cassazione – Ammissibilità.
Rientrano nel novero degli atti di giurisdizione esecutiva - allorchè assolvono ad una funzione corrispondente a quella dei provvedimenti di analogo tenore emessi nell'ambito della liquidazione fallimentare - i provvedimenti emessi dal giudice delegato in attuazione delle disposizioni della sentenza (ora decreto) di omologazione del concordato preventivo in tema di vendita dei beni del debitore ceduti ai creditori. Pertanto, così come i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione ex artt. 617 e 618 c.p.c. non altrimenti impugnabili sono ricorribili per cassazione, allo stesso modo si deve ritenere esperibile il ricorso straordinario per cassazione avverso il provvedimento con cui il tribunale decida un reclamo, proposto contro un decreto emesso dal giudice delegato in tema di vendita dei beni del debitore nella fase esecutiva di un concordato preventivo per cessione dei beni omologato dal tribunale. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)
Massimario Ragionato
- ∙ Atti di giurisdizione esecutiva del giudice delegato
- ∙ Ricorso per cassazione
- ∙ Atti di giurisdizione esecutiva
- ∙ Ricorso per cassazione
- ∙ Concordato preventivo
omissis
Fatto
Il Tribunale di Bari, con decreto emesso il 6 ottobre 2003, accogliendo un reclamo della SO.GE.CO. s.p.a., società sottoposta a procedura di concordato preventivo con cessione dei beni, annullò, siccome non conforme alle disposizioni dettate in proposito dalla sentenza di omologazione del concordato in ordine alle modalità ed al prezzo di vendita, il provvedimento con cui il giudice delegato aveva autorizzato il commissario liquidatore alla vendita di alcuni immobili della società.
Avverso tale decreto il commissario liquidatore ha proposto ricorso per cassazione, deducendo:
a) la violazione dell'art. 112 c.p.c., perchè il provvedimento del giudice delegato era stato annullato in toto, laddove il reclamo proposto dalla società era volto ad ottenere l'annullamento dell'autorizzazione a vendere solo alcuni degli immobili sociali menzionati in detto provvedimento;
b) l'infondatezza del presupposto su cui il tribunale si era basato, secondo cui il giudice delegato sarebbe stato vincolato dalle statuizioni contenute nella sentenza di omologazione e non avrebbe potuto invece tener conto di un successivo provvedimento con cui lo stesso tribunale aveva, del tutto legittimamente, modificato quelle precedenti statuizioni;
c) la contraddizione insita nell'avere il tribunale prima riconosciuto il carattere di atti meramente gestori delle disposizioni contenute nella sentenza di omologazione, con riguardo alle modalità della vendita dei beni ceduti, e poi però affermato l'illegittimità dei successivi provvedimenti modificativi di dette disposizioni alle quali aveva attribuito valore di giudicato;
d) la mancata considerazione, nel decreto impugnato, del fatto che il precedente provvedimento, con cui lo stesso tribunale aveva modificato le disposizioni dettate dalla sentenza di omologazione in tema di modalità di vendita dei beni del debitore, non era stato a propria volta oggetto di reclamo.
La SO.GE.CO. ha resistito con controricorso, eccependo l'inammissibilità del ricorso proposto avverso un provvedimento privo dei caratteri della decisorietà, nonchè il difetto, in capo al commissario liquidatore, della legittimazione e dell'interesse a proporre detto ricorso.
Con ordinanza in data 26 settembre 2007, n. 19946, la prima sezione di questa corte ha rilevato l'esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine all'ammissibilità del ricorso per cassazione avverso decreti pronunciati dal tribunale, a seguito di reclamo contro provvedimenti del giudice delegato, in materia di liquidazione dei beni del debitore ammesso a procedura di concordato preventivo omologato.
Il ricorso è stato perciò portato all'esame delle sezioni unite.
Diritto
1. Il quesito al quale le sezioni unite sono chiamate a rispondere è se sia o meno possibile assoggettare a ricorso per cassazione, a norma dell'art. 111, comma 7 Cost. il provvedimento con cui il tribunale accolga (o eventualmente rigetti) un reclamo proposto contro un decreto emesso dal giudice delegato in tema di vendita dei beni del debitore nella fase esecutiva di un concordato preventivo per cessione dei beni omologato dal medesimo tribunale.
1.1. Si sono manifestati in proposito, nella giurisprudenza di questa corte, orientamenti dissonanti.
Si registrano infatti pronunce di segno negativo, nelle quali si è affermato che il controllo nella fase della liquidazione giudiziale, conseguente all'omologazione del concordato preventivo per cessione dei beni, sia che venga svolto dal tribunale, sia che risulti affidato al giudice delegato, non ha natura contenziosa: in quanto gli eventuali provvedimenti resi per dirimere i contrasti di interessi tra più soggetti non incidono direttamente su posizioni di diritto soggettivo, nè risolvono controversie sui diritti medesimi.
Donde l'inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, ai sensi della citata disposizione dell'art. 111 Cost., avverso le statuizioni del tribunale (Cass. 1 luglio 1992, n. 8090); statuizioni le quali - si è aggiunto - hanno come unico scopo la migliore esecuzione del concordato omologato e quindi risultano prive di contenuto decisorio (Cass. 4 settembre 1998, n. 8787).
In questo ordine di idee si è pertanto negata la possibilità di ricorrere per cassazione avverso il provvedimento del tribunale con cui sia stato rigettato un ricorso contro un decreto emesso dal giudice delegato per respingere un'istanza del debitore volta ad ottenere la sospensione della vendita di un cespite di sua proprietà (Cass. 12 agosto 1997, n. 7522), con un'affermazione che - giova notarlo - appare sostanzialmente conforme a quanto in taluni casi si è statuito, sempre per negare l'ammissibilità del ricorso per cassazione, con riguardo a provvedimenti sospensivi della vendita di beni emessi nell'ambito della procedura di fallimento (Cass. 21 giugno 2002, n. 9064).
Di tener distinta la liquidazione concordataria da quella fallimentare sembra, tuttavia, essersi fatta carico un'altra decisione, la quale, nondimeno, ha del pari escluso la possibilità di ricorso per cassazione avverso un provvedimento del tribunale confermativo di quello con cui il giudice delegato aveva autorizzato il liquidatore ad alienare a certe condizioni determinati beni del debitore, sul presupposto che detto provvedimento non ha il valore di un'aggiudicazione, come tale idonea a legittimare l'aspettativa dell'offerente all'emanazione di un decreto traslativo della proprietà del bene, bensì una mera funzione autorizzatoria, con effetti endoprocedimentali: sicchè, mancando il diritto al trasferimento dei beni, quel provvedimento è privo di contenuto decisorio e non ha carattere definitivo, non incidendo su posizioni di diritto sostanziale, ma si inscrive nelle funzioni tutorie ed integrative dei poteri negoziali del liquidatore nella fase esecutiva del concordato, con valenza meramente ordinatoria e senza alcuna idoneità a risolvere controversie (Cass. 11 agosto 2000, n. 10693).
1.2. Come già accennato, però, l'orientamento giurisprudenziale appena riferito non è unanime.
Vi sono infatti anche pronunce di segno contrario, in cui si è affermato che i decreti con i quali il tribunale decide sul reclamo proposto contro i provvedimenti del giudice delegato in tema di sospensione della vendita di immobili nella procedura di concordato preventivo sono impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione, a norma della già richiamata disposizione dell'art. 111 Cost.; e ciò sul rilievo che detti provvedimenti non si differenziano sostanzialmente da quelli resi dal tribunale sul reclamo contro i decreti del giudice delegato al fallimento in tema di liquidazione dell'attivo, per risolvere contestazioni insorte sulla legittimità di tali operazioni in correlazione a posizioni di diritto soggettivo, e che al pari di essi perciò assumono carattere decisorio, oltre che definitivo, e sono pertanto impugnabili con il suddetto rimedio straordinario (Cass. 1 dicembre 1998, n. 12185).
Da presupposti non dissimili sembra muovere anche l'affermazione secondo la quale il decreto con cui il giudice delegato, nell'esercizio dei poteri conferitigli dalla sentenza di omologazione del concordato preventivo, ingiunga il versamento di somme ha carattere decisorio, in quanto incide sui diritti soggettivi dell'intimato, con attitudine ad acquisire autorità di giudicato;
con la conseguenza che non solo è proponibile reclamo contro tale decreto, ma anche che il provvedimento emesso sul reclamo dal tribunale è impugnabile con ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. 28 dicembre 1989, n. 5809). E così pure è stato considerato impugnabile per cassazione, ai sensi della disposizione appena citata, il provvedimento con il quale, nella procedura di concordato preventivo con cessione dei beni, il tribunale, revocando la sospensione della vendita imposta dal giudice delegato, abbia aggiudicato i beni posti in vendita ed ordinato all'aggiudicatario il versamento del prezzo (Cass. 7 giugno 2002, n. 8278).
Al medesimo orientamento parrebbe anche doversi ascrivere - quantunque in concreto sia pervenuta ad un esito d'inammissibilità del ricorso - la statuizione secondo cui il provvedimento col quale il giudice delegato respinge le istanze di trasferimento di beni aggiudicati all'asta, per essere state presentate nei termini offerte di aumento del sesto, non può considerarsi atto abnorme o estraneo alla tipologia degli atti processuali, nè sottratto ai poteri del giudice delegato dopo la sentenza di omologazione, ma, avendo esso carattere decisorio, è reclamabile al tribunale ai sensi degli artt. 26 e 164 legge fallimentare; e perciò non direttamente ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. 14 novembre 1992, n. 12236). Sembra lecito desumerne che, ove il ricorso fosse stato proposto contro il provvedimento del tribunale, conseguente al reclamo, lo si sarebbe ritenuto ammissibile.
Giova ancora aggiungere che, in altri casi, è stata esclusa l'ammissibilità del ricorso per cassazione, avverso provvedimenti del genere di quello di cui qui si discute, ma sulla base di argomenti diversi, specificamente attinenti al modo di atteggiarsi della singola fattispecie, lasciando così aperta la possibilità di ritenere che la corte non intendesse escludere anche in via generale l'ammissibilità del ricorso per cassazione contro provvedimenti di carattere definitivo aventi ad oggetto la fase esecutiva del concordato preventivo (si veda, in particolare, Cass. 9 luglio 1996, n. 6253, che ha dichiarato inammissibile un ricorso contro la pronunzia emessa dal tribunale sul reclamo avverso un provvedimento che aveva disposto la vendita all'incanto della quota indivisa di un bene acquisito al compendio offerto in cessione, argomentando dal fatto che il suddetto provvedimento appariva inidoneo ad incidere su diritti del comproprietario, in quanto: la notificazione dell'avviso di pignoramento ai comproprietari non debitori è prescritta dall'art. 599 c.p.c. nell'esclusivo interesse del creditore pignorante, l'audizione degli interessati davanti al giudice dell'esecuzione non autorizza le persone convocate a proporre istanze e la vendita di quota indivisa, a differenza della separazione in natura, non determina alcuna diminuzione del compendio comune nè comporta alcuna restrizione nei diritti degli altri comproprietari, poichè il rapporto di comunione non viene sciolto e la successiva divisione investe necessariamente anche la quota espropriata).
2. Per tentare di risolvere persuasivamente il descritto contrasto giurisprudenziale appare utile partire da una tematica diversa, cui d'altronde si è già fatto cenno e che - come meglio si dirà in seguito - presenta aspetti strettamente affini a quelli che caratterizzano il quesito cui occorre qui dare risposta: la tematica della censurabilità in cassazione dei provvedimenti emessi dal tribunale, a seguito di reclamo proposto a norma dell’art. 26 legge fallimentare su questioni attinenti alla liquidazione dei beni del debitore nell'ambito della procedura di fallimento.
2.1. Occorre dir subito che anche a questo proposito la giurisprudenza non è del tutto univoca. Non mancano, infatti, decisioni nelle quali si è negata l'ammissibilità del ricorso per cassazione avverso provvedimenti di tal genere (nella specie provvedimenti di sospensione della vendita di beni compresi nell'attivo fallimentare). E la si è negata per difetto dei necessari requisiti della decisorietà, intesa come idoneità a risolvere una controversia intorno a diritti soggettivi o status, e della definitività, ossia della stabile incidenza di quei provvedimenti sui predetti diritti soggettivi e della insuscettività dei medesimi di essere revocati, modificati o assoggettabili ad altri rimedi giurisdizionali (si vedano, ad esempio, Cass. 18 settembre 1993, n. 9595; Cass. 11 febbraio 1995, n. 1541; Cass. 21 giugno 2002, n. 9064; e Cass. 16 luglio 2004, n. 13288).
Ma l'orientamento forse prevalente, almeno dal punto di vista numerico, è in senso opposto ed appare propenso ad ammettere la possibilità del ricorso in cassazione contro decreti che, pur se pronunziati nell'ambito della giurisdizione esecutiva del processo fallimentare, decidono controversie del tutto analoghe a quelle di opposizione agli atti esecutivi previste dagli artt. 617 e 618 c.p.c., pur talvolta con la precisazione che deve comunque trattarsi di provvedimenti emessi per risolvere contestazioni insorte in correlazione a posizioni di diritto soggettivo (si vedano, tra le altre, Cass. 26 settembre 1990, n. 9737; Cass. 1 aprile 1992, n. 3916; Cass. 23 aprile 1992, n. 4893; Cass. 21 ottobre 1993, n. 10421; Cass. 11 giugno 1997, n. 5235; Cass. 20 agosto 1997, n. 7764; e Cass. 13 settembre 2006, n. 19667).
2.2. Quest'ultimo orientamento è da preferire, perchè risponde ad ineludibili esigenze di interpretazione sistematica dell'ordinamento, imposte anche dalla necessità di rispettare il principio di eguaglianza, richiamato dall'art. 3 della Costituzione, tanto più quando l'applicazione di siffatto principio venga in causa con riferimento a situazioni processuali che assumono rilievo anche con riguardo ad altre disposizioni - in specie quelle contenute negli artt. 24 e 111 Cost..
E' certo vero che il procedimento di esecuzione forzata individuale è soggetto a regole per molti aspetti diverse da quelle che connotano l'esecuzione concorsuale, ed è anche vero che tra siffatte diversità si annovera altresì quella per cui l'opposizione agli atti esecutivi, proposta a norma dei citati artt. 617 e 618 c.p.c., è decisa con sentenza, mentre in ambito fallimentare si provvede con decreto del giudice delegato, ed anche la successiva decisione adottata dal tribunale a seguito di eventuale reclamo ha la forma del decreto. Pacifica però essendo l'ammissibilità del ricorso per cassazione avverso le sentenze che decidono sull'opposizione agli atti esecutivi, non sembra che la sola suaccennata diversità formale - ossia la differente veste del corrispondente provvedimento endofallimentare (e la circostanza che esso sia adottato all'esito di un procedimento di tipo camerale) - basti a giustificare un'analoga diversità anche quanto al regime dell'impugnazione in cassazione.
Il non breve nè semplice processo che negli anni ottanta del novecento, in una serrata ma proficua dialettica tra pronunce della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, ha consentito di tener fermo l'agile strumento di tutela endofallimentare approntato dall’art. 26 legge fallimentare ma ne ha al tempo stesso rimodellato le forme per renderle compatibili col rispetto dei fondamentali principi introdotti dalla Costituzione, è fin troppo noto perchè occorra qui ripercorrerne le tappe (basta citare, per tutte, le fondamentali sentenze n. 42 del 1981 della Corte costituzionale e n. 2255 del 1984 delle sezioni unite della Corte di cassazione). Sarà sufficiente solo ricordare come sia ormai acquisita la possibilità di risolvere mediante il suddetto procedimento camerale veri e propri incidenti contenziosi che insorgano in ambito fallimentare e come, correlativamente, ciò postuli l'applicazione in quel procedimento delle garanzie rese indispensabili dal contenuto giurisdizionale della pronuncia che in tal caso lo conclude; con il corollario che le peculiarità proprie del procedimento camerale endofallimentare possono continuare a sussistere, in siffatte situazioni, ma solo entro i limiti in cui non risultino incompatibili col rispetto delle suaccennate garanzie.
Se ciò è vero, tornando al tema ora in esame, sembra del tutto lecito desumerne che neanche quel particolare segmento della tutela giurisdizionale che consiste nella possibilità di denunciare in cassazione eventuali vizi di legittimità di un provvedimento del giudice di merito (non altrimenti impugnabile) possa atteggiarsi diversamente solo in conseguenza della forma impressa a quel provvedimento dalle caratteristiche del procedimento camerale in cui esso si radica. Pertanto, ogni qual volta il decreto endofallimentare appaia corrispondente, per contenuto e funzione, ad una sentenza emessa - a norma degli artt. artt. 617 e 618 c.p.c. - in conseguenza di un'opposizione agli atti esecutivi proposta nel corso di un procedimento di esecuzione forzata individuale, ragioni di ordine sistematico impongono di sottoporlo al medesimo regime d'impugnabilità per cassazione proprio di detta sentenza, non sembrando in alcun modo possibile ipotizzare che l'inserimento del medesimo tipo di vicenda nell'ambito di un procedimento di esecuzione collettivo giustifichi, sotto questo aspetto, un livello di tutela giurisdizionale inferiore di quello assicurato in caso di esecuzione individuale.
Nell'uno come nell'altro caso, peraltro, occorre considerare come il tradizionale connotato della decisorietà del provvedimento, ritenuto indispensabile perchè se ne possa postulare la sottoposizione a ricorso straordinario per cassazione, assuma una curvatura affatto particolare, e per molti aspetti diversa da quella propria dei provvedimenti emessi all'esito di un giudizio di cognizione. In ambito esecutivo, infatti, a differenza di quel che accade in sede cognitoria, il fine dell'attività giurisdizionale non consiste nell'accertamento di un diritto, bensì nella sua attuazione coatta; e le controversie derivanti da opposizioni agli atti esecutivi non vertono sull'esistenza di un diritto sostanziale, bensì sulla correttezza delle modalità con cui l'esecuzione si svolge. Si tratta, cioè, di incidenti cognitori il cui oggetto è costituito dal modo di essere di una o più articolazioni dello stesso procedimento esecutivo, onde inevitabilmente anche il carattere decisorio dei provvedimenti che li concludono (diversamente da qual che accade in caso di provvedimenti giurisdizionali di cognizione) va riguardato in funzione delle modalità esecutive su cui l'opposizione verte. La necessità di consentire l'introduzione di tale incidente cognitorio nell'ambito del processo esecutivo deriva dal fatto che, nella giurisdizione esecutiva, si esprime la forza cogente dello Stato, sia pur messa in campo per la concreta attuazione di interessi privati che l'ordinamento ha giudicato meritevoli di considerazione: il che evidentemente pone un'esigenza di tutela affatto speciale, dovendosi in particolare garantire che il modo ed i limiti in cui quella forza cogente è esercitata non travalichi i rigorosi confini ad essa posti dalla legge.
Di questo il giudice dell'opposizione agli atti esecutivi è chiamato a decidere, ed in questo senso va considerata la decisorietà dei suoi provvedimenti e di quelli di analogo contenuto che in ambito fallimentare vengano emessi dal tribunale a seguito di reclamo proposto a norma dell’art. 26 legge fallimentare.
3. Quanto sopra detto riguarda, però, i provvedimenti emessi in materia di liquidazione nella procedura fallimentare. Occorre ora chiedersi se le medesime conclusioni possano valere anche per i provvedimenti di analogo tenore pronunciati nella fase della liquidazione conseguente all'omologazione di un concordato preventivo con cessione dei beni.
Che entrambi tali procedure concorsuali muovano dal medesimo presupposto dell'insolvenza del debitore e che in entrambi i casi la liquidazione dei beni compresi nel patrimonio di quest'ultimo sia finalizzata a consentire la soddisfazione (per quanto possibile) delle ragioni dei creditori è rilievo ovvio; ma non certo da solo risolutivo ai fini che qui interessano. Come pure non è risolutivo - ma non va ignorato - che nella prassi dei tribunali la liquidazione concordataria si svolge, nella più parte dei casi, secondo modalità del tutto simili a quelle della liquidazione fallimentare, o comunque tali da apparire una mera variante di quel modello.
Gli ostacoli che, a prima vista, si frappongono alla trasposizione in questo diverso ambito dei principi elaborati con riferimento alla liquidazione nel procedimento fallimentare sono essenzialmente due, del resto in parte connessi: l'asserito carattere negoziale del concordato preventivo, in esecuzione del quale la liquidazione dei beni del debitore ha luogo, e la circostanza che le modalità attuative della liquidazione, solo eventualmente previste nel provvedimento giudiziale di omologazione, non sono espressione dell'esercizio di una tipica funzione giurisdizionale, ma hanno piuttosto per scopo l'integrazione del contenuto negoziale del concordato, onde al medesimo tribunale è sempre consentito successivamente modificarle (e si è perciò escluso - persuasivamente - che avverso tali disposizioni del provvedimento di omologazione sia ammissibile proporre ricorso per cassazione: cfr. Cass. 20 novembre 1989, n. 4952).
Ad un più attento esame nessuno di tali ostacoli appare, però, insormontabile.
3.1. Il dibattito sulla natura del concordato preventivo è antico e si riflette sulla possibilità di configurare la cessione dei beni, cui esso dia luogo, in termini di mandato irrevocabile conferito al liquidatore perchè gestisca e liquidi i beni del debitore, come tale riconducibile - sia pure con peculiarità sue proprie - alla figura negoziale disegnata dall'art. 1977 c.c.. Per risolvere il problema ora in esame non sembra però davvero indispensabile prendere posizione su un tema così generale. Se anche si voglia senz'altro ammettere che il procedimento liquidatorio dei beni del debitore, in caso di concordato preventivo per cessio bonorum, ha un fondamento originario di natura negoziale, e non giudiziale, costituito appunto dall'approvazione ad opera dell'adunanza dei creditori della proposta di concordato formulata dal debitore, occorre nondimeno convenire che in primo luogo, detta proposta si pone come alternativa alla procedura concorsuale di fallimento, in quanto presuppone in chi la formula la qualità di imprenditore soggetto a fallimento e presuppone altresì la condizione oggettiva dell'insolvenza; in secondo luogo, la vendita dei beni formanti oggetto della cessione, ove pure vi provveda direttamente l'imprenditore non spossessato (ed, a maggior ragione, quando essa è affidata ad un liquidatore di nomina giudiziale), si realizza in un contesto proceduralizzato dai dettami del concordato omologato, attraverso atti che il medesimo debitore non sarebbe più ormai libero di non compiere, per finalità satisfattorie dei creditori del tutto analoghe a quelle della procedura esecutiva fallimentare ed in un ambito di controlli pubblici del pari destinati a garantire il raggiungimento di tale finalità.
Se ne deve allora dedurre che (in generale, ma tanto più quando si sia proceduto alla nomina di un commissario liquidatore, con compiti per molti aspetti non dissimili da quelli di un curatore fallimentare) anche la fase esecutiva del concordato per cessione dei beni è riconducibile ad una più vasta categoria di procedimenti di esecuzione forzata (in senso lato) al pari della procedura fallimentare.
Della fondatezza di tale conclusione si può trarre argomento anche dalla nuova formulazione dell’art. 82 legge fallimentare, a seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, pur se non applicabile come tale, ratione temporis, nella presente causa. In essa appare infatti incontestabile l'accostamento delle funzioni del liquidatore concordatario a quelle del curatore del fallimento e, quel che più conta, è espressamente prescritto che alla vendita dei beni oggetto della cessione ai creditori debbano applicarsi (sia pure con la clausola della compatibilità) le disposizioni dello stesso art. 105 e segg. legge fallimentare, ivi compreso l'art. 107, che ne disciplina le modalità attuative. Ne esce perciò rafforzata la convinzione che la liquidazione concordataria sia, proprio come quella fallimentare, disciplinata da rigorose disposizioni sul cui rispetto gli organi della procedura sono chiamati a vigilare; e poichè nel contesto generale della recente riforma del diritto concorsuale nulla suggerisce che il legislatore abbia inteso modificare la natura e le caratteristiche essenziali della procedura di concordato - e tanto meno far perdere ad essa i suoi connotati originariamente negoziali in favore di un impianto pubblicistico prima non configurabile (essendo, al contrario, opinione comune che si è inteso rafforzare ed ampliare il profilo consensualistico dell'istituto) - non pare azzardato desumere da tale nuova formulazione normativa la conferma della già preesistente assimilabilità della fase esecutiva del concordato per cessione dei beni del debitore (pur con la sua già ricordata origine negoziale e con le sue ovvie peculiarità) ad un procedimento di vendita coatta di detti beni.
3.2. All'assimilabilità, per i profili che qui interessano, della liquidazione concordataria a quella fallimentare non è di ostacolo nemmeno il fatto che le modalità di liquidazione dei beni debbono essere stabilite dal tribunale, col provvedimento di omologazione del concordato, soltanto se non siano già previste nel concordato medesimo, e che, così facendo, il tribunale assolve ad un compito che non attiene alla risoluzione di una controversia, ma ha invece natura meramente integrativa (o tutoria) rispetto alla volontà negoziale delle parti interessate alla cessio bonorum, onde le relative disposizioni sono in ogni tempo modificabili.
In qualsiasi situazione si tratti di stabilire se un determinato atto esecutivo è conforme o meno ai parametri legali che esso deve rispettare si pone, evidentemente, la questione d'individuare siffatti parametri. La circostanza che, nel caso della liquidazione concordataria, questi siano ricavabili direttamente dal concordato, oppure dal provvedimento di omologazione, non muta i termini del problema; nè li muta il fatto che le disposizioni eventualmente date al riguardo dal tribunale siano modificabili, perchè resta comunque invariata l'esigenza di verificare se l'attività esecutiva risulti conforme alla regola cui avrebbe dovuto attenersi (poco importa che si tratti di quella originaria o di una diversa regola conseguente alla modifica della prima).
La maggiore flessibilità dei parametri di riferimento, in altre parole, può in certe situazioni determinare una maggiore ampiezza della banda di oscillazione entro i cui limiti dell'attività esecutiva di chi è chiamato a dare attuazione al concordato deve mantenersi per essere considerata legittima, ma non esclude certo che quei limiti pur sempre esistano; nè mette perciò in questione la necessità di assicurare il controllo giurisdizionale sulla legittimità dell'azione esecutiva, quando esso sia sollecitato (dal debitore o dai creditori o da altri soggetti coinvolti nella procedura) al fine di far rilevare eventuali vizi formali degli atti compiuti o dei provvedimenti adottati nel corso del processo esecutivo: esattamente come accade nella liquidazione fallimentare, o nell'esecuzione individuale, ancorchè in questi ultimi casi i parametri ai quali si deve commisurare la legittimità degli atti esecutivi possano risultare parzialmente diversi.
3.3. Deve quindi convenirsi, in conclusione, che i provvedimenti emessi dal giudice delegato in attuazione delle disposizioni della sentenza (ora decreto) di omologazione del concordato preventivo in tema di vendita dei beni del debitore ceduti ai creditori, nella misura in cui assolvono ad una funzione corrispondente a quella dei provvedimenti di analogo tenore emessi nell'ambito della liquidazione fallimentare, rientrano anch'essi nel novero degli atti di giurisdizione esecutiva; e che la medesima corrispondenza sussiste anche con riferimento ai successivi decreti emessi dal tribunale a seguito di reclamo, ai quali pure occorre perciò estendere il regime della ricorribilità in cassazione applicabile, a norma degli agli artt. 617 e 618 c.p.c., per i provvedimenti del giudice dell'esecuzione non altrimenti impugnabili.
Il qui proposto ricorso appare, perciò, ammissibile.
4. Anche l'eccezione d'inammissibilità del ricorso per difetto di interesse e legittimazione del liquidatore giudiziale è infondata.
Il liquidatore designato dal provvedimento di omologazione del concordato è infatti chiamato a svolgere una funzione di tutela degli interessi dei creditori, in vista della migliore riuscita della liquidazione dei beni ceduti. Nell'attuazione di un tale compito egli è, evidentemente, anche tenuto a far sì che la liquidazione si svolga in modo legittimo. Donde il suo interesse e la sua sicura legittimazione a resistere all'opposizione proposta dal debitore avverso eventuali provvedimenti esecutivi ritenuti non conformi alla legge, se del caso coltivando il giudizio anche in sede di legittimità.
5. Nel merito, i primi tre motivi di ricorso appaiono fondati, alla stregua delle considerazioni che seguono, con conseguente assorbimento del quarto.
5.1. Esiste effettivamente uno scarto tra la portata oggettiva del reclamo proposto dalla società in procedura avverso il provvedimento con cui era stata autorizzata la vendita di alcuni cespiti immobiliari, e quella del decreto del tribunale che detto reclamo ha accolto.
La società si era doluta, infatti, delle modalità di vendita disposte solo per alcuni dei beni indicati nel provvedimento emesso dal giudice delegato, laddove il tribunale, pur dandone atto nella parte espositiva del proprio successivo decreto, ha poi disposto l'annullamento integrale del decreto reclamato.
5.2. Sono altresì fondate le doglianze con cui viene messo in evidenza come il tribunale, nell'accogliere il proposto reclamo, sia partito da un presupposto giuridicamente errato: che, cioè, le modalità della liquidazione stabilite nella sentenza di omologazione del concordato fossero da considerare intangibili, siccome coperte da giudicato. Ragion per la quale lo stesso tribunale ha ritenuto illegittimo un proprio precedente decreto con cui quelle modalità di liquidazione dei beni erano state invece modificate e, di riflesso, il provvedimento autorizzatorio del giudice delegato che al contenuto di tale secondo decreto si era ispirato.
Il presupposto dal quale muove il ragionamento del tribunale non è, però, condivisibile.
Si è già prima infatti avuto modo di sottolineare quale sia la natura delle disposizioni eventualmente dettate dal tribunale in ordine alle modalità della liquidazione dei beni nel provvedimento di omologazione del concordato preventivo; e si è anche sottolineato come dalla natura meramente integrativa della volontà delle parti interessate alla cessio bonorum, che a tali disposizioni pertiene, discenda la conseguenza che esse sono in ogni tempo modificabili (e, per ciò stesso, non suscettibili di dar vita ad un giudicato).
Ne consegue che il parametro in base al quale il tribunale ha affermato l'illegittimità del provvedimento emesso dal giudice delegato, contro il quale era rivolto il reclamo, è errato.
6. L'impugnato decreto deve, pertanto, essere cassato, con rinvio della causa al Tribunale di Bari, in diversa composizione, che deciderà attenendosi al principio secondo cui, qualora la sentenza di omologazione di un concordato preventivo per cessione dei beni ai creditori contenga disposizioni in ordine alle modalità della vendita dei beni ceduti, ma tali disposizioni siano state modificate con un successivo provvedimento del medesimo tribunale, la legittimità del decreto di autorizzazione alla vendita emesso dal giudice delegato deve essere valutata alla stregua di quanto disposto nel successivo provvedimento di modifica.
7. Al giudice di rinvio si demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La corte, pronunciando a sezioni unite, accoglie i primi tre motivi del ricorso, con assorbimento del quarto; cassa il provvedimento impugnato e rinvia la causa al Tribunale di Bari, in diversa composizione, demandandogli di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 24 giugno 2008.
Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2008Testo Integrale