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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 23/12/2017 Scarica PDF
La capitalizzazione degli interessi nelle operazioni bancarie: quadro normativo e orientamenti giurisprudenziali
Edoardo Postacchini, Giudice Sezione Civile del Tribunale di PerugiaSommario: 1. Introduzione; 2. Anatocismo: profili economico finanziari ed implicazioni giuridiche; 3. Quadro normativo attuale; 4. Nota critica: apparenza del divieto; 5. Anatocismo “moratorio”; 6. Anatocismo e usura; 7. Profili processuali; 7.1. Prescrizione; 7.2. Onere della prova; 8. Conclusioni.
1. Introduzione
L’espressione “capitalizzazione degli interessi” richiede anzitutto una precisazione terminologica. Ciò perché il termine “capitalizzazione” è usato spesso come sinonimo di “anatocismo”, a causa dell’identità dell’effetto economico ultimo.
Il meccanismo degli interessi trova fondamento nomologico nella matematica finanziaria, secondo la quale la capitalizzazione è l’operazione di trasformazione degli interessi in capitale, il quale, aumentato nell’importo, produrrà maggiori interessi, essendo questi calcolati in percentuale sul montante. L’anatocismo, invece, è, secondo la definizione normativa dell’art. 1283 c.c., la produzione degli interessi sugli interessi[1].
A stretto rigore, i due concetti sono simmetrici, in quanto la capitalizzazione è la trasformazione di obbligazione accessoria in principale, mentre l’anatocismo è la gemmazione di obbligazione accessoria da precedente obbligazione accessoria[2]. E l’art. 1283 c.c. non vieta la capitalizzazione, ma la produzione di interessi sugli interessi, poiché presuppone, appunto, che l’obbligazione accessoria rimanga tale. Al contrario, la produzione di interessi dal capitale, quantunque maggiorato, è la conseguenza naturale dell’art. 820, comma3, c.c., ossia della natura fruttifera del denaro. In punto di disciplina, la distinzione rileva con evidenza nell’art. 1194 c.c., laddove il pagamento viene imputato dapprima agli interessi e poi al capitale.
Come dicevamo, tuttavia, l’effetto economico ultimo, almeno dal punto di vista del costo del finanziamento, è il medesimo: dire che il capitale, maggiorato degli interessi, produce a sua volta interessi, calcolati non più sull’importo iniziale, ma sull’importo maggiorato, è analogo a dire che l’interesse produce ulteriore interesse. Da un punto di vista funzionale, in entrambi i casi c’è un interesse ulteriore, derivi esso da un capitale maggiorato o da un interesse fruttifero. In altre parole, nella capitalizzazione l’interesse ulteriore si produce indirettamente, nell’anatocismo direttamente[3].
Tale premessa è essenziale per il prosieguo della trattazione, in quanto, posta l’equazione effettuale tra capitalizzazione e anatocismo, potremo analizzarli unitariamente.
2. Anatocismo: profili economico finanziari ed implicazioni giuridiche
Funzionalmente, l’interesse rappresenta il costo del finanziamento; strutturalmente, esso è un’obbligazione accessoria il cui importo cresce in maniera esponenziale, in base all’ammontare del capitale concesso, al tempo di disponibilità del denaro e al tasso percentuale.
L’anatocismo rappresenta il modello che, in matematica finanziaria, è chiamato “interesse composto”, da contrapporre all’interesse semplice.
Secondo quest’ultimo, l’interesse cresce proporzionalmente al capitale e al tempo; una volta scaduto il tempo di disponibilità del denaro, esso diventa esigibile, ma non viene capitalizzato; quindi il capitale di base rimane invariato, così come rimane invariato l’interesse dovuto per ogni frazione di tempo: a fronte di un capitale di 100, concesso per 3 anni ad un tasso del 5%, per il primo anno l’interesse è pari a 5, e rimane 5 anche per i due anni successivi. Questo perché l’importo dell’interesse non viene sommato al capitale, che mantiene l’importo iniziale[4].
Il modello del’interesse composto, invece, vede l’interesse maturato alla fine del periodo aggiungersi al capitale: ed è qui la differenza rispetto al precedente modello, che non prevede la capitalizzazione.
Alla fine del primo anno, quindi, il capitale non sarà più 100 ma 105, sul quale importo andrà poi calcolato l’interesse, e così via. Ne deriva che l’interesse cresce non proporzionalmente, in relazione cioè al numero di anni per il quale il denaro è concesso, ma esponenzialmente, perché nella base di calcolo è compreso anche il precedente interesse.
Il profilo di matematica finanziaria è utile a spiegare la ratio del divieto posto dall’art. 1283 c.c. La norma, infatti, prende atto del meccanismo, ne valuta l’impatto economico, ed interviene a vietarlo. L’ordinamento mira, da un lato, ad evitare locupletazioni sproporzionate e ingiuste da parte del creditore, che sono anticamera dell’usura, dall’altro vuole proteggere il debitore.
Questo è la parte debole del rapporto, poiché la crescita esponenziale del capitale, dunque, in definitiva, del costo del finanziamento, rende arduo, se non impossibile, calcolare in anticipo l’impatto del ricorso al credito, soprattutto quando nel corso del tempo il tasso di interesse venga variato, oppure il debitore si renda inadempiente, così fornendo occasione di ulteriori capitalizzazioni. L’anatocismo è quindi pericoloso per la stabilità economica finanziaria del debitore, il quale contrae un’obbligazione di cui non conosce il costo finale, e che, pertanto, corre il rischio del dissesto[5].
Ecco perché l’art. 1283 c.c. pone un divieto generale, ed ecco altresì la ratio delle eccezioni.
L’efficacia derogatoria dell’uso contrario si spiega nell’essenza stessa della fonte: ripetizione del comportamento e convinzione di doverosità fanno ragionevolmente presumere la consapevolezza, in capo al soggetto che tiene il comportamento, della portata di esso – in questo caso del costo del finanziamento –, onde non c’è ragione ulteriore di tutela.
Analogamente è a dirsi per la convenzione posteriore alla scadenza: il debitore può calcolare, nel rapporto fra capitale ed interesse già dovuto, l’importo dell’ulteriore interesse[6].
Differisce la ratio della domanda giudiziale: il debitore non ottempera alla propria obbligazione pecuniaria principale, dunque la tutela si rivolge al creditore, in danno del quale l’inadempimento genera una perdita corrispondente al tasso di interesse che egli avrebbe ottenuto impiegando il denaro in altre operazioni. La legge, dunque, riequilibra la posizione, evitando che il debitore ottenga un finanziamento a costo zero, traendo vantaggio dal proprio inadempimento[7].
L’art. 1283 c.c. è la norma generale, che, nel tempo, ha subito molteplici declinazioni nella legislazione speciale, evoluzione di cui si darà conto per cenni, posto che l’ultima innovazione risale al 2016, onde è sull’attuale quadro normativo che è bene concentrare l’analisi.
La giurisprudenza, tra il 1942 e il 1999[8], ha azzerato la portata del divieto, ritenendo vigente un uso di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi fondato sull’art. 7 delle Norme Bancarie Uniformi (di seguito: NBU), predisposte dall’Associazione Bancaria Italiana nel 1952[9].
Nel 1999 la Cassazione ribaltò il pregresso orientamento, interpretando il termine “uso” come uso normativo, mentre le NBU avrebbero fondato, al più, un uso negoziale[10]. In ogni caso, un uso normativo avrebbe potuto essere rilevante solo se anteriore al 1942, cioè all’entrata in vigore dell’art. 1283 c.c., mentre le NBU risalivano al 1952. Nel pensiero della Corte, la clausola di capitalizzazione rispondeva non già ad una convinzione di doverosità, ma solo alla reiterata previsione da parte del modulo predisposto unilateralmente dalla banca, senza possibilità per il cliente di intraprendervi una reale trattativa.
La scossa provocata dal revirement indusse il legislatore ad intervenire con il D.Lgs 342/1999, che modificò l’art. 120 TUB, ammettendo per il futuro la produzione di interessi sugli interessi, delegando il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (di seguito: CICR) all’emanazione della normativa secondaria di dettaglio – adempiuta con la delibera del 9.2.2000 – e disponendo una generale sanatoria delle clausole anatocistiche già stipulate.
La Corte Costituzionale, con la sentenza del 17 ottobre 2000, n. 425, dichiarò illegittima la sanatoria retroattiva per eccesso di delega rispetto alla L. 128/1998, per cui la delibera CICR, che dettava criteri per l’adeguamento delle precedenti clausole anatocistiche, postulandone la validità ex lege, rimase sfornita di base legislativa primaria, dunque invalida e disapplicabile ai sensi dell’art. 5 L. 2248/1865[11].
Ma negli anni successivi si fece strada un orientamento[12] secondo cui, ammesso che post 1999 non fosse più esistente un uso normativo, cancellato dalla Cassazione, ante 1999 l’uso avrebbe dovuto considerarsi esistente, vista la granitica giurisprudenza in tal senso. Fu necessario l’intervento delle Sezioni Unite, che, con la sentenza del 4 novembre 2004, n. 21095, riaffermarono l’inesistenza di usi normativi di tal guisa, sia prima che dopo il 1999, stante la natura non vincolante, né fondante un uso normativo, del precedente giudiziario nel nostro ordinamento[13].
Cercò poi di insinuarsi una tesi[14] secondo cui il divieto atteneva solo alla capitalizzazione trimestrale, non a quella semestrale o annuale, posta l’esistenza di un uso normativo in tal senso, interpretazione ancora stroncata dalle Sezioni Unite con la sentenza del 2 dicembre 2010, n. 24418[15].
Con la L. 147/2013, il legislatore modificò l’art. 120, comma 2, TUB: stabilì il divieto di interessi sugli interessi, consentendo solo una capitalizzazione infruttifera e delegando il CICR alla normativa di dettaglio. Mancandone l’emanazione, è sorta la questione dell’efficacia precettiva o programmatica della norma, in attesa della delibera.
La soluzione prevalente è stata l’immediata precettività, stante la rilevanza unicamente contabilistica, e non sostanziale, della normativa di dettaglio[16].
Al contrario, taluno ha sostenuto l’ultrattività della delibera CICR 9.2.2000, anche sulla base della genericità del nuovo art. 120, comma 2, TUB[17].
3. Quadro normativo attuale
Il D.L. 18/2016, convertito in L. 49/2016, con l’art. 17 bis, comma 1, modifica nuovamente l’art. 120, comma 2, TUB.
La nuova disposizione recita espressamente che: “gli interessi debitori maturati […] non possono produrre interessi ulteriori, salvo quelli di mora, e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”. La norma prosegue prescrivendo che, per talune operazioni, il cliente possa autorizzare l’addebito degli interessi sul conto, in modo che la somma addebitata “è considerata sorte capitale”.
In data 3.8.2016, il CICR ha emanato la normativa secondaria di dettaglio, delegata dal D.L. 18/2016.
Secondo l’art. 4, comma 3, della delibera, gli interessi debitori maturati sono contabilizzati separatamente rispetto alla sorte capitale, la quale produce interessi di pieno diritto.
Il comma 5 prevede la possibilità, per il cliente, di autorizzare che, al momento della loro scadenza, gli interessi vengano addebitati sul conto; in questo modo – prosegue la disposizione regolamentare – la somma addebitata è considerata sorte capitale[18].
Ora, collegando i predetti commi, risulta che, se la sorte capitale produce interessi e gli interessi addebitati si considerano sorte capitale, allora gli interessi addebitati producono interessi.
La novella del 2016 conferma l’equazione effettuale posta in apertura tra capitalizzazione e anatocismo: con l’autorizzazione del cliente, è possibile la produzione di interessi sugli interessi, attraverso l’addebito degli stessi in conto capitale.
La lettura appena fornita è quella maggiormente condivisa in sede di primo commento[19].
Taluno, al contrario, opina che nessuna novità sarebbe stata introdotta dalla novella del 2016 in punto di validità dell’anatocismo. L’addebito degli interessi in conto capitale non sarebbe un modo di produzione di interesse sull’interesse, bensì una semplice modalità di pagamento. Ciò in ragione del fatto che l’interesse è addebitato solo una volta scaduto: tale scadenza assimilerebbe l’interesse al capitale. In altre parole, l’addebito degli interessi avrebbe la medesima natura dell’addebito in conto di commissioni, oneri, spese e via dicendo[20].
L’opinione non convince, poiché comporterebbe la necessità di dare alla medesima espressione “sorte capitale” due significati differenti; mentre nel primo caso la sorte capitale, per espressa disposizione di legge (art. 120, comma 2, lett. B, TUB), produrrebbe interessi di pieno diritto, nel secondo caso, cioè una volta addebitati gli interessi, non sarebbe più fruttifera. Il capitale sarebbe quindi fruttifero e infruttifero insieme, con patente contraddizione.
L’interpretazione più piana, d’altronde, è confermata dall’art. 4, commi 3 e 5, della delibera 3.8.2016.
In definitiva, il cliente può pagare gli interessi entro il 1 marzo dell’anno successivo, oppure autorizzare l’addebito in conto, sebbene per iscritto, ai sensi dell’art. 117 TUB, con conseguente capitalizzazione ed effetto anatocistico.
4. Nota critica: apparenza del divieto
Il D.L. 18/2016 pone un divieto generale di produzione di interessi ulteriori, salvo quelli di mora, e contestualmente un’eccezione. L’autorizzazione è possibile solo per le “aperture di credito in conto corrente e in conto di pagamento, per gli sconfinamenti anche in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido”.
L’operazione principalmente interessata è l’apertura di credito, descritta e regolata dagli artt. 1842 e ss. c.c.. Rispetto alla normativa passata, va evidenziato un marginale cambio di rotta: l’anatocismo, nel testo risultante dal D.Lgs 342/1999, era esteso alle “operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria”, così come il simmetrico divieto della L. 147/2013. Diversamente, il D.L. 18/2016 restringe l’ambito operativo dell’anatocismo autorizzato all’apertura di credito regolata in conto corrente o in conto di pagamento. Sennonché, l’apertura di credito, centrale nei rapporti di finanziamento, assorbe la maggior parte del contenzioso sull’anatocismo, e ad essa sono riconducibili molte altre operazioni, quali gli sconfinamenti[21] e i servizi di pagamento mediante carte di credito[22].
Inoltre, come vedremo tra poco, il mutuo, altra fondamentale operazione di finanziamento, è soggetto all’anatocismo mediante l’applicazione degli interessi moratori, onde un’ulteriore deroga al divieto di produzione degli interessi sugli interessi potrebbe ritenersi sussistente laddove la norma espressamente vi esclude gli interessi di mora.
La deroga all’anatocismo, dunque, sembra risultare più nominale che reale, in quanto porre un divieto generale e contestualmente un’eccezione dalla portata quasi totalizzante rende la restrizione solo apparente[23].
5. Anatocismo “moratorio”
La capitalizzazione non è l’unico metodo per la produzione di interessi sugli interessi. Lo stesso risultato si raggiunge con l’interesse moratorio ex art. 1224 c.c..
L’operazione interessata è il mutuo, ordinario e fondiario. La distinzione rileva poiché, in passato, la disciplina del mutuo fondiario prevedeva espressamente l’anatocismo, mentre ora vi è uniforme regolazione (vedi nota 28).
Nel mutuo l’anatocismo non si realizza mai per fisiologia, ma solo per patologia. Cioè, se il debitore adempie tempestivamente, l’interesse sarà calcolato sempre sul capitale originario, mentre se ritarda le conseguenze sono differenti.
L’impossibilità fisiologica di anatocismo deriva dal piano di restituzione adottato nell’assoluta prevalenza dei casi: l’ammortamento alla francese.
Si prevede una restituzione a rata dall’importo fisso, che comprende una quota di capitale ed una quota di interessi; alla scadenza della prima rata, la quota interessi si calcola applicando all'intero debito il tasso concordato nel contratto, mediante l'utilizzo della formula d'interesse semplice (che, come visto sopra, è calcolato solo sulla sorte capitale).
Dopo la scadenza della prima rata, il debito residuo è pari alla differenza tra il debito iniziale e la quota capitale pagata alla prima scadenza. Su tale debito residuo si calcola la quota interessi della seconda rata, e così via.
Il meccanismo testé descritto mostra che l’interesse è calcolato inizialmente sull’intera somma capitale, per cui è di importo più elevato, e con il graduale pagamento del capitale è destinato a diminuire anch’esso di consistenza. La composizione della rata presenta quindi un rapporto inversamente proporzionale fra capitale ed interessi. Infatti, dovendo essa rimanere costante nel tempo, inizialmente sarà composta in gran parte dagli interessi e in minima parte dal capitale, mentre, in procinto di estinguere l’intero mutuo, la quota capitale sarà maggiore di quella degli interessi.
L’impossibilità fisiologica di anatocismo rappresenta il pensiero della giurisprudenza dominante[24], che rileva come esso potrebbe verificarsi solo con il metodo dell’interesse composto, cioè con la progressiva capitalizzazione degli interessi, assente nell’ammortamento alla francese, ove l’interesse è calcolato sul solo capitale residuo[25].
L’orientamento contrario, patrocinato da una parte della giurisprudenza di merito, ritiene l’ammortamento alla francese una potenziale fonte di anatocismo, poiché il calcolo della rata sarebbe comunque basato sull’interesse composto, visto che la rata compendia capitale ed interessi[26]. Questa interpretazione, tuttavia, sembra obliterare l’analisi della struttura finanziaria del piano di ammortamento a rata costante: la rata del mutuo comprende bensì una quota di capitale ed una di interessi, ma questi sono calcolati solo sul capitale, non sugli interessi stessi; nelle parole di una recente sentenza di merito, non bisogna confondere “il fatto che il metodo di calcolo sia quello dell'interesse composto - nel senso che la rata è composta da quota capitale e quota interessi -, con il fatto che il calcolo sia composto, nel senso che gli interessi si calcolano sugli interessi”[27].
Come detto in apertura, l’anatocismo è escluso solo dalla fisiologia del mutuo con ammortamento alla francese, cioè laddove il cliente paghi puntualmente le rate. Resta possibile, invece, nella sua patologia[28].
Infatti, l’inadempimento del cliente comporta l’applicazione degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 1224 c.c.. Ora, come si è visto, la rata si compone di capitale ed interessi: se l’interesse moratorio è calcolato sull’intera rata e, in generale, sull’intera somma ancora dovuta, comprensiva di capitale ed interessi già maturati, ecco che dalla quota interessi scaturisce un nuovo interesse, quantunque moratorio.
La Corte di Cassazione, cosciente di ciò, ha infatti statuito che “in ipotesi di mutuo per il quale sia previsto il pagamento di rate costanti comprensive di parte del capitale e degli interessi, questi ultimi conservano la loro natura e non si trasformano invece in capitale da restituire al mutuante, cosicché la convenzione, contestuale alla stipulazione del mutuo, la quale stabilisca che sulle rate scadute decorrono gli interessi sull'intera somma, integra un fenomeno anatocistico, vietato dall'art. 1283 c.c.”[29].
Il D.L. 18/2016 e pedissequamente l’art. 3, comma 2, delibera CICR 3.8.2016 sembrano tenere in considerazione questo sistema, facendo espressamente salvi dal divieto di anatocismo gli interessi moratori.
La portata del nuovo art. 120, comma 2, TUB sembra qui dirompente[30]: se prima l’anatocismo era vietato, senza riguardo a tipi di operazioni o modalità di produzione degli interessi ulteriori, oggi esso appare solo relativamente vietato – essendo autorizzabile per certe operazioni –, e solo rispetto a una modalità di produzione – la capitalizzazione – rimanendo lecito se realizzato in via moratoria.
Se tale è il quadro normativo, si sovverte altresì il quadro giurisprudenziale stabilizzatosi finora, saldo nel ritenere il mutuo sottoposto al divieto generale di anatocismo previsto dall’art. 1283 c.c., dunque illecita la produzione di interessi moratori sugli interessi corrispettivi compendiati nella rata[31].
6. Anatocismo e usura
Analizzate le operazioni bancarie “a rischio” di anatocismo, è utile valutare un ulteriore aspetto, ossia l’interferenza tra anatocismo e usura, in particolare domandandosi se l’interesse calcolato sul precedente interesse possa rientrare nella verifica di usurarietà.
La questione si pone per entrambe le forme di anatocismo, realizzato cioè mediante capitalizzazione degli interessi corrispettivi o applicazione degli interessi moratori.
Quanto alla prima ipotesi, l’opinione negativa, supportata dalle Istruzioni della Banca d’Italia[32] e da una parte della giurisprudenza[33], si fonda sull’assunto che, una volta capitalizzato, l’interesse non dovrebbe più essere considerato come obbligazione accessoria, ma come capitale. Quest’ultimo non rientrerebbe nella verifica di usurarietà, la quale, al contrario, riguarderebbe il costo del finanziamento, non già il finanziamento stesso, rappresentato proprio dal capitale.
L’opinione negativa è espressa da una parte della dottrina: si ritiene che la ratio dell’art. 1283 c.c. sia la lotta all’usura, onde sarebbe paradossale espungerne dall’ambito applicativo l’interesse capitalizzato, che rappresenta comunque una voce di costo del credito; d’altro lato, si osserva che l’anatocismo è propriamente la produzione di interessi sugli interessi, non tanto, e non solo, la capitalizzazione degli stessi, onde occorrerebbe guardare all’effetto economico ultimo[34].
La seconda ipotesi è la più rilevante: l’interesse di mora. Se, infatti, l’interesse moratorio, che realizza l’anatocismo, va altresì calcolato nel tasso usurario, si completa il sillogismo, per cui l’anatocismo genera usura. Ma il passaggio logico della computabilità è tutt’altro che pacifico in giurisprudenza. Tale computabilità è stata sostenuta dalla Cassazione sulla base del dato letterale dell’art. 1 D.L. 394/2000, secondo cui rilevano gli interessi “a qualunque titolo” convenuti[35].
L’opinione contraria, espressa dalla Banca d’Italia[36] e da una parte della giurisprudenza di merito, si fonda sull’argomento che, mentre l’interesse corrispettivo attiene alla fisiologia del rapporto, l’interesse moratorio riguarda la patologia, cioè una fase del tutto eventuale, avendo natura non corrispettiva ma risarcitoria[37]. Da ciò deriverebbe che, nelle rilevazioni del Ministero dell’Economia, gli interessi moratori non sarebbero nemmeno presi in considerazione ai fini della fissazione della soglia: la tutela del cliente rispetto all’interesse moratorio dovrebbe esplicarsi non tramite la denunzia di usurarietà, ma con altri rimedi, quale, ad esempio, la riduzione d’ufficio ex art. 1384 c.c.[38].
Preso atto dell’orientamento di legittimità, favorevole ai clienti, le difese di questi hanno introdotto la tesi secondo cui, ai fini del calcolo, si dovrebbe fare la sommatoria fra il tasso dell’interesse corrispettivo con quello del moratorio.
La giurisprudenza, praticamente unanime, rigetta risolutamente tale opinione, talvolta pure tacciata di temerarietà[39], sostenendo che il calcolo vada effettuato sommando il tasso di interesse corrispettivo e la maggiorazione derivante dal moratorio, cioè la differenza tra quest’ultimo e il primo (c.d. spread), poiché altrimenti si duplicherebbe erroneamente l’interesse corrispettivo; ad esempio, a fronte di un tasso corrispettivo del 10% e moratorio del 13%, l’operazione da compiere non sarebbe 10 + 13 ma 10 + 3 (cioè la differenza tra moratorio e corrispettivo)[40]. Altrimenti, ogni finanziamento diverrebbe usurario: l’assurdità della conseguenza è la prova della correttezza dell’orientamento giurisprudenziale.
Ad ogni modo, la questione della computabilità degli interessi moratori nel tasso usurario è ancora oggetto di vivace dibattito: la giurisprudenza di legittimità non sembra essere in grado di svolgere una reale funzione nomofilattica, posto che una buona parte della giurisprudenza di merito sta attualmente disattendendo le indicazioni della Suprema Corte[41]; la materia è quindi fluida, con il rischio evidente di disparità di trattamento.
7. Profili processuali
Il contenzioso in materia di anatocismo presenta plurime questioni controverse. La contrattazione di massa e il relativo contenzioso comportano la ricorrenza di talune difese ed eccezioni che frequentemente vengono spese dalle parti e sulle quali il dibattito è maggiormente acceso.
7.1. Prescrizione
Il cliente propone domanda di nullità della clausola anatocistica e, conseguentemente, di ripetizione della somma illecitamente addebitata. La banca eccepisce la prescrizione dell’azione di ripetizione, sul presupposto che l’annotazione in conto del debito per interessi, risalente a molti anni prima, e non il materiale pagamento, costituisca il dies a quo dell’azione.
Per lungo tempo si è dibattuto sulla questione se la prescrizione decennale decorresse dal momento dell’annotazione in conto ovvero dal momento della rimessa solutoria.
A favore del primo criterio si schierarono alcune pronunce di merito, convinte che l’annotazione non fosse mera operazione contabile ma avesse la natura di pagamento, idonea a far scattare il termine di prescrizione ex art. 2935 c.c.[42]. Ma l’orientamento prevalente era nell’altro senso[43].
Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite[44], confermando l’orientamento maggioritario e delineando il seguente quadro.
All’annotazione in conto non corrisponde alcuna attività solutoria, poiché non è individuabile materialmente alcun pagamento, che si concretizza solo con la rimessa del cliente. Questa può essere di due tipi: ripristinatoria e solutoria. La prima è il versamento con cui il cliente, non avendo superato il limite dell’affidamento, ripristina la disponibilità di denaro; la seconda è il versamento con cui il cliente, avendo superato il suddetto limite, estingue tale debito nei confronti della banca, costituendo pagamento in senso tecnico, ai fini dell’art. 2033 c.c..
Poco dopo la pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite, il legislatore, con l’art. 2, comma 61 D.L. 225/2010, convertito in L. 10/2011, compì un’interpretazione autentica dell’art. 2935 c.c.. Dispose che la norma doveva essere interpretata nel senso che la prescrizione del diritto alla ripetizione iniziasse a decorrere dall’annotazione, vietando altresì la restituzione di quanto già versato alla data di entrata in vigore della legge di conversione.
Similmente al D.Lgs 342/1999, il legislatore cercava di superare in via autoritativa il diverso e dirompente intervento nomofilattico.
La Corte Costituzionale, con la sentenza del 5 aprile 2012, n. 78, dichiarò l’illegittimità della nuova norma, in quanto la decorrenza anticipata della prescrizione poneva il cliente in posizione di netta inferiorità rispetto alla banca, senza adeguata giustificazione, dunque con violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. Inoltre, la retroattività della disposizione – per via della sua natura di interpretazione autentica – fu censurata sotto il profilo della compatibilità con l’art. 6 CEDU, posto che non vi erano motivi di interesse generale sui quali fondare la compressione dell’affidamento dei consociati sulla legislazione vigente.
Ad oggi, pertanto, può dirsi pienamente applicabile l’art. 2935 c.c., come interpretato dalle Sezioni Unite del 2010, onde la prescrizione decorre solo dal momento della rimessa realmente solutoria.
A fronte di questo quadro giurisprudenziale, la banca è solita sollevare l’eccezione di irripetibilità, fondata non già sulla prescrizione ma sugli artt. 2034 e 2940 c.c.: il pagamento dell’interesse anatocistico, comunque intervenuto, costituirebbe pagamento di debito prescritto, quale species di obbligazione naturale. La giurisprudenza reputa infondata tale eccezione, stante l’assenza di spontaneità del pagamento, al contrario fondato sulla base di clausole contrattuali ritenute efficaci dal cliente, quantunque nulle[45].
Ma i problemi non finiscono qui.
Si è detto che la rimessa è solutoria o ripristinatoria a seconda che il cliente abbia oltrepassato o meno la soglia di affidamento. Ora, è controverso se l’esposizione debitoria del cliente vada individuata con riferimento all’estratto conto della banca oppure al saldo “netto” del conto, cioè quello depurato dagli interessi anatocistici. La giurisprudenza di merito si è orientata in questo secondo senso, onde occorre prima ricalcolare l’importo dovuto, e quindi verificare se, in base ai nuovi calcoli, il cliente abbia sconfinato o meno[46].
C’è poi un’altra difesa, solitamente spesa dalle banche, che attiene all’onere della prova sulla natura ripristinatoria o solutoria. L’istituto, infatti, si difende argomentando che, nonostante il mancato sconfinamento, la rimessa del cliente avrebbe natura solutoria, poiché comunque volta ad estinguere il credito della banca. Sul punto non vi è concordia di opinioni: alcune pronunce, anche di legittimità, sostengono che la banca eccipiente sia tenuta a fornire la prova di tale diversa intenzione, posto che nel contratto di apertura di credito la rimessa ha funzione generalmente ripristinatoria, rispondendo essa alla causa del contratto, ossia alla messa a disposizione di denaro in un rapporto giuridico di durata[47].
Altre, invece, argomentano che il contratto di apertura di credito, quale impedimento alla natura solutoria della rimessa, debba essere provato dal cliente, a fronte dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla banca[48].
7.2. Onere della prova
Nel caso in cui il cliente spieghi azione di nullità e conseguente domanda di ripetizione, egli è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa, in conformità all’art. 2697 c.c. Dovrà quindi produrre in giudizio gli estratti conto in serie continua, così da consentire la ricostruzione del rapporto in modo credibile ed oggettivo[49].
C’è controversia, tuttavia, in merito all’estensione dell’intervallo temporale degli estratti conto. Secondo un recente orientamento della Cassazione, la documentazione andrebbe prodotta a partire dal c.d. saldo zero, ossia dalla nascita del rapporto, analogamente a quanto avviene per la banca, in ragione della normale applicazione dell’art. 2697 c.c., non derogato in caso di azione di accertamento – quale è l’azione di nullità proposta dal cliente –, laddove, per provare un fatto negativo, è possibile provare un fatto positivo contrario[50].
Diversamente, altra parte della giurisprudenza semplifica la posizione del cliente attore, ritenendo sufficiente la produzione degli estratti conto relativi al solo periodo contestato, dunque non a partire dal saldo zero[51].
Accade spesso, tuttavia, che il cliente non sia in possesso della documentazione dell’intero rapporto; viene così richiesto, ai sensi dell’art. 210 c.p.c., l’ordine di esibizione alla banca di siffatta documentazione.
Bilanciando vicinanza della prova e art. 2697 c.c., la giurisprudenza prevalente ammette l’ordine giudiziale di esibizione, in forza dell’art. 119, comma 4, TUB, che riconosce al cliente il diritto di ottenere copia della documentazione relativa ai dieci anni precedenti. Tale norma, interpretata alla luce del principio di buona fede, attribuirebbe al cliente il diritto di ottenere la documentazione inerente a tutte le operazioni del periodo a cui il richiedente sia in concreto interessato, nel rispetto del limite di tempo decennale, a condizione, però, che il cliente abbia preventivamente richiesto la documentazione[52].
Il cliente deve dunque dimostrare di aver avanzato, prima del giudizio, la richiesta alla banca di acquisizione della documentazione contabile e di non aver ricevuto riscontro o di aver avuto un diniego a detta richiesta[53].
Ipotizziamo ora un diverso scenario.
La banca propone decreto ingiuntivo, producendo, ai sensi dell’art. 50 TUB, l’estratto conto relativo all’ultimo periodo, nel quale è indicato il saldo finale.
Il cliente, nell’opporsi al decreto, propone altresì domanda riconvenzionale di nullità: accolta la domanda, si verifica un problema probatorio per la banca.
Questa, infatti, con il decreto ingiuntivo agisce per ottenere il pagamento del saldo finale del rapporto; l’opposizione proposta dal cliente rende la banca convenuta in senso formale ma attrice in senso sostanziale, dunque soggetta all’onere della prova del suo diritto al pagamento con le modalità ordinarie dell’art. 2697 c.c., e non con quelle agevolate di cui agli artt. 634 c.p.c. e 50 TUB.
Non è più sufficiente, quindi, la produzione dell’ultimo estratto conto, ma è necessaria quella di tutti gli estratti conto sin dall’origine del rapporto. Ciò perché solo attraverso la produzione di tutti gli estratti conto è possibile ricostruire integralmente i rapporti di dare e avere tra le parti, con applicazione del tasso legale, giungendo alla determinazione del credito della banca[54].
Allo stesso risultato non si può pervenire sulla base del saldo registrato alla data di chiusura del conto e della documentazione relativa all'ultimo periodo del rapporto, dal momento che quest’ultima non consente di verificare gli importi addebitati nei periodi precedenti per operazioni passive e quelli relativi agli interessi, la cui iscrizione nel conto ha condotto alla determinazione dell'importo che costituisce la base di computo per il periodo successivo[55].
A fronte di tanto, la banca eccepisce la mancata contestazione, da parte del cliente, dell’estratto conto allegato in sede monitoria, nonché dei precedenti, basandosi sull’art. 1832 c.c.: non essendo avvenuta la contestazione, il saldo iniziale recato dall’ultimo estratto conto si può ritenere affidabile, in quanto composto dalla sommatoria dei precedenti saldi finali non contestati.
La giurisprudenza di legittimità ritiene irrilevante la mancata contestazione in sede monitoria, in quanto tale comportamento processuale, a fronte della radicale contestazione della validità, non sarebbe idoneo a far ritenere provato il credito[56].
Secondo la Cassazione, inoltre, nemmeno la mancata contestazione degli estratti conto precedenti rileverebbe, in quanto l’implicita approvazione delle operazioni ivi annotate riguarderebbe gli accrediti e gli addebiti considerati nella loro realtà effettuale, nonché la verità contabile, storica e di fatto delle operazioni annotate, ma non impedirebbe la formulazione di censure concernenti la validità ed efficacia dei rapporti obbligatori sottostanti[57].
Esclusa la fondatezza dell’eccezione di non contestazione, la banca può spendere un’ulteriore difesa: l’insussistenza dell’obbligo di conservazione delle scritture contabili oltre il decennio, ai sensi dell’art. 2220, comma 1, c.c..
Anche sul punto, però, la recente Cassazione serba un atteggiamento restrittivo, sostenendo che “nei rapporti bancari in conto corrente, la banca non può sottrarsi all'onere di provare il proprio credito invocando l'insussistenza dell'obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dalla data dell'ultima registrazione, in quanto tale obbligo, volto ad assicurare una più penetrante tutela dei terzi estranei all'attività imprenditoriale, non può sollevarla dall'onere della prova piena del credito vantato anche per il periodo ulteriore”[58]. In altre parole, la Corte di legittimità distingue l’obbligo di tenuta ai fini contabili e quello ai fini probatori: l’art. 2220 c.c. non può costituire una deroga all’art. 2697 c.c., poiché altrimenti l’istituto di credito verrebbe a trovarsi in posizione di irragionevole favore nella prova dei diritti[59].
8. Conclusioni
Dall’analisi del quadro sostanziale e processuale, emerge chiaramente come l’anatocismo nelle operazioni bancarie sia oggetto di incessante attenzione da parte di legislatore e giurisprudenza, protesi l’uno alla tutela del sistema creditizio e l’altra della parte debole.
Nell’avvicendarsi di discipline, esso genera un imponente contenzioso, in cui risalta un atteggiamento pretorio talvolta incline a facilitare la posizione processuale del cliente, ma che si avvede altresì del rischio di approfittamento da parte di questo, laddove l’esonero da oneri probatori stringenti generi una facile locupletazione in danno della banca, costretta ad erogare finanziamenti a costi fortemente decurtati.
Il D.L. 18/2016 e la delibera CICR 3.8.2016 segnano forse un ritorno al passato, sia per la portata minimale del divieto, sia perché l’autorizzazione del cliente rischia di sbiadire nell’anonimato della contrattazione di massa, residuandovi solo un “simulacro” di volontà negoziale[60]: sarà la futura interpretazione giurisprudenziale a svelare la portata della volontà autorizzatoria, che, vista la rilevanza del fenomeno anatocistico, dovrà essere circondata di garanzie di consapevolezza ed effettività.
* Il presente articolo è risultato vincitore, nell’ottobre del 2017, della prima edizione della borsa di studio dedicata alla memoria dell’Avv. Donato Ciceroni, stimato professionista di Senigallia prematuramente scomparso. Tale borsa di studio è istituita a cadenza biennale dalla Banca di Credito Cooperativo di Corinaldo, in collaborazione con l’associazione “L’amore donato Onlus” e con il pat5rocinio della Federazione Marchigiana delle Banche di Credito Cooperativo, ed è rivolta ai giovani praticanti avvocati delle Marche.
[1] La distinzione tra capitalizzazione e anatocismo è alla base della stessa tecnica normativa: l’art. 120, comma 2, del Testo Unico Bancario (D.Lgs 385/1993, di seguito: TUB), come modificato dal D.Lgs 342/1999, parlava di “produzione degli interessi sugli interessi”. La riforma del 2014, invece, sottendendo la distinzione, contrappose capitalizzazione degli interessi e produzione – vietata – degli interessi ulteriori, ipotizzando una sorta di capitale infruttifero. L’impostazione normativa è stata molto criticata per l’apparente ossimoro (cfr. Maimeri, La capitalizzazione degli interessi fra legge di stabilità e decreto sulla competitività, in www.dirittobancario.it, p. 4), e infatti la riforma del 2016 ha abbandonato la dizione, espressamente qualificando, in sede di Relazione di accompagnamento, come “impropria” la distinzione tra i concetti.
[2] In tal senso Di Pietropaolo, Osservazioni in tema di anatocismo, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2/2001, p. 99 e ss.; Marcelli, Anatocismo e capitalizzazione. I promessi sposi sono convolati a nozze: con il nuovo art. 120 TUB si “scardina” il presidio dell’art. 1283 c.c., in www.ilcaso.it, 3 agosto 2016, p. 5; in giurisprudenza Trib. Monza, 7 luglio 2016, n. 1950.
[3] La sinonimia è sottesa alla stessa giurisprudenza di legittimità, anche dei massimi consessi: cfr. Cass., SS.UU., 4 novembre 2004, n. 21095.
[4] Quattrocchio, Quaranta, Astorino, L’anatocismo sul piano tecnico e sotto il profilo storico evolutivo, in ambito nazionale e sovranazionale, in www.ildirittodegliaffari.it, 8 ottobre 2015, pag. 7.
[5] Marcelli, op. cit., p. 14.
[6] Cass., 20 febbraio 2003, n. 2593.
[7] Colombo, L’anatocismo, Milano, 2007, p. 37.
[8] Cfr., ad esempio, Cass., 15 dicembre 1981, n. 6331; Cass., 1 settembre 1995, n. 9227.
[9] Il cui comma 1 recita: “I rapporti di dare e avere vengono regolati, in via normale, a fine dicembre di ogni anno, portando in conto gli interessi e le commissioni nella misura stabilita, nonché le spese postali, telegrafiche e simili e le spese di chiusura del conto ed ogni eventuale altra, con valuta data di regolamento”.
[10] Si tratta delle sentenze “gemelle”: Cass., 16 marzo 1999, n. 2374 e Cass., 30 marzo 1999, n. 3096.
[11] Trib. Torino, 5 ottobre 2007, n. 6204; Trib. Benevento, 18 febbraio 2008, n. 252.
[12] Angeloni, La ripetizione degli interessi anatocistici corrisposti sulla base di apposite clausole contrattuali anteriormente al mutamento di indirizzo della Suprema Corte che ne sanciva la legittimità, in Contr. Impr., 2000, p. 1171.
[13] Orientamento poi seguito dalla giurisprudenza successiva, fra cui Cass., 1 marzo 2007, n. 4853; Cass., 22 marzo 2011, n. 6518; Cass., 14 marzo 2013, n. 6550.
[14] De Nova, Capitalizzazione trimestrale: verso un revirement della Cassazione?, in Contratti, 1999, p. 446.
[15] Questa è la posizione attualmente dominante, se non unanime, della giurisprudenza di legittimità: Cass., 18 settembre 2014, n. 19896; Cass., 6 maggio 2015, n. 9127; Cass., 21 aprile 2016, n. 8088.
[16] Trib. Milano, 25 marzo 2015; Trib. Milano, 3 aprile 2015; Trib. Milano 9 luglio 2015; Trib. Milano 3 marzo 2015; Trib. Roma 20 ottobre 2015.
[17] Ciò invocando l’art. 161, comma 5, TUB: Trib. Bologna, 25 marzo 2016; Trib. Bologna, 9 dicembre 2015; Trib. Torino, 16 giugno 2015; Trib. Torino, 5 agosto 2015. Subito dopo la L. 147/2013, il Governo, con il D.L. 91/2014, modificò l’art. 120, comma 2, TUB, delegando il CICR a stabilire non più la “produzione di interessi” ma la produzione di “interessi sugli interessi”; tale decreto, però, non è stato convertito in legge.
[18] In tale previsione, la nuova normativa trae ispirazione dalla bozza di delibera predisposta dalla Banca d’Italia sotto il vigore della L. 147/2013, che, all’art. 4, comma 4, prevedeva proprio l’anatocismo autorizzato.
[19] Marcelli, Le due facce della prescrizione. Nella capitalizzazione degli interessi si cela una mistificazione, in www.ilicaso.it, p. 29; Id., Anatocismo e capitalizzazione. I promessi sposi sono convolati a nozze: con il nuovo art. 120 TUB si “scardina” il presidio dell’art. 1283 c.c., in www.ilcaso.it, 3 agosto 2016; Tavormina, Il nuovissimo art. 120, comma 2, TUB ed i frutti civili rappresentati dagli interessi dei capitali, in www.expartecreditoris.it, 18.05.2016; Serrao D’Aquino, L’anatocismo bancario vietato ma non troppo: la L. 49/2016 modifica ancora l’art. 120 TUB, in www.giustiziacivile.com, n. 8/2016, p. 8.
[20] F. Civale, L’art. 120 del TUB versione 2016: il “valzer” degli interessi nei rapporti bancari, in www.dirittobancario.it, 2016, pp. 7-8.
[21] Cfr. D.M. Economia e Finanze n. 644/2012 , art. 1, lett. D.
[22] Cfr. art. 1, lett. B, n. 4.2., D.Lgs 11/2010.
[23] Farina, La (ennesima) resurrezione dell’anatocismo bancario, in Contratti, 7/2016, p. 710.
[24] Trib. Verona, 24 marzo 2015 n. 758; Trib. Lucca, 8 gennaio 2015 n. 30; Trib. Padova, 29 maggio 2016 (basata, tuttavia, sul diverso presupposto del metodo dell’interesse semplice e non composto); Trib. Lucca, 1 ottobre 2014, n. 1439; Trib. Milano, 30 ottobre 2013.
[25] Cfr., in tal senso, Trib. Treviso, 12 novembre 2015, n. 2476.
[26] Trib. Bari, 29 ottobre 2008, n. 113.
[27] Trib. Padova, 12 gennaio 2016.
[28] Quanto detto nel testo in merito al mutuo ordinario vale anche per il mutuo fondiario. Inizialmente gli artt. 38, comma 2, R.D. 646/1905, 14, comma 2, D.P.R. 7/1976 e 16, comma 2, L. 175/1991 consentivano la produzione di interessi sugli interessi scaduti, in ragione del carattere pubblicistico dell’attività svolta dagli istituti finanziatori. Con l’entrata in vigore del TUB (1.1.1994), il cui art. 38 non fa menzione della produzione di interessi ulteriori, la disciplina derogatoria è stata abrogata, onde oggi il mutuo fondiario è integralmente sottoposto alla disciplina ordinaria (in tal senso: Cass., 3 maggio 2011, n. 9695; Cass., 22 maggio 2014, n. 11400; Cass., 7 giugno 2016, n. 1168).
[29] Cass., 20 febbraio 2003, n. 2593; nello stesso senso: Cass., 11 gennaio 2013, n. 603.
[30] Farina, op. cit., pp. 709-710.
[31] Cfr. Cass., 3 marzo 2015, n. 4230; Cass., 22 maggio 2014, n. 11400: “nei mutui ad ammortamento, la formazione delle rate di rimborso, nella misura composita predeterminata di capitale ed interessi, attiene alle mere modalità di adempimento di due obbligazioni poste a carico del mutuatario, aventi ad oggetto l'una la restituzione della somma ricevuta in prestito e l'altra la corresponsione degli interessi per il suo godimento, che sono ontologicamente distinte e rispondono a diverse finalità; di conseguenza, il fatto che nella rata esse concorrano, allo scopo di consentire all'obbligato di adempiervi in via differita nel tempo, non è dunque sufficiente a mutare la natura né ad eliminarne l'autonomia. In forza delle limitazioni previste, quindi, dall'art. 1283 c.c., la banca mutuataria non può pretendere il pagamento degli interessi moratori sul credito scaduto per interessi corrispettivi”.
[32] Pubblicate in www.bancaditalia.it e risalenti all’agosto 2009.
[33] Trib. Torino, 8 ottobre 2014; Trib. Cremona, 30 ottobre 2014.
[34] Dolmetta, Rilevanza usuraria dell’anatocismo (con aggiunte note sulle clausole da inadempimento), in www.dirittobancario.it, 2015, pp. 16-17.
[35] Cass., 22 aprile 2000, n. 5286; Cass., 9 gennaio 2013, n. 350; conforme: App. Roma, 7 luglio 2016.
[36] Chiarimenti del 3 luglio 2013, in www.bancaditalia.it.
[37] Trib. Livorno, 3 maggio 2016; Trib. Varese, 27 aprile 2016; Trib. Roma, 16 aprile 2014; Trib. Brescia, 17 gennaio 2014; Trib. Verona, 30 aprile 2014; ulteriori riferimenti nella nota 41.
[38] In tal senso ABF Napoli, decisione n. 125/2014.
[39] Trib. Reggio Emilia, 6 ottobre 2015.
[40] Trib. Monza, 2 luglio 2016; Trib. Benevento, 11 maggio 2016; Trib. Savona, 10 marzo 2016; Trib. Milano, 8 marzo 2016; in dottrina: Marcelli, La mora e l’usura: criteri di verifica, in www.ilcaso.it, 17 giugno 2014, p. 3.
[41] Trib. Torino, 27 aprile 2016; Trib. Padova, 13 gennaio 2016; Trib. Treviso, 12 novembre 2015; Trib. Lecce, 25 settembre 2015; Trib. Torino, 20 giugno 2015; Trib. Rimini, 6 febbraio 2015; conformemente all’orientamento della Cassazione, invece, fra le più recenti: Trib. Napoli Nord, 19 settembre 2016; App. Roma, 7 luglio 2016.
[42] App. Brescia, 16 gennaio 2008; Trib. Mantova, 12 luglio 2008; Trib. Mantova, 2 febbraio 2009.
[43] Cfr. Cass., 11 febbraio 2008, n. 3181.
[44] Cass., SS.UU., 2 dicembre 2010, n. 24418.
[45] Trib. Roma, 2 maggio 2016.
[46] Trib. Ancona, 12 aprile 2016; Trib. Alessandria, 21 febbraio 2015; Trib. Udine, 29 ottobre 2013.
[47] Cass., 26 febbraio 2014, n. 4518; Trib. Pavia, 21 aprile 2016.
[48] App. Brescia, 23 dicembre 2015.
[49] In tal senso: Trib. Brindisi, 14 marzo 2016; Trib. Genova, 12 maggio 2016.
[50] Cass., 7 maggio 2015, n. 9201.
[51] Trib. Reggio Emilia, 23 aprile 2014; App. Lecce, 12 novembre 2015, n. 904, che così argomenta: “l'oggetto della domanda (…) è l'accertamento dell'esatto ammontare del dare/avere tra le parti ad una certa data e, rispetto a tale accertamento, dall'impossibilità, per mancanza di idonea documentazione, di ricostruire le poste attive e passive del primo periodo non può farsi derivare una sorta di sanatoria degli addebiti illegittimi verosimilmente operati dall'Istituto di credito in tale periodo, al pari del periodo successivo (questo sarebbe il risultato dell'adozione, come base per i conteggi successivi, del saldo risultante dal primo estratto conto disponibile)”.
[52] Cass., 10 gennaio 2003, n. 149; Cass., 6 ottobre 2005, n. 19475; Cass., 12 maggio 2006 n. 11004.
[53] Trib. Lanciano, 8 giugno 2016 n. 271.
[54] Cass., 19 settembre 2013, n. 21466; Cass., 26 gennaio 2011, n. 1842; in tal senso anche la giurisprudenza di merito: App. Lecce, 12 novembre 2015, n. 904; App. Bari, 7 febbraio 2013 n. 37.
[55] In tal senso Cass., 25 novembre 2010, n. 23974; Cass., 10 maggio 2007, n. 10692.
[56] Cass., 11 marzo 2011, n. 5915; Cass., 3 marzo 2009, n. 5071; Cass., 17 novembre 2003, n. 17371.
[57] Cass., 26 maggio 2011, n. 11626; Cass., 19 marzo 2007, n. 6514; Cass., 18 maggio 2006, n. 11749.
[58] Cass., 20 aprile 2016, n. 7972.
[59] Così Cass., 26 gennaio 2011 n. 1842.
[60] Farina, op. cit., p. 715.
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