Bancario


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 30/06/2017 Scarica PDF

Doppia firma e doppio esemplare nei contratti finanziari: i dubbi della Suprema Corte

Matilde Girolami, Professore


Sommario: 1. La prescrizione di forma dell’art. 23 TUF nel contesto del neoformalismo contrattuale; 2. Il condizionamento ermeneutico della dinamica della nullità di protezione; 3. Questione di massima di particolare importanza.

 

 

1. La prescrizione di forma dell’art. 23 TUF nel contesto del neoformalismo contrattuale

A seguito dell’ordinanza di rimessione 27 aprile 2017, n. 10447, la Cassazione è chiamata a decidere a Sezioni Unite una questione di massima di particolare importanza che riguarda la forma dei contratti finanziari. In particolare si afferma che costituisce «questione di massima di particolare importanza se, a norma dell’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, il requisito della forma scritta del contratto di investimento esiga, accanto a quella dell’investitore, anche la sottoscrizione ad substantiam dell’intermediario».

Si tratta di un problema risalente e che sembrava ormai sopito ma che improvvisamente torna all’attenzione del mondo giuridico con un’enfasi che quasi sorprende. Viene spontaneo chiedersi perché sia divenuto ora così importante stabilire quale sia la lettura corretta del requisito di forma prescritto dall’art. 23 TUF, quando da diverso tempo la stessa Cassazione si era assestata su un’interpretazione rigorosa del punto, nel senso di richiedere ad substantiam actus il documento scritto e sottoscritto da entrambe le parti contraenti[1].

In effetti, il testo della norma sembra chiaro quando afferma che «I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, escluso il servizio di cui all’articolo 1, comma 5, lettera f), e, se previsto, i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti».

Redazione per iscritto e consegna di un esemplare ai clienti sembrerebbero, infatti, orientare de plano verso la lettura più accreditata da ultimo in Cassazione, ma allora dove sta il dubbio?

L’ordinanza 10447 avanza sul punto una perplessità di fondo sul ruolo del formalismo negoziale nei contratti del mercato finanziario e in genere nei contratti stipulati tra parti con diversa forza negoziale. Sarebbe una ratio diversa quella che connota la disciplina dei requisiti del contratto asimmetrico, rispetto a quella, classica, che poggia sull’art. 1325 c.c.

La prescrizione di forma, in particolare, non risponderebbe qui tanto alle classiche finalità di rendere il contenuto dell’accordo adeguatamente ponderato e di assicurare rilevanza sociale al regolamento negoziale, quanto piuttosto allo scopo di informare la parte debole del contratto, nella specie il cliente.

La documentazione delle condizioni contrattuali sarebbe, dunque, l’essenza della previsione del legislatore del TUF, che avrebbe come scopo preciso (ma unico, allora) quello di rendere edotto il cliente delle clausole predisposte dall’intermediario. La forma prescritta dall’art. 23 de quo e in genere dalle norme che presidiano il mercato dei contratti asimmetrici, non sarebbe una forma di struttura, sull’esempio del codice civile, bensì una (diversa) forma di funzione[2]. Cosicché, se si conviene che la redazione del contratto per iscritto sia funzionale alla tutela della corretta informazione del cliente, e solo ad essa, in questa particolare logica andrebbe valutata e rivista la consistenza dell’obbligo di documentazione. Ecco allora il dubbio se, per ritenere assolto il compito dell’intermediario, sia sufficiente la consegna al cliente del prospetto redatto dalla banca, oppure se sia necessario che venga documentata l’intera operazione negoziale comprensiva delle sottoscrizioni di entrambe le parti.

Questi i termini della questione.

Per provare a delineare una soluzione conviene partire dall’analisi della normativa sul punto che, va detto, non si esaurisce nell’art. 23 citato, ma si completa con il Regolamento Consob n. 16190/2007 ove, nell’art. 37, è previsto che «Gli intermediari forniscono ai clienti al dettaglio[3] i propri servizi di investimento, diversi dalla consulenza in materia di investimenti, sulla base di un apposito contratto scritto; una copia di tale contratto è consegnata al cliente»[4].

La previsione regolamentare si allinea a quanto previsto nel TUF, dando comunque visibilità alla prassi vigente nel settore, e consolidata dalla MiFID, secondo la quale i servizi di investimento vengono erogati sulla base di un accordo quadro, scritto, al quale seguono poi singoli ordini esecutivi.

Ed è proprio intorno alla forma di questo accordo quadro che maturano le incertezze ventilate nell’ordinanza 10447, ove si chiede se detto accordo quadro debba essere sottoscritto per essere valido o se possa consistere in un semplice documento firmato dal solo cliente, ritenendosi la sottoscrizione dell’intermediario non indispensabile, in quanto parte predisponente il modulo[5].

Si consideri che la forma minima richiesta ad substantiam actus dal codice civile è la scrittura privata di cui all’art. 2702 c.c. che, per interpretazione unanime, consiste in un atto scritto e sottoscritto[6]. Seguendo il ragionamento esposto nell’ordinanza, si dovrebbe, allora, arrivare ad ammettere che nei contratti asimmetrici la forma funzione, in quanto forma protettiva, richiederebbe un elemento in meno, se confrontata con la forma struttura del contratto inter pares. Non suona bene.

Anche volendo convenire che il neoformalismo sia qualcosa di diverso dal formalismo classico, sembra infatti arduo poterne definire la consistenza in termini ridotti rispetto a quanto previsto in merito dal codice, ove il minimo formale è appunto la scrittura privata di cui all’art. 2702 c.c. Si dovrebbe trovare una ragione plausibile per derogare in pejus a questo parametro, ma non se vede il motivo, tanto più che lo si dovrebbe fare in nome della ratio protettiva che connota la legislazione del settore finanziario. Il che sembra quasi una contraddizione in termini.

Si aggiunga che le finalità proprie della forma classica sembrano trovare un’uguale ragion d’essere anche in questi contesti del mercato, ove semmai l’esigenza informativa si va a sommare alla dinamica tradizionale, ma certo non vuole, né potrebbe, sostituirla[7].

Una diversa conclusione, d’altra parte, non sembrerebbe avere nemmeno il sostegno del dato normativo, e non solo per quello che si è detto sin qui.

Va invero valorizzata la circostanza che l’art. 23 TUF non si limita a richiedere che il contratto sia redatto per iscritto, ma obbliga anche l’intermediario a consegnarne un esemplare al cliente: un esemplare e non una semplice copia, come invece sembrerebbe bastare per il Regolamento Consob 2007. Va da sé, tuttavia, che trattandosi di norma regolamentare, quest’ultima dovrà essere interpretata alla luce della norma di legge di cui è attuazione, l’art. 23 TUF, e pertanto i termini del ragionamento non si spostano. Ne consegue che nel caso de quo non basterebbe nemmeno la redazione in unico originale ma parrebbe necessario, a rigore, che il contratto venisse redatto in doppio originale, sottoscritto da entrambi i contraenti.

Che poi si possa concludere questo tipo di accordi anche con la formula della proposta e dell’accettazione contenute in due atti distinti (purché debitamente sottoscritti) non sembra essere un problema, visto che secondo le regole generali anche il contratto più solenne, qual è la donazione, può essere concluso in questo modo, per espressa previsione dell’art. 782, comma 2°, c.c. L’importante è che un esemplare del contratto venga poi consegnato al cliente.

Si consideri, tra l’altro, che la consegna di un esemplare al cliente serve non solo per completare la prescrizione formale, ma anche, e in ugual modo, per fissare definitivamente il contenuto del contratto in termini di diritti ed obblighi reciproci delle parti in modo da fornire all’investitore una base certa per poter valutare, in termini di adempimento o di inadempimento, il successivo comportamento dell’intermediario. Non si dimentichi, comunque, che la cristallizzazione del regolamento negoziale giova anche alla banca, che in tal modo non si vedrà esposta al rischio di assumere in proprio l’obbligo di pagare il prezzo dei prodotti che andrà in seguito ad acquistare. Si tratta, dunque, di un momento davvero essenziale in questo tipo di contrattazione.

Ne discende a questo punto che la conclusione a cui erano arrivate le ultime pronunce della Cassazione, riguardo alla forma dei contratti finanziari, sembri l’unica davvero sostenibile: è la legge a richiedere il contratto scritto a pena di nullità – questa sì di protezione e vedremo con quali implicazioni – ed è ancora la legge a richiedere la consegna di un esemplare del contratto al cliente, una volta concluso[8].

Non sembra possibile ragionare diversamente, assimilando l’obbligo di forma di cui all’art. 23 TUF agli obblighi di informazione che gravano sul professionista nella fase delle trattative[9]. Lungi dall’elidersi, semmai le due cose si sommeranno per garantire la miglior tutela al contraente debole, meno esperto del mercato finanziario rispetto al suo interlocutore.

È l’oggetto delle sentenze Rordorf, in fondo: niente di nuovo[10]. Anzi, a ben vedere, in quelle cause si chiedeva di affermare una nullità di fronte alla violazione di obblighi di comportamento imposti agli intermediari dalla legge, ma senza una specifica sanzione[11]. E le Sezioni Unite non accolsero l’istanza[12]. Qui si pretenderebbe, invece, di fare il contrario: ove la legge testualmente prescrive un requisito a pena di nullità lo si vorrebbe ridurre a regola di comportamento non coperta dalla sanzione testuale.

In attesa di vedere che cosa decideranno i Giudici, in questa sede ci si può solo limitare a mettere in evidenza come sembri soluzione plausibile che il cliente debba essere messo nella condizione di conoscere adeguatamente i termini contrattuali prima di assumere una determinazione negoziale in merito ad un servizio di investimento e che, nel caso poi decidesse di concludere l’accordo, abbia diritto di vederne consolidato il contenuto in un documento reso solenne dalla sottoscrizione di entrambi i contraenti, e di riceverne un esemplare. Non sembra che quello descritto sia un iter derogabile poiché le parti, firmando il documento, non solo assumono la paternità dell’impegno, ma (soprattutto) – come si diceva – ne delineano definitivamente la consistenza.

Si può poi discutere sulla bontà delle scelte del legislatore in materia, ma rebus sic stantibus non avrebbe senso falsare il testo normativo in nome di nuove esigenze del mercato.

D’altra parte, l’inutile appesantimento della negoziazione non deriva certo dalla necessità della sottoscrizione, che è fisiologica di ogni impegno negoziale e si concreta nello spazio di un istante, oltre a rispondere ad una corretta organizzazione d’impresa da parte dell’intermediario. L’ipertrofia regolamentare connota piuttosto la fase precontrattuale ove si impone al professionista un obbligo informativo del tutto irragionevole: il fine è senz’altro condivisibile, ma il modo nel quale il legislatore lo interpreta è a dir poco inefficace.

Elenchi (infiniti) di informazioni da dare, obblighi (senza sanzione) di chiarezza nella documentazione scritta, scansioni procedimentali (inutilmente) complesse segnano il diritto dei contratti più recente, sulla scia di una tecnica normativa di matrice europea, che sembra tuttavia dimenticare che la norma è generale ed astratta e deve, per questo, essere contenuta in un’espressione di sintesi incisiva senza rincorrere tutte le varie manifestazioni del reale. L’opera di sussunzione delle variegate fattispecie concrete nella regola è lasciata da sempre, naturalmente, all’interprete: il legislatore, per quanto ambisca alla creazione della norma più completa, non raggiungerà mai la fantasia di cui è dotata la realtà.

Va da sé che più una disciplina si sforza di essere completa e di normare tutti i casi possibili, più rivelerà naturalmente la propria incompletezza. Ed è quello che sta succedendo, o piuttosto che è già successo, anche nel settore finanziario.

 

2. Il condizionamento ermeneutico della dinamica della nullità di protezione

Si è accennato al fatto che la sanzione a cui testualmente l’art. 23 TUF (comma 3°) ricollega la mancata osservanza della forma scritta è una nullità che può essere fatta valere solo dal cliente.

Trattasi di figura ormai nota nel mondo dei contratti asimmetrici e che si caratterizza per lasciare il contraente debole arbitro delle sorti della fattispecie. Sul punto ormai tutti concordano, visto che in questi termini si è espressa la Corte di Giustizia con la sentenza 4 giugno 2009, Pannon.

Resta il fatto che intorno alla nullità relativa, è sorto nel tempo un dibattito dottrinale corposo, quanto conflittuale, che solo di recente sembra aver trovato una qualche convergenza di idee.

La prospettazione della figura ha radici ben più antiche del nuovo diritto protettivo e si ritrova anche in alcune previsioni della stesura originaria del codice civile, come retaggio dell’influenza francese sul nostro sistema. Come infatti il Code Napoléon contempla una nullité relative quale figura di invalidità che può essere azionata davanti al giudice solo da determinati soggetti legittimati, così anche il nostro codice del ’42 ammette che la nullità dell’alienazione della dote possa essere fatta valere dal solo marito (art. 190 c.c., ora abrogato) e che la donazione fatta ai figli naturali non riconoscibili possa essere impugnata dal solo donante, o dai suoi discendenti legittimi o dal coniuge (art. 780 c.c., ora abrogato). Ma la fortuna della nullità relativa si estende storicamente ben oltre il codice civile, coinvolgendo la legislazione speciale – si pensi all’art. 122, comma 5°,  del r.d. n. 633/1941 sul diritto d’autore – fino a diventare in un certo senso il refugium di tutte le previsioni normative devianti rispetto al binomio nullità e annullabilità disciplinate negli artt. 1418 ss. c.c. Al punto che vi è chi ha fatto notare come della nullità relativa coesistessero, ad un certo punto, addirittura undici accezioni[13].

La riscoperta della figura nel mondo dei contratti asimmetrici, che caratterizza gli ultimi decenni, ne segna tuttavia una diffusione esponenziale accompagnata da una progressiva esigenza di stabilità dei tratti, che ha richiamato pertanto l’attenzione degli interpreti.

Nell’economia del presente discorso ci si limiterà a delineare, come esito del dibattito dottrinale, consolidato però, ora, anche da una pronuncia delle Sezioni Unite[14], la ricostruzione della nullità relativa in termini di una nullità di protezione che dà luogo ad una fattispecie negoziale a cui l’ordinamento non accorda l’idoneità a produrre effetti se non dopo un atto di conferma da parte del contraente debole, a ciò legittimato. Specularmente, il medesimo contraente debole sarà legittimato a far valere il vizio del negozio, decretandone così la definitiva scomparsa dal piano giuridico.

Il che rievoca, in termini tecnici, la nullità pendente o sospesa, cd. schwebende Unwirksamkeit, già nota ai tempi di Windscheid, e fa della nullità di protezione un tertium genus di invalidità accanto alla nullità e all’annullabilità tradizionali.

La norma paradigmatica sul punto è considerata oggi l’art. 36 del codice del consumo (d. lgs. n. 206/2005), in materia di clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, rubricata proprio “Nullità di protezione”. Ma l’art. 23 TUF qui in esame può ben considerarsi un antesignano della specie, affatto in linea con questa prescrizione.

Elemento centrale nella ricostruzione del modus operandi della nullità di protezione è senz’altro il momento dell’eventuale sanatoria che il contraente debole – qui il cliente – può porre in essere. Per non contravvenire alla ratio della previsione, infatti, è necessario che il consolidamento della fattispecie corrisponda ad una volontà effettiva del cliente, e perciò adeguatamente ponderata. È necessario, cioè, che un eventuale atto confermativo sia da questi posto in essere con la consapevolezza dell’esistenza del vizio che va a sanare e con la reale intenzione di arrivare a tale esito. Una dinamica simile, in fondo, a quella che il codice prevede a proposito della convalida del negozio annullabile, nell’art. 1444 c.c.

Trasponendo nella realtà dei contratti finanziari i dati sin qui descritti, si nota subito che la peculiarità della sanzione scelta dal legislatore del TUF finisce col ripercuotersi – come è naturale che sia – anche sulla lettura del precetto formale oggetto della questione di massima rimessa ora alle Sezioni Unite.

Si è detto come appaia necessario che il contratto quadro venga redatto per iscritto e sia sottoscritto e come, dunque, in mancanza della sottoscrizione di entrambe le parti il contratto si presenti viziato. Non si vuole qui rimettere in discussione questo assunto. Si profila tuttavia un ulteriore e diverso quesito che porta a chiedersi se in alcuni comportamenti tenuti dalle parti dopo la conclusione del contratto sia possibile ravvisare l’idoneità a sanare tale vizio di forma, sopperendo all’iniziale difetto di sottoscrizione.

In effetti, in questa prospettiva sono state evocate come equipollenti alla firma o come elementi sananti – non senza una parziale commistione di piani – diverse contingenze ascrivibili sia all’intermediario, sia al cliente. In particolare, nel primo senso, si è menzionato il fatto che l’intermediario abbia inserito nel documento contrattuale dizioni del tipo “sottoscritto per accettazione dai soggetti abilitati a rappresentarvi”, o abbia curato di raccogliere la sottoscrizione del cliente o, ancora, abbia consegnato al medesimo il documento scritto, sia pure non sottoscritto[15]. Si è richiamato, al riguardo, anche il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale la produzione in giudizio di una scrittura privata da parte di chi non l’ha sottoscritta concretera un riconoscimento della medesima, atto a sopperire alla mancanza iniziale della sottoscrizione[16].

Tutto plausibile, ma a ben vedere, nella dinamica della nullità di protezione, affatto fuorviante.

Invero, una volta formatosi il contratto, se il vizio sussiste, per quanto appena detto, spetterà al solo contraente debole, e dunque al solo cliente, la legittimazione a sanarlo. Nessuna dichiarazione e nessun comportamento della controparte, per quanto in sé significativi, potranno pertanto manifestare un’idoneità allo scopo. È rimesso al solo cliente decidere se avvalersi del contatto quadro anche se non sottoscritto. Non è dato, invece, in alcun modo all’intermediario di integrare ad libitum la mancanza iniziale della propria sottoscrizione, qualora dovesse valutare in seguito che questo gli conviene. L’intermediario deve sottoscrivere al momento della conclusione del contratto, poi non è più legittimato ad incidere sulle sorti della fattispecie. È conforme al bilanciamento sistematico degli interessi, d’altra parte.

Quanto al cliente, si dice che il fatto di non aver contestato gli atti esecutivi del contratto quadro, non sottoscritto, posti in essere dall’intermediario nel corso del rapporto contrattuale possa rappresentare, in sostanza, un comportamento accondiscendente in grado di sanare il vizio di forma dell’accordo di base. A questo punto risulta chiaro, tuttavia, come una sanatoria possa ravvisarsi, propriamente, nei soli atti compiuti dal cliente con la consapevolezza dell’esistenza del vizio e con la volontà esplicita di volervi ovviare, avvalendosi definitivamente del negozio. Una conferma inconsapevole del cliente, nella dinamica della nullità di protezione va perciò considerata tamquam non esset. Non è difficile scorgere in una conclusione diversa la possibilità di abuso da parte del contraente forte che potrebbe facilmente far sottoscrivere al cliente un modulo di conferma, senza che questi si renda effettivamente conto delle implicazioni che tale sottoscrizione comporterebbe.

In definitiva, non è concesso se non al cliente e in base ad una scelta consapevole, di sanare il vizio di forma del contratto quadro.

Resta sullo sfondo la questione che esistono investitori che non sono affatto vittime degli intermediari, ma che tendono, al contrario, ad approfittare della normativa appena descritta per farne un uso abusivo, pretendendo di venire contra factum proprium. È un problema effettivo, ma è evidente che si tratta di un discorso diverso che non può condurre, a rigor di logica, a snaturare il funzionamento degli istituti trattati e che dovrà trovare una soluzione su altri piani.

In  questa prospettiva potrà essere considerato, ad esempio, il fatto che una lettura coerente della previsione della nullità (di protezione) del contratto quadro non sottoscritto dall’intermediario, non potrà che determinare –  se il cliente sceglie di farla valere – la caducazione del medesimo accordo e di tutti gli ordini esecutivi successivi che in esso trovano base giuridica[17], senza che sembri possibile dare spazio alla scelta di salvare alcuni ordini (quelli con esito economico positivo) e di caducarne altri (quelli con esito economico negativo), aprendo un varco alla  c.d. nullità selettiva. A meno che non si porti all’attenzione uno specifico vizio inerente ad un singolo ordine, ma allora senza impugnare il contratto quadro. Si attende anche su questi profili una decisione delle Sezioni Unite, vista l’ordinanza di rimessione del 17 maggio 2017[18], e sembra che potrà allora essere quella la sede in cui i giudici dovranno trovare una lettura del sistema che possa arginare i comportamenti illegittimi dei clienti, senza invece bisogno di travisare per questo la prescrizione di forma di cui all’art. 23 TUF.

 

3. Questione di massima di particolare importanza

In conclusione sia concessa qualche riflessione sulla ragione stessa della rimessione alle Sezioni Unite della questione della forma dei contratti del settore finanziario che, come si è detto in incipit, sembrava già risolta.

A spingere verso l’esigenza di un chiarimento definitivo è forse la suggestione evocata oggi dalla materia dei contratti conclusi tra parti con diversa forza negoziale, visto che il “diritto protettivo” sembra avere invaso negli ultimi anni il campo del diritto civile, al punto da mettere in crisi i piani tradizionali del ragionamento giuridico, e ciò ben oltre l’ambito specifico dei contratti finanziari.

La parità contrattuale, l’equilibrio, e financo la giustizia del caso concreto sono ora valutati con parametri diversi da quelli oggetto del procedimento ermeneutico classico: il punto è se sia necessario sovvertire tali parametri o se sia sufficiente ricalibrarli.

Va dato atto che il mercato attuale è fatto per lo più di contratti d’impresa e di contratti connotati da squilibrio negoziale tra le parti, e lo spazio lasciato alla negoziazione inter pares tra privati è divenuto quasi residuale. In pendant si registra una svalutazione progressiva del ruolo del libro quarto del codice civile di fronte alle legislazioni di settore che infarciscono di una moltitudine di regole nuove il negozio, nel nome di un vento nuovo che si vorrebbe portare alla materia.

Quando si chiede alle Sezioni Unite di decidere se la prescrizione dell’art. 23 TUF, che nel testo dispone che i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento siano «redatti per iscritto», vada intesa in senso letterale o se invece vi sia spazio per dissolverla nell’alveo delle regole procedimentali di nuova matrice, è palese tuttavia che il tempo dell’ipertrofia normativa è ormai giunto ad un punto critico.

Che senso ha imporre obblighi su obblighi se poi tutto questo rischia di andare a detrimento del contraente debole? Siamo davvero convinti che i dettagliatissimi documenti “informativi” del settore finanziario, ma anche di quello bancario e aggiungerei di quello assicurativo, svolgano un ruolo effettivo di tutela del cliente? Così come sono predisposti ed utilizzati ora, sembrano più un modo offerto all’intermediario, banca o società assicuratrice che sia, per sollevarsi da eventuali responsabilità che una via data al cliente per comprendere e davvero ponderare le proprie scelte negoziali[19].

Certo, non tutti i professionisti sono cattivi e non tutti i clienti sono buoni, lo si è detto, ma è forse tempo di bilanci dopo le note vicende che a varie fasi hanno devastato il settore bancario e finanziario, compromettendone la credibilità e incrinando la fiducia degli investitori nel corretto andamento del mercato.

In questo contesto, la vocazione nomofilattica della Cassazione può ancora svolgere un ruolo: mettere finalmente un punto su quanto è accaduto in passato e, soprattutto, segnare il passo per il futuro svolgersi del mercato del settore. Non va sottovalutato che una pronuncia a Sezioni Unite è in sé portatrice di una forza di precedente inedita.

Ecco che la scelta interpretativa che la Suprema Corte vorrà indicare, pur se riferita ad un singolo profilo giuridico, finirà col determinare una svolta in un momento di profonda crisi del settore. La realtà e la prassi non si possono cambiare d’emblée, ma si possono orientare verso lidi più…sereni. È questo che si chiede ora ai giudici ed è in questo che risiede allora, ci sembra, un profilo di massima importanza della questione sollevata nell’ordinanza 10447/2017.



[1] Le più recenti sentenze invero erano tutte orientate a leggere il requisito formale richiesto dall’art. 23 TUF come una prescrizione di forma scritta ad substantiam actus che si soddisfa solo con la firma di entrambi i contraenti. Cfr. Cass., 14 marzo 2017, n. 6559; Cass., 3 gennaio 2017, n. 36; Cass., 19 maggio 2016, n. 10331; Cass., 27 aprile 2016, nn. 8395 e 8396; Cass., 11 aprile 2016, n. 7068; Cass., 24 marzo 2016, n. 5919; Cass., 19 febbraio 2014, n. 3889. 

[2] Cfr. ordinanza n. 10447/2017, p. 10.

[3] Il riferimento ai clienti non retail è frutto del recepimento della direttiva MiFID, (2004/39/CE, c.d. direttiva di primo livello e 2006/73/CE, c.d. direttiva di secondo livello). Sul punto si vedano le osservazioni di Roppo, Sui contratti del mercato finanziario, prima e dopo la MIFID, in Riv. dir. priv., 2008, p. 490.

[4] In termini leggermente diversi, ma sostanzialmente analoghi, si esprimeva il vecchio Regolamento Intermediari del 1998, n. 11522, affermando: «Gli intermediari autorizzati non possono fornire i propri servizi se non sulla base di un apposito contratto scritto; una copia di tale contratto è consegnata all’investitore».

[5] Cfr. l’ordinanza n. 104472017, p. 13. In dottrina, in termini simili, si esprime Maggiolo, Servizi ed attività d’investimento, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, Milano 2012, p. 463 ss. L’autore, precisamente, qualifica il contratto quadro come negozio che si conclude per condizioni generali e pertanto la firma del predisponente non sarebbe necessaria, bastando che questi invii al cliente il testo contenente le clausole generali ed individuali che ha predisposto per ritenere soddisfatto il requisito di forma di cui all’art. 23 TUF.

Nel senso, invece, che la prescrizione dell’at. 23 TUF contemplerebbe un’ipotesi di forma scritta ad substantiam, si esprime la maggior parte degli interpreti. V, tra gli altri, Roppo, Sui contratti del mercato finanziario, prima e dopo la MIFID, cit., passim e in part. p. 497; Pagliantini, Il neoformalismo contrattuale dopo i d. lgs. n. 141/10, n. 79/11 e la dir. 2011/83/UE: una nozione (già) vieille renouvelée, in NLCC, 2012, 2, p. 325 ss. In questa prospettiva si è orientata, come si diceva (v. supra, nota 1), anche la più recente giurisprudenza di legittimità.

[6] V. per tutti Bianca, Il contratto, Diritto civile, 3, 2a ed., Milano 2000, p. 286.

[7] Sulle finalità perseguite dal formalismo tradizionale cfr. la stessa ordinanza n. 10447/2017, p. 8 ss.. In dottrina si vedano le osservazioni di Giorgianni, voce Forma degli atti (dir. priv.), in Enc. dir., XVII, Milano 1968, p. 988 ss.; v. anche Cian, Forma solenne e interpretazione del negozio, Padova 1969, p. 8 ss.; Liserre, voce Forma degli atti (dirito civile), Enc. giur. Treccani, 2007, passim.

[8] Tale adempimento sembrerebbe collocarsi propriamente nella fase successiva a quella della conclusione dell’accordo e dunque della formazione dell’atto. Tanto che in dottrina si ricollega alla mancata osservanza di tale obbligo un inadempimento che va ad incidere sul rapporto e si prospetta di conseguenza, per il cliente, il rimedio risolutorio (Alpa, Commento all’art. 23, inCommentario al Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa e Capriglione, I, p. 258). Il che persuade. In ogni caso, anche volendo ritenere la consegna dell’esemplare una prescrizione che forma un tutt’uno con quella relativa alla redazione per iscritto e pertanto coperta dalla nullità di protezione, poco cambia per l’aspetto qui in esame, visto che comunque sarebbe lasciata al cliente la decisione sulla sorte della fattispecie, consolidandone l’efficacia o, al contrario, decretandone il definitivo venir meno.

[9] Distingue le due fattispecie anche D’Amico, Profili del nuovo diritto dei contratti, Milano 2014, p. 33, nota 76. Nello stesso senso Pagliantini, Il neoformalismo contrattuale dopo i d. lgs. n. 141/10, n. 79/11 e la dir. 2011/83/UE, cit., p. 326 ss., il quale parla in proposito di forme modulo che andrebbero propriamente differenziate dalla forma di protezione, relative, le prime, al contatto tra professionista a cliente, le seconde, invece al contratto, riprendendo una felice espressione di Gentili, Informazione contrattuale e regole dello scambio, in Riv. dir. priv., 2004, p. 576.

[10] Cass., s.u., 19 dicembre 2007, n. 26724 e 26725.

[11] Al tempo dei fatti di causa tali obblighi erano imposti dall’art. 6 della legge 2 gennaio 1991, n. 1. Ora una simile previsione è riconducibile all’art. 21 TUF.

[12] Significativo il passo della motivazione (1.6) in cui si afferma che «L’assunto secondo il quale, nella moderna legislazione (anche per incidenza della normativa europea), la distinzione tra norme di validità e norme di comportamento starebbe […] sbiadendo e sarebbe in atto un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell’atto non è sufficiente a dimostrare il già avvenuto sradicamento dell’anzidetto principio nel sistema del codice civile».

[13] Puccini, Studi sulla nullità relativa, Milano 1967, p. 145.

[14] Cass., s.u., 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243. A proposito della nullità di protezione la Suprema Corte (le due sentenze non differiscono sul punto) consacra, come norma paradigmatica l’art. 36 del codice del consumo, d. lgs. n. 206/2005, rubricato proprio “Nullità di protezione” (punto 3.13.1. della motivazione), e afferma, in particolare, che trattasi di una species del più ampio genus della nullità (punto 3.7); che è figura dalla natura ancipite in quanto si pone in funzione sia degli interessi del soggetto debole della contrattazione, sia più in generale del mercato (punto 3.13.2); che ha come caratteristica ricorrente l’azionabilità rimessa all’iniziativa del contraente debole (punti 3.10; 3.12.1; 3.13.3) a cui si aggiunge la rilevabilità d’ufficio (punto 3.13.2; 3.13.3) condizionata al comportamento processuale del contraente debole (3.15, lett. a; ma v. anche 3.13.2 per il richiamo alla sentenza Pannon). Ed è da quest’ultima indicazione che si può dedurre la facoltà del contraente debole di sanare la fattispecie, scegliendo di non voler dare seguito all’invalidità, come si è avuto modo di dimostrare, da ultimo, in Girolami, Le nullità dell’art. 127 T.U.B., cit., p. 195 ss., a cui sia concesso rinviare; ivi anche ampi richiami bibliografici.

[15] Cfr. Cass. 22 marzo 2012, n. 4564, ove si riconosce che la dicitura “un esemplare del presente contratto ci è stato da voi consegnato”, sia idonea a fungere da sottoscrizione, come pure che la forma di cui all’art. 23 TUF possa essere integrata da comportamenti dell’intermediario posti in essere nel corso del rapporto da cui risulti la volontà di avvalersi del contratto, compresa la produzione in giudizio del documento non sottoscritto. Così anche Cass. 7 settembre 2015, n. 17440.

[16] Se ne fa menzione, recentemente, in Cass. 27 aprile 2016, n. 8395; Cass., 11 aprile 2016, n. 7068; Cass. 24 marzo 2016, n. 5919. Si veda sul punto anche l’ordinanza n. 10447/2017, p. 8.

[17] La struttura del servizio di investimento che si articola nel contratto quadro e nei successivi ordini di investimento si trova descritta chiaramente in termini di «sequenza che – in ragione di un razionale disegno di ispirazione unitaria e inteso, questo sì, a proteggere la posizione dell’investitore (nello sviluppo del principio costituzionale di tutela del risparmio di cui all’art. 47 Cost.) – viene a svolgersi lungo più fasi in consecuzione tra loro», nella recentissima Cass. 23 maggio 2017, n. 12937.

[18] Cass., ord., 17 maggio 2017, n. 12390.

[19] Una perplessità simile emerge ad esito dell’analisi svolta da Pagliantini, Forma e formalismo nel diritto europeo dei contratti, Pisa 2009, p. 177 s.; ma già a p. 110, ove si evidenzia come «“abundant information overdoes it” nella misura in cui esprime una condotta idonea a falsare in maniera apprezzabile il cd. comportamento economico del consumatore». Lo stesso autore fa notare come il formalismo di protezione, nell’impostazione della legislazione vigente, finisca per precludere al contraente debole qualsiasi futura contestazione, Id., Il neoformalismo contrattuale, cit., p. 356 s.



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