CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 14/02/2017 Scarica PDF
Gli indicatori di allerta nel testo del disegno di legge delega della riforma fallimentare approvato dalla camera; esame critico; rischi per il sistema delle imprese
Riccardo Ranalli, Dottore Commercialista in TorinoSommario: 1. Esame critico dei parametri degli indicatori di allerta approvati dalla Camera. – 2. Si sarebbe potuto ricorrere ad altri indicatori sintetici maggiormente affidabili? – 3. Ma era proprio necessario introdurre specifici indicatori di allerta? Non vi sono già nel sistema regole atte a intercettare lo stato di crisi con grande tempestività?
1. Esame critico dei parametri degli indicatori di allerta approvati dalla Camera
Il testo del disegno di legge delega sulla crisi d’impresa e dell’insolvenza recentemente approvato dalla Camera introduce specifici indicatori di allerta al cui verificarsi l’organo di controllo e il revisore legale debbono avvisare con immediatezza l’organo amministrativo e, in caso di omessa o inadeguata risposta, informare tempestivamente l’organismo di composizione della crisi.
Analogamente, i sistemi premiali scattano solo in caso di tempestivamente attivazione dell’organismo di composizione della crisi o di richiesta di omologazione di un accordo di ristrutturazione o proposizione di un concordato preventivo ovvero di ricorso per l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale. La legge delega precisa che il requisito della tempestività ricorra esclusivamente quando il debitore abbia proposto una delle predette istanze, entro il termine di sei mesi dal verificarsi di determinati indici di natura finanziaria. Al riguardo, l’esperienza ci ha insegnato che difficilmente si perviene ad un accordo di ristrutturazione entro sei mesi dall’attivazione del tavolo bancario; il fatto che si debba presentare il ricorso entro sei mesi dall’emersione dell’indicatore della crisi farebbe calare l’interesse per tale strumento, in modo distonico rispetto al suo rafforzamento voluto con l’introduzione dell’art. 182-septies.
Su quali poi siano gli indicatori di allerta in questione, il disegno di legge si spinge a prevedere che debbano essere determinati in indici di natura finanziaria da individuare considerando, in particolare, il rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi, l’indice di rotazione dei crediti, l’indice di rotazione del magazzino e l’indice di liquidità.
Tali parametri vorrebbero essere indicatori di uno stato di crisi che l’art. 2 definisce come “probabilità di futura insolvenza anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica”.
Ebbene, a nessuno dei cennati quattro parametri, ritenuti dal legislatore particolarmente indicativi, la scienza aziendalistica ha mai attribuito la capacità di segnale in modo incontrovertibile o anche solo probabile una situazione di insolvenza prospettica.
Il timore è che se non si pone rimedio con urgenza al Senato e non vengono almeno rimeditati i parametri in questione, vi è il concreto rischio che frequenti “falsi positivi” di indicatori che nulla hanno a che vedere con l’allerta di uno stato di crisi cagioneranno un concreto pregiudizio allo sviluppo economico del nostro paese. La conduzione delle imprese risulterà vincolata di fatto da astratti parametri finanziari con pregiudizio del nostro sistema delle imprese di stare sul mercato e competere e con il rischio che venga prestata maggiore attenzione al rispetto di specifici parametri piuttosto che all’efficienza ed all’efficacia della gestione nel suo complesso.
Vendiamoli uno ad uno.
Gli indici di rotazione del magazzino e dei crediti sono innanzitutto indicatori particolari che contrappongono una grandezza di flusso (le vendite) con una di stock (rispettivamente il magazzino ed i crediti). Il che ne impedisce l’utilizzo e la comparazione con misurazione intra-periodali. Occorre riferirsi all’intero esercizio e il che appare difficilmente conciliabile con la tempestività voluta dal legislatore, che premia un’attivazione entro 6 mesi dall’evento. Ma non è tanto qui il punto. Essi non hanno coefficienti di normalità che possano essere desunti agevolmente dal mercato. Basti pensare quanto sia diverso l’indice di rotazione del magazzino per un ingrosso di frutta e verdura e un ingrosso di ferramenta e quanto esso cambi in relazione alle strategie adottate: se il nostro commerciante di frutta e verdura decide di cogliere l’opportunità di importare un carico di frutta secca si esporrebbe al rischio di alterare significativamente l’indicatore di rotazione in questione. Entrambi poi dipendono da grandezze esogene e in particolare dalla domanda e dalle difficoltà finanziarie del mercato. Con l’avvento della grande crisi tutti gli operatori, nessuno escluso, dalle banche, alla grande distribuzione, agli operatori della telefonia, hanno avuto una dilatazione dei tempi di incasso dei crediti (e un rallentamento della rotazione del magazzino). Sulla base dei parametri in questione, tutti gli operatori avrebbero presentato indizi finanziari di uno stato di crisi. Non è sicuramente questo il modo per intercettare un’impresa in crisi selezionandola tra l’universo delle imprese.
Quanto al rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi (meglio noto con l’acronimo di D/E) esso è un tentativo per intercettare la sostenibilità prospettica del debito che è l’unico incontrovertibile vero indizio della “probabilità di futura insolvenza”, suscettibile tra l’altro di accertamento in via anticipata rispetto al momento in cui il debito dovrà essere assolto.
Si tratta però di un tentativo molto maldestro, perché il rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi non dice nulla. Attiene alla struttura finanziaria dell’impresa. Una struttura finanziaria non equilibrata espone l’impresa ad un rischio finanziario maggiore ma non è necessariamente indizio di crisi. Basta un esempio per comprenderlo: lo stesso rapporto (ad esempio di 2 a 1 che rientra negli intervalli di normalità) può essere posseduto da una impresa redditizia che produce flussi liberi al servizio del debito in grado di sostenere quest’ultimo agevolmente, in quanto ne consentono il rientro in un numero contenuto di anni, e da una impresa in perdita strutturale che viceversa brucia in continuo cassa e non è in grado di ripagare nemmeno in parte il proprio debito.
Ho lasciato per ultimo l’indice di liquidità in quanto è quello maggiormente in grado di segnalare il grado di solvibilità nel breve termine attraverso il confronto tra le attività a breve con le passività a breve. Non è peraltro possibile trarre valori generalizzati di normalità in quanto l’indice non è in grado di contrapporre la reale durata (rotazione) degli attivi contrapponendola con quella reale dei passivi (rotazione).
Forse però con il disegno di legge si intende suggerire al legislatore delegato la costruzione di un complesso indicatore che combini la rotazione delle attività a breve (crediti e magazzino) con quello delle passività a breve (peraltro non menzionati tra i parametri critici) e con il rapporto D/E. Vi è qualche cosa di familiare e già noto: lo Z-score[1] di Altman, che consiste in una formula per esprimere le probabilità di fallimento delle imprese. Pur tralasciando il fatto che si tratta di formula assai complessa e i dati che la alimentano hanno due anni di anzianità e pertanto sono fondamentalmente retrospettici, si deve osservare che si tratta comunque di una grandezza di sintesi i cui livelli di normalità e di attenzione sono il frutto di medie astratte che non tengono conto delle peculiarità della realtà specifica; livelli privi pertanto dei requisiti di incontrovertibilità che uno strumento di allerta, per essere veramente tale, dovrebbe avere; al più sono solo in grado di esprimere la presenza di un rischio. La possibilità di “falsi positivi” non è affatto esclusa come non è esclusa quella di una sopravvalutazione dello stato di salute.
Non è un caso che per le società a controllo pubblico il secondo comma dell’art. 6 del relativo testo unico (D.lgs. 19 agosto 2016, n. 175) si è limitato a prevedere l’approvazione da parte dell’assemblea chiamata ad approvare il bilancio 2016 di “programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale”, ben guardandosi dall’individuare indicatori di crisi aziendale ma rimettendoli all’autonomia della società, pur imponendo all’organo amministrativo di attivarsi senza indugio nel momento in cui tali indicatori emergano.
2. Si sarebbe potuto ricorrere ad altri indicatori sintetici maggiormente affidabili?
Pare che il legislatore stia del tutto trascurando l’esperienza maturata da creditori qualificati quali le banche per le quali il monitoraggio della salute finanziaria dei propri debitori costituisce un pilastro dei requisiti di vigilanza. Ebbene il momento focale del monitoraggio da parte delle banche è costituito dai covenants, parametri finanziari pre-individuati che vengono introdotti al momento della concessione del credito per assicurare la tempestiva rilevazione di derive nella conduzione aziendale. Tali sono grandezze singole o più frequentemente parametri, costituiti dal rapporto tra due grandezze, che costituiscono un limite oltre il quale si ritiene convenzionalmente compromesso il raggiungimento dell'equilibrio finanziario con decadenza del beneficio del termine. Ci si riferisce spesso al rapporto tra la Posizione Finanziaria Netta e l'EBITDA, che consente il confronto in via sintetica tra il debito finanziario e una grandezza che è espressione (pur se molto grossolana) dei flussi annuali al servizio dello stesso, con la finalità di dare una prima indicazione di quanti anni potrebbero occorrere perché il debito possa essere rimborsato. A questo punto pare opportuna una considerazione. Anche se ci si riferisce quasi sempre al rapporto tra la Posizione Finanziaria Netta (PFN) e l’EBITDA, sarebbe più coerente con le finalità del monitoraggio ricorrere al rapporto tra indebitamento finanziario e NOPAT[2]. Il NOPAT è la grandezza economica più prossima al Free Cash Flow from Operation (FCFO) che consente di meglio misurare i flussi liberi al servizio del debito (per capitale ed interessi). Si ricorda, infatti, che il FCFO è costituito dal margine operativo lordo dedotte le imposte pagate e gli investimenti realizzati, ulteriormente inciso dal fabbisogno finanziario derivante dalla variazione di Capitale Circolante Netto. Rispetto al FCFO, il NOPAT non tiene conto di quest'ultima posta ed assume gli investimenti, anziché in misura pari all'ammontare effettivamente sostenuto nell’esercizio, nell’ammontare degli ammortamenti maturati. È sulla base di tale assunto che di solito non si tiene convenzionalmente conto dell'ammortamento dell'avviamento (e dei beni immateriali che hanno natura analoga). Infatti, l'avviamento costituisce un investimento iniziale una tantum cui non fanno seguito ulteriori investimenti di mantenimento capitalizzabili e, per tale motivo, il suo ammortamento non è indicativo di una misura standard di investimento. Come ogni grandezza deve, in realtà, essere adattata alla situazione specifica; ad esempio, nel caso di una rete di punti vendita, gli ammortamenti del local goodwilll (indennità di buona uscita pagata per acquisire nuovi punti vendita) dovrebbero essere portati in conto comunque in quanto le nuove aperture costituiscono eventi ricorrenti necessari per il mantenimento e lo sviluppo della capacità di penetrazione della rete.
Stimare gli investimenti nella misura degli ammortamenti, anziché in quella puntuale sostenuta nell’anno, presenta il vantaggio di assumere una grandezza che risente della media degli investimenti effettuati nei precedenti esercizi e, pertanto, meno volatile.
Inoltre, per la sua struttura, il NOPAT rispetto al FCFO evita di incorrere nel rischio di generare falsi segnali derivanti dalle variazioni di Capitale Circolante Netto. Il momento di debolezza del FCFO è, infatti, costituito dal fatto che porta in conto sia grandezze di flusso (quelle economiche), sia la variazione di grandezze di stock (quella del Capitale Circolante Netto), il cui ammontare dipende grandemente dal mese solare di riferimento. Ne consegue che il NOPAT permette anche rilevazioni infra-periodali rendendone più tempestivo il monitoraggio.
3. Ma era proprio necessario introdurre specifici indicatori di allerta? Non vi sono già nel sistema regole atte a intercettare lo stato di crisi con grande tempestività?
Dall’esperienza tratta nelle operazioni virtuose di risanamento, quelle per intenderci caratterizzate da maggiore rigore nell’informativa finanziaria, è possibile trarre il convincimento che per intercettare tempestivamente la crisi, quando ancora non si è in presenza di “scaduto” di qualsivoglia sorta e si è ben lontani da una insolvenza conclamata, è sufficiente rispettare i principi contabili esistenti.
Tutto muove da una considerazione: il valore economico del patrimonio netto è pari alla somma algebrica dell'Enterprise Value (cioè il valore del complesso aziendale) e della Posizione Finanziaria Netta[3]. L’Enterprise Value corrisponde al valore d’uso dell’azienda. È un valore determinato, secondo la scienza aziendalistica (quella stessa scienza alla quale fa riferimento il disegno di legge all’art. 2, cit.), in misura corrispondente all’attualizzazione dei flussi di cassa prospettici, applicando un tasso che tenga implicitamente conto del premio per il rischio del loro avveramento. Si tratta del valore al quale i principi contabili (quelli internazionali, lo IAS 36, ma anche quelli interni, lo OIC 9) si riferiscono per la rilevazione delle perdite durevoli di valore dei beni (gli impaiment test). I principi, infatti, determinano il valore d’uso nel valore attuale dei flussi liberi che la gestione dei beni può generare. Si tratta dei soli flussi che possono essere posti al servizio del debito e che consentono di “sostenerlo”.
Ne deriva che se il valore attuale dei flussi al servizio del debito è inferiore al debito finanziario (la Posizione Finanziaria Netta), il debito non è sostenibile e quindi l’impresa versa in stato di crisi. Ma deriva anche che se la Posizione Finanziaria Netta negativa è, in valore assoluto, superiore all’Enterprise Value, il capitale sociale è integralmente perduto e amministratori, sindaci e revisori devono prontamente attivarsi, ciascuno nel rispetto dei propri doveri, per rilevare una situazione rilevante ai sensi dell’art. 2447. Con il che la constatazione dell’insorgenza di uno stato di crisi e l’obbligo della tempestività di tale constatazione deriva, senza necessità di alcuna ulteriore precisazione, dal corretto rispetto dei principi contabili e vi deriva in modo chiaro ed incontrovertibile.
Direte: “questo è tutto vero, ma è possibile solo in presenza di un piano correttamente redatto”; in assenza di esso mancano i dati prognostici sui quali si poggia l’impairment test. La redazione di un piano pluriennale, pur rientrando nelle corde di un numero crescente di imprese, non è usuale nelle PMI del nostro paese. E il punto è proprio questo. Disporre di un piano è il primo requisito della diligente conduzione dell’impresa: è solo dal piano che emerge in modo inequivoco la continuità aziendale; è solo il piano che consente di valutare gli attivi, in conformità a quanto previsto dai principi contabili; è, infine, solo il piano che consente di attivare le azioni per correggere tempestivamente la rotta ed evitare il default dell’impresa.
Sotto questo profilo, il disegno di legge delega pare indicare un percorso quando prevede (all’art. 14, lett. b) l’introduzione tra le disposizioni civilistiche di corporate governance, del “dovere dell’imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale”. Non vi è dubbio, infatti, che il più efficace assetto organizzativo sotto questo profilo è sicuramente l’introduzione di un controllo di gestione atto a consentire un ordinato ed efficace processo di redazione del piano per il monitoraggio dell’andamento aziendale[4]. Il che appare in assoluta sintonia con il corpo normativo della crisi d’impresa, che pone il piano come elemento fondante qualsiasi risanamento, e anche con il citato programma di valutazione del rischio di crisi aziendale imposto alle società pubbliche dal relativo testo unico.
[1] Lo Z-Score è un indicatore sintetico proposto da. E.I. Altman (pubblicato nel 1968) volto ad individuare la probabilità di fallimento di una impresa (inizialmente per le imprese quotate, in una versione successiva esteso anche alle altre imprese). Esso assume valore tanto maggiore quanto migliore è lo stato di salute dell'impresa e si fonda sui seguenti dati del bilancio: Ricavi, Risultato operativo, Utile netto, Capitale Circolante Netto (pari alla differenza tra Attività Correnti e Passività Correnti, Totale delle Attività, Totale delle Passività senza il patrimonio netto, Dividendo in termini assoluti) e Capitalizzazione. Da tali valori Altman trae una serie di indicatori ai quali attribuisce singolarmente un predeterminato peso. Trattasi di: A = Capitale Circolante Netto / Totale delle Attività, rappresentativo di una misura della quantità di assets liquidi rispetto alle dimensioni totali delle attività aziendali; B = Utile Non Distribuito (ovvero Utile Netto – Dividendo) / Totale Attività, che misura la redditività aziendale in termina di crescita di valore; C = EBIT / Totale Attività, che determina la redditività in relazione ai capitale proprio e di terzi; D = Capitalizzazione / Totale delle Passività, indice del grado di copertura delle passività con la capitalizzazione di mercato; E = Ricavi / Totale Attività, corrispondente all’indice di rotazione del capitale. La formula di calcolo dello Z-Score è pari (1.2 x A) + (1.4 x B) + (3.3 x C) + (0.6 x D) + (0.999x E) (vi è peraltro più di una formula alternativa). Se lo Z-Score è maggiore di 3, indica probabilità di fallimento quasi nulla, se è compreso tra 2,7 e 3, indica probabilità di fallimento bassa, se è compreso tra 1,8 e 2,7, indica una probabilità di fallimento medio/alta, se è inferiore a 1,8 ,indica una probabilità di fallimento alta. Dello Z-Score (che non risente delle specificità dell’impresa ed accusa sotto questo profilo i propri limiti) è maggiormente significativa la sua evoluzione nel tempo. Un ulteriore limite dello Z-Score è la sua valenza retrospettica che non apprezza i dati prognostici. Per tale motivo si tende a dare maggiore rilevanza, più che al valore assoluto, alla sua evoluzione tendenziale. In ogni caso, Lo Z-Score non tiene conto del rapporto tra flussi liberi al servizio del debito e il debito finanziario che è principale indice della sostenibilità del debito.
[2] Il NOPAT (Net Operating Profit After Taxes) corrisponde a: reddito operativo netto (di solito assunto al lordo dell’ammortamento dell’avviamento) meno imposte effettivamente pagate.
[3] Alla Posizione Finanziaria Netta devono concorrere non solo le partite finanziarie ma anche gli eventuali debiti scaduti in quanto se questi ultimi fossero stati assolti tempestivamente l’indebitamento finanziario sarebbe stato superiore di un importo corrispondente. Si tratta dei debiti commerciali e non il cui ritardo nel pagamento eccede il limite della fisiologia; si tratta cioè di quello scaduto che viola la dilatazione dei termini contrattuali tacitamente accettata dai creditori: lo scaduto è fisiologico quando il creditore non solo non mette in mora il debitore, ma spesso non ne sollecita nemmeno il pagamento.
[4] Il che tra l’altro costituisce un prerequisito da tempo necessario per l’ammissione alla borsa.
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