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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 02/01/2017 Scarica PDF
Le Sezioni Unite e la nozione di liquidità delle obbligazioni pecuniarie con riferimento alla disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali
Stefano Bastianon, Professore associato di Diritto dell'Unione europea, Università degli Studi di Bergamo. Avvocato in Busto ArsizioSommario: 1. La pronuncia delle Sezioni Unite n. 17989/2016. – 2. Le ragioni della pronuncia. – 3. Le perplessità che la pronuncia solleva. – 4. La pronuncia delle Sezioni Unite in concreto e il possibile contrasto con la nozione (europea) di transazione commerciale. – 5. Le possibili chiavi di lettura.
1. Con sentenza n. 17989/2016 (depositata il 13 settembre) le Sezioni Unite hanno stabilito il principio di diritto secondo cui “le obbligazioni pecuniarie da adempiersi al domicilio del creditore, secondo il disposto dell’art. 1182, terzo comma, c.c., sono – agli effetti sia della mora ex re ai sensi dell’art. 1219, comma secondo, n. 3, c.c., sia della determinazione del forum destinatae solutionis ai sensi dell’art. 20, ultima parte c.p.c. – esclusivamente quelle liquide, delle quali, cioè, il titolo determini l’ammontare, oppure indichi i criteri per determinarlo senza lasciare alcun margine di scelta discrezionale, e i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato degli atti secondo quanto dispone l’art. 38, ultimo comma, c.p.c.”[1].
L’effetto pratico di tale principio è dirompente: in assenza di un titolo negoziale (contratto) sottoscritto da entrambe le parti e nel quale sia chiaramente indicata la somma di denaro dovuta, il creditore di una somma di denaro a titolo di corrispettivo di una fornitura di beni che intende agire giudizialmente per il recupero del proprio credito non potrà rivolgersi al giudice del luogo di propria residenza ai sensi dell’art. 1182, terzo comma, c.c., ma dovrà optare per il foro del debitore oppure per il foro in cui l’obbligazione è sorta. Ciò in quanto, come noto, la fattura non può costituire un valido titolo negoziale nel senso indicato dalle Sezioni Unite, posto che trattasi di un documento di formazione unilaterale, tanto è vero che, per giurisprudenza costante, da un lato la fattura costituisce valido titolo per ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo, ma, dall’altro lato, in caso di opposizione da parte del debitore ingiunto, è onere del creditore provare l’esistenza del contratto inter partes e di aver regolarmente adempiuto la propria obbligazione. Sennonché, in un contesto nel quale la forma scritta ad substantiam per i contratti di compravendita è prevista soltanto in alcuni casi specifici, non è azzardato immaginare che il recente dictum delle Sezioni Unite avrà l’effetto di spostare un’ingente mole di contenzioso dal foro del domicilio del creditore a quello del debitore.
2. L’intervento delle Sezioni Unite si è reso necessario al fine di comporre un contrasto giurisprudenziale apertosi all’interno della stessa Corte di Cassazione: secondo l’orientamento c.d. tradizionale, infatti, le obbligazioni pecuniarie “portabili”, ai sensi del terzo comma dell’art. 1182 c.c. sono soltanto quelle derivanti da titolo convenzionale o giudiziale che ne abbia stabilito la misura, trovando altrimenti applicazione la regola di cui al quanto comma per la quale la prestazione va eseguita al domicilio del debitore[2]; per contro, secondo un diverso orientamento sarebbe sufficiente ad integrare il requisito della liquidità dell’obbligazione, al fine di rendere quest’ultima “portabile” ai sensi dell’art. 1182, terzo comma c.c., la quantificazione della propria pretesa da parte dell’attore[3].
Nella propria pronuncia le Sezioni Unite dichiarano di voler confermare l’orientamento tradizionale sul presupposto che la nozione di obbligazione portabile, ai sensi dell’art. 1182, terzo comma, c.c. rileva non soltanto ai fini dell’individuazione del forum destinatae solutionis contemplato dall’art. 20, seconda parte, c.p.c., ma anche ai fini del prodursi della mora ex re ai sensi dell’art. 1219, secondo comma, n. 3, c.c., che esclude la necessità della costituzione in mora quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore. Preso atto che la Corte di Cassazione ha sempre escluso che la mora ex re possa verificarsi anche per le obbligazioni pecuniarie illiquide, le Sezioni Unite hanno tratto la conclusione per cui, se tra le obbligazioni pecuniarie “portabili” contemplate dall’art. 1182, terzo comma, c.c. rientrassero anche quelle illiquide, la mora – e con essa la responsabilità ex art. 1224 c.c. – scatterebbe automaticamente anche a carico del debitore la cui prestazione non sia in concreto possibile perché l’ammontare della sua prestazione è ancora incerto.
3. La recente sentenza delle Sezioni Unite solleva perlomeno due perplessità. La prima riguarda direttamente la nozione stessa di obbligazione pecuniaria, vale a dire di obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro. Secondo le Sezioni Unite, infatti, sotto il profilo della competenza per territorio tale nozione non può essere intesa semplicemente come sinonimo di obbligazione avente ad oggetto sin dall’origine una somma di denaro, ma presuppone che tale somma di denaro sia stata espressamente negoziata e pattuita (per iscritto) tra le parti o comunque che siano stati negoziati e pattuiti (per iscritto) tra le parti i criteri in base ai quali è possibile procedere alla determinazione di tale somma. Così facendo, peraltro, le Sezioni Unite finiscono per negare l’unicità del concetto di liquidità riferito alle obbligazioni pecuniarie, ammettendo che la stessa obbligazione pecuniaria, derivante dal medesimo contratto, possa essere considerata liquida ai sensi dell’art. 633 c.p.c. per ottenere un decreto ingiuntivo, ma illiquida ex art. 1182, comma 3, c.c. ai fini della determinazione del giudice competente per territorio. Secondo le Sezioni Unite tale circostanza si giustifica in considerazione del fatto che all’interno delle obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro occorre distinguere tra le obbligazioni pecuniarie semplicemente “chiedibili”, vale a dire che devono essere pagate presso il domicilio del debitore, e le obbligazioni pecuniarie “portabili” le quali, al contrario, proprio per il fatto di risultare da un titolo negoziale (o giudiziale) devono essere pagate presso il domicilio del creditore.
A parte qualsiasi considerazione sull’opportunità di aver introdotto una duplice nozione di liquidità delle obbligazioni pecuniarie, ciò che davvero lascia perplessi è la ratio enunciata dalle Sezioni Unite a sostegno della propria pronuncia. Come già in precedenza illustrato, le Sezioni Unite fondano la propria decisione sul presupposto che la nozione di obbligazione portabile, ai sensi dell’art. 1182, terzo comma, c.c. rileva non soltanto ai fini dell’individuazione del forum destinatae solutionis contemplato dall’art. 20, seconda parte, c.p.c., ma anche ai fini del prodursi della mora ex re ai sensi dell’art. 1219, secondo comma, n. 3, c.c., che esclude la necessità della costituzione in mora quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore.
Sennonché è proprio con riferimento al richiamato istituto della mora che la pronuncia delle Sezioni Unite solleva la seconda, e ben più grave, perplessità. Secondo le Sezioni Unite, infatti, se l’esatto importo dovuto non risulta da un titolo negoziale, esigenze di tutela del debitore impongono che a carico di quest’ultimo non possa scattare la mora ex re, posto che in tal caso ci si troverebbe in presenza di un’obbligazione il cui adempimento non sarebbe in concreto possibile in quanto l’ammontare della prestazione è ancora incerto, con conseguente applicazione del principio generale di cui all’art. 1218 c.c. che esclude la responsabilità del debitore la cui prestazione sia impossibile per causa a lui non imputabile.
4. Proviamo a tradurre tali principi in termini pratici con un esempio: A vende a B una certa quantità di beni mobili. A fronte di tale vendita il venditore (A) emette una fattura di € 10.000,00. Se il compratore (B) non paga, ed A decide di procedere giudiziariamente, egli:
- potrà depositare ricorso per decreto ingiuntivo, posto che il suo credito è certo, liquido ed esigibile e la fattura, pur essendo un documento a formazione unilaterale, è ritenuta prova scritta ex art. 634, comma 2 c.p.c. ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo;
- dovrà depositare il ricorso per decreto ingiuntivo davanti al giudice del luogo di domicilio del compratore (o del luogo in cui è sorta l’obbligazione) con esclusione, pertanto, del forum destinatae solutionis (vale a dire il foro del luogo di residenza del creditore), posto che nel caso di specie, in assenza di un titolo negoziale da cui risulti l’esatto importo dovuto, l’obbligazione del compratore non può considerarsi liquida, ossia portabile ex art. 1182, comma 3, c.c.
In tal caso, tuttavia, seguendo il ragionamento delle Sezioni Unite si dovrebbe concludere che il venditore, prima di agire, dovrà mettere in mora il compratore, con l’ulteriore conseguenza per cui gli interessi moratori per ritardato pagamento potranno decorrere unicamente dal giorno della mora. Sennonché, così facendo le Sezioni Unite non hanno considerato che il principio di diritto dalle stesse affermato si pone in palese contrasto con la disciplina di derivazione europea della lotta ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
Come noto la direttiva 2011/7/UE (di rifusione della precedente direttiva 2000/35/CE) ha quale scopo quello di “lottare contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, al fine di garantire il corretto funzionamento del mercato interno, favorendo in tal modo la competitività delle imprese e in particolare delle PMI” (art. 1, comma 1) e si applica “ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale” (art. 1, comma 2)[4]. A tal fine, l’art. 2, comma 1, n. 1) della direttiva 2011/7/UE definisce le transazioni commerciali come le “transazioni tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano la fornitura di merci o la prestazione di servizi dietro pagamento di un corrispettivo”. Ai sensi del combinato disposto dell’art. 3, comma 1 e comma 3, lett. a), inoltre, è previsto che “nelle transazioni commerciali tra imprese il creditore abbia diritto agli interessi di mora senza che sia necessario un sollecito” e che tale diritto agli interessi moratori decorra “dal giorno successivo alla data di scadenza o alla fine del periodo di pagamento stabiliti nel contratto”. Infine, il considerando n. 18 della direttiva 2011/7/UE chiarisce che “le fatture determinano richieste di pagamento e costituiscono documenti importanti nella catena delle transazioni per la fornitura di merci e servizi, tra l’altro ai fini della determinazione dei termini di pagamento”. Analoghe disposizioni di trovano contenute nel D. lgs. n. 192/2012 con il quale l’Italia ha recepito la direttiva 2011/7/UE.
In tale contesto risulta evidente che, per il diritto dell’Unione europea, in presenza di una fornitura di merci o una prestazione di servizi tra imprese, di una o più fatture contenenti l’indicazione della somma richiesta e il termine di pagamento e dell’inadempimento del debitore, il creditore è legittimato a pretendere gli interessi moratori, senza alcuna necessità di una preventiva messa in mora, dal giorno successivo alla data di scadenza indicata in fattura.
Orbene, poiché non v’è alcun dubbio che la nozione di transazione commerciale, autonoma e di origine europea, prescinde completamente dal fatto che il corrispettivo in denaro dovuto risulti da un titolo negoziale o giudiziale, nell’esempio sopra ricordato si giungerebbe all’assurda conclusione per cui, in base alle Sezioni Unite, il venditore (A):
i) non potrà depositare il ricorso per decreto ingiuntivo davanti al giudice del luogo di propria residenza in quanto l’obbligazione dedotta in giudizio non sarebbe liquida ex art. 1182, comma 3 c.c.;
ii) prima di agire giudizialmente dovrà procedere alla formale mossa in mora del debitore con conseguente decorrenza degli interessi moratori soltanto dalla messa in mora.
Tuttavia, poiché non sussiste alcun dubbio sul fatto che il rapporto negoziale che lega il venditore (A) e il compratore (B) sia una transazione commerciale ex D. lgs. n. 192/2012, in forza di tale disciplina il venditore, nel depositare il ricorso per decreto ingiuntivo, ha diritto di domandare gli interessi moratori per ritardato pagamento dal giorno successivo alla data di scadenza del pagamento e senza necessità di alcuna preventiva messa in mora. Esattamente il contrario di quanto sancito dalle Sezioni Unite.
5. Per provare a ricomporre tale evidente contrasto sono possibili due chiavi di lettura della sentenza delle Sezioni Unite, entrambe ricche di dubbi e perplessità.
La prima consiste nel ritenere che il principio sancito dalle Sezioni Unite sia di applicazione generale, relativo cioè a qualsiasi obbligazione pecuniaria a prescindere dal rapporto negoziale da cui tale obbligazione deriva e, quindi, applicabile anche nel caso di rapporti negoziali ricompresi nel novero delle transazioni commerciali. Ciò significa che nel caso di una transazione commerciale ex D. lgs. n. 192/2012 gli interessi moratori per ritardato pagamento potrebbero decorrere, senza che sia necessaria la costituzione in mora, dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento soltanto nel caso in cui l’ammontare dell’obbligazione pecuniaria sia direttamente determinato dal titolo ovvero possa essere determinato in base ad esso con un semplice calcolo aritmetico. In tal caso, tuttavia, risulta evidente che l’intervento delle Sezioni Unite finirebbe per attribuire alla nozione di “transazione commerciale” una portata ben più ristretta di quella risultante dalla direttiva 2011/7/UE (e dalla normativa italiana di recepimento), in aperta violazione con i principi dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, con conseguente rischio di esporre l’Italia ad una procedura di infrazione a livello europeo. Deve, infatti, essere evidenziato che la nozione di “transazione commerciale” risulta espressamente prevista dall’art. 2, comma 1, n. 1) della direttiva 2011/7/UE. Si tratta, pertanto, di una nozione autonoma del diritto dell’Unione, che deve essere interpretata in modo uniforme sul territorio di quest’ultima, senza alcuna possibilità per gli Stati membri di adottare differenti e più restrittive nozioni nazionali. Secondo la costante giurisprudenza della Corte di giustizia, “dall’imperativo tanto dell’applicazione uniforme del diritto comunitario quanto del principio di uguaglianza discende che i termini di una disposizione di diritto comunitario, la quale non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata, devono di norma essere oggetto, nell’intera Comunità, di un’interpretazione autonoma e uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione stessa e dello scopo perseguito dalla normativa di cui trattasi”[5] (v., in particolare, sentenze)”.
Prima di procedere ad un’applicazione meccanica ed acritica del principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite in aperto contrasto con il diritto dell’Unione europea, pertanto, dovrebbe essere attentamente valutata dai giudici di merito l’opportunità di sollevare una questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE al fine di richiedere alla Corte di giustizia se il diritto dell’Unione europea (e, in particolare, la nozione di transazione commerciale di cui all’art. 2, comma 1, n. 1) della direttiva 2011/7/UE sulla lotta ai ritardi di pagamento e il principio della decorrenza degli interessi moratori, senza necessità di costituzione in mora, dal giorno successivo alla scadenza del termine di pagamento previsto dall’art. 4 della medesima direttiva) osta ad una giurisprudenza nazionale (come quella delle Sezioni Unite) che richiede la formale messa in mora del debitore tutte le volte in cui, pur in presenza di una transazione commerciale, l’esatto ammontare della somma dovuta non risulti da un titolo negoziale o giudiziale. In difetto di un sollecito riscontro da parte della Corte di giustizia, alla quale spetta in via esclusiva il compito di garantire la corretta ed uniforme applicazione ed interpretazione del diritto dell’unione europea, vi è il fondato motivo che la portata nomofilattica della pronuncia delle Sezioni Unite determini un’applicazione generalizzata del dictum delle Sezioni Unite da parte dei giudici di merito, determinando una continua e grave violazione del diritto dell’Unione europea.
La seconda chiave di lettura consiste nel ritenere che la pronuncia delle Sezioni Unite, e la relativa nozione di liquidità delle obbligazioni pecuniarie ai fini della competenza per territorio e della mora, non si applichi alle transazioni commerciali così come definite dalla direttiva 2007/11/UE e dal D. lgs. n. 192/2012 di recepimento della disciplina europea. Seguendo tale chiave di lettura, peraltro, si dovrebbe concludere, innanzitutto, che l’effettiva portata del principio sancito dalle Sezioni Unite risulta largamente ridimensionato, posto che, di fatto, non troverebbe mai applicazione nei rapporti tra imprese (e tra imprese e P.A.), stante l’ampiezza della nozione di transazione commerciale. In secondo luogo, ci si dovrebbe interrogare sull’effettiva compatibilità con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.) di una chiave di lettura che introduce un’evidente disparità di trattamento tra i soggetti parti di una transazione commerciale e tutti gli altri (si pensi, ad esempio, ai contratti tra privati esclusi dall’ambito di applicazione delle disposizioni relative alla lotta ai ritardi di pagamento), senza che sia possibile intravedere una qualche ragione in grado di giustificare tale diversità di trattamento. E’ chiaro, infatti, che le esigenze di tutela del debitore evocate dalle Sezioni Unite riguardano il debitore in quanto tale e, pertanto, devono ritenersi sussistenti sia nei confronti delle imprese, sia nei confronti dei privati, a prescindere dalla natura (di transazione commerciale) del rapporto negoziale da cui l’obbligazione pecuniaria deriva.
In conclusione: seguendo la prima chiave di lettura si finirebbe per accogliere una nozione di transazione commerciale in contrasto con quella elaborata a livello di diritto dell’Unione europea; seguendo la seconda chiave di lettura, per contro, vi è il concreto rischio di introdurre una disciplina delle obbligazioni pecuniarie in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza. Insomma, vi è più di un motivo per ritenere che la cura introdotta dalle Sezioni Unite potrebbe rivelarsi ben più grave del male (ammesso che ve ne fosse uno).
[1] Cass., sez. un., 13 settembre 2016, n. 17989.
[2] Cass. 24 ottobre 2007, n. 22326, in Giust. civ. Mass. 2007, p. 10.
[3] Cass. 13 aprile 2005, n. 7674, in Giust. civ. Mass. 2005, p. 5; Cass. 21 maggio 2010, n. 12455, in Giust. civ. Mass. 2010, 5, p. 792; Cass. 17 maggio 2011, n. 10837, in Giust. civ. Mass. 2011, 5, p. 758.
[4] Direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011 relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in GUUE, L 48, del 23 febbraio 2011, p. 1.
[5] Corte giust., 18 gennaio 1984, causa 327/82, Ekro, in Raccolta, p. 107, punto 11; Corte giust. 19 settembre 2000, causa C-287/98, Linster, in Raccolta, p. I-6917, punto 43; Corte giust., 16 luglio 2009, causa C-5/08, Infopaq International, in Raccolta, punto 27, p. I-6569.
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