ProcCivile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 18/07/2016 Scarica PDF
I modelli processuali nella riforma delle procedure concorsuali
Ilaria Pagni, ProfessoreSommario: 1. L’inserimento del disegno di legge delega in un quadro in evoluzione, fra interventi del legislatore italiano e spinte europee; 2. Una premessa sul contenitore processuale uniforme e sulle caratteristiche dei riti previsti dalla legge fallimentare; 3. Il modello processuale uniforme per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore; 4. La specialità dei riti nella materia concorsuale e brevi cenni sull’accertamento del passivo; 5. La chiusura della liquidazione giudiziale in pendenza dei giudizi: il caso della cancellazione della società;
1. L’inserimento del disegno di legge delega in un quadro in evoluzione, fra interventi del legislatore italiano e spinte europee
La riforma fallimentare del 2006 ha impresso un forte cambiamento alle regole operanti nella materia dell’insolvenza e della crisi d’impresa, e i successivi interventi del legislatore - che hanno portato, da ultimo, al d.l. 27 giugno 2015, n. 83, conv. in l. 6 agosto 2015, n. 132 - hanno prodotto un quadro in continua evoluzione, nel quale i principi debbono ancora assestarsi.
Oggi si discute soprattutto della riforma organica del diritto concorsuale italiano, che costituisce l’oggetto dello “Schema di disegno di legge delega recante ‘Delega al Governo per la riforma organica della disciplina della crisi di impresa e dell’insolvenza’”, elaborato, sotto la presidenza di Renato Rordorf, dalla Commissione istituita presso il Ministero della Giustizia agli inizi del 2015 e presentato al Ministro lo scorso 29 dicembre 2015. Il testo, con alcune modifiche, è stato avviato col numero AC 3671 all’esame della Camera dei deputati l’11 marzo del 2016.
Ma importanti sono anche le spinte che vengono dall’Europa. Mentre la disciplina nazionale dovrà raccordarsi col Regolamento (UE) 2015/848 del Parlamento europeo e del Consiglio sulle procedure di insolvenza e con la Raccomandazione europea del 12 marzo 2014 “su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all’insolvenza”, intanto la Commissione Europea, visto lo scarso impatto della Raccomandazione, ha già avviato l’elaborazione di una direttiva mirante all’armonizzazione delle normative nazionali in materia di procedure di ristrutturazione e di insolvenza, nell’ambito del “Piano di azione per la creazione dell'Unione dei mercati dei capitali” (COM(2015) 468)[1].
In questo quadro in costante evoluzione è necessario aprire la riflessione sulle linee generali del sistema che il legislatore si appresta ad introdurre. Data per conosciuta l’architettura della riforma, e limitando in questa sede l’analisi ad alcuni profili processuali significativi del disegno di legge delega, ci soffermeremo sull’art. 2, 1° comma, lett. d), che prevede l’adozione di un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore; sull’art. 2, 1° comma, lett. h), ove si delega il Governo a uniformare e semplificare la disciplina dei diversi riti speciali previsti dalle disposizioni in materia concorsuale; e, infine, sull’art. 7, che, nel contemplare la procedura di liquidazione giudiziale, al comma 8, lett. b) e c), immagina di intervenire sul rito di accertamento del passivo, e al comma 10, lett. b), prevede di integrare la disciplina della chiusura della procedura in pendenza di procedimenti giudiziari contemplata dall’art. 118, novellato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83.
L’intenzione non è affrontare le innumerevoli questioni che potranno sorgere da queste previsioni, delle quali vi sarà tempo di occuparsi, col dovuto approfondimento, una volta che i principi contenuti nella delega verranno declinati nelle norme di attuazione. Lo spirito del contributo è diverso: è quello di offrire un primo inquadramento di alcune regole processuali che il legislatore delegante si avvia ad introdurre nel sistema delle procedure concorsuali, per fornire una chiave di lettura dei principi che in proposito si leggono nel disegno di legge.
2. Una premessa sul contenitore processuale uniforme e sulle caratteristiche dei riti previsti dalla legge fallimentare
Nel ragionare, da un lato, sulla semplificazione dei riti previsti dalla disciplina attuale, e, dall’altro, sulla ipotizzata reductio ad unum della fase iniziale delle procedure concorsuali, attraverso la creazione di un contenitore processuale uniforme di tutte le iniziative di carattere giudiziale fondate sulla prospettazione – e miranti alla regolazione – della crisi e dell’insolvenza del debitore, indipendentemente dalla natura (civile, professionale, agricola, commerciale), dalle dimensioni e dalla struttura che questi rivesta, punto di partenza obbligato della riflessione è come sia inteso oggi, nel sistema della legge fallimentare, il ricorso a forme di tutela camerale, che nascono come modello processuale impiegato per la giurisdizione volontaria, ma che da tempo, ormai, soprattutto nella materia concorsuale, sono utilizzate come contenitore neutro anche per la giurisdizione contenziosa.[2]
Un quesito, questo, che porta con sé due interrogativi ulteriori: quando, nelle diverse ipotesi previste dal legislatore, sia ammissibile l’intervento del giudice di legittimità, a dispetto di previsioni di non impugnabilità del provvedimento, e quale sia l’oggetto del giudizio nei procedimenti che vengono all’esame dell’interprete.
E’ nota, anche se non sempre semplicissima, la distinzione tra giurisdizione contenziosa e giurisdizione volontaria, per la quale non è ammesso il ricorso straordinario in cassazione, riservato ai provvedimenti che risolvono controversie su diritti e che abbiano carattere definitivo.
E’ tuttavia altrettanto noto che l’evoluzione giurisprudenziale sul rimedio previsto dall’art. 111, 7° comma, Cost., ne ha esteso l’ambito di applicazione fino ad ammettere il ricorso non solo quando il provvedimento impugnato “decida” su diritti, ma anche quando soltanto “incida” su di essi. Attraverso questa interpretazione, la “decisorietà” assume una seconda accezione, diversa da quella tradizionale, venendo riferita anche ad ipotesi di giurisdizione non contenziosa, nelle quali il giudice non risolve controversie su diritti, ma tuttavia il provvedimento realizza sulle situazioni soggettive coinvolte nella vicenda sostanziale un effetto indiretto che ne giustifica il controllo da parte del giudice di legittimità.[3]
Anche la nozione di “definitività”, del resto, è oggetto di dibattito in seno alla Suprema Corte. Ci si chiede così se, dinanzi al decreto di inammissibilità della proposta concordataria, non accompagnato dalla declaratoria di fallimento (che non è soggetto a reclamo, e che tradizionalmente è considerato “non definitivo” visto che la domanda può sempre essere riproposta), “risponda al principio costituzionale del giusto processo imporre al richiedente il concordato di presentare una nuova domanda, dando così corso ad una nuova ulteriore procedura, gravosa quanto a tempi e costi, quando in sede di ricorso per cassazione sarebbe possibile decidere in ordine alla esistenza o meno del prospettato vizio di carattere procedimentale e definire così la questione”.[4] E la questione riveste una particolare importanza, al punto da costituire oggetto di rimessione alle sezioni unite.[5]
Il dibattito sugli spazi di intervento della Cassazione, dunque, è aperto, e nella materia concorsuale si ripropone continuamente. Prendiamo il caso dell’art. 169 bis, in cui il provvedimento del giudice sull’istanza di sospensione o di scioglimento muove dalla comparazione tra gli oneri conseguenti alla prosecuzione del contratto e quelli che discenderebbero dall’interruzione del rapporto, guardando alle esigenze della gestione dell’impresa e alla maggiore o minore convenienza per i creditori, e non già all’interesse del terzo contraente,[6] cui pure si prevede che venga assicurato il contraddittorio. In questi casi, pur escludendosi la natura contenziosa del giudizio, dato che non si risolve alcuna controversia, si sostiene tuttavia, valorizzando il fatto che il provvedimento autorizzatorio è provvedimento definitivo che incide sul diritto soggettivo del contraente in bonis, che occorra un vaglio del giudice di legittimità, a preferenza di un giudizio, proposto in via di actio nullitatis e volto all’accertamento dell’inesistenza dei presupposti di applicazione dell’art. 169-bis, che sarebbe totalmente disallineato rispetto ai tempi della procedura.[7] Ma analogo dubbio si pone anche nel caso inverso, dell’autorizzazione alla stipula dell’atto urgente di straordinaria amministrazione, in cui l’intervento giudiziale mira, in prima battuta, a verificare la funzionalità del compimento dell’atto al futuro piano concordatario, in un contesto che è quello caratteristico della giurisdizione volontaria, ma nel quale l’interesse inciso dalla concessione, o dal diniego, dell’autorizzazione, preme perché si consenta il riesame della decisione, fino al giudizio di legittimità, nell’ambito del medesimo procedimento dal quale è scaturito il provvedimento autorizzativo.
E come non riprendere in esame il tema classico – seppur oggetto di prese di posizione ormai definite da parte della Suprema Corte[8] - della revoca del curatore (rispetto al quale già diversamente trattato è il caso, pure analogo, della sua sostituzione[9])? Qui la pronuncia è certamente dettata a tutela dell’interesse pubblicistico al regolare svolgimento e al buon esito della procedura concorsuale, ed ha perciò natura amministrativa ed ordinatoria, ma ciononostante si invoca un controllo da parte del giudice di legittimità che abbia effetti sulla procedura in corso, non potendosi accontentare, il soggetto revocato, dell’azione ordinaria sulla sussistenza dei presupposti per la revoca, che produrrebbe effetti soltanto risarcitori e non di tutela specifica della posizione incisa dal provvedimento.
Com’è noto, l’idea che il ricorso straordinario operi non solo quando la pronuncia impugnata sia decisoria, ma anche quando incida su diritti, è stata fortemente avversata in dottrina,[10] sia perché estende l’attività della Corte appesantendone ulteriormente il lavoro, sia perché, guardando la questione sotto un profilo di ‘sistema’, essa pretende di prescindere dalla necessità dell’idoneità al giudicato del provvedimento impugnato come presupposto di ammissibilità del ricorso.[11] Eppure, non si può trascurare il fatto che, almeno in certe vicende, la soluzione è apprezzabile sul piano degli interessi delle parti,[12] che hanno così modo di un controllo diretto sul provvedimento,[13] e che il nostro ordinamento conosce altre ipotesi in cui il legislatore ha previsto il ricorso in cassazione in casi in cui la pronuncia del giudice non ha attitudine al giudicato perché non risolve controversie su diritti: come avviene nel caso dell’art. 131 l. fall., per il provvedimento della Corte d’appello che decide sul reclamo avverso il decreto di omologazione del concordato fallimentare,[14] in cui l’oggetto del giudizio va scorto nel controllo sul tipo di soluzione proposta, e non già nel diritto di credito fatto valere (dato che, nei concordati, il creditore non chiede mai, con l’opposizione, l’accertamento del proprio diritto).
Il discorso porterebbe lontano, e in questa sede è sufficiente avervi accennato. Non è possibile, però, abbandonarlo, senza prima aver ricordato che, qualunque sia l’opzione interpretativa che si prescelga, vi è comunque un ostacolo alla pienezza di tutela che si pretende di ottenere sostenendo l’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione. Un ostacolo, rappresentato dal fatto che, nei riti speciali, quale che sia il livello di predeterminazione delle forme e dei termini ad opera del legislatore, e il grado di garanzia introdotto, rimane un tratto di sommarietà che condiziona la qualità della protezione.
Quando infatti il modello processuale prescelto dal legislatore non sia compiutamente tratteggiato, com’è nel giudizio a cognizione piena (in ciò consistendo la caratteristica della sommarietà, e non già, o non sempre, in una diversa “qualità” della cognizione), e residui uno spazio, più o meno ampio, per la discrezionalità del giudice, il controllo pieno da parte della Cassazione non è mai possibile neppure ammettendo il ricorso all’art. 111 Cost.: la possibilità di lamentare errores in procedendo nella conduzione del processo è infatti direttamente proporzionale alla predeterminazione di quelle forme e quei termini, il cui mancato rispetto possa essere portato all’attenzione del giudice di legittimità.
Non è sufficiente, allora, che il legislatore costruisca un giusto processo camerale, operando nel tessuto normativo un innesto delle garanzie imposte dai principi costituzionali, dato che l’opzione legislativa per il rito sommario, anche se diverso da quello degli artt. 737 ss. c.p.c. e maggiormente “arricchito” rispetto ad esso, si accompagna necessariamente ad una previsione non integrale delle modalità con le quali il giudizio si snoda dalla domanda alla pronuncia, e questa inevitabile lacunosità è l’elemento che distingue la cognizione piena da quella sommaria anche quando la profondità e la qualità dell’accertamento, nelle due forme impiegate per la tutela giurisdizionale dei diritti, non siano troppo dissimili tra loro.
3. Il modello processuale uniforme per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore
Nell’immaginare un modello processuale uniforme, ripreso dall’art. 15 l. fall., da individuarsi come unica sede procedimentale globalmente destinata all’esame delle situazioni di crisi o di insolvenza, attraverso strumenti di regolazione conservativa o liquidatoria, diventa “naturale – osserva la Relazione di accompagnamento al disegno di legge delega – che in essa confluiscano tutte le domande e istanze, anche contrapposte, di creditori, pubblico ministero e debitore, in vista della adozione o dell’omologazione, da parte dell’organo giurisdizionale competente, della soluzione più appropriata alle situazioni di crisi o di insolvenza accertate, nel pieno rispetto del contraddittorio su tutte le istanze avanzate”.
In effetti non vi è dubbio che così facendo (immaginando cioè che qualunque domanda volta alla sistemazione della crisi confluisca nell’unico procedimento costruito dal legislatore come una sorta di contenitore dei diversi giudizi oggi esistenti) si risolva la gran parte dei problemi di coordinamento che hanno portato le Sezioni unite, nelle pronunce del maggio 2015,[15] ad affermare: i) che tra la domanda di concordato preventivo e l’istanza o la richiesta di fallimento ricorre (in quanto iniziative tra loro incompatibili e dirette a regolare la stessa situazione di crisi) un rapporto di continenza, con la conseguenza che va disposta la riunione dei relativi procedimenti, ai sensi dell’art. 273 c.p.c., se pendenti innanzi allo stesso giudice, ovvero vanno applicate le disposizioni dettate dall’art. 39, 2º comma, c.p.c., in tema di continenza e competenza, se pendenti presso giudici differenti; ii) che la proposizione della domanda di concordato preventivo, ordinario o con riserva, non rende improcedibile l’iter prefallimentare iniziato su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, e non ne consente neppure la sospensione, ma impedisce temporaneamente soltanto la dichiarazione di fallimento, sino al verificarsi degli eventi previsti dagli art. 162, 173, 179 e 180 l. fall.; iii) che, nelle more, il procedimento può, dunque, essere istruito e concludersi con un decreto di rigetto; iv) che, infine, non sussistendo una pregiudizialità tecnico-giuridica tra le due procedure, la dichiarazione di fallimento non è esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell’esito negativo del concordato preventivo.
In linea con quelle pronunce, l’idea del contenitore unico mira a risolvere il problema della sovrapposizione tra procedura di concordato e procedimento per la dichiarazione di fallimento con una soluzione che è, nella sostanza, analoga a quella attuale (in cui la riunione dei procedimenti fa confluire nell’unico giudizio le diverse istanze), ma con la differenza che qui le cause non sembrano mantenere autonomia: non sarebbero, cioè, cause connesse, trattate simultaneamente, ma, piuttosto, una causa una e unica avente il medesimo oggetto, ossia il diritto alla sistemazione della crisi in una delle forme previste dall’ordinamento.
Che questo sia l’assetto del giudizio nelle intenzioni del legislatore delegante lo si ricava dal fatto che la Relazione parla di una “iniziale domanda di regolazione della crisi” che “sussume in sé tutti i prevedibili esiti del percorso giudiziale”, e che perciò si vorrebbe in grado di reggere il procedimento fino al punto che, ove l’originario percorso concordatario si riveli impraticabile, esso possa “convertirsi automaticamente in un esito di tipo liquidatorio (corrispondente all’attuale fallimento), senza necessità di una nuova domanda – e dunque con risparmio di tempi e di costi –“. La non necessità di una nuova domanda – prosegue la Relazione - “non comporta la reintroduzione in una diversa forma della fallibilità d’ufficio, già da tempo espunta dall’ordinamento”: è conseguente, infatti, alla ricostruzione della vicenda processuale in una chiave di lettura che sviluppa, forse in un modo eccessivamente spinto, quella impiegata dalla Corte di cassazione nelle pronunce del maggio 2015, adattandola all’idea – che fin dall’inizio ha mosso il legislatore delegante - del tronco unico, dal quale si dipartono i vari rami delle forme di soluzione della crisi/insolvenza.
Procediamo con ordine.
Per quanto non sia semplice adattare le categorie del diritto processuale generale alla materia concorsuale (per la peculiarità delle situazioni soggettive che vi vengono in gioco, e per le caratteristiche dei procedimenti, dove i confini tra giurisdizione oggettiva, volontaria e contenziosa tendono a sfumare), per tratteggiare il rapporto che corre tra oggetto del processo di concordato e quello di fallimento è certamente possibile, con qualche sforzo, utilizzare la categoria dell’incompatibilità.
Scriveva Candian nel 1937[16] che la domanda di concordato ha per contenuto «l’affermazione di una pretesa: la pretesa è che al concorso fallimentare venga sostituito il concorso preventivo». In questo senso si può dire che la domanda del debitore, volta alla sistemazione della crisi secondo le regole della procedura concordataria, è incompatibile con la domanda del creditore, volta alla regolazione dell’insolvenza secondo le regole della liquidazione fallimentare. La difficoltà di ragionare secondo le categorie processuali sta nel fatto che, oggi, de iure condito, la prima domanda viene esaminata in un procedimento camerale in cui non si decide su diritti, ma si verifica la conformità del negozio al parametro di legalità per consentirne la produzione di effetti (sicché le ragioni del singolo creditore a non vedere compromesse le proprie ragioni di credito sono “incise”, ma non “decise”, dal provvedimento di omologa), mentre la seconda viene trattata in un giudizio che ha un oggetto più tradizionale, rappresentato dal diritto del creditore a che la soddisfazione della sua pretesa sia regolata secondo la legge del concorso.
Nell’impostazione fatta propria dalle Sezioni unite nel maggio 2015, in modo non dissimile da quanto avevamo sostenuto nell’affrontare la questione della rimessione,[17] il rapporto tra i due procedimenti viene qualificato in termini di “continenza per specularità”,[18] terminologia che la Corte utilizza, con un’accezione assai ampia di continenza (non limitata, cioè, ai soli casi in cui due cause siano caratterizzate da identità di soggetti e titolo e da una differenza soltanto quantitativa dell'oggetto), per il caso in cui siano prospettate, con riferimento ad un unico rapporto negoziale, domande contrapposte, tra loro incompatibili, o in relazione di alternatività.[19] Con un qualche sforzo concettuale, imposto dalle peculiarità dei due procedimenti, la Cassazione applica la categoria della continenza ai rapporti tra concordato e fallimento, guardando alla parziale coincidenza dei soggetti, quando l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento è assunta dal creditore, che rientra tra i soggetti che sono parti sostanziali della procedura di concordato; alla coincidenza della causa petendi, rappresentata dallo stato di insolvenza; alla parziale coincidenza del petitum, rappresentato in entrambi i casi dalla regolazione della crisi, ma secondo le diverse regole delle due procedure, con conseguente incompatibilità tra le istanze.
Se fossimo in un processo a cognizione piena, atto alla formazione del giudicato, e se vi fosse identità di parti, si potrebbe anche dire che la formulazione dell’una domanda porta con sé, in virtù del principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, anche la preclusione a far valere l’altra domanda in un diverso giudizio.
Stiamo parlando, però, sempre di domande diverse, e non di un’unica domanda.
Nella Relazione accompagnatoria allo schema di disegno di legge delega, invece, si allude ad una domanda unica, che regge l’unico giudizio dagli esiti diversi.
Il che non è concettualmente corretto, perché è come se si dicesse che l’attore fa valere il diritto alla forma migliore di sistemazione della crisi, senza specificare quale essa sia: ciò a meno non intendere il giudizio che si va a introdurre come una forma di giurisdizione oggettiva, e prescindere da un’applicazione rigorosa del principio della domanda. Ma se invece, com’è più corretto, si concepisce l’istruttoria fallimentare (quantomeno quella, perché il procedimento di concordato ha una natura particolare, dovuta alla doppia anima, di “contratto” e insieme “processo”) come un processo di parti a natura contenziosa,[20] si deve concludere che chi propone la domanda richiede una specifica forma di regolazione della crisi e non intende “rimettersi a giustizia”, né chiedere al giudice – che non ha un potere di carattere generale - di individuare la forma più adatta di sistemazione dell’esposizione debitoria (che è quanto discenderebbe dal ritenere che “l’iniziale domanda di regolazione della crisi sussum[a] in sé tutti i prevedibili esiti del percorso giudiziale”).
Cosa diversa è se si vuole intendere che il giudizio possa procedere verso un esito diverso da quello postulato dalla domanda originaria nel caso in cui intervenga nel processo, ex art. 105, 1° comma, c.p.c., chi voglia far valere il diritto autonomo e incompatibile (la domanda di concordato, rispetto alla domanda di liquidazione giudiziale, e viceversa), dal momento che la sede unica impone che le diverse domande siano versate dinanzi al giudice con la tecnica dell’intervento in causa (che è quanto si legge nel passo della Relazione, laddove si parla di una confluenza, nell’unico giudizio, delle istanze di creditori, pubblico ministero e debitore, nel pieno rispetto del contraddittorio su tutte le istanze avanzate).
Chiarito questo punto, che presuppone anche una rinnovata indagine sulle caratteristiche e l’oggetto dei giudizi di omologazione, e sul quale si dovrà tornare una volta che il principio espresso dal legislatore delegante avrà trovato la sua concreta attuazione, resta da esaminare un ultimo aspetto dell’art. 2, 1° comma, lett. d), che è quello evocato dalla previsione della necessità di armonizzare il regime delle impugnazioni, con particolare riguardo all’efficacia delle pronunce rese avverso i provvedimenti di apertura della procedura di liquidazione giudiziale, ovvero di omologazione del concordato.
Come si è detto in altre occasioni, allo stato attuale non è chiara la sorte della declaratoria di insolvenza, in caso di impugnazione dell’esito negativo del concordato preventivo e di pronuncia della Corte d’Appello che, adita ex artt. 18 e 183 l. fall., revocando il fallimento, omologhi il concordato.[21] In questo caso, infatti, da un lato vi è incertezza circa l’applicazione, alla pronuncia sull’omologa, della previsione dell’art. 741 c.p.c. (che rinvia l’efficacia del provvedimento alla mancata proposizione dell’impugnazione) o, in alternativa, dell’art. 180, comma 5, l. fall. (che, con riferimento però alla pronuncia di primo grado, attribuisce al decreto di omologa natura provvisoriamente esecutiva); dall’altro lato abbiamo una giurisprudenza della Cassazione che reputa, con riferimento alla sentenza dichiarativa di fallimento successivamente revocata, che il fallimento venga meno, con la conseguente decadenza dei suoi organi, soltanto con il passaggio in giudicato della sentenza di revoca.[22] Da qui le comprensibili difficoltà nelle quali si imbattono gli organi della procedura, e particolarmente il curatore che si veda richiedere la restituzione dell’azienda da parte del debitore originariamente dichiarato fallito, intenzionato a dare avvio al concordato; e che, nel contempo, si veda minacciato da azioni risarcitorie da parte di quest’ultimo, per non voler dar corso, in un contesto processuale poco chiaro, alla richiesta di rilasciare i beni soggetti fino a quel momento alla procedura maggiore.[23]
Non minori sono le complicazioni che possono sorgere nel caso inverso, in cui la Corte d’appello, adita in seguito a reclamo avverso il decreto di omologa del concordato preventivo, respinga la domanda di omologa e rimetta gli atti al tribunale per la dichiarazione di fallimento: anche in questo caso ci si interroga su quali siano le conseguenze della riforma del provvedimento di omologazione, nell’alternativa tra ritenere che il provvedimento della Corte d’appello, in applicazione dell’art. 336 c.p.c., determini immediatamente la perdita di efficacia del decreto del Tribunale, anteriormente al passaggio in giudicato, e concludere invece che quell’effetto si determini solo successivamente a tale momento, in esito al ricorso in cassazione proposto ex art. 111 Cost.[24]
La scelta di un contenitore processuale uniforme, e la indicazione specifica dell’esigenza di armonizzare il regime dell’efficacia delle pronunce rese in sede di impugnazione, consentiranno di porre rimedio, una volta per tutte, al problema che si è segnalato e che richiede una riflessione sull’applicabilità delle regole che, nel processo civile, disciplinano i rapporti tra pronunce rese nei diversi gradi di giudizio alla materia concorsuale, in cui le regole generali debbono fare i conti con le peculiarità del sistema e col fatto che i provvedimenti della cui efficacia si discute, la cui esecutività in primo grado è stabilita espressamente dagli artt. 16 e 180, 5° comma, l. fall. (mentre analoga previsione espressa non si rinviene per il grado successivo), hanno un contenuto complesso che può giustificare soluzioni ad hoc, producendo, gli stessi, effetti sia sul piano dello status dell’imprenditore, sia sul piano dei rapporti pendenti e dei diritti dei creditori, sia sul piano dell’attuazione della garanzia patrimoniale, che è ciò in cui si traducono, in forme diverse tra loro, le due procedure concorsuali in esame.
4. La specialità dei riti nella materia concorsuale e brevi cenni sull’accertamento del passivo
La materia concorsuale è punteggiata da riti diversi.
La frammentarietà dei riti[25] è una caratteristica che la legge fallimentare ha mantenuto, nonostante sia intervenuta, nel 2009, la delega al Governo del compito di semplificare e ridurre i procedimenti regolati dalla legislazione speciale, compito poi realizzato, col d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, attraverso la riconduzione di alcuni procedimenti sommari extra codicem ai tre modelli del codice processuale (processo sommario di cognizione, processo del lavoro, processo ordinario).[26]
Dall’opera di razionalizzazione sono stati tenuti fuori, appunto, oltre ai procedimenti in tema di famiglia e minori, cambiali e assegni, attività sindacale, tutela industriale e consumatori, anche quelli in materia di fallimento: il legislatore, per questi, non ha ritenuto opportuno tornare indietro rispetto ad una scelta fatta pochi anni prima, nonostante l’esigenza, generalmente condivisa, di evitare quanto più possibile la proliferazione di modelli processuali diversi. In controtendenza con la scelta di semplificazione compiuta col decreto di semplificazione dei riti si colloca, del resto, anche la normativa in tema di sovraindebitamento del debitore non fallibile, introdotta con la l. 27 gennaio 2012, n. 3, e poi modificata con la l. 17 dicembre 2012, n. 221, che contempla a più riprese il richiamo agli artt. 737 ss. c.p.c., «in quanto compatibili».
La necessità dell’uniformità e della semplificazione, evocata dal disegno di legge delega all’art. 2, primo comma, lett. h, sorge, oltre che dalla frammentarietà della disciplina processuale, anche dal fatto che non sempre vi è chiarezza, nella legge fallimentare, su quale sia il rito di volta in volta applicabile.
Vediamo alcuni esempi.
La prevalenza degli interpreti ha ritenuto operante il modello generale del codice processuale (artt. 737 ss. c.p.c.) tutte le volte che nella legge fallimentare non vi fosse una previsione diversa, in applicazione della norma di chiusura dell’art. 742 bis c.p.c., per la quale «le disposizioni del presente capo si applicano a tutti i procedimenti in camera di consiglio, ancorché non regolati dai capi precedenti o che non riguardino materia di famiglia o di stato delle persone».
E’ questa la soluzione che è stata prescelta per i casi di revoca e sostituzione del curatore di cui all’art. 37 prima fase[27] e all’art. 37 bis, per la previsione dell’art. 104 (la cessazione dell’esercizio provvisorio), dell’art. 116 (il giudizio di rendiconto[28]), e dell’art. 29 (il caso del curatore che non accetti l’incarico e debba essere sostituito). E così è accaduto anche per gli accordi di ristrutturazione, per i quali, in assenza di norma espressa nell’art. 182 bis, si è ritenuto operante il rito degli art. 737 ss. c.p.c.
La medesima soluzione non è stata seguita, invece, con riguardo all’art. 22 (diniego dell’istanza di fallimento), dove la vicinanza di materia ha suggerito il ricorso, per analogia, al procedimento dell’art. 15;[29] all’art. 102 (quando non si faccia luogo al procedimento di accertamento del passivo per la previsione di insufficiente reddito)[30]; all’art. 121 (che prevede i casi di riapertura del fallimento), ove di nuovo si è ipotizzato un iter modellato su quello degli artt. 15 ss.; o, ancora, all’art. 36, nella seconda fase, in cui si è discusso dell’applicabilità o meno delle regole dell’art. 26, per le differenze in punto di termini di proposizione (otto giorni, nell’art. 36, invece che dieci, com’è nel procedimento camerale impugnatorio)[31].
Tutto questo aumenta il grado di incertezza e la complessità del sistema.
Prendiamo il caso del procedimento introdotto dalla domanda di concordato con riserva, ex art. 161, 6° comma, l. fall.
Qui il legislatore niente dice, e l’opzione, che si ritiene preferibile, per il rito camerale comune, lascia aperto l’interrogativo circa la disciplina degli eventuali reclami, che a nostro avviso debbono essere regolati dall’art. 739 c.p.c., ma che per qualcuno, invece, sono soggetti all’art. 26 l. fall. (il che non convince, atteso che l’art. 164 richiama l’art. 26 soltanto quale rimedio avverso i decreti del giudice delegato, con la necessità, perciò, che il tribunale abbia aperto la procedura e nominato il GD). Se l’opzione per il rito camerale nella materia concorsuale è un’opzione irreversibile, come sembra, sarebbe almeno opportuno che il legislatore scegliesse un unico modello e lo utilizzasse sempre (e in questo senso l’indicazione della delega nel senso di una semplificazione dei riti è particolarmente apprezzabile), evitando così che alle (non poche) difficoltà interpretative che la materia già pone sul piano sostanziale, continuino a sommarsi le infinite questioni processuali derivanti dai dubbi sul rito di volta in volta applicabile.
I dubbi sulle norme applicabili si ripropongono anche per i vari sub-procedimenti che si possono innestare in quello avviato con la domanda di concordato con riserva: tanto per quelli volti alla richiesta di autorizzazione al compimento di atti urgenti di straordinaria amministrazione, previa autorizzazione del tribunale, nel periodo che va dal deposito del ricorso e fino al decreto di cui all’art. 163 l. fall.; quanto per quelli volti allo scioglimento o alla sospensione dei contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti alla data della presentazione della domanda di concordato (art. 169 bis l. fall.). Anche in questi casi l’assenza di disciplina, o la presenza di formule quali “sentito l’altro contraente”, e “assunte, ove occorra, sommarie informazioni” (che troviamo sia nell’art. 161, 7° comma, che nell’art. 169 bis, 1° comma) non facilitano il lavoro dell’interprete.
Per onor del vero, non tutti i problemi possono dirsi risolti neppure quando la scelta normativa sia stata più definita, com’è avvenuto nel procedimento per la dichiarazione di fallimento degli artt. 15 ss.[32], nel procedimento camerale impugnatorio dell’art. 26, nel giudizio di accertamento del passivo, nel procedimento di omologazione del concordato fallimentare (in larga parte modellato sull’art. 26)[33] e del concordato preventivo.[34] In questi casi, il legislatore ha disegnato riti speciali costruiti ad hoc, con tratti della cognizione piena, sia pure ancora in larga parte semplificati,[35] e tuttavia le differenze (talora solo sfumature) tra i vari procedimenti suscitano interrogativi circa il modo più corretto di intendere le norme con le quali il legislatore ha assicurato il diritto di difesa e del contraddittorio e ha regolato istruttoria, trattazione e decisione della lite.
A questo proposito, venendo così più nello specifico al rito di accertamento del passivo, merita un cenno l’indicazione contenuta nel disegno di legge delega, all’art. 7, ottavo comma, lett. b e c, di “introdurre preclusioni attenuate già nella fase monocratica” e di “prevedere forme semplificate per le domande di minor valore o complessità”.[36]
Com’è noto, l’idea di fondo che la riforma del 2006 aveva coltivato, nel riscrivere le regole processuali dell’accertamento dei crediti e dei diritti reali o personali, mobiliari o immobiliari, vantati nei confronti del fallito, era stata quella di sostituire la formazione dello stato passivo – un tempo ad opera del giudice, con la collaborazione del curatore in veste di ausiliare - con un processo che consegnasse al giudice delegato e al curatore ruoli profondamente diversi rispetto al passato.
Alla differenza dei ruoli si è accompagnato il definitivo riconoscimento della natura contenziosa del giudizio.[37] Se della natura giurisdizionale della prima fase molti non dubitavano più neppure prima della riforma (seppure vi fosse ancora chi attribuiva all’attività svolta dal giudice natura di giurisdizione volontaria[38]), dopo la riforma è divenuto chiaro che quello dell’accertamento del passivo è un processo di parti, volto ad accertare, in contraddittorio, il diritto fatto valere in giudizio.[39]
Un processo per il quale oggi si reputa necessario accentuare i caratteri di rapidità, snellezza e concentrazione, introducendo perciò preclusioni attenuate anche nella prima fase (secondo l’interpretazione che già avevo suggerito in sede di prima applicazione della riforma del 2006[40]), e prevedendo, nel contempo, forme semplificate per le domande di minore valore o complessità, mantenendo l’opzione per la giurisdizione contenziosa da attuare in forme camerali. Il recupero delle preclusioni nel primo grado di giudizio (necessariamente attenuate, vista l’assenza del difensore) è un modo, a mio avviso corretto, per non riaprire la porta, col ricorso in opposizione, a tutto quanto non dedotto dinanzi al giudice delegato, in linea con le esigenze di rapidità e concentrazione che il legislatore fallimentare aveva di mira, con la riforma del 2006, nel riscrivere le norme del processo di verifica.
Guardando all’accertamento del passivo da un punto di vista di “sistema”, se la natura del giudizio è chiara (come detto, siamo in presenza di un processo di parti, volto ad accertare, in contraddittorio, il diritto fatto valere in giudizio), assai meno chiaro è quale sia l’oggetto di questo giudizio, non essendo mai stata definitivamente sciolta l’alternativa, prospettata in dottrina e riproposta da esigenze applicative, tra il diritto di credito e il diritto al concorso[41].
Le difficoltà ricostruttive sorgono dinanzi alla previsione per cui «il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all’esito dei giudizi di cui all’art. 99, producono effetti soltanto ai fini del concorso». Una previsione, questa, tradizionale se riferita al decreto di esecutività dello stato passivo,[42] ma innovativa, per il provvedimento che definisce l’opposizione allo stato passivo, l’impugnazione dei crediti ammessi, o la revocazione.[43] Con essa il legislatore ha riaperto la necessità di una riflessione sull’ambito oggettivo e soggettivo di efficacia della decisione: necessità avvertita e confermata dalla Cassazione, che a sezioni unite, tempo addietro,[44] ha posto in evidenza come la circostanza che l’efficacia del decreto sia limitata al concorso, non escluda che la pronuncia, se non impugnata, impedisca «la possibilità di riproporre, all’interno della procedura, ogni questione concernente», tra le altre cose, «l’efficacia del titolo da cui [il credito] deriva», così non escludendo un’estensione dell’efficacia ai fatti costitutivi del diritto fatto valere dal creditore. E tuttavia non chiarendo del tutto come si accordi un’estensione dell’ambito oggettivo del giudicato fino ai suoi antecedenti logici necessari, col principio per cui tutto il processo di verifica, in ogni suo grado, deve assolvere soltanto alla funzione di quantificare la massa dei debiti da soddisfare in sede concorsuale, in linea col modello di tutela giurisdizionale introdotto dalla riforma[45] (e senza effetti al di fuori del fallimento che non siano quelli dell’art. 120, 4° comma, l. fall.).
La circostanza che il procedimento, fin dal primo grado, sia messo in moto da una domanda costruita sul modello dell’atto introduttivo di un processo a cognizione piena (così l’art. 93), e tale da produrre gli effetti della domanda giudiziale, secondo quanto recita l’art. 94; che si siano voluti prevedere, in capo alle parti, specifici poteri di allegazione e istruttori, riservandosi un’attenzione particolare alla dialettica azione-eccezione e perciò alla riscoperta dell’art. 112 c.p.c.; che si richiamino principi propri del processo civile contenzioso, come l’art. 101 c.p.c. sulla segnalazione, ad opera del giudice, della questione rilevabile d’ufficio[46]; che, infine, al giudice non sia affidata più un’attività gestoria, ma il compito di risolvere una controversia, procedendo agli atti di istruzione richiesti dalle parti: sono tutti, quelli menzionati, chiari indizi della natura giurisdizionale contenziosa anche del procedimento che si svolge dinanzi al giudice delegato, seppur in un processo, quello concorsuale, che necessariamente si caratterizza per un rapporto peculiare tra tribunale, creditori e curatore.
Il nuovo ruolo del curatore e del giudice, nell’esame e nella decisione delle domande di ammissione al passivo, si coglie nel fatto che è il curatore a predisporre il progetto di stato passivo, formando elenchi separati dei crediti insinuati e dei diritti sui beni mobili o immobili che si trovano presso il fallito, e formulando le proprie conclusioni su ciascuna domanda, mentre il giudice è chiamato a decidere sulle domande dei creditori e sulle eccezioni del curatore (e dei creditori interessati), senza più interloquire col curatore sulle domande di insinuazione, come faceva in passato.[47]
Il curatore è divenuto una parte[48] del processo di verifica, mentre al giudice delegato è stata affidata un’attività giurisdizionale vera e propria: alla riscrittura dei ruoli dei protagonisti del processo si è accompagnata l’introduzione di istituti del processo civile di enorme impatto pratico e di considerevole difficoltà applicativa,[49] quali la controversa distinzione tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato,[50] con i principi correlati in punto di allegazione, rilevazione e prova.
Nei dieci anni di applicazione della riforma la prassi ha allentato alcune delle regole che corrispondono a questi principi, e che, come si è detto, il disegno di legge delega vorrebbe invece rafforzare. Il che imporrà una maggiore attenzione ai principi del processo anche nel primo grado di giudizio, la cui centralità ed importanza non potranno essere sottovalutate come attualmente accade, se non si vuole che il contenzioso si scarichi tutto sui giudizi di opposizione allo stato passivo, in cui oggi è consentito alle parti di ricominciare pressoché da capo, in spregio, come si diceva, alle esigenze di rapidità e concentrazione che hanno suggerito l’opzione per il rito camerale.
5. La chiusura della liquidazione giudiziale in pendenza dei giudizi: il caso della cancellazione della società
Con il d.l. 27
giugno 2015, n. 83, il legislatore è intervenuto sull’art.
Il nuovo terzo periodo del comma 2 dell’art. 118 dispone che la chiusura del fallimento nell’ipotesi prevista dal n. 3) del comma 1 dell’art. 118 – ai sensi del quale il fallimento si chiude «quando è compiuta la ripartizione finale dell’attivo» - non sia impedita dalla pendenza dei giudizi di cui sia parte il curatore, in sostituzione del fallito, ai sensi dell’art. 43 l. fall.; giudizi, che potranno quindi essere continuati dal curatore, il quale mantiene la legittimazione anche nei successivi stati e gradi del processo. I periodi successivi della disposizione, dal quarto all’ottavo, dettano regole speciali in tema di autorizzazioni per la rinuncia alle liti e alle transazioni, accantonamenti e riparto supplementare dell’attivo, esdebitazione.
La disciplina riprende la previsione dell’art. 92 TUB, in materia di liquidazione coatta amministrativa, nella quale si stabilisce che “la pendenza di ricorsi e giudizi, ivi compreso quello di accertamento dello stato di insolvenza, non preclude l'effettuazione degli adempimenti finali previsti ai commi precedenti e la chiusura della procedura di liquidazione coatta amministrativa. Tale chiusura è subordinata alla esecuzione di accantonamenti o all'acquisizione di garanzie ai sensi dell'articolo 91, commi 6 e 7. Successivamente alla chiusura della procedura di liquidazione coatta, i commissari liquidatori mantengono la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi dei giudizi. Ai commissari liquidatori, nello svolgimento delle attività connesse ai giudizi, si applicano gli articoli 72 , commi 7 e 9, 81, commi 3 e 4 e 84 , commi 1, 3 e 7 del presente decreto. I commissari liquidatori ripartiscono, in base alla documentazione di cui al comma 1, eventuali somme derivanti all'esito dei giudizi nonché quelle derivanti dalla cessione o liquidazione dell'attivo non ancora realizzato al momento di chiusura della procedura ovvero dagli accantonamenti eseguiti a quel momento”.
La previsione
dell’art. 118, comma
Fin da subito la novella dell’art. 118 ha posto alcuni interrogativi in merito ai presupposti di applicazione, che hanno originato la scelta, compiuta dal legislatore della delega, di intervenire nuovamente sulla disposizione, con l’art. 7, decimo comma, lett. b.
Per “giudizi
pendenti” che non impediscono la chiusura della procedura, debbono intendersi,
evidentemente, atteso il richiamo all’art. 43 l. fall., i processi relativi a
controversie aventi ad oggetto rapporti patrimoniali del fallito ricompresi nel
fallimento. Se poi si guarda al fatto che per i diritti azionati contro il
fallito operano gli artt. 52 e
Fin qui l’ambito “sicuro” di applicazione della norma.
A queste ipotesi
vengono aggiunte da alcuni interpreti, con una forzatura del tenore letterale
della previsione,[51] le
cd. azioni di massa, rispetto alle quali il curatore gode di una legittimazione
propria o sostitutiva dei creditori (quali l’azione surrogatoria o l’azione
revocatoria fallimentare, da un lato, l’azione revocatoria ordinaria esercitata
ex art.
In proposito molti Tribunali hanno emanato delle circolari, indicando quali siano le azioni da ritenersi ricomprese nel disposto dell’art. 118 l. fall. Così i tribunali di Ferrara (che vi include le azioni revocatorie e le azioni di responsabilità, i giudizi divisionali, le esecuzioni immobiliari), Como (liti attive, giudizi divisionali, procedure esecutive immobiliari),Vicenza, Messina (azioni di massa, procedure esecutive, liti passive, riscossione di crediti fiscali), Catania (procedure esecutive, riscossione di crediti fiscali).
Per consentire di ricondurre in modo piano all’art. 118 le ipotesi che si sono ricordate, senza letture praeter o contra legem originate da pur comprensibili esigenze pratiche, il disegno di legge delega prevede una integrazione della disciplina, “specificando che essa concerne tutti i processi” (e non più, appunto, solo i giudizi) “nei quali è parte il curatore” (e perciò anche le cd. azioni di massa).
Si prevede inoltre la necessità di definire “presupposti, condizioni ed effetti” della disciplina, non solo con riferimento alla “diversa tipologia” dei giudizi, ma anche “all’eventuale natura societaria del debitore”: questo perché un profilo particolarmente problematico della nuova disciplina emerge proprio nell’ipotesi in cui il soggetto fallito sia una società, in ragione del combinato operare dell’art. 118, comma 2, primo periodo, l. fall. e dell’art. 2495, comma 2, cod. civ.
Com’è noto, l’art. 118, comma 2, primo periodo, l. fall., stabilisce che, quando, come nella fattispecie in esame, il fallimento sia chiuso per compiuta liquidazione dell’attivo, sia disposta la cancellazione della società dal registro delle imprese, con conseguente estinzione[54] dell’ente, ex art. 2495, comma 2, cod. civ. che si realizza, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidatosi, indipendentemente dal fatto che tutti i rapporti giuridici (attivi o passivi) riferibili alla società siano in tale momento definiti.[55]
Intervenendo sulla sorte dei rapporti facenti capo alla società cancellata, e guardando alle conseguenze della cancellazione sui processi in corso, la Cassazione, nel 2013, muovendo da una ricostruzione in chiave successoria della vicenda (nel senso che le situazioni attive e passive già imputabili alla società vengono ascritte ai soci, che, per quanto riguarda i debiti, rispondono nei limiti della responsabilità prevista per il tipo sociale), ha ritenuto, com’è noto, che l’estinzione della società determini l’applicazione dell’art. 110 c.p.c., che presuppone il “venir meno” della parte del processo, e dunque, ai sensi dell’art. 299 c.p.c., l’interruzione del giudizio, che può essere continuato dai soci, in qualità di successori, o proseguito su iniziativa della controparte nei loro confronti.
La posizione delle Sezioni Unite in tema di effetti, sul processo, della cancellazione della società deve essere coordinata con la novella dell’art. 118, che, come detto, prevede che la chiusura del fallimento per compiuta ripartizione dell’attivo non sia impedita dalla pendenza di giudizi (attivi) di cui è parte il curatore, il quale mantiene la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio.[56]
Ci si deve chiedere allora come si possa armonizzare la soluzione offerta dalle Sezioni Unite, per la quale si ha una successione dei soci della società cancellata nei diritti e nelle pretese oggetto dei giudizi pendenti, e l’applicazione dell’art. 110 c.p.c., con l’ipotesi in cui la cancellazione della società avvenga nell’ambito del fallimento.
Qui, tenuto conto delle finalità della procedura concorsuale – l’attuazione della responsabilità dell’imprenditore, con la liquidazione del suo patrimonio a favore dei creditori (e il fatto che appare contrario al sistema pensare che, con la cancellazione, i diritti della fallita divengano di titolarità dei singoli soci, e siano così sottratti ai creditori concorsuali: o, quantomeno, che, rispetto ad essi, questi ultimi concorrano con i creditori particolari di ciascuno) - sono ipotizzabili due soluzioni.
La prima soluzione è
ritenere che, nonostante l’estinzione della società, la stessa possa continuare
a considerarsi esistente ai soli fini di quei giudizi; ciò, infatti, non è
sostanzialmente diverso da quanto prevede l’art.
La seconda soluzione, che personalmente ritengo preferibile, è immaginare che, con la successione, i diritti di cui si discute vadano a costituire un patrimonio separato ed autonomo dei singoli soci, destinato al soddisfacimento dei creditori della società fallita. Si potrebbe, quindi, conservare la soluzione delle Sezioni Unite e ritenere che la cancellazione della società dal registro determini la successione dei soci in luogo di essa; peraltro, nei giudizi pendenti, sta in giudizio, quale loro sostituto processuale, il curatore. Ancor prima, sul piano sostanziale, opera un vincolo di destinazione dei diritti oggetto dei giudizi pendenti a favore dei creditori concorsuali, di guisa che i soci non possono efficacemente disporne in danno dei creditori, né i loro creditori personali possono soddisfarsi su tali beni.
Sono, tutti quelli che si sono accennati fin qui, temi delicati, che fanno comprendere ancor più l’importanza di interventi quali quelli che il legislatore della riforma si appresta ad effettuare. Una riforma che, se può essere “accusata” di timidezza,[57] per non aver compiuto una scelta netta tra un sistema orientato alla conservazione dei valori dell’impresa e uno orientato alla tutela dei creditori, ha in ogni caso il merito, indiscutibile, di voler intervenire a risolvere problemi interpretativi di non poco momento, con un’attenzione, oltre che alle esigenze della prassi applicativa, al dibattito (anche dottrinale) in essere, che non sempre si riscontra nella legislazione degli ultimi anni.
* Il presente lavoro verrà pubblicato nei Quaderni dedicati alla memoria di Franco Bonelli.
[1] http://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2015/IT/1-2015-468-IT-F1-1.PDF. Nel paragrafo 6.2 (“Rimuovere gli ostacoli nazionali agli investimenti transfrontalieri”) si legge che “La convergenza delle procedure di insolvenza e di ristrutturazione favorirebbe una maggiore certezza giuridica per gli investitori transfrontalieri e incoraggerebbe la tempestiva ristrutturazione di imprese vitali in difficoltà finanziarie. Coloro che hanno risposto alla consultazione in generale hanno convenuto che l'inefficienza e le differenze che caratterizzano le normative sull'insolvenza ostacolano la valutazione del rischio di credito da parte degli investitori, in particolare in caso di investimenti transfrontalieri”. Dunque, “la Commissione proporrà un'iniziativa legislativa in materia di insolvenza, ristrutturazione precoce e ‘seconda possibilità’ sulla base dell'esperienza maturata con la raccomandazione [12 marzo 2014]. L'iniziativa avrà come scopo la rimozione dei principali ostacoli al libero flusso di capitali, prendendo a modello i regimi nazionali che funzionano bene”.
[2] Cass., 28 luglio 2004, n.
[3] Cfr. R. Tiscini, Il ricorso straordinario in cassazione, Torino, 2005, 118 ss.
[4] Così l’ordinanza interlocutoria Cass. civ., I sez., 23 febbraio 2016, n. 3472, in www.ilcaso.it, est. Ragonesi, ha ritenuto che rappresenti questione di massima di particolare importanza, da sottoporre alle sezioni unite, stabilire il concetto di “definitività” nel caso di pronuncia di inammissibilità ex art. 162 l. fall., quando al decreto non si accompagni la sentenza dichiarativa di fallimento. in casi come quello che ci occupa. Ad avviso dell’ordinanza citata, seppure non rimanga preclusa per l’interessato la possibilità di proporre una nuova domanda, questa strada può risultare più gravosa, il che suggerisce di rivedere la nozione di definitività, tenendo conto del fatto che non potrà mai essere proposta la medesima domanda di concordato, in quanto si sono modificati i diritti dei creditori, e proprio la modifica dei diritti impedisce di parlare di vera e propria “non definitività” del provvedimento (la nuova domanda, invero, non può essere presentata alle medesime condizioni della precedente, in quanto anche solo il passare del tempo determina un aggravio del debito a titolo di interessi: in questi termini, M. Fabiani, Il concordato preventivo, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca-Galgano, a cura di G. De Nova, Bologna, 2014, 332-333).
[5]Analogamente a quanto avvenuto con riferimento al concordato preventivo, la prima sezione della Corte Suprema, con ordinanza 20 aprile 2016, n. 7958, in www.ilcaso.it, est. Didone,ha rimesso al Primo Presidente per l’eventuale rimessione alle sezioni unite la questione della ricorribilità in cassazione del decreto di rigetto del reclamo avverso il decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, osservando che, anche in questo caso, occorra stabilire la nozione di “definitività” cui si fa riferimento, negata da parte della dottrina (mentre non vi sono, in materia, precedenti della Corte) sul presupposto che la domanda di omologazione potrebbe pur sempre essere riproposta
[6]Dato che nel giudizio autorizzatorio, vista la funzione dell’istituto, si valutano l’alleggerimento del fabbisogno concordatario e il recupero di risorse tramite la redistribuzione dell’insolvenza che lo scioglimento del contratto può determinare, e non già il pregiudizio arrecato al contraente in bonis.
[7] Così M. Ferro, P. Bastia, G.M. Nonno (a cura di), Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione. La soluzione negoziata della crisi d'impresa: dalla domanda al piano all'attuazione operativa. I progetti aziendali e le scelte processuali, Milano, 2013, 311.
[8] Nel senso che “avverso il decreto della corte d’appello che si sia pronunciata sul reclamo contro il provvedimento del tribunale di accoglimento o di rigetto dell’istanza di revoca del curatore fallimentare per giustificati motivi, ai sensi del combinato disposto degli art. 23 e 37 l.fall., nel testo novellato dal d.leg. 9 gennaio 2006 n. 5, non è ammissibile il ricorso straordinario per cassazione da parte dello stesso curatore, del fallito o di qualunque altro interessato, in quanto anche la disciplina riformata è dettata unicamente a tutela dell’interesse pubblicistico al regolare svolgimento e al buon esito della procedura concorsuale, incidendo solo indirettamente sull’interesse del curatore, sicché il provvedimento di revoca di quest’ultimo ha natura amministrativa ed ordinatoria ed è privo di portata decisoria su posizioni di diritto soggettivo”, Cass. civ., sez. I, 13 marzo 2015, n. 5094, in Il Fallimento, 2015, 944 ss., nt. D’Orazio.
[9] Il provvedimento con cui il tribunale attende, ovvero rifiuta, la nomina del soggetto prescelto in sostituzione è reclamabile alla corte d’appello ai sensi dell’art. 26 l. fall.; nei confronti del provvedimento con cui il giudice di secondo grado abbia confermato il diniego di nomina ovvero abbia, a modifica del provvedimento del tribunale, negato la nomina del soggetto designato in luogo del curatore in origine officiato, è ritenuto esperibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.: ciò sul presupposto che i creditori abbiano un diritto soggettivo alla nomina del soggetto prescelto quando siano stati rispettati i criteri dell’art. 28 l. fall. Così L. Abete, Sub art. 37 bis, in A. Jorio (a cura di) e M. Fabiani (coordinato da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2007, 637; in senso contrario, V. Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2008, 84, sul presupposto che non vi sia il diritto dei creditori alla sostituzione, così come non vi è il diritto del curatore alla conservazione dell’incarico.
[10] A. Cerino Canova, La garanzia costituzionale del giudicato civile (meditazioni sull’art. 111, secondo comma), in Riv. dir. civ. 1977, 432; V. Denti, I procedimenti camerali come giudizi sommari di cognizione: problemi di costituzionalità ed effettività della tutela, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1990, 1101. Sul tema v. particolarmente L. Lanfranchi, La roccia non incrinata - Garanzia costituzionale del processo civile e tutela dei diritti, Torino, 2004, passim.
[11] In argomento, v. amplius, R. Tiscini, Il ricorso straordinario, cit., loc. cit.
[12] Per l’auspicio che si acceda ad una visione che si sforzi di guardare maggiormente alla rilevanza effettiva degli interessi in gioco, più che non alla qualificazione formale degli istituti, R. Rordorf, Brevi note in tema di controllo giudiziario, in Scritti in onore di V. Salafia, Le Società, 2015, il quale lamenta che “al giudizio della Cassazione, alla quale pur vengono giornalmente sottoposte innumerevoli decisioni di merito su questioni talvolta davvero bagatellari, resti sottratto un tipo di provvedimento così potenzialmente gravido di rilievo economico quale è quello che può conseguire all’esercizio del controllo giudiziario sulla gestione delle società azionarie e delle cooperative”.
[13] Questione diversa è quella, cui si riferiscono le critiche di A. Proto Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c., in Riv. dir. civ., 1990, § 11.2, della ritenuta esperibilità del ricorso straordinario in cassazione in vicende di richiamo implicito o esplicito del procedimento camerale per la tutela giurisdizionale dei diritti, dal momento che “sul terreno delle garanzie, il ricorso per cassazione non sarà mai in grado di riequilibrare ex post un processo di merito svoltosi in assenza delle garanzie proprie della cognizione piena”: garanzie, che non devono mai mancare quando al giudice sia demandato il compito di risolvere una controversia su diritti soggettivi, e si sia perciò nell’area della giurisdizione necessaria, coperta dall’art. 24 Cost.
[14] Non si deve dimenticare, inoltre, che la Cassazione ha ritenuto la proponibilità del ricorso per cassazione anche avverso la pronuncia resa dalla Corte d’appello in sede di reclamo sul provvedimento di omologa del concordato preventivo, nonostante l’assenza di una previsione analoga a quella dell’art. 131 l. fall.: cfr. Cass. civ., sez. I, 4 novembre 2011, n. 22932, in Foro it., Rep. 2011, voce Concordato preventivo, 173.
[15] Cass. civ., sez. un., 15 maggio 2015, n. 9934, 9935 e 9936, in Fallimento, 2015, 900 ss., con commento di F. De Santis, Principio di prevenzione ed abuso della domanda di concordato: molte conferme e qualche novità dalle sezioni unite della corte di cassazione, e di chi scrive, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell’istruttoria fallimentare dopo le sezioni unite del maggio 2015.
[16] A. Candian, Il processo di concordato preventivo, Padova, 1937, 137.
[17] Cfr. il mio I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell’istruttoria fallimentare, in Il Fallimento, 2013, 1075 ss.
[18] La figura della continenza per specularità è richiamata anche da ultimo, in applicazione dei principi espressi dalla sezioni unite del 2015, da Cass. civ., sez. VI, 15 luglio 2016, n. 14518, ined.
[19] Cass. civ., 14 luglio 2011, n. 15532, in Foro it., Rep. 2011, voce Competenza civile, 84 (la “continenza sussiste non solo quando due cause, pendenti contemporaneamente davanti a giudici diversi, abbiano identità di soggetti e di causae petendi e differenza quantitativa di petitum (cd. continenza in senso stretto), ma anche quando vi sia una coincidenza parziale di causae petendi, ovvero qualora le questioni dedotte in una causa costituiscano il presupposto logico-giuridico necessario per la definizione dell’altra causa, o siano in tutto o in parte comuni alla decisione di entrambe, avendo le rispettive domande origine dal medesimo rapporto negoziale, risultando tra loro interdipendenti o contrapposte, cosicché la soluzione dell’una interferisce su quella dell’altra (cd. continenza per specularità), come nell’eventualità in cui una delle cause sia stata proposta per la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte, con condanna della stessa al risarcimento del danno, e l’altra per l’adempimento del medesimo contratto”); Cass. civ., sez. un., 1° ottobre 2007, n. 20599; Cass. civ., sez. un., 23 luglio 2001, n. 10011, in Foro it., 2001, I, 3613 ss.
[20] Del resto, la Cassazione, alla luce delle modifiche introdotte dal d.leg. 9 gennaio 2006 n. 5, parla di processo a cognizione piena: così, da ultimo, Cass. civ., sez. VI, 3 giugno 2014, n. 12338, in Foro it., Rep. 2014, voce Fallimento, 201.
[21] I. Pagni, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell’istruttoria fallimentare dopo le sezioni unite, cit., 928-929.
[22] Così, da ultimo, Cass. civ., sez. un., 1° febbraio 2012, n. 1418, in Fallimento, 2012, 552, con commento di F. De Santis, Perfezionamento della notificazione a mezzo posta del ricorso di fallimento e computo del termine a comparire.
Per un’efficacia immediata, e non differita al passaggio in giudicato, della sentenza di revoca, si vedano le considerazioni di M. Fabiani, Diritto fallimentare. Un profilo organico, Bologna-Roma, 2011, 199-200, il quale, muovendo dall’idea che anche sentenze diverse da quelle di condanna possano esprimere sin da subito un’efficacia latamente esecutiva ex art. 282 c.p.c., e dal fatto che anche la sentenza che revoca il fallimento è soggetta al regime pubblicitario di cui all’art. 17 l.fall., con iscrizione nel registro delle imprese, conclude nel senso che come la sentenza di fallimento produce i propri effetti immediatamente, “analoga immediatezza competa alla sentenza che specularmente revoca il fallimento”, nonostante il diritto positivo niente dica sul punto.
Nello stesso senso, ferma la salvezza degli effetti irreversibilmente già prodottisi, F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 383 ss. e 529 ss.
[23] Per una vicenda di questo tipo, v. Cass., Sez. I, 6 novembre 2013, n. 24970, in Fallimento, 2014, 662 ss., con nota di R. Conte, Tributo indiretto, tassa di scopo e privilegi concorsuali.
[24]Cfr., sul punto, le diverse soluzioni date da Trib. Milano, 14 luglio 2008, in Dir. fall., 2009, II, 107, con nota di P. Brenca, Alcune osservazioni in tema di reclamo avverso il decreto di omologa del concordato preventivo; App. Genova, 12 marzo 2014, ined.; Trib. Rovereto, 17 luglio 2015, in www.ilcaso.it. In argomento si veda A. Motto, Gli effetti dl provvedimento di revoca della Corte d’appello sul decreto di omologazione del concordato preventivo (un’analisi alla luce dei principi generali), in NLCC, 2016, 129 ss.
[25] Sull’eccessivo numero dei diversi modelli camerali operanti nella legge fallimentare, cfr., G. Costantino, Profili processuali, in Il Fallimento, 2005, 995.
[26] Sul d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, v., ex multis, Codice di procedura civile commentato. La “semplificazione” dei riti e le altre riforme processuali 2010-2011, diretto da C. Consolo, Milano, 2012, passim; La semplificazione dei riti civili, diretto da B. Sassani-R. Tiscini, Roma, 2011, passim; Riordino e semplificazione dei procedimenti civili. Commentario al decreto legislativo sulla semplificazione dei riti, diretto da F. Santangeli, Milano, 2012, passim; I. Pagni, Disposizioni comuni alle controversie disciplinate dal rito del lavoro: il modello di rito e i poteri istruttori del giudice, in Foro it., 2012, V, 130 ss.; P. Porreca, Il decreto legislativo sulla semplificazione dei riti: qualche osservazione iniziale, in www.judicium.it; A. Proto Pisani, Note introduttive, in Foro it., 2012, V, 73.
[27] Nello stesso senso, L. Abete, Sub art. 37, cit., 619.
[28] Così anche P.G. Demarchi, Sub art.
[29] Per l’applicabilità del modello di procedimento ex
art.15 l. fall., M. Fabiani, La conclusione del procedimento prefallimentare
con decreto, in Il Fallimento, 2006, 628; in forma dubitativa, anche F.
Marelli, Sub art. 22, in A. Jorio (a cura di) e M. Fabiani (coordinato
da), Il nuovo diritto fallimentare, cit., 415. Per l’utilizzazione degli
artt. 737 ss. c.p.c., F. Santangeli, Sub art.
[30] Su cui v. M. Fabiani-S. De Matteis, sub art. 102, in Codice commentato del fallimento, diretto da G. Lo Cascio, Milano, 2013, 1255 ss.
[31] In argomento v. M. Fabiani-U. Macrì, sub art. 36, in Codice commentato del fallimento, cit., 437 ss.
[32] F. De Santis, Sub art.
[33] Su cui mi permetto di rinviare al mio L’omologazione del concordato fallimentare e le impugnazioni, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da F. Vassalli, F. P. Luiso, E. Gabrielli, II, Il processo di fallimento, Torino, 2014, 1035 ss.
[34] Su cui si rinvia a I. Pagni, Contratto e processo nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti: analogie e differenze, in Trattato Buonocore, a cura di A. Bassi, Padova, 2010, vol. I, 558 ss.
[35] Nel senso che il procedimento per la dichiarazione di fallimento sarebbe divenuto, per effetto delle modifiche all’art. 15 l. fall. introdotte con la riforma del 2006, un procedimento a cognizione piena, v., ex multis, Cass. civ., sez. VI, 3 giugno 2014, n. 12338, in Foro it., Rep. 2014, voce Fallimento, 201.
[36]In materia di accertamento del passivo è intervenuto il recente D.L. 3 giugno 2016, n. 59, conv. in L. 30 giugno 2016, n. 119 (“Disposizioni urgenti in materia di procedimenti esecutivi e concorsuali, nonché a favore degli investitori in banche in liquidazione”), che, oltre a modificare l‘art. 110 l. fall., all’art. 95, terzo comma, ha aggiunto, in fine, il seguente periodo: «In relazione al numero dei creditori e alla entità del passivo, il giudice delegato può stabilire che l'udienza sia svolta in via telematica con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione dei creditori, anche utilizzando le strutture informatiche messe a disposizione della procedura da soggetti terzi».
[37] Nello stesso senso, S. Bonfatti-P.F. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2011, 363.
[38] Per il dibattito in proposito v. M. Montanari, Dell’accertamento del passivo e dei diritti mobiliari dei terzi, in G.U. Tedeschi (a cura di), Le procedure concorsuali, I, **, Torino, 1996, 685.
[39] Anche se vi è chi vorrebbe riconoscere portata
differente ai due gradi di giudizio, ravvisando nel primo una fase informale e
ritenendo che sia soltanto la seconda la fase diretta, quale prosecuzione
dell’altra, a risolvere le eventuali controversie: così G. Costantino, L’accertamento del passivo nel fallimento, La riforma della legge fallimentare, Quaderni dell’Associazione
italiana fra gli studiosi del processo civile, Bologna, 2008, 44 ss. (a motivo
soprattutto del fatto che nel procedimento di verifica regolato dagli artt. 93-
[40] I. Pagni, L’accertamento del passivo nella riforma della legge fallimentare, in Foro it., 2006, 188 ss.
[41] E.F. Ricci, Sull’efficacia delle sentenze sulle opposizioni e sulle impugnazioni nella formazione del passivo fallimentare, in AA.VV., L’accertamento dei crediti nelle procedure concorsuali, Milano, 1992, 148. Cfr., inoltre, Id., Formazione del passivo fallimentare e decisione sul credito, Milano, 1979, spec. 45 ss. Una lettura opposta, secondo cui l’oggetto del processo è l’accertamento del credito, eventualmente pregiudicato dal diritto al concorso, si trova in M. Montanari, Dell’accertamento del passivo e dei diritti mobiliari dei terzi. Le procedure concorsuali, cit., 695 ss.
[42] Prima della
riforma, a fronte della dottrina che, in larga parte, riteneva che il decreto
di esecutività dello stato passivo producesse conseguenze extrafallimentari
analoghe a quelle del giudicato, la giurisprudenza, a far data da una pronuncia
della Cassazione a sezioni unite del 1963 (Cass., sez. un., 27 luglio 1963, n.
[43] Per una critica all’orientamento maggioritario che, prima della riforma, attribuiva efficacia di pieno accertamento sul credito in contestazione alle sentenze conclusive dei procedimenti di opposizione allo stato passivo, impugnazione e revocazione, e sulle insinuazioni tardive, v. E.F. Ricci, Sull’efficacia delle sentenze sulle opposizioni e sulle impugnazioni nella formazione del passivo fallimentare, cit., 133 ss.
[44] Cass. civ., sez. un., 14 luglio 2010, n. 16508, in Il Fallimento, 2010, 1380 ss., con osservazioni di L. Salvato, Intangibilità dell’accertamento della compensazione effettuato in sede di verifica del passivo, e di chi scrive, Accertamento del passivo e revocatoria: l’efficacia «ai fini del concorso» del decreto di esecutività.
[45] Dalla negazione esplicita dell’equivalenza tra accertamento del passivo fallimentare e accertamento dell’esistenza del credito, quale si avrebbe nel normale rapporto tra creditore e debitore, si può ricavare una sollecitazione ad intendere senza eccessiva preoccupazione le regole processuali che reggono i due gradi di giudizio sulla verifica dei crediti nel fallimento. Così anche G. Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Milano, 2007, 575 ss. Infatti, la circostanza che la verifica dei crediti nell’esecuzione collettiva non produca mai, neppure ove il decreto venga impugnato dal creditore, alcun accertamento dell’esistenza del credito destinato a far stato al di fuori del fallimento, può giustificare la scelta di introdurre un rito che, in entrambi i gradi, appare particolarmente snello, con una certa dose di garanzie, e che, nelle intenzioni (al di là di ciò che accadrà per i processi che approderanno in cassazione, visto il carico della Corte Suprema), si propone di non intralciare né allungare la liquidazione, complicandola con la tutela di esigenze che con lo scopo precipuo della verifica ben poco hanno a che vedere.
[46] Così Cass. civ., sez. I, 1° ottobre 2014, n. 20725, in Il Fallimento, 2015, 668 ss., con commento di L. D’Orazio, La decisione della terza via nell’accertamento del passivo.
[47] Per una condivisibile critica alla prassi del curatore di consultare il giudice delegato per ottenere da questi indicazioni, suggerimenti, consigli, opinioni sulle posizioni da assumere in relazione alle singole domande di insinuazione pervenute (quando non addirittura di presentarsi ad una sorta di “pre-verifica”, nella quale curatore e giudice si confrontino sulle domande, in funzione di una migliore formazione del progetto di stato passivo), col rischio che ciò costituisca, oltretutto, motivo idoneo alla ricusazione del giudice ai sensi dell’art. 51, 1° co., n. 4, c.p.c., per avere questi dato consiglio ad una delle parti della causa, v. F. Dimundo-B. Quatraro, Accertamento del passivo, in G. Fauceglia-L. Panzani (diretto da), Fallimento e altre procedure concorsuali, Torino, 2009, 1022.
[48] L’attribuzione della veste di parte al curatore, peraltro, non impedisce che questi debba pur sempre ritenersi “terzo”, rispetto agli atti e negozi compiuti dall’imprenditore prima del fallimento: il che consente di mantenere ferma la soluzione accolta in passato, in ordine all’inopponibilità della scrittura intercorsa col creditore, che sia priva di data certa ex art. 2704 c.c., e dell’inapplicabilità alla fattispecie delle regole probatorie in punto di scritture contabili, contenute negli artt. 2709 e 2710 c.c. In questo senso, S. Bonfatti e P.F. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, cit., 363; C. Costa, L’accertamento del passivo e dei diritti personali e reali dei terzi su beni mobili e immobili, in Il diritto fallimentare riformato, a cura di Schiano di Pepe, Padova, 2007, 361-362.
[49] In questi termini, L. D’Orazio, La decisione della terza via nell’accertamento del passivo, cit., 669, il quale osserva come “prima delle novelle del 2006 e del 2007 il curatore agi[sse] sotto l’ombrello protettivo del giudice delegato, sempre pronto a rilevare d’ufficio la sussistenza della prescrizione del diritto di credito vantato dai terzi nei confronti del fallimento”, e come “tutto cambi all’improvviso nel 2006, sicché i curatori, e specialmente i dottori e i ragionieri commercialisti, iniziano ad addentrarsi in un mondo complicato, pieno di tranelli per i neofiti, senza la guida sicura del giudice delegato. Stavolta, le eccezioni in senso stretto devono essere sollevate da loro, senza poter attendere aiuto alcuno dal Giudice, che resta terzo ed imparziale, al capezzale delle parti, pronto a rilevare le decadenze in cui esse incorrono”.
[50] Cass. civ., sez. un., 3 febbraio 1998, n.
[51] Che ha indotto il Tribunale di Firenze, in un provvedimento del 23 marzo 2016, ined., ad escludere una lettura, che, ritenendo possibile la chiusura del fallimento in pendenza di qualsivoglia controversia, “potrebbe fondarsi unicamente sulla sostanziale obliterazione del riferimento all’art. 43 L.F., in contrasto con il canone ermeneutico di cui all’art. 12 preleggi, che impone all’interprete di attribuire alla legge il senso fatto palese dal significato proprio delle parole”, e di valorizzare invece, quale ulteriore criterio interpretativo, il fatto che la ratio legis consistente nell’obiettivo di ottenere un’accelerazione della chiusura delle procedure in vista del contenimento dell’eccessiva durata delle stesse è in ogni caso garantita, nell’impianto della riforma di cui al D.L. 83/2015, senza necessità di forzature del tenore letterale dell’art. 118, anche dalla modifica apportata all’art. 43 l. fall. con l’introduzione dell’ultimo comma che richiede la trattazione prioritaria delle controversie in cui sia parte un fallimento.
[52] Nel senso che distinguere tra le due ipotesi, consentendo la chiusura solo nel primo caso, e non anche nel secondo, apparirebbe in contrasto con la ratio della disposizione, non sembrando ragionevole, per esempio, ritenere che la domanda di risoluzione del contratto proposta o continuata dal curatore non impedisca la chiusura del fallimento, mentre questa sarebbe impedita dall’azione revocatoria proposta dal curatore avverso quel medesimo contratto, M. Montanari, La recente riforma della normativa in materia di chiusura del fallimento: primi rilievi, in www.ilcaso.it, e Ancora sulla chiusura anticipata del fallimento in pendenza di giudizi, ibidem.
[53] Così R. Brogi, Il d.l. 83/2015 è legge: tutte le novità in materia fallimentare, in http://www.quotidianogiuridico.it.
[54] Estinzione, che viene presunta fino a prova contraria, se si tratta di società di persone.
[55] Cass. civ., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4060, 4061 e 4062, in Foro it., 2011, I, 1499, e in Le Società, 2010, 1004, con commento di D. Dalfino; Cass. civ., sez. un., 12 marzo 2013, n. 6070, in Le Società, 2013, 536 ss., con note di F. Fimmanò, Le sezioni unite pongono la «pietra tombale» sugli «effetti tombali» della cancellazione delle società di capitali, e G. Guizzi, Le sezioni unite, la cancellazione delle società e il «problema» del soggetto: qualche considerazione critica.
[56] In argomento v. D. Dalfino, «Venir meno» della società e processi pendenti, in Le Società, 2014, 1226.
[57] Così M. Fabiani, Di un ordinato ma timido disegno di legge delega sulla crisi d’impresa, in Il Fallimento, 2016, 261 ss.
Scarica Articolo PDF