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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 19/06/2016 Scarica PDF

Nullità del mutuo fondiario per difetto di causa

Luciana Cipolla, Avvocato in Milano


1. Il mutuo concesso per estinguere passività pregresse. – 2. La revocatoria fallimentare. - 3. L’accertamento del credito bancario in sede fallimentare. – 4. Uno sguardo alla riforma Rordorf.


     

1. Il mutuo concesso per estinguere passività pregresse

La lettura di una recente ordinanza resa dal Tribunale di Firenze, in composizione collegiale, lo scorso 20 gennaio 2016, offre lo spunto per svolgere alcune riflessioni con riguardo all’evoluzione della giurisprudenza in tema di rapporti tra banche e fallimenti.

 

Nel precedente citato, nell’ambito di un giudizio di opposizione allo stato passivo promosso da una Banca al fine di ottenere l’ammissione, in via privilegiata, del proprio credito ipotecario, il collegio fiorentino ha ritenuto fondata l’eccezione sollevata dal curatore fallimentare secondo la quale il contratto di mutuo fondiario da cui è derivato il credito della banca sarebbe nullo per difetto della causa tipica, atteso che  il finanziamento chiesto ed ottenuto dalla fallita sarebbe stato parte di un'operazione più complessa volta a ripianare un'esposizione debitoria di terzi.

 

La fattispecie in esame è quella nota costituita dalla erogazione di un finanziamento, spesso fondiario o semplicemente ipotecario, con il quale una banca estingue pregresse passività chirografarie della stessa mutuataria o di soggetti terzi.

 

Da un punto di vista civilistico è stato ormai definitivamente chiarito (Cassazione, Sez. IIII, sentenza n. 19282 del 12 settembre 2014) che il contratto di  mutuo non è mutuo di scopo con la conseguenza che dovrebbe essere ormai divenuto irrilevante se la finalità del mutuo sia stata quella di fornire liquidità o  ripianare esposizioni pregresse.

 

Cionondimeno, in ambito fallimentare, si assiste, sempre più spesso, all’emissione di provvedimenti che sanzionano con la nullità tali fattispecie anche al di fuori dei casi in cui il precedente appena citato e una corretta applicazione dell’art. 67 L.F.  comporterebbero la salvezza dell’atto (per esempio perché decorso il termine semestrale o annuale previsto da quest’ultima norma).

 

In questo stesso senso pare si stia orientando anche la giurisprudenza penale che interpreta a propria volta in modo decisamente ampio il concetto di “simulazione” previsto dall’art. 216, terzo comma, L.F.. In particolare si è ribadito più volte che non può essere effettuato un pedissequo rinvio alla norma civilistica, poiché in sede di giustizia penale, la portata di tale concetto è notevolmente più ampia: non ricomprende solo i casi classici di artificiosa rappresentanza di un titolo inesistente, “ma anche quelli in cui viene fraudolentemente costituito un (vero) titolo di prelazione in previsione del fallimento” (Corte di Cassazione, Sezione V penale, n. 16688 del 2 marzo 2004; Corte di Cassazione, Sezione V penale, n. 2126 del 23 febbraio 2000).

   

2. La revocatoria fallimentare

Questa maggior severità nella valutazione della condotta della Banca pare individuabile, come un file rouge, nella giurisprudenza che, negli scorsi anni, si è occupata dei rapporti tra banca e fallimento.

 

Basti pensare, in prima battuta, alla revocatoria fallimentare disciplinata dall’art. 67 L.F.: se, a seguito della riforma del 2005, si è dimezzato l’arco temporale di riferimento (divenuto di sei mesi e un anno rispettivamente per le operazioni normali e per quelle anormali) non solo non pare essere venuta meno la severità con la quale i giudici di merito valutano la sussistenza dell’elemento soggettivo ma neppure il bizantinismo legato alla individuazione delle rimesse revocabili.

 

Con riguardo al primo profilo valga per tutte una pronuncia del Tribunale Monza del 26 gennaio 2012 nella quale si legge: “è noto che le banche, in considerazione del rapporto contrattuale con il cliente e del servizio che gli forniscono, si trovano in una posizione privilegiata in ordine alla possibilità di acquisire informazioni sulla situazione patrimoniale del cliente stesso, soprattutto quando il correntista beneficia di affidamenti. Del resto, la prassi bancaria, imposta dalle istruzioni di vigilanza impartite dalla Banca d'Italia in relazione agli obblighi di verifica nei confronti dei clienti affidati, prevede che l'impresa cliente, quando le venga concesso l'affidamento, debba fornire copia dell'ultimo bilancio di esercizio, come pure, in occasione di ogni rinnovo od ampliamento degli affidamenti in atto. In questa prospettiva, il solo fatto che il cliente non abbia provveduto ad effettuare la consegna anticipata dei dati di bilancio alla Banca e che quest'ultima non si sia premurata di richiedere la comunicazione di tutti i dati utili, sicuramente disponibili ben prima della pubblicazione del bilancio, costituisce da solo elemento sospetto”.

 

Il tema della diligenza della banca e delle conseguenze derivanti dalla mancata corretta percezione di alcuni elementi era stata, molti anni fa, correttamente interpretata dal Tribunale di Milano, in particolare dal Dott. Monti, quando scriveva in merito alla impossibilità di considerare consapevole la banca, che, pur avendone gli strumenti, non aveva percepito lo stato di insolvenza del proprio correntista. 

 

“Lo stesso postulato di razionalità e professionalità del banchiere che il fallimento invoca a sostegno della propria tesi conferma il solido fondamento dell’assunto giacché le peculiari qualità del soggetto non possono essere utilizzate a senso unico: se esse valgono ad indurre il suo grado di conoscenza, devono valere anche a dedurre la sua ignoranza, allorché, ad esempio, egli concede credito ad un cliente insolvente. Infatti, delle due l’una: o il banchiere è un incapace, e questo effettivamente può spiegare perché abbia allargato i cordoni del credito nonostante i segnali d’insolvenza, ma non dimostra certamente il requisito soggettivo della revocatoria, in quanto fa venir meno la premessa maggiore del sillogismo probatorio (ossia la competenza a percepire ed analizzare i segnali d’insolvenza). Oppure il banchiere è capace, ma allora il fatto che abbia concesso credito dimostra che l’insolvenza non era facilmente percepibile e, con ciò, cade la premessa minore del sillogismo medesimo (ossia la significatività dei segnali d’insolvenza proposti)” (Trib. Milano 9 luglio 1998, Giur. it., 1999, 2117).

 

Si tratta di un precedente rimasto isolato quanto alla lapidaria cristallinità con la quale è stato fotografato lo stato soggettivo del “banchiere”. Vero è che può dirsi ormai pacifico, a dispsetto del precedente monzese citato, che la conoscenza dello stato di insolvenza deve essere effettiva e non meramente potenziale, ancorché desumibile da elementi indiziari. In questo prospettiva assume rilievo “la conoscibilità in concreto, secondo l’ordinaria diligenza e le particolari condizioni economiche, sociali, organizzative, topografiche, culturali in cui operi il terzo, ma non quella in astratto” (App. Roma 18 marzo 2013). Nello stesso senso si è pronunciata la Suprema Corte (Cass. civ.,19 novembre 2013, n. 25952, ord.) in anni a noi più vicini, secondo la quale neppure lo scoperto di conto corrente, per quanto “abbondante”, sarebbe elemento decisivo per la dimostrazione della scientia decoctionis: esso sarebbe al contrario un dato “ambiguo”, giacché può essere sintomo dell’insolvenza, ma anche di fiducia della banca nelle possibilità e capacità di ripresa del correntista (in questo senso Tribunale di Bologna 26.4.2010; Cass. 22.1.2009, n. 1617).

         

3. L’accertamento del credito bancario in sede fallimentare

Ancora, nel senso del formalismo verso il quale si sta orientando la giurisprudenza a scapito di un più condivisibile pragmatismo assumono rilievo alcuni orientamenti che si stanno consolidando in quella particolare fase del fallimento che è la verifica dello stato passivo.

 

A parte l’orientamento, ormai risalente ma ad oggi non ancora superato, secondo il quale sarebbe onere della Banca che chiede l’ammissione al passivo del proprio credito derivante da saldo di conto corrente produrre tutte le contabili relative alle singole operazioni (Cass. 9.5.2001 n. 6465), si segnala l’ulteriore orientamento secondo il quale “il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato sostanziale, idoneo a costituire titolo inoppugnabile per l'ammissione al passivo, soltanto a seguito della dichiarazione di esecutività ai sensi dell'art. 647 cod. proc. civ. - non essendo equiparabile, sotto questo profilo, alla sentenza non irrevocabile (art. 96, secondo comma, n. 3, legge fall., già art. 95, terzo comma, nel testo anteriore al d.lgs. del 9 gennaio 2006, n. 5) - per cui non è ammissibile l'accertamento incidentale, in sede di giudizio di verificazione, dell'esecutività definitiva del decreto ingiuntivo sprovvisto del visto di esecutorietà previsto dall'art. 647 cod. proc. civ., con la conseguenza che, in mancanza, il decreto ingiuntivo, seppur non opposto, è inopponibile alla massa dei creditori” (nello stesso senso:  Cass. civ., sez. VI, 23 dicembre 2011 n. 28553 e  Cass. civ., sez. I, 12 febbraio 2013 n. 3401).

 

Come a dire che, nella più parte dei casi, alle banche viene comunque chiesto di fornire, con le modalità che abbiamo visto sopra, una prova piena del proprio credito.

   

4. Uno sguardo alla riforma Rordorf

Rispetto a tale “fotografia” non è, allo stato, plausibile ipotizzare cambiamenti significativi nel breve periodo: la riforma alla quale sta lavorando la Commissione Rordorf e con la quale sarà integralmente (e speriamo definitivamente) rivista la legge fallimentare non pare tratterà i temi che abbiamo tratteggiato.

 

Ed infatti, con riguardo all’azione revocatoria fallimentare non pare che questa verrà ulteriormente circoscritta. Nello schema di disegno di legge recante la delega al governo per la riforma organica delle discipline delle crisi d’impresa e dell’insolvenza è previsto, semplicemente, che “la procedura di liquidazione giudiziale va potenziata mediante l’adozione di misure dirette a: […]b) far decorrere il periodo sospetto per le azioni di inefficacia e revocatoria, a ritroso, dal deposito della domanda cui sia seguita l’apertura della liquidazione giudiziale, fermo restando il disposto di cui al vigente articolo 69-bis, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”.

In altri termini viene retrodatato il c.d. periodo sospetto alla data del deposito della domanda di apertura della procedura e non più alla data della dichiarazione di insolvenza, salva la decorrenza dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese nel caso di consecuzione della procedura di liquidazione ad una procedura concordatari.

 

Con riguardo, invece alla fase di accertamento del passivo se è vero che lo spirito della riforma è quello di improntare  tale fase a criteri di maggiore rapidità, snellezza e concentrazione è pur vero che preoccupa quanto previsto nel citato Schema di Legge secondo il quale la procedura di liquidazione giudiziale dovrà “escludere l’operatività di esecuzioni speciali e privilegi processuali, anche fondiari” con conseguente eliminazione di ogni deroga al principio posto dall’attuale art. 51 l.fall.

 

Inutile ricordare, sotto questo punto di vista, che non si era ancora del tutto sopito il tema legato alla natura sostanziale o meramente processuale del privilegio previsto dall’art. 41 T.U.B. Ancora recentemente la Cassazione (Cass., 30 marzo 2015,  n. 6377) aveva avuto modo di affermare nuovamente che “l'art. 41, comma 2, del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, nel prevedere che il creditore fondiario può iniziare o proseguire l'azione esecutiva sui beni ipotecati anche successivamente alla dichiarazione di fallimento del debitore, deroga al divieto di azioni esecutive individuali previsto dall'art. 51 legge fall., ma non anche alla norma imperativa di cui all'art. 52 legge fall., secondo la quale ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o esentato dal divieto di azioni esecutive, deve essere accertato nelle forme previste dalla legge fallimentare. L'insinuazione al passivo costituisce, pertanto, un onere per la banca mutuante (sancito espressamente, a seguito della riforma della legge fallimentare, anche per i creditori esentati dal divieto di cui all'art. 51 legge fall.) al fine dell'esercizio del diritto di trattenere definitivamente, nei limiti del "quantum" spettante a ciascun creditore concorrente all'esito del piano di riparto in sede fallimentare, le somme provvisoriamente percepite a titolo di anticipazione in sede esecutiva”.

 

Assodato, comunque, che si trattasse “solo” di un privilegio processuale, restava il tema che, spesso, ad esecuzione quasi ultimata, il privilegio previsto dall’art. 41 T.U.B. permetteva alle Banche di portare a compimento l’esecuzione stessa. Occorrerà ora vedere se , ed eventualmente con quali limiti, il legislatore farà venire meno anche tale forma di privilegio.

 

In senso positivo, vi è da dire che lo Schema di Legge pare prevedere, finalmente, un intervento normativo con riguardo alle “modalità di verifica dei diritti vantati su beni del debitore che sia costituito terzo datore di ipoteca”.

 

Il tema, invero, è quanto mai attuale. Basti pensare alle recentissima sentenza della Suprema Corte  (Cass., 09 febbraio 2016,  n. 2540) secondo la quale “i titolari di diritti d'ipoteca sui beni immobili compresi nel fallimento e già costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito, non possono - anche dopo la novella dell'art. 52, comma 2, l.fall., introdotta dal d.lgs. n. 5 del 2006 - avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo, di cui al capo V della l.fall., in quanto non sono creditori diretti del fallito e l'accertamento dei loro diritti non può essere sottoposto alle regole del concorso, senza che sia instaurato il contraddittorio con la parte che si assume loro debitrice, dovendosi, invece, avvalere, per la realizzazione delle loro pretese in sede esecutiva, delle modalità di cui agli artt. 602-604 c.p.c. in tema di espropriazione contro il terzo proprietario”.

 

La circostanza per la quale pare si sia preferito, tra le alternative al vaglio della Commissione Rordorf, optare per l’ipotesi che vede la concentrazione delle procedure di maggiori dimensioni presso i tribunali delle imprese, lasciando ai tribunali oggi esistenti, secondo i normali criteri di competenza, le procedure di sovra indebitamento ci consente, almeno, un cauto ottimismo con riguardo alla specializzazione dei magistrati chiamati a risolvere le tematiche, spesso complesse, di natura squisitamente fallimentare.


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