CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 15/05/2016 Scarica PDF
La convenzione di moratoria: un nuovo strumento tipico di regolazione provvisoria della crisi
Marco Aiello, Professore associato di diritto commerciale nell'università di Torino, AvvocatoSommario: 1. L’introduzione di un nuovo strumento tipico di regolazione provvisoria della crisi. – 2. Le preesistenti convenzioni innominate di moratoria. – 3. La ratio dell’introduzione della convenzione tipica di moratoria: la non esaustività degli strumenti di cui agli artt. 182-bis, 6° comma, e 161, 6° comma, l. fall. e la necessità di favorire il raggiungimento di un accordo “protettivo” dal contenuto libero. – 4. L’attuale limitazione dell’art. 182-septies l. fall. alle convenzioni stipulate con gli intermediari finanziari e la prospettiva del suo superamento. – 5. L’estensione della moratoria ai creditori non aderenti (omogenei agli stipulanti) attraverso la deroga alla relatività dell’efficacia del contratto. – 6. La stipulazione della convenzione: la maggioranza qualificata e l’eventuale formazione di categorie omogenee di creditori. – 7. Il diritto dei creditori di partecipare alle trattative. – 8. L’oggetto del sindacato del tribunale investito dell’opposizione. – 9. Il contenuto della moratoria: il carattere necessariamente provvisorio della pattuizione e il divieto di imporre ai non aderenti l’esecuzione di nuove prestazioni.
1. L’introduzione di un nuovo strumento tipico di regolazione provvisoria della crisi
La più recente “miniriforma” della legge fallimentare (intervenuta – com’è noto – con l’emanazione del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni nella l. 6 agosto 2015, n. 132), prendendo dichiaratamente a modello lo scheme of arrangement e la sauvegarde financière accélerée[1], ha introdotto l’art. 182-septies l. fall., con il quale si è ulteriormente ampliato il – per vero già cospicuo – novero degli strumenti atti a fronteggiare la crisi d’impresa[2]. Il nostro ordinamento si è infatti arricchito di due nuovi istituti che, nonostante la previsione nell’ambito della medesima disposizione e la possibilità di ravvisare tra di loro profili di connessione fattuale (anche nell’ambito di una ideale successione temporale[3]), si rivelano del tutto autonomi: da un lato, l’accordo di ristrutturazione dei debiti con gli intermediari finanziari, vero e proprio sottotipo del negozio di cui all’art. 182-bis l. fall.; dall’altro (e per quanto qui più interessa, perché oggetto del presente contributo), la convenzione di moratoria.
La caratteristica che contraddistingue questa seconda fattispecie, marcandone l’identità, consiste nel fatto che essa – diversamente dal piano di risanamento attestato, dall’accordo di ristrutturazione dei debiti e dal concordato preventivo – non si propone di individuare una soluzione definitiva alla crisi (o all’insolvenza) dell’impresa, bensì di offrire un rimedio da attuarsi “in via provvisoria”, attraverso la stipulazione di un’intesa con efficacia necessariamente temporanea[4].
In questo senso la convenzione di moratoria sembra potersi accostare – pur al cospetto di profonde differenze – al ricorso di cui all’art. 182-bis, 6° comma, l. fall. e a quello per concordato preventivo “in bianco”, atteso che, al pari di queste iniziative, essa mira a consentire all’impresa di guadagnare il tempo necessario per predisporre una compiuta risposta alla situazione di difficoltà.
In altre parole, la novella sembra aver introdotto una nuova forma di protezione del debitore, ancorché dai contorni più sfumati di quella assicurata dagli artt. 182-bis, 3° comma, e 168 l. fall., perché, da un lato, insuscettibile di attivazione automatica, presupponendo – come si vedrà – il consenso della maggioranza qualificata dei soggetti destinati a subirne gli effetti; dall’altro, il suo contenuto non è predeterminato ex lege, ma rimesso all’autonomia privata, facoltizzata a incidere sulla sfera della minoranza non aderente in applicazione del c.d. principio di sussidiarietà[5].
La finalità perseguita è però la medesima dell’istanza di sospensione e del ricorso per concordato “con riserva”: permettere all’impresa (e ai suoi consulenti) di analizzare funditus la fattispecie e di selezionare le più acconce misure di reazione, impostando il piano e, in parallelo, optando per lo strumento giuridico di (definitiva) regolazione della crisi che meglio gli si attagli; il tutto dopo aver avviato le opportune interlocuzioni preliminari con i principali creditori, di regola coincidenti con gli istituti finanziatori.
Del resto, com’è stato osservato, “la complessità nell’approccio alla crisi, e le conseguenti responsabilità che ne possono discendere […], rendono giustificabile che l’impresa, prima di optare per l’uno o per l’altro strumento di regolazione della crisi, cerchi di negoziare una “tregua” con i maggiori creditori, di solito con i creditori finanziari, in modo da poter presentare una domanda/proposta/piano più meditata, quando l’advisor legale e finanziario avranno potuto prendere maggiore consapevolezza della situazione”[6].
Non a caso, già in passato i processi di ristrutturazione erano di frequente scanditi dalla stipulazione intermedia di intese interinali, con il preciso scopo di scongiurare, nelle more della conduzione delle trattative e della conclusione dell’operazione di risanamento, l’ulteriore progressivo deterioramento della situazione di disequilibrio e il rischio della sua evoluzione in uno stato di insolvenza non reversibile.
In questa luce, la convenzione di moratoria non può probabilmente considerarsi uno strumento del tutto inedito; al contrario, l’intervento della novella sembra costituire la presa d’atto di un’esigenza degli operatori e, al contempo, il recepimento di una diffusa prassi negoziale, traducendosi nella previsione di un nuovo negozio tipico, attraverso la quale si è inteso mettere a disposizione dell’autonomia privata uno schema contrattuale nominato dalla cui adozione, come si dirà meglio infra, discendono – in forza della legge e con la garanzia dell’intervento, sia pur successivo ed eventuale, del giudice – peculiari effetti sotto il profilo della sfera soggettiva di efficacia dell’intesa; effetti, questi sì, fino ad oggi del tutto inediti[7].
2. Le preesistenti convenzioni innominate di moratoria
Nell’ambito delle operazioni di ristrutturazione che coinvolgono il ceto bancario e, segnatamente, di quelle destinate a risolversi nel perfezionamento di una convenzione esecutiva di un piano di risanamento attestato o di un accordo di ristrutturazione dei debiti, si è da tempo diffusa – come detto – la prassi della stipulazione di intese preliminari funzionali alla regolazione meramente provvisoria della crisi[8].
Questi contratti si articolano, di norma, in un pactum de non petendo, di estensione variabile per oggetto e per durata, strumentale a consentire all’impresa di affrontare la predisposizione del piano e la negoziazione del definitivo accordo con i principali creditori senza essere astretta da scadenze che essa – in ragione del proprio stato di disequilibrio – non sia in grado di onorare regolarmente. Di qui la proposta – che spesso il debitore formula alle banche sin dalle prime fasi della trattativa – di “congelare” alcuni pagamenti per un determinato periodo, fissato in alcune settimane o in qualche mese e variamente prorogabile sulla scorta delle peculiarità di ciascuna fattispecie concreta, fino saldarsi con il raggiungimento della pattuizione finale.
L’oggetto del patto è talora circoscritto alla quota di capitale dei rimborsi previsti dai contratti pendenti tra l’impresa in difficoltà e le banche, ma non è infrequente che, quando si ravvisi una tensione di cassa particolarmente acuta, si prospetti altresì la necessità di prevedere la sospensione del versamento degli interessi, i quali, pur continuando a maturare, temporaneamente non vengono corrisposti, con conseguente progressivo incremento del complessivo ammontare dell’indebitamento da rimborsare.
Naturalmente, il momentaneo blocco dei pagamenti vale non solo per quelli con termine successivo alla stipulazione del patto ma anche – e soprattutto – in relazione ai debiti già scaduti, con riguardo ai quali si chiede agli istituti l’astensione dall’attivazione di azioni di recupero (incluse, almeno di regola, quelle volte all’escussione di garanzie, anche di terzi) e, laddove esse fossero già state intraprese, di sospenderle (se del caso mediante la richiesta congiunta di opportuni rinvii al giudice dell’esecuzione), di modo da non alterare la situazione esistente al momento dell’apertura della negoziazione (o, comunque, alla diversa data assunta quale riferimento)[9].
Ancorché il pactum de non petendo costituisca il “nucleo” di questa tipologia di intese, nella maggior parte dei casi esse non vi si esauriscono, essendo chiamate a disciplinare anche un secondo, non meno importante, profilo: il regime delle linee di credito e, in particolare, i termini e le modalità del mantenimento della loro operatività fino al momento dell’auspicato approdo a un assetto idoneo a superare definitivamente la fase di criticità. In altri termini, nella prassi la regolazione provvisoria della crisi non si traduce nella mera stipulazione di un (temporaneo) accordo di “non aggressione”, ma si estende alla disciplina – anch’essa necessariamente a tempo – dell’accesso al finanziamento bancario, la cui sussistenza, nelle forme di volta in volta concordate, si rivela pressoché invariabilmente indispensabile per assicurare la prosecuzione dell’attività dell’impresa.
Di qui la duplice natura delle convenzioni normalmente stipulate con le banche, le quali rispondono, nella prospettiva del debitore, a due esigenze distinte, benché accomunate dall’unico obiettivo di costruire le condizioni propizie per la maturazione di una soluzione definitiva alla crisi: da un lato, quella di ottenere la temporanea sterilizzazione dell’indebitamento nei confronti dei creditori finanziari, sul presupposto che ciò consenta di far fronte con regolarità agli impegni verso i terzi (a cominciare dai dipendenti e dai fornitori), grazie alla possibilità di concentrare su di essi le (pur esigue) risorse disponibili; dall’altro, l’interesse a continuare a operare con gli istituti, sicché “v’è bisogno” – per l’appunto – “di pattuire che le linee di credito restino aperte”[10].
Quest’ultima richiesta è, naturalmente, quella valutata dalle banche con maggior ponderazione, essendo esse comprensibilmente attente a evitare condotte che possano esporle, in un secondo momento, a ipotetiche contestazioni sotto il profilo della concessione abusiva del credito, nella consapevolezza – beninteso – che anche atteggiamenti improntati a eccessivo rigore potrebbero rivelarsi suscettibili di censura con riferimento all’opposto – ma non meno grave – aspetto della interruzione brutale dal credito[11].
A ciò si aggiunga che anche il semplice mantenimento delle linee in essere può talora tradursi, di fatto, in un incremento del rischio (con ciò presentando, per quanto concerne la valutazione del merito creditizio, criticità non del tutto dissimili da quelle che sorgono in caso di richiesta di c.d. “nuova finanza”), in particolare laddove, per un verso, la conferma dell’operatività sia richiesta con riguardo agli importi oggetto di affidamento anziché a quelli già utilizzati e, per l’altro, i secondi non assorbano integralmente i primi, con conseguente facoltà, per l’impresa, di aumentare (pur entro i limiti originariamente stabiliti) il proprio effettivo indebitamento verso il ceto bancario[12].
La determinazione degli istituti può pertanto presentare carattere di oggettiva complessità, la quale non deve peraltro indurre all’automatico rigetto di istanze che, se formulate con ragionevolezza e supportate da adeguato corredo documentale, ben possono rivelarsi non solo legittime, ma anche meritevoli di accoglimento, tenuto conto che – come si è visto – il mantenimento di congrue fonti di finanziamento costituisce, di regola, insopprimibile presupposto della preservazione della continuità aziendale e, in prospettiva, del successo del risanamento. Resta la necessità di operare con diligenza il non agevole bilanciamento di rischi contrapposti: per un verso, quello dell’incremento dell’esposizione, che, quando intervenga in maniera incontrollata (al di fuori, quindi, di un piano di azione relativo quantomeno ai tempi di predisposizione della definitiva soluzione alla crisi), può sortire il deprecabile effetto di acuire le incertezze afferenti al rientro degli istituti e, più in generale, di aggravare la già compromessa situazione debitoria dell’impresa; dall’altro, quello – non meno serio – che la (quand’anche temporanea) interruzione della disponibilità delle linee di credito contribuisca a determinare l’irreversibile deterioramento della crisi, con le intuibili ricadute, di segno naturalmente negativo, sulla capacità di rimborso dell’indebitamento pregresso, senza dire del danno talora ravvisabile nel depauperamento patrimoniale cagionato dal fermo produttivo imposto dall’impossibilità di accesso al credito.
La complessità degli elementi alla base della decisione spiega perché, nonostante l’istanza di moratoria sia di norma formulata sin dalla prima fase delle negoziazione (al dichiarato scopo di ottenere, nel più breve lasso di tempo possibile, il perfezionamento dell’intesa interinale prodromica all’instaurazione della trattativa sui termini della manovra definitiva), il relativo accoglimento sia tutt’altro che automatico. Esso comporta l’adozione, da parte di ciascuna banca interessata, di un’apposita delibera, la cui istruzione, ancorché meno onerosa di quella da effettuarsi in occasione dell’approvazione dell’accordo definitivo, nondimeno postula l’esame nel merito delle specifiche richieste dell’impresa, nonché, più in generale, della ragionevolezza – allo stato degli atti – della scelta di perseguire la via del risanamento; senza che ciò – beninteso – vincoli in alcun modo l’istituto in relazione alla futura determinazione circa la proposta finale di manovra che sarà poi formulata dall’imprenditore. Per queste ragioni le banche, prima di pronunciarsi sull’intesa interinale, richiedono al debitore di produrre un congruo set informativo, di norma incentrato, oltre che sull’aggiornata situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa, sulle azioni che la stessa si propone d’intraprendere fino alla scadenza della moratoria, accompagnate dall’esplicitazione dei flussi di cassa previsionali del periodo.
In questo articolato quadro, va evidenziato che l’interesse degli istituti alla sottoscrizione dell’accordo di moratoria non è solo quello di addivenire a una regolazione provvisoria dei propri rapporti con il debitore, in vista dell’individuazione di un futuro assetto che ne massimizzi la capacità di rimborso; ma anche – e forse soprattutto – quello di individuare, nell’immediato, una linea comune con gli altri creditori finanziari.
La risposta unitaria del ceto costituisce, del resto, una condicio sine qua non dell’accoglibilità delle istanze dell’impresa, la cui concreta efficacia postula che tutte le (o, quantomeno, la larghissima maggioranza delle) banche aderiscano al patto di non aggressione e si rendano disponibili ad assicurare l’operatività delle linee di credito. Il che permette a ciascun istituto di acquisire, grazie alla stipulazione di un’intesa unanime, la certezza non solo che l’imprenditore utilizzerà il tempo concesso per individuare la definitiva soluzione alla crisi, ma anche che, nelle more dell’espletamento di tale incombente, non si verificheranno ipotetiche “fughe in avanti” di singole banche, che potrebbero determinare, oltre all’insuccesso del risanamento, l’iniquo avvantaggiamento di alcuni creditori finanziari a discapito di altri[13].
3. La ratio dell’introduzione della convenzione tipica di moratoria: la non esaustività degli strumenti di cui agli artt. 182-bis, 6° comma, e 161, 6° comma, l. fall. e la necessità di favorire il raggiungimento di un accordo “protettivo” dal contenuto libero
Né l’introduzione, nel 2010, dell’art. 182, 6° comma, l. fall., né quella, a due anni di distanza, della domanda di concordato preventivo “in bianco” hanno segnato il declino delle convenzioni innominate di moratoria, le quali, anche successivamente al 2012, hanno continuato a rappresentare una costante della negoziazione di larga parte dei contratti esecutivi dei piani di risanamento attestati e degli accordi di ristrutturazione, con ciò evidenziando – empiricamente – la perdurante sussistenza di una esigenza di regolazione in via provvisoria della crisi non assorbita dalle forme di protezione attivabili dall’imprenditore in via sostanzialmente automatica.
L’istanza di sospensione di cui al sesto comma dell’art. 182-bis l. fall. ha, del resto, conosciuto una fortuna modesta, probabilmente in ragione, da un lato, dell’ampia mole di documentazione di cui si richiede la predisposizione (la quale presuppone, di fatto, che l’imprenditore abbia già individuato i termini dell’operazione di ristrutturazione[14]); dall’altro, della durata tutto sommato contenuta della protezione (pari a sessanta giorni, cui va sommato il periodo – che non dovrebbe eccedere i trenta giorni – intercorrente tra la pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese e la data dell’udienza). Senza dire che il divieto di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive e di acquisire titoli di prelazione non concordati non impedisce ai creditori, in particolare bancari, di adottare altre condotte comunque idonee ottenere un (quantomeno parziale) rientro, a cominciare dall’effettuazione di compensazioni, agevolmente attuabili, ad esempio, in presenza di rapporti di anticipazione di fatture con pagamenti “canalizzati”.
Neppure il più incisivo strumento del ricorso per concordato preventivo “in bianco” – la cui introduzione ha reso ancor più rare le istanze ex art. 182-bis, 6° comma, l. fall.[15] – si è rivelato uno strumento bonne à tout faire. Esso certamente offre il vantaggio di una presentazione agevole: è sufficiente procedere, oltre all’assunzione della delibera di cui all’art. 152 l. fall., al deposito dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e dell’elenco nominativo dei creditori con l’indicazione delle loro pretese, vale a dire di documenti di cui l’imprenditore normalmente dispone o che, comunque, può confezionare con relativa facilità, fatta eccezione per le ipotesi in cui non vi siano le condizioni per redigere o approvare i bilanci, o, addirittura, il concreto modus della tenuta della contabilità non consenta neppure la ricostruzione della situazione debitoria[16]. D’altro canto, non può sottacersi che l’opzione per l’automatic stay non è foriera, per chi l’adotti, di soli vantaggi: anche in questo caso il fattore tempo può talora rivelarsi fonte di criticità, atteso che il termine per il varo del piano e della proposta di concordato o, in alternativa, dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (da fissarsi, da parte del tribunale, in un periodo compreso tra sessanta e centoventi giorni, prorogabili di non più di ulteriori sessanta) potrebbe risultare insufficiente, con la precisazione che, a quel punto, l’“indolore” fuoriuscita dalla protezione potrebbe andare incontro a seri ostacoli, almeno quando il Pubblico Ministero – reso edotto, dapprima, dello stato di crisi del ricorrente e, poi, della sua incapacità di presentare una soluzione nei termini stabiliti – si attivi per la dichiarazione di fallimento.
Al di là di tale rischio, sono alcuni degli stessi effetti immediati del ricorso ex art. 161, 6° comma, l. fall. a generare – in una sorta di eterogenesi dei fini – possibili inconvenienti: con la presentazione della domanda di concordato (ancorché “in bianco”) e la sua iscrizione nel registro delle imprese trovano infatti applicazione non solo la protezione di cui all’art. 168 l. fall. (il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari e di acquisire diritti di prelazione non autorizzati dal tribunale, oltre all’inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni precedenti la predetta pubblicazione), ma anche le disposizioni richiamate dall’art. 169 l. fall.[17]. Ne deriva l’immediata “cristallizzazione” del passivo, con conseguente impossibilità di effettuare pagamenti a beneficio dei creditori pregressi, il che spesso comporta non poche difficoltà nella concreta gestione dei rapporti con i terzi (a cominciare dai fornitori), non sempre superabili tramite l’autorizzazione di cui all’art. 182-quinquies, 5° comma, l. fall. A ciò si aggiunge lo spossessamento, sia pur attenuato, dell’imprenditore, impossibilitato a compiere operazioni di straordinaria amministrazione in assenza del preventivo placet del tribunale.
Com’è stato osservato, “una volta imboccato il percorso concordatario si procede “ad imbuto” e la porta d’ingresso disvela un pertugio. Questa è la ragione per la quale quello che pare un comportamento prudente, in presenza del rivelarsi della crisi, può invece palesare molte criticità, perché si corre il rischio di porsi su un piano inclinato che fa precipitare l’impresa verso un dissesto, forse, evitabile”[18].
Di qui, come detto, la perdurante preferenza degli operatori, ogniqualvolta la crisi non assuma gravità tale da imporre l’immediato accesso a una procedura concorsuale, per la gestione della fase di predisposizione (e di negoziazione) della sua soluzione al di fuori del ricorso a una protezione tipica, addivenendo alla (temporanea) regolamentazione dei rapporti con i principali creditori su base meramente convenzionale. Questa impostazione ha infatti il pregio di consentire alle parti di costruire liberamente il contenuto dell’accordo, individuando caso per caso l’assetto più acconcio. Il dazio da pagare, però, è altrettanto evidente: l’imprenditore deve riuscire a procacciarsi il consenso di tutti i creditori a cui si richieda un sacrificio (ancorché momentaneo e con la promessa di un soddisfacimento futuro, ragionevolmente più elevato di quello ritraibile immediatamente), con il rischio che la mancata adesione di anche uno soltanto degli interlocutori (il quale insista pervicacemente per l’esperimento di azioni recuperatorie) finisca per vanificare l’intero progetto, sospingendo l’imprenditore, suo malgrado, verso l’automatic stay, pur nella consapevolezza che ciò si traduce nell’adozione di una risposta subottimale alla crisi[19].
Ebbene, è precisamente su quest’aspetto che incide il nuovo strumento della convenzione di moratoria di cui all’art. 182-septies l. fall., il cui tratto saliente risiede – non a caso – nell’idoneità a promuovere la stipulazione delle intese volte a regolare in via provvisoria i rapporti tra il debitore in difficoltà e i suoi creditori (con riguardo, per vero, alla sola categoria degli intermediari finanziari), grazie all’estensione coattiva alla minoranza dissenziente (o, semplicemente, inerte) degli effetti del patto perfezionato con la maggioranza qualificata; “è pertanto chiara la ratio legis: favorire la soluzione della crisi consentendo l’estensione soggettiva ultra vires degli effetti derivanti da un negozio (accordo di ristrutturazione o convenzione di moratoria) il cui contenuto è stato determinato dal debitore e da alcuni soltanto degli intermediari finanziari (che rappresentino il 75% dei crediti della categoria). Un’imposizione a terzi di regole generate dall’autonomia privata allo scopo di tutelare interessi di rango generale”[20].
4. L’attuale limitazione dell’art. 182-septies l. fall. alle convenzioni stipulate con gli intermediari finanziari e la prospettiva del suo superamento
Come si è visto, la convenzione di moratoria – al pari del sottotipo di accordo di ristrutturazione disciplinato dall’art. 182-septies l. fall. – va stipulata dall’imprenditore[21] con intermediari finanziari, cioè con gli istituti di credito iscritti nell’albo di cui all’art. 13 d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385, o con gli intermediari finanziari autorizzati di cui all’elenco previsto dall’art. 106 del medesimo decreto[22]. Ciò non significa, naturalmente, che sia preclusa la sottoscrizione dell’intesa a quanti non presentino tali requisiti, ma con riguardo a essi trova applicazione la disciplina generale del contratto, senza possibilità di invocare il meccanismo di estensione coattiva degli effetti del patto proprio della convenzione tipica di moratoria.
La ragione di questa limitazione di carattere soggettivo non pare agevolmente individuabile. Nella relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del d.l. n. 83/2015 il riferimento ai soli creditori finanziari è giustificato con rilevi di carattere fattuale, evidenziando in particolare che, tenuto conto del “peso” dell’indebitamento delle imprese italiane verso le banche, di regola queste ultime costituiscono il principale (quando non l’unico) interlocutore della ristrutturazione[23].
L’argomento, per quanto fotografi in maniera fedele una caratteristica dell’attuale realtà economica, si risolve – a ben vedere – in una sorta di rimando a un mero dato statistico, non sempre idoneo a essere trasfuso in una norma che, nella sua astrattezza, dovrebbe potersi attagliare a plurime fattispecie, mai perfettamente coincidenti sotto il profilo della genesi e della manifestazione della crisi e, per quanto più conta ai nostri fini, della concreta composizione del ceto creditorio. In altre parole, da ciò che si riscontra nella (pur larga) maggioranza dei casi si dovrebbe poter trarre non una legge empirica di portata generale, ma semplicemente una registrazione fenomenica di carattere statistico (e probabilistico), tanto più quando è comunque dato ravvisare significative – per quanto forse infrequenti – deviazioni dall’ipotesi-base. Si danno infatti casi in cui la proficua predisposizione di una soluzione alla crisi presuppone necessariamente la regolazione dei rapporti non solo con i finanziatori, ma anche con i fornitori; tanto più in un contesto normativo nel quale, come si è visto, l’eventuale adozione dell’automatic stay rischia di pregiudicare la regolare prosecuzione dei contratti di fornitura in misura quantomeno pari a quella dei negozi bancari.
A tale stregua, l’opzione del nostro legislatore si spiega probabilmente anzitutto con la volontà di mutuare il frutto dell’esperienza dell’ordinamento francese, laddove il tratto caratteristico della sauvegarde financière accélérée (che la distingue dalla sauvegarde accélérée) risiede precisamente nell’essere rivolta ai soli créanciers financiers de l’entreprise. Senonché l’analisi comparatistica in materia offre risultanze tutt’altro che univoche: basti pensare che, in relazione al secondo istituto espressamente citato a modello nella relazione illustrativa, non si riscontra alcuna limitazione del campo d’azione delle norme su base soggettiva, atteso che lo scheme of arrangement si rivolge indistintamente a tutti i creditori, finanziari e non[24].
Potrebbe forse obiettarsi che, implicando l’accordo di ristrutturazione ex art. 182-septies l. fall. e la convenzione di moratoria la compressione della volontà dei dissenzienti (superata da quella della maggioranza qualificata in virtù della legge e dall’intervento del giudice, a seconda dei casi preventivo e obbligatorio o successivo ed eventuale), si sia inteso riservare tale effetto, potenzialmente pregiudizievole per chi lo subisca, esclusivamente a una categoria – quella, per l’appunto, degli intermediari finanziari – che, per le proprie intrinseche qualità, sia in grado più di altre di sopportare le conseguenze dell’assoggettamento a un regime contrattuale non condiviso.
Non è inverosimile che un argomento siffatto possa aver in qualche modo influito sulla scelta del legislatore. D’altro canto, non può obliterarsi che né l’accordo di ristrutturazione ex art. 182-septies l. fall. né la convenzione di moratoria consentono alla maggioranza di disporre dei diritti della minoranza in maniera arbitraria. La volontà del dissenziente è infatti coartabile – come si dirà meglio infra (limitatamente all’istituto oggetto del presente contributo) – solo alla ricorrenza di specifici presupposti, tali da scongiurare l’attitudine del patto (e dell’estensione dei suoi effetti oltre le parti) a danneggiare in maniera irreparabile il soggetto vincolato ancorché non aderente. La novella, del resto, non ha certo inteso codificare, legittimandole, ipotetiche forme di arbitrio della maggioranza, ma – ben diversamente – ha offerto strumenti atti a superare irriducibili (e irragionevoli) ostruzionismi, che ben potrebbero ascriversi – volendo mutuare un’espressione dal lessico societario – alla categoria dell’abuso della minoranza.
In altre parole, laddove si ritenga – com’è d’uopo, anche alla luce di una lettura costituzionalmente orientata della norma – che l’estensione degli effetti dell’accordo di ristrutturazione ex art. 182-septies l. fall. e della convenzione di moratoria ai non aderenti non debbano (né possano) tradursi in un ingiusto pregiudizio a carico di costoro, viene giocoforza meno anche la necessità di circoscrivere il novero dei potenziali destinatari della diposizione agli intermediari finanziari sul presupposto che essi siano i soli muniti di una struttura idonea da sopportare senza eccessive difficoltà le conseguenza dell’assoggettamento coattivo al patto stipulato inter alios.
Non deve quindi sorprendere che l’opzione di riservare gli istituti di cui all’art. 182-septies l. fall. ai creditori finanziari che rivestano la qualità di intermediari ex artt. 13 e 106 d.lgs. n. 385/1993 sia in corso di rimeditazione, com’è dimostrato dalla circostanza che l’art. 5, 1° comma, lett. a), del disegno di legge delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza presentato l’11 marzo 2016 alla Camera dei Deputati dal Ministro della Giustizia di concerto con il Ministro dello Sviluppo Economico e basato sui lavori della Commissione presieduta da Renato Rordorf[25], preveda che si debba “estendere la procedura di cui all’art. 182-septies del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, all’accordo di ristrutturazione non liquidatorio o” – per quanto qui più interessa – “alla convenzione di moratoria conclusi con creditori, anche diversi da banche e intermediari finanziari, rappresentanti almeno il 75 per cento dei crediti di una o più categorie giuridicamente ed economicamente omogenee”.
5. L’estensione della moratoria ai creditori non aderenti (omogenei agli stipulanti) attraverso la deroga alla relatività dell’efficacia del contratto
Come si è visto, il tratto tipico della convenzione di moratoria introdotta nel 2015 risiede nella circostanza che essa – al pari dell’accordo di ristrutturazione “speciale” – consente di estendere ai non aderenti gli effetti delle intese che l’imprenditore in crisi perfezioni con i suoi principali creditori finanziari. Il quid novi dell’art. 182-septies l. fall. va quindi essenzialmente ravvisato nella previsione per cui il contratto spiega i propri effetti anche nei confronti di (alcuni) terzi; e ciò, come espressamente indicato dalla legge, in deroga agli artt. 1372 e 1411 c.c.
Nonostante sotto questo profilo il tenore letterale del primo e del quinto comma dell’art. 182-septies l. fall. sia il medesimo, la deviazione dai principi codicistici in materia contrattale non sembra atteggiarsi in maniera identica nella fattispecie dell’accordo di ristrutturazione e in quella della convenzione di moratoria.
Nel primo caso, ancorché l’istituto non sia qualificabile alla stregua di una vera e propria procedura concorsuale[26], il vincolo per il terzo non sorge in forza del mero incontro delle volontà dei paciscenti (come accade, invece, nella convenzione di moratoria), bensì in conseguenza del provvedimento giudiziale di omologazione, reso a valle di un procedimento in cui tutti i potenziali obbligati rivestono (o, comunque, possono rivestire) la qualità di parte, essendo sancito dall’art. 182-septies, 4° comma, l. fall. un preciso onere di notificazione nei loro confronti[27].
Il fenomeno non è, peraltro, del tutto nuovo: anche l’accordo di ristrutturazione “comune” è idoneo a incidere, in qualche misura, sulla sfera dei non aderenti, ai quali – in forza dell’omologazione – resta precluso l’esperimento dell’azione revocatoria[28]. A seguito della novella del 2012, inoltre, ai creditori estranei non è più assicurato, come invece in precedenza, un pagamento “regolare” (vale a dire non solo per intero, ma anche nel rispetto delle scadenze originariamente pattuite)[29], spettando loro unicamente una soddisfazione “integrale” e offerta con un (sia pur modesto) ritardo, tenuto conto dell’assoggettamento – sempre per effetto del decreto del tribunale – alla moratoria di cui all’art. 182-bis, 1° comma, l. fall.[30].
Com’è stato osservato, “la dilazione legale di centoventi giorni nel pagamento integrale dei creditori estranei […] costituisce, più che altro, un effetto, per così dire, di natura legale, derivante dalla fattispecie procedimentale disciplinata dagli artt. 182 bis ss. l. fall. e, in particolare, dall’omologazione. Non riguarda, quindi, una deroga alla generale efficacia relativa del contratto e non concerne effetti che il negozio produce nei confronti dei terzi, essendo collegata all’omologazione e non all’accordo di ristrutturazione in sé”[31]. Allo stesso modo, l’estensione degli effetti dell’accordo di ristrutturazione “speciale” in capo ai terzi si realizza non in virtù del semplice consenso degli stipulanti, ma ope judicis e all’esito dell’accertamento di una precisa serie di requisiti[32].
Da ciò non sembra però potersi inferire la superfluità della deroga alla regola della relatività dell’efficacia del negozio. Non può infatti sottacersi che, a questo proposito, esiste una importante differenza qualitativa tra l’accordo di ristrutturazione “comune” quello “speciale”. Mentre nel primo caso gli effetti prodotti dall’omologazione in capo ai terzi sono tassativamente predeterminati, perché previsti dalla legge (il blocco delle azioni cautelari ed esecutive, l’esenzione dalla revocatoria e la moratoria di centoventi giorni), nel secondo la norma disciplina soltanto il procedimento mediante il quale si ottiene l’applicazione ultra vires del negozio, senza che sia stabilito ex ante il contenuto del vincolo, di volta in volta liberamente individuato – in applicazione del principio di sussidiarietà – dall’autonomia dei paciscenti, con il solo limite di cui all’art. 182-septies, 7° comma, l. fall., il quale impedisce di imporre ai non aderenti nuove prestazioni. A tale stregua, “nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari diventa […] difficilmente predicabile l’insussistenza di un problema di efficacia del vincolo contrattuale verso i terzi, giacché, a rigore, è improprio ritenere che gli effetti prodotti dall’accordo nei confronti dei non aderenti derivino direttamente dalla previsione di legge, che attribuisce alla fattispecie procedimentale, composta dal negozio di ristrutturazione cui si aggiunge l’omologazione, il ruolo di “fonte di produzione” di quegli effetti. In altri termini, non è plausibile affermare che si tratti, anche per questi, di effetti classificabili nel novero di quelli cc.dd. legali”[33].
La deviazione dalle ordinarie regole civilistiche è a fortiori ravvisabile nella convenzione di moratoria, con riguardo alla quale sembra doversi parlare di vero e proprio contratto con efficacia estesa al terzo. Diversamente dall’accordo di ristrutturazione, infatti, essa non necessita di alcun imprimatur giudiziale perché si dia luogo all’applicazione coattiva nei confronti dei non aderenti, essendo l’intervento del tribunale subordinato all’eventuale esperimento di opposizioni [34].
In altre parole, nella moratoria l’estensione dell’efficacia del patto si produce non in virtù dell’omologazione (che la legge in questo caso non prevede), bensì in conseguenza del mero incontro delle volontà dei paciscenti, purché ricorrano alcuni ulteriori requisiti, prescritti a tutela dei terzi suscettibili di essere forzosamente vincolati, atteso che – com’è stato osservato – “la legge ha buoni motivi per delegare all’autonomia la ricerca della soluzione. Ma può avallarla solo a patto che sia garantito il contemperamento della libertà di chi aderisce all’accordo con cui si governa la crisi con quella di chi non aderisce”[35].
Anzitutto occorre che la stipulazione della convenzione sia intervenuta con la maggioranza qualificata dei destinatari del negozio (volontari e non), che va pertanto sottoscritto da tanti creditori che rappresentino almeno il settantacinque per cento dei crediti aventi analoghe caratteristiche. A questo scopo, si rende necessaria l’attestazione, da parte di un esperto in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, 3° comma, lett. d), l. fall., della corretta individuazione del perimetro degli obbligati (aderenti e non), attraverso la certificazione dell’omogeneità della loro posizione giuridica e dei loro interessi economici.
A ciò si aggiunga che tutti i soggetti nei confronti dei quali l’intesa è destinata a spiegare i propri effetti devono essere stati informati dell’avvio delle trattative. Deve altresì essere stata concessa loro, in buona fede, la possibilità di parteciparvi.
Last but not least, il creditore non aderente astretto dall’intesa può richiedere l’intervento del giudice, cui compete la potestà di esentarlo dalla sottoposizione alla moratoria quando riscontri il difetto di uno o più dei requisiti stabiliti dall’art. 182-septies, 4° comma, terzo periodo, l. fall., il quale richiede che i destinatari dell’estensione degli effetti del patto abbiano posizione giuridica e interessi economici omogenei rispetto a quelli degli aderenti; abbiano ricevuto complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore, sulla convenzione e sui suoi effetti, essendo altresì stati messi in condizione di partecipare alle trattative; nonché – soprattutto – possano risultare soddisfatti, in base al contratto, in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.
Pertanto, mentre l’accordo di ristrutturazione presenta necessariamente due fasi successive, la prima negoziale e la seconda giudiziale[36], la convenzione di moratoria è suscettibile di esaurirsi in un unico momento, esclusivamente privatistico, essendo il controllo del tribunale attivabile solo in via eventuale e su richiesta di uno dei soggetti attinti dal superamento della relatività dell’efficacia del negozio. Con ciò non si vuole negare che, anche in questo caso, la volontà delle parti necessiti di una integrazione dall’esterno, il che però avviene – significativamente – non mediante l’intervento del giudice, bensì per mezzo del contributo dell’esperto attestatore, vale a dire di un soggetto che, ancorché indipendente, pur sempre promana da una delle parti del contratto, essendo pacificamente nominato dall’imprenditore[37].
Di qui la necessità – al pari e, se possibile, in misura ancor più accentuata che nell’accordo di ristrutturazione “speciale” – della deroga agli artt. 1372 e 1411 c.c.
Per vero, lo stesso art. 1372, 2° comma, c.c., nello stabilire, in via generale, che il contratto non produce effetti nei confronti dei terzi, fa salve le ipotesi contrarie previste dalla legge, tra le quali giocoforza rientrano quelle disciplinate dall’art. 182-septies l. fall.[38].
Quanto alla deroga all’art. 1411 c.c., essa verosimilmente dipende dalla circostanza che, almeno in apparenza (e fatto salvo quanto si dirà infra), qui ci si trova al cospetto di un contratto non già schiettamente “a favore” del terzo, ma “con onere” a suo carico; onere, questo, al quale egli non può sottrarsi mediante il semplice rifiuto di voler “profittare” del negozio di cui all’art. 1411, 3° comma, c.c.[39].
La portata potenzialmente afflittiva per il non aderente dell’art. 182-septies l. fall. è stata resa oggetto di particolare enfasi da parte di alcuni dei primi commentatori, che in essa hanno ravvisato “il senso più profondo della novità: nel consentire il sacrificio dei diritti dei terzi, se e quando tale sacrificio possa condurre al superamento della crisi d’impresa, considerato quale bene preminente e da ottenere a ogni costo”[40].
A ben vedere, tuttavia, l’assunto secondo il quale la novella avrebbe coniato una sorta di contratto “a sfavore” del terzo, non sembra potersi condividere, in quanto foriero di criticità difficilmente superabili. Accedendo a tale impostazione si sarebbe infatti costretti ad ammette, in deroga ai principi comunemente accettati, che la libera volontà delle parti possa incidere sulla sfera del terzo per pregiudicarla, così attribuendo ai paciscenti il ruolo di “arbitro” del contrasto tra l’interesse “generale” al buon esito della ristrutturazione e quello “particolare” di quanti si oppongano alla soluzione – sia pur provvisoriamente – individuata dal debitore e da alcune soltanto delle sue controparti, insistendo per azionare da subito le proprie pretese creditorie. Senonché nel nostro ordinamento tale ruolo spetta, almeno di regola, al giudice. Del resto, ove davvero si ritenesse che la convenzione di moratoria consentisse alle parti di vincolare liberamente i terzi, senza alcun controllo da parte del tribunale, si finirebbe per conferire agli stipulanti il potere – di cui appare davvero arduo individuare una giustificazione – di incidere sulla sfera del terzo a proprio vantaggio e a suo danno, senz’alcuna alternativa per l’interessato.
Non si tratta, com’è evidente, solo (e tanto) di una questione di contrasto con la disciplina codicistica (di per sé superabile, atteso che anche i contratti stipulati a favore del terzo prevedono la possibilità di porre oneri a suo carico[41] e che, comunque, l’art. 182-septies l. fall., in quanto pariordinato alle regole generali sul contratto, ben può derogarvi), bensì di osservanza dei principi costituzionali: “il problema” – com’è stato efficacemente osservato – “sta tutto nel sindacare se le norme che riconnettono al contratto effetti svantaggiosi per i terzi urtino contro valori costituzionali e siano, per questa via, invalide”[42].
A dipanare tali dubbi non sembra sufficiente, in mancanza di un procedimento chiaramente improntato al formalismo assembleare, l’invocazione della regola della maggioranza[43], essendo invece necessario verificare se la nuova norma, nel derogare agli artt. 1372 e – soprattutto – 1411 c.c., abbia comunque individuato un meccanismo (alternativo alla dichiarazione di non voler “profittare” del negozio) che permetta al terzo di sottrarsi all’arbitrio dei paciscenti, subordinando la possibile compressione della sua libertà all’intervento giudice, vero “garante” del congruo contemperamento tra interesse generale e interesse particolare.
In altre parole, il fondamento della legittimità dell’istituto – anche sul piano dell’osservanza della Costituzione – sembra doversi ravvisare nel diritto, che spetta al non aderente astretto dal vincolo, di esperire l’opposizione, devolvendo al tribunale non solo la verifica sulla corretta formazione dell’accordo (con particolare riguardo all’individuazione dei destinatari del patto, al rispetto dei loro diritti di compiuta informazione e di partecipazione alla trattativa, nonché al raggiungimento della maggioranza prescritta), ma anche – e soprattutto – il vaglio del merito dell’intesa, dovendo il giudice accertare – come stabilito dall’art. 182-septies, 4° comma, lett. c), l. fall. – che i non aderenti “possano risultare soddisfatti, in base all’accordo, in misura non inferiore rispetto alle alternative praticabili”.
Al di là dell’infelice tenore letterale della disposizione – frutto della poco commendevole scelta di operare, in materia di convenzione di moratoria, il rinvio a una disposizione pensata per l’accordo di ristrutturazione “speciale” e, come tale, calata in un contesto radicalmente diverso, perché teso a individuare una soluzione definitiva (e non meramente provvisoria) della crisi[44] –, la ratio legis è chiara: consentire al tribunale, su espressa sollecitazione dell’interessato, di disporre la cancellazione degli effetti ultra vires del patto nella misura in cui essi si rivelino pregiudizievoli per chi li subisca, in quanto tesi ad assoggettarlo a un trattamento deteriore rispetto alle alternative concretamente praticabili.
6. La stipulazione della convenzione: la maggioranza qualificata e l’eventuale formazione di categorie omogenee di creditori
L’estensione degli effetti della convenzione di moratoria ai non aderenti (non la sua operatività tra gli stipulanti, salvo che essi ne condizionino tout court l’efficacia alla verificazione dei presupposti dell’assoggettamento dei terzi al vincolo negoziale)[45] è subordinata – lo si ripete – alla ricorrenza di alcuni specifici requisiti, tra i quali la sottoscrizione del patto da parte di una maggioranza qualificata, per il cui computo l’art. 182-septies, 5° comma, l. fall. rinvia al secondo comma della medesima disposizione, mutuando la regola dettata per l’accordo di ristrutturazione “speciale”.
Si rende pertanto necessario acquisire il consenso di tanti creditori cui faccia capo almeno il settantacinque per cento dell’indebitamento. La percentuale non va però calcolata sulla complessiva esposizione dell’impresa, bensì avendo esclusivo riguardo alla quota afferente agli intermediari finanziari (in logica coerenza con l’attuale limitazione del campo di operatività dell’istituto a tale tipologia di creditori) e, in particolare, a quelli tra essi che presentino le medesime caratteristiche. Si prevede infatti che il debitore enuclei una o più “categorie” di creditori finanziari, da individuarsi – in maniera non dissimile da quanto accade per le classi del concordato – sulla base dell’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici.
La lettera delle legge è perspicua nel riconnettere l’applicazione della regola della maggioranza (rafforzata) alla costruzione di un perimetro soggettivamente omogeneo, il cui minimo comune denominatore non sembra poter coincidere, sic et simpliciter, con la mera qualità di operatore finanziario. In altre parole, il coinvolgimento nella trattativa di tutte le banche non consente, di per sé solo, di vincolare l’intero ceto ove la proposta del debitore ottenga il settantacinque per cento dei consensi; è invece comunque necessaria la preventiva segmentazione degli intermediari finanziari in specifici sotto-insiemi, con la possibilità di applicazione del principio maggioritario solo all’interno di ciascuno di essi.
Da ciò discende che l’istituto non aderente ma destinatario dell’estensione forzosa può anzitutto appuntare le proprie eventuali doglianze sulla corretta formazione delle categorie, la quale costituisce uno dei principali snodi problematici della nuova disciplina[46] e che, non a caso, il legislatore ha ritenuto di far “presidiare” dall’intervento dell’attestatore.
Mentre la verifica della generale regolarità della formazione della convenzione di moratoria e la sua comparazione con le alternative concretamente praticabili è affidata solo ex post e in via eventuale al controllo del tribunale (attraverso lo strumento dell’opposizione), su uno specifico aspetto la semplice volontà dei paciscenti non è sufficiente per vincolare i terzi, abbisognando di un’integrazione dall’esterno. Si tratta, per l’appunto, del cruciale profilo dell’individuazione dei destinatari dell’accordo[47], in relazione al quale la legge sembra ritenere che soltanto l’intervento del professionista attestatore fornisca idonee garanzie circa la corretta formazione delle categorie e, di conseguenza, l’effettivo raggiungimento della prescritta soglia di adesioni, onde scongiurare pratiche fraudolente o comunque abusive[48].
La recente introduzione della norma non consente una ricognizione degli orientamenti giurisprudenziali in materia. Tuttavia, laddove – com’è probabile – i criteri di formazione delle categorie nell’accordo di ristrutturazione “speciale” e nella convenzione di moratoria si andranno definendo sulla falsariga di quelli che presiedono alla divisione in classi nel concordato preventivo[49], sembra potersi pronosticare che verranno in considerazione, oltre alla caratteristica soggettiva di banca o di intermediario autorizzato, anzitutto la forma tecnica del finanziamento (a cominciare dalla summa diviso tra operazioni a breve e a medio-lungo termine), la presenza o meno di garanzie (tanto in senso tecnico, quali sono pegni, ipoteche e gli altri privilegi speciali, quanto in senso fattuale: si pensi alla cessione dei crediti a presidio delle anticipazioni), nonché, soprattutto, il trattamento che ci si propone di riservare ai singoli componenti del ceto[50].
Quest’ultimo elemento, in particolare, potrebbe rivelarsi determinante, tanto più in un contesto in cui le categorie debbano formarsi all’interno di un insieme che già presenta alcuni caratteri di omogeneità, essendo composto esclusivamente da intermediari finanziari. Pertanto, è verosimile che le categorie finiranno per formarsi in relazione alle singole previsioni del piano (temporaneo o definitivo che sia), distinguendo, ad esempio, tra gli istituti disponibili a erogare nuova finanza (per i cui crediti pregressi l’accordo definitivo di norma prevede il soddisfacimento integrale o, comunque, secondo percentuali particolarmente elevate, mentre nella moratoria si potrebbe fare salva la regolare corresponsione degli interessi) e quelli che mirino esclusivamente al rientro (spesso colpiti da una più pesante falcidia nell’assetto finale e, in via provvisoria, dal congelamento di qualsiasi pagamento, inclusi quelli afferenti agli oneri finanziari).
Ciò induce a ritenere che quando tutte le banche e gli intermediari finanziari presentino posizioni creditorie analoghe ed esse vengano trattate nello stesso modo (ad esempio prevendendo per tutti una moratoria di eguale durata e con medesimo trattamento in relazione agli interessi che vengano a scadere nel periodo) non sia impossibile costruire una categoria unica[51]. Ciò che invece non pare ammissibile è che l’assenso di una banca alla quale sia richiesta una determinata prestazione possa contribuire a coartare il consenso dell’istituto al quale siano rivolte istanze diverse[52].
A questo proposito è stato peraltro osservato che, non avendo il legislatore – all’opposto di quanto stabilito in ambito concordatario – espressamente previsto che trattamenti differenziati possano intervenire soltanto tra soggetti che appartengano a classi diverse, vi sarebbe spazio per una eterogeneità di trattamento all’interno della stessa categoria[53], tenuto conto che, stante la natura contrattuale degli istituti disciplinati dall’art. 182-septies l. fall, l’imprenditore non è vincolato al rispetto della par condicio. Senonché, a ben vedere, l’omogeneità di trattamento tra creditori appartenente alla medesima categoria non è una conseguenza del concorso (e non viene pertanto meno una volta esclusa la natura di procedura concorsuale dell’istituto), ma è inderogabilmente – ancorché implicitamente – presupposta dall’adozione della regola della maggioranza, che può essere applicata solo nella misura in cui il quorum sia calcolato in relazione soggetti chiamati a esprimersi sulla medesima proposta negoziale. Non si vede infatti come potrebbe ritenersi approvata a maggioranza una convenzione che prevedesse, a proposito dei creditori interpellati, un trattamento più favorevole per i più e uno deteriore per la minoranza, sull’assunto che il consenso della seconda non sia comunque necessario perché coartabile grazie al meccanismo di estensione soggettiva degli effetti del patto. Del resto, la formazione delle categorie ha esattamente “la funzione di evitare che l’estensione degli effetti dell’accordo sulla banca dissenziente possa comportare il pregiudizio conseguente ad una sostanziale diversità di trattamento”[54].
Nulla vieta invece all’impresa debitrice di inserire il medesimo intermediario finanziario in categorie diverse (com’è espressamente previsto dall’art. 182-septies, 2° comma, ultimo periodo, l. fall.), in relazione – beninteso – a una pluralità di posizioni creditorie di cui esso sia titolare suscettibili di distinzione sulla base dei menzionati criteri.
7. Il diritto dei creditori di partecipare alle trattative
Il raggiungimento della maggioranza qualificata (da computarsi, come si è visto, in relazione a categorie omogenee di creditori) non è sufficiente, di per sé solo, a fondare l’estensione dell’efficacia della convenzione di moratoria ai non aderenti. Essa è infatti subordinata all’osservanza dell’ulteriore duplice requisito che l’imprenditore abbia informato dell’avvio delle trattative tutti gli intermediari finanziari potenzialmente interessati dal contratto (in quanto suscettibili di essere da esso vincolati, se del caso in via coattiva) e li abbia altresì posti in condizione di partecipare alla negoziazione “in buona fede”[55].
A tale stregua, è in primo luogo necessario notiziare tutti i contraddittori della volontà di avviare l’interlocuzione, il che di regola si compie attraverso l’invio a ciascun istituto della richiesta di convocazione del tavolo negoziale.
La circostanza che le legge faccia specifico riferimento – come si è detto – all’avvio delle trattative (non, genericamente, alla loro esistenza) sembra postulare che tutte le banche vadano coinvolte sin dalla prima fase, con la conseguenza che, laddove la comunicazione ad alcuni istituti intervenga quando l’imprenditore abbia già raggiunto un’intesa (quand’anche di massima) con i principali creditori finanziari, l’adempimento rischia di rivelarsi tardivo (pregiudicando la propalazione degli effetti del contratto ai terzi), potendo le banche interpellate solo più di recente giustamente dolersi, in sede di opposizione, di essere state escluse – se non nella forma, quantomeno nella sostanza – dalla concreta formazione dell’intesa.
Del resto, la mera comunicazione, ancorché tempestivamente effettuata, non è sufficiente per conseguire la deroga all’efficacia relativa della convenzione. Occorre altresì che l’imprenditore metta tutti gli intermediari in condizione di partecipare alla trattativa e che ciò avvenga “in buona fede”. Ancorché il tenore letterale della norma non si riveli del tutto perspicuo (atteso che la costruzione lessicale sembrerebbe riferire la buona fede non al debitore, bensì – incongruamente – ai creditori), deve ritenersi che la disposizione imponga all’imprenditore di offrire a tutti gli interlocutori l’occasione di prendere parte attivamente alla negoziazione, il che postula che tutti siano invitati ai medesimi incontri (come si è visto, sin dalla prima fase dei contatti) e che vengano resi destinatari delle informazioni relative alla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore, nonché del contenuto delle soluzioni dallo stesso elaborate in funzione del superamento della crisi[56].
L’imprenditore è quindi tenuto a interloquire lealmente con tutte le banche, mentre spetta ai singoli intermediari finanziari stabilire, con piena discrezionalità, se cogliere l’opportunità di dedicarsi in prima persona alla negoziazione (dedicando alla stessa le necessarie risorse) o, al contrario, astenersi dal parteciparvi, con ciò di fatto “delegando” alla maggioranza la potestà di individuare l’assetto normativo destinato a vincolare l’intero ceto; senza che, in tale secondo caso, il rifiuto di trattare pregiudichi in alcun modo il peculiare dispiegamento degli effetti previsto dall’art. 182-septies l. fall.
In questa luce, l’imprenditore, dopo aver tentato – lo si ripete: in buona fede e non soltanto in via meramente formale – di coinvolgere tutti gli istituti nella negoziazione, può legittimamente disinteressarsi di quanti si rifiutino di parteciparvi (a condizione, naturalmente, che l’interlocuzione proceda con la maggioranza qualificata delle banche), essendo unicamente onerato, una volta che la convenzione di moratoria sia stata sottoscritta, di trasmetterla a ciascun soggetto non aderente, unitamente alla relazione dell’esperto attestatore, mediante lettera raccomandata o a mezzo di posta elettronica certificata.
L’assolvimento all’onere di comunicazione è particolarmente importante perché solo dal momento della ricezione della predetta documentazione si produce l’effetto estensivo dell’efficacia del contratto nei confronti dei destinatari[57] e inizia altresì a decorrere il termine di trenta giorni per l’esperimento dell’opposizione.
8. L’oggetto del sindacato del tribunale investito dell’opposizione
Come si è visto, la convenzione di moratoria spiega i propri effetti sui creditori finanziari non aderenti (ma omogenei, per posizione giuridica e interesse economico, alla maggioranza qualificata assenziente) a far data dal momento in cui siano stati loro trasmessi il patto e la relazione dell’esperto attestatore. Tanto basta perché il vincolo negoziale si perfezioni anche nei loro confronti, non essendo prevista l’omologazione: in questa fattispecie, infatti, l’intervento del tribunale resta subordinato – lo si è già detto – all’esperimento dell’opposizione, la cui proposizione (da effettuarsi nei trenta giorni dalla predetta comunicazione) è finalizzata alla rimozione dell’obbligazione già sorta in capo al terzo.
Il collegio accoglie le doglianze dell’instante nella misura in cui accerti l’insussistenza delle condizioni di cui all’art. 182-septies, 4° comma, terzo periodo, l. fall., vale a dire dei medesimi presupposti cui è subordinata l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione “speciale”. In altre parole, il collegio è chiamato a verificare non solo l’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici dei soggetti coinvolti nella moratoria (potendo disporre, sul punto, dell’elaborato dell’esperto attestatore)[58], la completezza delle informazioni a essi fornite (anche in relazione alla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa) e il raggiungimento della prescritta maggioranza qualificata, ma altresì che i non aderenti “possano risultare soddisfatti, in base all’accordo, in misura non inferiore rispetto alle alternative praticabili”.
Si è già avuto modo di osservare che, in relazione a quest’ultimo profilo, la tecnica legislativa del rinvio non si è rivelata felice: il riferimento al soddisfacimento, invero, è pienamente coerente con il contesto dell’accordo di ristrutturazione (che, mirando a individuare una soluzione definitiva alla crisi, deve farsi giocoforza carico delle modalità e dei tempi di estinzione delle pretese dei creditori), mentre si rivela incongruo – almeno se inteso in senso rigorosamente letterale – al cospetto di una convenzione di moratoria, la quale per definizione esclude pagamenti, ancorché in via temporanea e al solo fine di permettere all’imprenditore di elaborare un piano idoneo a conseguire il risanamento e quindi, di regola, a offrire ai creditori, in prospettiva, un trattamento verosimilmente migliore di quello conseguibile hic et nunc.
Onde scongiurare una lettura di fatto abrogante della disposizione, quando non dell’intero istituto (quale sarebbe quella che, tenendo fermo il rinvio all’art. 182-septies, 4° comma, lett. c), l. fall. e osservandone rigorosamente la lettera, ritenesse possibile la disapplicazione della moratoria sol che il creditore opponente rivendicasse il diritto a un qualsiasi pagamento immediato per il quale vi fosse una pur minima capienza del patrimonio del debitore)[59], si rende necessario adottare una interpretazione in chiave logico-sistematica, la quale tenga conto, da un lato, dell’impossibilità – anche per le già esaminate ragioni di rispetto del dettato costituzionale – di allocare ingiusti sacrifici sul creditore non aderente; dall’altro, che l’imposizione sul terzo di un (temporaneo) onere non è vietata quando essa sia compensata da un (successivo e stabile) beneficio, il medesimo – a ben vedere – cui mirano i creditori che abbiano sottoscritto il patto[60]. Essi, infatti, tollerano la momentanea compressione dei propri diritti (acconsentendo ad astenersi dall’azionarli per un determinato lasso di tempo), non già per spirito di liberalità verso il debitore, bensì solo in virtù della ragionevole aspettativa di poter fruire, a valle dell’elaborazione del piano da parte del debitore e della negoziazione dell’accordo definitivo, di un trattamento migliore[61].
Ciò significa che, nell’eventualità di esperimento dell’opposizione, il tribunale deve verificare se l’instante soffra una menomazione tout court alle proprie ragioni di credito, senza alcuna ragionevole e concreta prospettiva di beneficio, o se, al contrario, anch’egli possa godere, al pari degli aderenti, dei vantaggi della ristrutturazione, sia pure nei tempi necessari per realizzarla e sempre avendo riguardo non a ipotesi astratte, ma alla specifica fattispecie. Nel primo caso la richiesta del dissenziente dev’essere accolta, con conseguente sua liberazione dal vincolo negoziale; nel secondo, invece, l’opposizione va respinta e resta pertanto confermata l’ultrattività della convenzione di moratoria.
Non ci si può tuttavia nascondere che una comparazione strettamente quantitativa tra ipotesi alternative di soddisfacimento in un orizzonte di medio-lungo periodo non sembra agevolmente praticabile, atteso che la convenzione di moratoria si stipula all’inizio della trattativa, quando il piano è ancora in corso di elaborazione (o, comunque, sono note soltanto le sue linee guida) e la vera soluzione della crisi deve essere ancora individuata e negoziata[62].
Il raffronto va pertanto condotto non solo (e non tanto) sul piano quantitativo, ma anzitutto su quello qualitativo. Il punto non è se sussistano – come di norma accade – alternative concretamente praticabili idonee a consentire al non aderente un qualche soddisfacimento immediato, benché ciò innegabilmente rappresenti un quid pluris rispetto al congelamento dei pagamenti imposto dal pactum de non petendo. Occorre piuttosto accertare se la moratoria, pur imponendo un (interinale) sacrificio, sia idonea, in prospettiva, a procurare al creditore opponente un vantaggio non solo sotto il profilo del quantum (né, tantomeno, del quando, per definizione differito) del pagamento, ma essenzialmente con riguardo alla sua legittimità e stabilità, alla luce dei rischi, anche di carattere revocatorio, cui andrebbe incontro il soggetto soddisfatto (in tutto o in parte) a pronti ove, a causa dell’insostenibilità dell’esborso da parte dell’impresa, tale versamento contribuisse a determinare l’irreversibile deterioramento della crisi in vera e propria insolvenza, aprendo la strada alla dichiarazione di fallimento.
In altre parole, ogniqualvolta l’imprenditore riesca a dimostrare che la convenzione di moratoria costituisce – si badi: non in astratto, ma avendo riguardo agli scenari concretamente realizzabili (e la concretezza dell’analisi non può prescindere dalla posizione assunta dalla maggioranza dei creditori finanziari) – l’unico rimedio davvero idoneo a evitare il repentino aggravamento della crisi, scongiurando l’apertura di una procedura concorsuale dalla quale deriverebbero effetti nefasti per la regolare continuazione dell’attività dell’impresa e, di conseguenza, per il livello di soddisfacimento dei creditori, oltre che riflessi parimenti negativi sulla prospettica stabilità dei pagamenti effettuati nell’immediato, la convenzione di moratoria non può ritenersi davvero pregiudizievole per il terzo, il cui dissenso può pertanto essere legittimamente superato dalla decisione della maggioranza, idonea a realizzare un assetto di interessi capace di avvantaggiare tutti i soggetti coinvolti, incluso il creditore dissenziente ed eventualmente opponente.
Per quanto concerne i profili procedurali, l’art. 182-septies, 6° comma, l. fall. si limita a stabilire che l’opposizione va proposta nel termine decadenziale di trenta giorni dalla (ricezione della) trasmissione della convenzione di moratoria e della relazione dell’esperto attestatore e che il tribunale decide con decreto motivato, contro il quale è esperibile reclamo dinanzi alla corte d’appello ai sensi dell’art. 183 l. fall. entro quindici giorni dalla comunicazione del provvedimento. Nella misura in cui la pronuncia di seconde cure sia idonea a incidere su diritti soggettivi, essa va incontro a ricorso per Cassazione[63].
Il riferimento al decreto e il rimando all’art. 183 l. fall. sembrano postulare che l’opposizione sia governata dal rito camerale di cui agli artt. 737 ss. c.p.c., sulla falsariga di quanto stabilito dall’art. 182-bis l. fall., il quale fa però espresso riferimento, al terzo comma, a una decisione da assumersi in camera di consiglio[64].
Manca, invece, qualsiasi indicazione sulla competenza. Laddove si ritenesse di poter fare applicazione delle regole generali, verrebbero in considerazione, ex artt. 18 e 19 c.p.c., i fori della residenza, del domicilio e della sede di ciascuna delle parti da evocare in giudizio (oltre al debitore, ragionevolmente, tutti i sottoscrittori della convenzione), nonché quelli alternativi previsti dall’art. 20 c.p.c. in materia di obbligazioni, vale a dire il foro del luogo ove esse siano sorte o dove si debbano eseguire[65].
D’altro canto, l’adesione a questa tesi comporterebbe l’oggettivo inconveniente che sul medesimo patto potrebbero essere chiamati a pronunciarsi, pressoché contemporaneamente, giudici diversi. È ben vero che tale circostanza non sarebbe foriera del rischio di un vero e proprio contrasto di giudicati (atteso che la convenzione potrebbe senz’altro essere disapplicata in relazione ad alcuni soltanto degli opponenti), ma non può negarsi il vantaggio che deriverebbe dall’individuazione di un unico foro (anche sotto il profilo dell’economia processuale, tenuto conto della possibilità di dar corso alla riunione dei diversi ricorsi), in conformità, del resto, allo schema adottato con riguardo alle ipotesi – sia pur non sovrapponibili alla fattispecie in esame – di opposizione dei creditori alle operazioni societarie straordinarie.
In questa prospettiva, non può obliterarsi che l’assenza di esplicite disposizioni sulla competenza non costituisce una peculiarità della disciplina della convenzione di moratoria, ma si riscontra altresì nell’accordo di ristrutturazione “speciale” e in quello “comune”: tanto l’art. 182-bis l. fall. quanto l’art. 182-septies l. fall., invero, fanno in più occasioni generico riferimento al tribunale, senza stabilire alcunché circa il foro. Ciò nondimeno è sostanzialmente pacifico che il ricorso per l’omologazione vada depositato presso il giudice nel cui circondario sia situata la sede principale dell’impresa[66]. Se dunque questo è il foro (implicitamente) individuato dalle norme in questione, non è forse impossibile affermare che la medesima impostazione debba valere anche per il giudizio di opposizione alla convenzione di moratoria, con conseguente devoluzione della sua cognizione – per l’appunto – al tribunale della sede principale del debitore.
La legge tace altresì a proposito dell’eventuale idoneità dell’opposizione a sospendere la moratoria sino all’esito della decisione. Il silenzio serbato al riguardo sembra condurre a escludere che l’esperimento del predetto rimedio determini l’automatica sospensione dell’efficacia della convenzione nei confronti del non aderente, mentre non si ravvisano elementi ostativi a che l’opponente chieda al giudice l’adozione di tale misura in via cautelare[67].
9. Il contenuto della moratoria: il carattere necessariamente provvisorio della pattuizione e il divieto di imporre ai non aderenti l’esecuzione di nuove prestazioni
Si è visto che la convenzione di moratoria “innominata” risponde a una pluralità di esigenze. Essa racchiude la disciplina, da applicarsi fino al superamento della situazione di difficoltà dell’impresa, tanto dei rapporti tra il debitore e i propri creditori, quanto di quelli tra i creditori stessi, agendo, di norma, su due fronti: per un verso, sul congelamento dell’indebitamento; per l’altro, sull’accesso al credito. Si è altresì messo in luce che, con l’introduzione dell’art. 182-septies l. fall., il legislatore sembra avere inteso favorire la stipulazione di questa tipologia di intese, attribuendo a esse, a determinate condizioni, l’attitudine a vincolare i terzi non aderenti, onde scongiurare che il loro rifiuto di sottoscrivere il contratto possa impedire, di fatto, l’adozione dell’assetto in concreto più idoneo a propiziare l’emersione della migliore soluzione alla crisi, atteso che esso tendenzialmente postula la piena compattezza del ceto bancario.
Non può peraltro sottacersi che, mentre il contenuto dei menzionati accordi temporanei atipici è integralmente rimesso alla volontà delle parti (nella cui sfera soggettiva essi esauriscono la propria efficacia), la convenzione di moratoria nominata pone due distinti limiti all’autonomia privata (e, in particolare, alla sua capacità di obbligare i terzi): il primo va ravvisato nel carattere necessariamente provvisorio della configurazione dei rapporti che venga enucleata, mentre il secondo – valido anche con riguardo all’accordo di ristrutturazione “speciale” – discende dal divieto di porre a carico dei non aderenti nuove prestazioni.
La circostanza che la legge individui la funzione della convenzione di moratoria nella disciplina “in via provvisoria” degli effetti della crisi impedisce di avvalersi dell’istituto – particolarmente favorevole, nella misura in cui prevede che l’intervento del tribunale sia non solo successivo, ma anche meramente eventuale – per addivenire alla creazione del definitivo assetto dei rapporti tra il debitore e i suoi creditori. Di qui la necessità che la moratoria abbia un termine, la cui concreta fissazione compete alle parti. Non vi è, quindi, una durata massima predeterminata dalla legge, fermo restando che una scadenza manifestamente sproporzionata consentirebbe al dissenziente di esperire vittoriosamente l’opposizione, la quale costituisce altresì il rimedio acconcio per il caso in cui il non aderente rischi di subire, per effetto della moratoria, un danno irreparabile, in quanto l’osservanza del negozio sia idonea a provocare la maturazione di decadenze[68].
Per chiarezza, conviene precisare che la provvisorietà della pattuizione non si traduce nel divieto di prevedere pagamenti a carico del debitore; anzi, la convenzione può senz’altro contemplarli (come quando si stabilisca che l’imprenditore, ottenuto il “blocco” della quota di capitale, debba continuare a corrispondere regolarmente gli interessi), a condizione, però, che essi non esauriscano, in prospettiva, la misura del soddisfacimento dei creditori astretti dall’intesa. Diversamente opinando, infatti, si trasformerebbe uno strumento dichiaratamente interinale in un istituto con finalità diverse, pur sempre lecito ma – in ragione del suo carattere di definitività – assoggettato a un diverso regime. Ne deriva, ad esempio, che il contratto che preveda il congelamento dei pagamenti originariamente pattuiti e la contemporanea fissazione di nuovi termini di versamento, secondo un piano di ammortamento idoneo a estinguere l’indebitamento verso i paciscenti, non può essere incardinato – allo scopo di coartare il consenso dei dissenzienti – in una convenzione di moratoria, dovendosi piuttosto optare per l’accordo di ristrutturazione “speciale”.
Il secondo dei menzionati limiti incide sulla regolamentazione dell’accesso al credito, il cui inserimento nella convenzione tipica di moratoria contrasta – per l’appunto – con il divieto di cui all’art. 182-septies, 7° comma, l. fall., il quale stabilisce testualmente che “in nessun caso […] ai creditori non aderenti possono essere imposti l’esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti o l’erogazione di nuovi finanziamenti”, con la precisazione che “non è considerata nuova prestazione la concessione del godimento di beni oggetto di contratti di locazione finanziaria già stipulati”.
La norma è perspicua: le nuove prestazioni – riconducibili, lato sensu, all’erogazione di nuovo credito – non possono essere imposte, ma sono rimesse alla libera volontà degli interessati, senza possibilità di deroga, sul punto, alla relatività degli effetti del contratto[69].
È evidente che questa preclusione non agevola il concreto conseguimento del risanamento, atteso che – come insegna l’esperienza – il profilo più complesso della prima fase della trattativa con i creditori finanziari è precisamente quello relativo all’an, al quantum e al quomodo dell’accesso al credito dell’impresa nel corso della negoziazione, sicché è su questo punto che di norma il debitore incontra le maggiori difficoltà nel raggiungere l’unanime consenso dei propri interlocutori. D’altro canto, l’imposizione coattiva sul dissenziente di nuove prestazioni individuate dalle parti (sia pure con l’osservanza di alcune cautele) avrebbe probabilmente rischiato di sollevare dubbi di compatibilità con i principi costituzionali non agevolmente superabili.
Del resto, neppure nel concordato preventivo – ove il ruolo del tribunale è ben più incisivo – è consentito far sorgere nuove obbligazioni in capo ai creditori (o a una classe di essi) in forza della mera approvazione (a maggioranza) e della successiva omologazione, tanto che i piani che prevedono l’erogazione di nuova finanza (o, comunque, l’impegno delle banche a mantenere ferme e non revocare le linee di credito già concesse) devono necessariamente essere da separate intese para-concordatarie con i finanziatori, le quali vincolano esclusivamente gli aderenti.
Il divieto di derogare alla relatività degli effetti del contratti vale per tutte le prestazioni: non solo per l’erogazione di vera e propria nuova finanza, ma anche per il mantenimento delle facilitazioni creditizie esistenti (perché già accordate). Pertanto, il dissenziente, fermo l’obbligo di dare regolare esecuzione ai contratti in essere con l’impresa (e, quindi, nella misura in cui essi lo permettano), può liberamente sottrarsi alla prosecuzione del sostegno finanziario al debitore, che non gli può essere in alcun modo imposto dalle banche che siano addivenute a un accordo con il sovvenuto.
Non può peraltro sottacersi che, nel tentativo di incrementare il tasso di effettività della moratoria, si è prospettato che, “se si vuole leggere la disposizione in modo da renderla efficiente, l’espressione per cui non si può imporre “il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti”, va inteso in modo restrittivo. La banca non è obbligata a garantire al cliente di potersi approvvigionare sull’affidamento esistente ma non utilizzato, perché questo si tradurrebbe in un surrettizio nuovo impegno finanziario; tuttavia nei limiti dell’affidamento utilizzato la banca non aderente è vincolata dalla convenzione e deve consentire il normale smobilizzo e il simmetrico riutilizzo”[70]. Questa interpretazione, ancorché ispirata dal commendevole intento di individuare un punto di equilibrio tra opposti interessi, sconta però la propria difficile conciliabilità con il testo dell’art. 182-septies, 7° comma, l. fall., il quale è chiaro nell’includere nel perimetro del divieto “il mantenimento della possibilità di utilizzare gli affidamenti esistenti”.
Di qui la conclusione che il creditore non aderente è libero di revocare le linee in essere (sempre che la disciplina dei rapporti con l’imprenditore lo consenta), di cui la convenzione di moratoria (al pari dell’accordo di ristrutturazione dei debiti “speciale”) è inidonea a preservare la stabilità, mentre permette di impedire al dissenziente di ottenere l’immediato rimborso dei propri crediti, inclusi quelli che dovessero diventare immediatamente esigibili per effetto della predetta revoca.
L’unica eccezione è costituita – per espressa indicazione della legge – dai contratti di locazione finanziaria, con riguardo ai quali l’imprenditore sembra poter continuare a godere del bene nonostante il congelamento dei canoni.
* Il presente contributo è destinato al volume collettaneo Fallimento e soluzioni negoziate della crisi dopo la riforma del 2015, curato da Ambrosini per i tipi di Zanichelli.
[1] La relazione illustrativa al disegno di legge di conversione, nel menzionare espressamente gli istituti indicati nel testo, afferma che le nuove norme “traducono queste esperienze internazionali adattandole alle esigenze e caratteristiche della realtà e dell’ordinamento italiano”. Cfr., sul punto, Ambrosini, Il nuovo diritto della crisi d’impresa: l. 132/15 e prossima riforma organica. Disciplina, problemi, materiali, Bologna, 2016, 125.
[2] Sul nuovo art. 182-septies l. fall. v. Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e la convenzione di moratoria: deroga al principio di relatività del contratto ed effetti sui creditori estranei, in Dir. fall., 2015, I, 517 ss.; Lamanna, La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: un primo commento. Parte IV: le nuove figure dell’“accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari” e della “convenzione di moratoria”, in IlFallimentarista.it, 2015; Varotti, Articolo 182 septies. Accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria (Appunti veloci sulla riforma 2015 della legge fallimentare – II parte), in IlCaso.it, 2015; Nisivoccia, Il nuovo art. 182 septies l. fall.: quando e fin dove la legge può derogare a se stessa?, in Fallimento, 2015, 1181 ss.; Appio, Prime riflessioni in tema di accordi di ristrutturazione del debito ex art. 182-septies fra ragioni creditorie e principio consensualistico, in IlCaso.it, 2015; Vattermoli, Accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria, in GiustiziaCivile.com, 2015; Ranalli, Speciale decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie n. 83/2015: gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari, in IlFallimentarista, 2015.
[3] Non più escludersi che la convenzione di moratoria preceda la stipulazione di un accordo di ristrutturazione con gli intermediari finanziari, essendo anzi la prima astrattamente idonea a propiziare la negoziazione e il perfezionamento del secondo, come – del resto – il varo di un piano attestato di risanamento.
[4] Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e la convenzione di moratoria: deroga al principio di relatività del contratto ed effetti sui creditori estranei, cit., 527, osserva che, diversamente dall’accordo di ristrutturazione, la convenzione di moratoria non assolve all’obiettivo di “consentire al debitore di soddisfare i creditori aderenti nelle forme e modalità negoziate e i creditori estranei integralmente […], in quanto non contiene misure concordate volte alla ristrutturazione del debito, ma, piuttosto, è diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi attraverso una moratoria appunto temporanea dei crediti nei confronti di una o più banche”.
[5] Com’è stato rilevato, “il potere di autoregolamentazione attribuito ai privati nelle materie in cui si esprime la loro competenza originaria e primaria in forza del principio di sussidiarietà formalizzato nell’art. 118, comma 4, Cost. è […] potere di dettar regole che, riguardando interessi a livello generale, sono produttive di effetti nei confronti di tutti i portatori di quegli interessi, anche se non hanno partecipato alla costruzione di quelle regole”, dovendosi distinguere il “diverso operare tra autonomia contrattuale produttiva di effetti solo tra le parti e autonomia “normativa” produttiva di effetti anche per i terzi proprio in virtù del principio di sussidiarietà” (così Carleo, La sussidiarietà nel linguaggio dei giuristi, in Nuzzo (a cura di), Il principio di sussidiarietà nel diritto privato, I, Torino, 2014, 10).
[6] Fabiani, Gli accordi di moratoria del debito nei processi di regolazione della crisi, in Fallimento, 2014, 967.
[7] Falcone, La nuova disciplina delle “convenzioni di moratoria” e l’intervento del professionista attestatore, in Dir. fall., 2015, I, 564, osserva che la convenzione di moratoria può considerarsi un istituto nuovo “solo nel senso che a partire dalla riforma del 2015 l’accordo di moratoria è anche una categoria normativa, sebbene di fatto il fenomeno regolamentato – per più versi riconducibile alla tecnica negoziale dei cosiddetti accordi di “stand-still” – sia già largamente corrente nella prassi”.
[8] Per un’ampia e approfondita disamina della fattispecie v. Fabiani, Gli accordi di moratoria del debito nei processi di regolazione della crisi, cit., 965 ss., cui sia consentito aggiungere Aiello, L’accordo di risanamento fondato sul piano attestato: la fattispecie e le prassi negoziali, in Dir. fall., 2014, I, 321 ss.
[9] Pastore-Jeantet-Basso-Varoli, La ristrutturazione. Linee guida e strumenti di composizione delle crisi d’impresa, Milano, 2015, 127, rilevano che, attraverso le convenzioni interinali di moratoria, l’imprenditore mira a ottenere dalle banche “la permanenza dello status quo per un periodo definito”, sicché “l’accordo di standstill dovrà prevedere l’impegno delle banche a non intraprendere azioni di qualsiasi tipo finalizzate al recupero dei propri crediti, oltre a non richiedere il pagamento di qualsiasi importo dovuto, anche se già scaduto”.
[10] Così Fabiani, Gli accordi di moratoria del debito nei processi di regolazione della crisi, cit., 969.
[11] In materia si rinvia a Viscusi, Profili di responsabilità della banca nella concessione del credito, Milano, 2004. Con particolare riferimento al mantenimento delle linee di credito nell’ambito degli accordi di moratoria, Pastore-Jeantet-Basso-Varoli, La ristrutturazione. Linee guida e strumenti di composizione delle crisi d’impresa, cit., 128-129, nel constatare che lo “standstill può avere un duplice oggetto, non necessariamente congiunto, vale a dire un semplice pactum de non petendo oppure anche, e di solito insieme, la messa a disposizione di linee di credito”, sottolineano che “questo secondo possibile contenuto impone, da parte dei creditori finanziari, un’attenta valutazione, che veda bilanciata la necessità di future contestazioni per concessione abusiva del credito e l’opportunità di mantenere in vita l’azienda, giacché la sua perdurante attività costituisce lo strumento di ripagamento del debito. Di qui, l’accorgimento normalmente impiegato di accompagnare l’accordo di moratoria che preveda la messa a disposizione parziale di linee con una serie di documenti (cash flow previsionali, certificati che attestino l’assenza di procedure esecutive e concorsuali, comfort letter dell’organo di controllo o di revisione) tali da consentire d’affermare e, simultaneamente, dichiarare che l’impresa, per effetto dell’accordo di moratoria, si trova in una situazione di continuità aziendale, non dovendo dunque essere posta in liquidazione o, peggio, accedere a una procedura concorsuale”.
[12] Fabiani, Gli accordi di moratoria del debito nei processi di regolazione della crisi, cit., 970, osserva che “spesso accade che la conservazione delle linee sia discussa e cioè se debba essere considerata, ad una certa data di riferimento, come credito affidato o come credito utilizzato. Vi è, infatti, una certa propensione degli istituti di credito a ritenere che lo standstill si applichi nei soli limiti di quanto utilizzato alla data di riferimento, mentre l’eccedenza fra affidato ed utilizzato debba essere qualificata come nuova finanza e, dunque, da assoggettare ad un diverso regime quanto a sua erogazione. In tal caso gli istituti possono stabilire di (i) concedere una nuova linea ripartita proporzionalmente (fra le banche) sulla base degli utilizzi alla data di riferimento; ovvero (ii) consentire un maggior utilizzo delle linee già accordate ma limitatamente ad un add-on che salvaguardi la proporzionalità”.
[13] Fabiani, Gli accordi di moratoria del debito nei processi di regolazione della crisi, cit., 969, mette in luce che “l’interesse maggiore è quello di regolare i rapporti fra i creditori; sono, cioè, le banche che dall’accordo di moratoria cercano di conseguire l’effetto di congelare le posizioni reciproche, in modo che nessuno, magari sfruttando delle asimmetrie informative, tenti di avvantaggiarsi rispetto agli altri creditori”.
[14] Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall.: natura, profili funzionali e limiti dell’opposizione degli estranei e dei terzi, in IlCaso.it, 2011, 27, rileva che “il carattere della documentazione complessivamente richiesta ed il tenore delle dichiarazioni portano a ritenere che la proposta, che viene depositata dal debitore, deve essere quella definitiva sulla quale viene richiesta la adesione dei creditori e che, una volta accettata dai creditori che rappresentano almeno il sessanta per cento dei crediti, costituirà l’accordo definitivo, il quale sarà depositato e sottoposto all’esame del tribunale per l’omologa”.
[15] Cfr., tra gli altri, Rolfi, La generale intensificazione dell’automatic stay, in IlFallimentarista.it, 2012, 5.
[16] V., per tutti, Ambrosini, Il concordato preventivo, in Aa.Vv., Le altre procedure concorsuali, in Vassalli-Luiso-Gabrielli (diretto da), Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, IV, Torino, 2014, 70 ss.
[17] Cfr. Ambrosini, Il concordato preventivo, cit., 279 ss.
[18] Così Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, in Fallimento, 2015, 1270.
[19] La difficoltà di raggiungere il consenso unanime degli interlocutori e le sue possibili implicazioni negative sono oggetto di un ampio passaggio della relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del d.l. n. 83/2015, nella quale si legge che il “successo o insuccesso di queste operazioni non sono solo decretati dalle regole del mercato e del vantaggio economico: non sono pochi i casi in cui la maggioranza (spesso la larga maggioranza) delle banche creditrici concorda con le proposte dell'impresa, ma alcune di esse, solitamente quelle che vantano crediti di importo minore, si dichiarano contrarie, impedendo così il successo dell’operazione. I risultati possono essere di due ordini, entrambi subottimali per l’economia, oltre che per i principali soggetti coinvolti:
a) in taluni casi, le banche aderenti si sobbarcano l’onere di soddisfare integralmente le altre (si apre dunque un problema di free-riding che, se si verifica in un numero importante di casi, ha anche come effetto indotto sul sistema economico la lievitazione dei rischi e del costo del credito);
b) in altri casi, quando i costi sono tali da non poter essere sostenuti solo da una parte delle banche, si apre una fase di gestione della crisi proceduralizzata, nella migliore delle ipotesi un concordato preventivo. Forma di gestione che, seppur resa più efficiente dalle recenti modifiche normative, comunque comporta, rispetto alla soluzione stragiudiziale, costi diretti e indiretti più elevati. Una serie di rigidità si aprono, infatti, nella gestione dei rapporti commerciali necessari all’attività economica dell’impresa e indispensabili al superamento della crisi (si pensi alla difficoltà di continuare le relazioni con i fornitori e i clienti). E ciò che rende più incerto il successo dell’operazione di risanamento o più lento e costoso il suo percorso si traduce in termini di costi per l’economia in un aumento dei rischi e dei costi della concessione del credito”.
[20] Così Follieri, Accordi di ristrutturazione dei debiti ed efficacia giuridica, in Contratti, 2015, 1171.
[21] Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1272, rileva che “l’efficacia dell’accordo secondo il modello legale impone che una delle parti sia il debitore il che significa che un accordo “interno” fra creditori finanziari non può produrre gli effetti di cui all’art. 182-septies l. fall.”.
[22] Per il solo accordo di ristrutturazione “speciale” l’art. 182-septies, 1° comma, l. fall. prevede una limitazione ulteriore, di carattere oggettivo: il nuovo istituto è infatti riservato alle imprese che presentino debiti verso banche e intermediari finanziari in misura non inferiore alla metà dell’indebitamento complessivo. Tale prescrizione non è stata riproposta nell’ambito della convenzione di moratoria, che pertanto – almeno in astratto – potrà essere impiegata, sempre nei soli confronti dei creditori finanziari, indipendentemente dall’incidenza della loro pretese sull’ammontare complessivo dell’indebitamento dell’impresa (cfr. Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1272; contra Quattrocchio, L’accordo di ristrutturazione dei debiti e la convenzione di moratoria: la disciplina, in Ildirittodegliaffari.it, 2015, 1).
[23] Nella relazione illustrativa si legge che l’art. 182-septies l. fall. “mira a consentite una gestione più attiva dei crediti di intermediari finanziari verso imprese in difficoltà, in quanto i loro crediti possono essere meglio valorizzati mediante un processo di ristrutturazione in una fase anticipata della crisi, quando l’impresa è ancora dotata di larga parte del suo valore, condotta con la partecipazione dei creditori più attivi. Esistono infatti casi in cui l’impresa può rapidamente ristrutturarsi, uscendo da una situazione di tensione finanziaria, con il solo intervento dei creditori finanziari. Per tale ragione, sono frequenti nella pratica operazioni volte a tentare il salvataggio nelle quali il debitore non si interfaccia con la generalità dei creditori, ma soltanto con le banche”.
[24] Iodice, Scheme of arrangement tra Raccomandazione della Commissione e riforma del regolamento sulle procedure di insolvenza, in Fallimento, 2015, 1094, nota 6, rileva che “non c’è definizione di legge di “creditore” ai fini della disciplina degli scheme of arrangement ed è stata la giurisprudenza ad avere contribuito a identificare tali soggetti. Si tratta in genere di chiunque abbia una pretesa economica verso la società che, una volta divenuta esigibile, costituisca un debito per quest’ultima. Dunque non solo (a) creditori esistenti ma anche (b) creditori futuri (ma che siano tali in forza di un’obbligazione esistente) e (c) creditori condizionali (purché tali creditori “esistano” alla data del decreto di convocazione dell’adunanza). Gli scheme sono stati ad esempio usati anche in relazione a pretese risarcitorie non ancora avanzate da dipendenti esposti ad amianto nei luoghi di lavoro ma che si sarebbero potute materializzare in futuro”.
[25] Per i primi commenti al disegno di legge delega v. Ambrosini, Il nuovo diritto della crisi d’impresa: l. 132/15 e prossima riforma organica. Disciplina, problemi, materiali, cit., 139 ss.; Fabiani, Di un ordinato ma timido disegno di legge delega sulla crisi d’impresa, in Fallimento, 2016, 261 ss.
[26] L’assunto della natura non concorsuale degli accordi di ristrutturazione, largamente prevalente in relazione a quelli “comuni” (cfr., tra i molti, Ambrosini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella nuova legge fallimentare: prime riflessioni, in Fallimento, 2005, 949; Id., Accordi di ristrutturazione dei debiti e finanziamenti alle imprese in crisi. Dalla “miniriforma” del 2005 alla l. 7 agosto 2012, n. 134, Bologna, 2012, 107 ss.; Fabiani, Il regolare pagamento dei creditori estranei negli accordi di ristrutturazione di cui all’art. 182-bis, in Foro it., 2006, I, 2564; Id., L’ulteriore up-grade degli accordi di ristrutturazione e l’incentivo ai finanziamenti nelle soluzioni concordate, in Fallimento, 2010, 901-902; Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti “di salvataggio” (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), in Dir. fall., 2008, I, 364; Castiello D’Antonio, Riflessi disciplinari degli accordi di ristrutturazione e dei piani attestati, ivi, 2008, I, 609; Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall.: natura, profili funzionali e limiti dell’opposizione degli estranei e dei terzi, cit., 1 ss.; Nigro, La disciplina delle crisi patrimoniali delle imprese, Torino, 2012, 75; Appio, Gli accordi di ristrutturazione del debito, Milano, 2012, 9 ss.; Onorato, La natura degli accordi di ristrutturazione, in Nuzzo (a cura di), Il principio di sussidiarietà nel diritto privato, II, Torino, 2014, 491 ss.; contra Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Un nuovo procedimento concorsuale, Padova, 2009, 81; Id., Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Aa.Vv., Le altre procedure concorsuali, in Vassalli-Luiso-Gabrielli (diretto da), Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, IV, Torino, 2014, 473 ss.; Terranova, I nuovi accordi di ristrutturazione: il problema della sottocapitalizzazione dell’impresa, in Dir. fall., 2012, I, 4), si attaglia altresì con riguardo al sottotipo “speciale”, il cui inquadramento contrattuale trova evidente conferma nell’espresso riferimento agli artt. 1372 e 1411 c.c. (v., tra gli altri, Falcone, La nuova disciplina delle “convenzioni di moratoria” e l’intervento del professionista attestatore, cit., 565; Appio, Prime riflessioni in tema di accordi di ristrutturazione del debito ex art. 182-septies fra ragioni creditorie e principio consensualistico, cit., 4 ss.; Balestra, Accordi di ristrutturazione dei debiti con le banche e normativa civilistica: peculiarità, deroghe e ambiguità, in Corr. giur., 2016, 452).
[27] Balestra, Accordi di ristrutturazione dei debiti con le banche e normativa civilistica: peculiarità, deroghe e ambiguità, cit., 451, osserva che “propendere per l’accentuato carattere negoziale degli accordi di ristrutturazione non significa negare la presenza di una fase giudiziale, ma più semplicemente sottolineare che detta fase, pur sussistente, non si caratterizza altresì per il profilo della concorsualità. Si tratta comunque di una fase importante e densa di implicazioni cui lo stesso debitore mira, posto che solo attraverso la procedimentalizzazione contemplata dal medesimo art. 182 bis l. fall. è possibile beneficiare degli affetti c.d. “protettivi”, nonché avvalersi delle esenzioni contemplate in tema di revocatoria e di reati di bancarotta”.
[28] Gentili, Accordi di ristrutturazione e tutela dei terzi, in Di Marzio-Macario (a cura di), Autonomia negoziale e crisi d’impresa, Milano, 2010, 292, rileva che, “a condizione che all’accordo aderiscano tanti creditori che rappresentino il sessanta per cento dei crediti, esso può attraverso il deposito nel registro delle imprese e l’omologazione esentare dall’azione revocatoria gli atti, i pagamenti e le garanzie concessi su beni del debitore posti in essere in esecuzione di quanto pattuito. Neppure i creditori estranei, perciò, possono più proporla. Ciò riduce senza rimedio la massa patrimoniale su cui i creditori non aderenti all’accordo possono contare”.
[29] Cfr. Ambrosini, Accordi di ristrutturazione dei debiti e finanziamenti alle imprese in crisi. Dalla “miniriforma” del 2005 alla l. 7 agosto 2012, n. 134, cit., 111 ss.
[30] V. Pignalosa, Accordi di ristrutturazione dei debiti e creditori non aderenti, in Nuzzo (a cura di), Il principio di sussidiarietà nel diritto privato, II, Torino, 2014, 569 ss.
[31] Così Follieri, Accordi di ristrutturazione dei debiti ed efficacia giuridica, cit., 1167-1168, il quale prosegue affermando che “la disciplina contenuta negli artt. 182 bis ss. l. fall. non si riferisce ai soli accordi di ristrutturazione, bensì agli effetti che gli stessi producono con la pubblicazione od omologazione; essi si sovrappongono agli effetti negoziali in senso stretto, in quanto derivano da una fattispecie procedimentale che si compone del negozio di ristrutturazione al quale si aggiunge l’elemento della pubblicazione o dell’omologazione”.
[32] Balestra, Accordi di ristrutturazione dei debiti con le banche e normativa civilistica: peculiarità, deroghe e ambiguità, cit., 455-456, osserva che “l’art. 1372 c.c. già prevede una deroga all’efficacia relativa del contratto, sicché il richiamo nel contesto dell’art. 182 septies l. fall. appare del tutto inutile e foriero di ambiguità. Del tutto inappropriata si rivela poi l’evocazione di una deroga all’art. 1411 c.c., norma che contempla uno schema attraverso il quale è possibile che il contratto produca effetti a favore del terzo. Nessuna deroga all’art. 1411 c.c. sembra potersi ipotizzare, in primo luogo perché il legislatore con l’art. 182 septies l. fall. – e, prima ancora, con l’art. 182 bis, comma 1, l. fall., nella parte in cui prevede un differimento dell’esigibilità in relazione ai crediti dei non aderenti all’accordo – contempla effetti, non già “favorevoli”, bensì “sfavorevoli” rispetto ai soggetti (creditori) non sottoscrittori dell’accordo. Occorre poi rilevare che manca l’indirizzamento, per conto delle parti, di effetti nella sfera del terzo, la quale può risultare incisa da una diversa e ben più complessa fattispecie: richiesta rivolta all’autorità giudiziaria alla quale è demandata ogni decisione alla luce delle verifiche che è chiamata ad effettuare sia in ordine al raggiungimento delle maggioranze prescritte, sia con riguardo alla sussistenza di altri presupposti”.
[33] Così Follieri, Accordi di ristrutturazione dei debiti ed efficacia giuridica, cit., 1170.
[34] Cfr. Lamanna, La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: un primo commento. Parte IV: le nuove figure dell’“accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari” e della “convenzione di moratoria”, cit., 9.
[35] Così Gentili, Accordi di ristrutturazione e tutela dei terzi, cit., 293.
[36] L’accordo di ristrutturazione (tanto “speciale” quanto “comune”) può configurarsi come un contratto integrato dall’esterno da un provvedimento giudiziale, dando luogo a una fattispecie a formazione progressiva: “l’art. 182-bis detta esclusivamente un procedimento che deve essere seguito al fine di ottenere la produzione di determinati effetti e, all’uopo, la fattispecie normativa si caratterizza di due fasi. Una prima fase, stragiudiziale, è governata dal principio di autonomia privata e conseguentemente dallo strumento del contratto e da ciò discende la più ampia libertà di espressione del potere di autonomia dei privati, il quale ultimo si concretizza nel tentativo da parte del debitore di ristrutturare il proprio debito con tutti o quanto meno con una parte significativa dei propri creditori. La seconda fase, invece, ha carattere prettamente giudiziale ed attraverso di essa l’accordo viene sottoposto al vaglio del Tribunale cosicché possa produrre quegli effetti erga omnes che la legge gli riconosce e garantisce […]. L’accordo di ristrutturazione in sé considerato si estrinseca dunque in un atto di autonomia privata inserito in un procedimento giurisdizionale” (così Gabrielli, Accordi di ristrutturazione del debito e tipicità dell’operazione economica, in Di Marzio-Macario (a cura di), Autonomia negoziale e crisi d’impresa, Milano, 2010, 276).
[37] V., tra i contributi più recenti, Pollio, L’attestatore, l’indipendenza e i suoi rapporti con l’imprenditore e i terzi, in Ambrosini-Tron (diretto da), Piani di ristrutturazione dei debiti e ruolo dell’attestatore. “Principi di attestazione” e riforma del 2015, Bologna, 2016, 281 ss.
[38] Cfr. Onorato, La natura degli accordi di ristrutturazione, cit., 518.
[39] V. Falcone, La nuova disciplina delle “convenzioni di moratoria” e l’intervento del professionista attestatore, cit., 566.
[40] Così Nisivoccia, Il nuovo art. 182 septies l. fall.: quando e fin dove la legge può derogare a se stessa?, cit., 1184. In termini non dissimili si esprime Follieri, Accordi di ristrutturazione dei debiti ed efficacia giuridica, cit., 1171, secondo il quale l’art. 182-septies l. fall. consente l’“imposizione a terzi di regola generate dall’autonomia privata allo scopo di tutelare interessi di rango generale”.
[41] Cfr. Maniaci, Il contratto a favore di terzi può comportare effetti sfavorevoli per il terzo?, in Contratti, 2006, 1151 ss.; Gentili, Accordi di ristrutturazione e tutela dei terzi, cit., 307.
[42] Così, in materia di accordi di ristrutturazione dei debiti, Onorato, La natura degli accordi di ristrutturazione, cit., 519, cui adde, con specifico riguardo alla convenzione di moratoria, Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1275, il quale rileva che, “se è vero che l’art. 182 septies l. fall. è norma “pari-ordinata” rispetto all’art. 1372 c.c., tuttavia va considerato che il principio espresso dall’art. 1372 c.c. esprime una chiara declinazione del principio di autonomia negoziale e se si fa un passo in avanti si coglie che questo principio rinvia a quello di autonomia privata e, dunque, ad una sua rilevanza costituzionale. In questa cornice e nella prospettiva di accantonare il tema del rischio di illegittimità costituzionale della disposizione, a me pare che diventi importante verificare che effettivamente la convenzione di moratoria sia idonea a tutelare anche gli interessi dei non aderenti”.
[43] Secondo Varotti, Articolo 182 septies. Accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria (Appunti veloci sulla riforma 2015 della legge fallimentare – II parte), cit., 3-4, “nell’accordo di ristrutturazione con banche non vi è alcuna deroga agli articoli 1372 e 1411 del codice civile, poiché non si tratta di estendere gli effetti del contratto o di concludere un accordo a favore del creditore non aderente, ma si tratta invece di una applicazione del principio di maggioranza, che il legislatore ben può introdurre laddove vi sia un gruppo di soggetti aventi un comune interesse (solitamente nella gestione di un bene comune): in questo caso è del tutto coerente con i principi dell’ordinamento la previsione che la volontà dei più debba prevalere a fronte della volontà della minoranza. Così ad es. avviene nelle società e nel condominio, senza che le modalità di formazione della volontà dell’ente siano considerate deroghe agli articoli 1372 e 1411 codice civile”. La tesi non sembra tuttavia pienamente convincente, atteso che “manca […] nel caso degli accordi di ristrutturazione” – e, a fortiori, in quello della convenzione di moratoria – “un procedimento che regolamenta la raccolta dei consensi dei creditori ovvero, ed in particolare, un obbligo di convocazione di una adunanza degli stessi, che costituisce presupposto indefettibile per l’esplicazione del principio maggioritario” (così Appio, Prime riflessioni in tema di accordi di ristrutturazione del debito ex art. 182-septies fra ragioni creditorie e principio consensualistico, cit., 8).
[44] Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1275, osserva che viene richiamata “una clausola che letta in modo asettico potrebbe apparire persino incompatibile con la convenzione di moratoria, ma che, invece, andrà considerata proprio come clausola di salvaguardia del principio di relatività del contratto e della deroga subordinata alla estensione di effetti favorevoli”.
[45] La ragione della scelta di subordinare anche l’efficacia inter partes della convenzione di moratoria alla sua concreta idoneità a vincolare i non aderenti potrebbe discendere dalla circostanza che, per ragioni meramente fattuali, l’intesa possa raggiungere il proprio obiettivo (addivenendo a una proficua regolazione provvisoria della crisi) solo se rispettata da tutti i creditori finanziari. Di qui la possibilità, per gli stipulanti, di prevedere che il negozio debba automaticamente risolversi nell’eventualità di vittorioso esperimento dell’opposizione.
[46] Ranalli, Speciale decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie n. 83/2015: gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari, cit., 3.
[47] Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1276, nota che “il compito del professionista è unicamente quello di verificare che i crediti di coloro che aderiscono alla convenzione sono omogenei a quelli dei creditori finanziari non aderenti. Non si richiede al professionista un controllo sul raggiungimento della percentuale del settantacinque per cento e così pure non si richiede che il professionista esprima un giudizio sulla “convenienza” dell’accordo rispetto ai creditori che non hanno partecipato all’accordo”.
[48] Cfr. Falcone, La nuova disciplina delle “convenzioni di moratoria” e l’intervento del professionista attestatore, cit., 569.
[49] V. Lamanna, La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: un primo commento. Parte IV: le nuove figure dell’“accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari” e della “convenzione di moratoria”, cit., 3.
[50] Il profilo del trattamento dei creditori assume certamente maggior rilevanza nel contesto dell’accordo di ristrutturazione “speciale”, sede elettiva dell’adozione delle più varie misure idonee a conseguire il definitivo superamento della crisi (anche attraverso l’individuazione di modalità e tempi di rimborso delle pretese degli istituti compatibili con il risanamento), mentre il contenuto della convenzione di moratoria, ancorché liberamente plasmabile dall’autonomia privata, è giocoforza imperniato sul pactum de non petendo. Anche in questa seconda ipotesi possono nondimeno essere stipulati patti diversi in relazione – in ipotesi – al termine iniziale o finale del blocco, o al versamento degli interessi, che potrebbero, ad esempio, essere corrisposti in relazione alle linee a breve e venire capitalizzati con riguardo a quelle a medio-lungo termine.
[51] Cfr. Falcone, La nuova disciplina delle “convenzioni di moratoria” e l’intervento del professionista attestatore, cit., 569.
[52] V. Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1276.
[53] Appio, Prime riflessioni in tema di accordi di ristrutturazione del debito ex art. 182-septies fra ragioni creditorie e principio consensualistico, cit., 13, sostiene che, “diversamente da quanto si verifica in seno alla procedura concordataria, l’individuazione delle categorie presenta lo strumento contrattuale per derogare al principio dell’unanimità dei consensi. Questo spiega perché, in tale ipotesi, il legislatore, pur richiamando i criteri di suddivisione delle classi previsti per il concordato – posizioni giuridiche e interessi economici omogenei – non si è premurato di specificare altresì che un trattamento differenziato può essere previsto esclusivamente fra creditori che appartengono a classi diverse. Detta specificazione è infatti diretta a ripristinare il principio della par condicio creditorum a cui la suddivisione in classi evidentemente deroga; di talché, analoga indicazione sarebbe stata ultronea con riferimento agli accordi di ristrutturazione per i quali, in ossequio alla natura contrattuale dell’istituto, il principio della parità di trattamento non opera. Deve in altre parole constatarsi che, nel concordato preventivo, l’aver circoscritto la possibilità di contemplare modalità di soddisfo differenti delle proprie ragioni creditorie solo fra creditori appartenenti a classi diverse è regola posta in ossequio della parità di trattamento, che governa le procedure concorsuali, e che, per tale motivo, non ha ragion d’essere con riferimento agli accordi di ristrutturazione che evidentemente continuano ad essere strumento contrattuale di risoluzione della crisi d’impresa”.
[54] Così Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e la convenzione di moratoria: deroga al principio di relatività del contratto ed effetti sui creditori estranei, cit., 522.
[55] Cfr. Appio, Prime riflessioni in tema di accordi di ristrutturazione del debito ex art. 182-septies fra ragioni creditorie e principio consensualistico, cit., 8 ss.
[56] Lamanna, La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: un primo commento. Parte IV: le nuove figure dell’“accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari” e della “convenzione di moratoria”, cit., 6, osserva che “probabilmente l’oscura fraseologia va intesa nel senso che il debitore non deve comunicare ai creditori estranei l’avvio delle trattative in modo puramente burocratico, lavandosene poi le mani, ma, ove i creditori mostrino interesse alla proposta di accordo, essi debbano essere messi dal debitore concretamente in grado di partecipare fattivamente all’iter di formazione del consenso. Diversamente opinando, ossia riferendo la buona fede ai creditori, non si vede come ciò possa giocare quale requisito dell’accordo proposto dal debitore”.
[57] Cfr. Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1276.
[58] Falcone, La nuova disciplina delle “convenzioni di moratoria” e l’intervento del professionista attestatore, cit., 567, rileva che, “in caso di opposizione, il Tribunale dovrà innanzi tutto andare a pronunciarsi sulla medesima situazione che sarà stata già oggetto di attestazione da parte del professionista (il giudizio sulla “omogeneità”)”.
[59] Una interpretazione tesa a disapplicare, nell’ambito della convenzione di moratoria, l’art. 182-septies, 4° comma, lett. c), l. fall. sembrerebbe propugnata da chi afferma che “il contenuto del richiamo [alla predetta disposizione: n.d.r.] parrebbe essere privo di senso” e che, in ogni caso, “parrebbe lecito porsi un serio interrogativo circa l’effettiva utilità della previsione normativa della convenzione di moratoria” (così Falcone, La nuova disciplina delle “convenzioni di moratoria” e l’intervento del professionista attestatore, cit., 567 e 568).
[60] Gentili, Accordi di ristrutturazione e tutela dei terzi, cit., 308, mette in luce che “è vero che la sfera del terzo è impermeabile ad effetti sfavorevoli, ma non a quelli strumentali o comunque connessi ad effetti fondamentali favorevoli. E se presupponiamo che la ristrutturazione sia nel complesso favorevole, appare normale che la legge abbia – qui come in altri casi – imposto anche ai creditori renitenti gli effetti sfavorevoli (il ridimensionamento dei diritti conseguente alla ristrutturazione), strumentali all’effetto favorevole”.
[61] Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1277, osserva che “l’accordo di moratoria può produrre i suoi effetti verso i terzi in quanto negozio vantaggioso per quei terzi che non vi hanno aderito. Il tribunale, di fronte alla sollecitazione che gli proviene dal terzo, deve indagare sulla convenienza dell’accordo rispetto a tutti e, dunque, deve verificare che il sacrificio provvisorio imposto al creditore estraneo è compensato dalle maggiori utilità che proprio dall’esecuzione dell’accordo possono derivare. In questo modo si rispetta appieno l’art. 1372 c.c.”.
[62] In proposito è stato rilevato che “sorprende […] che […] in tal caso la condizione circa la possibilità che i creditori non aderenti siano soddisfatti, in base all’accordo, in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili, sia stata lasciata al vaglio del Tribunale senza prevedersi una previa attestazione speciale dell’esperto, come nel caso della omogeneità di posizione ed interessi. Per tale ragione è da credere che il Tribunale farà spesso ricorso ad un CTU, laddove la valutazione del requisito in parola sia particolarmente non agevole” (così Lamanna, La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: un primo commento. Parte IV: le nuove figure dell’“accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari” e della “convenzione di moratoria”, cit., 10). D’altro canto, sul punto si è obiettato che “la convenzione di moratoria ha semplicemente la finalità di gestire in via provvisoria gli effetti della crisi attraverso lo strumento della inesigibilità del credito, e non già quello di soddisfare i creditori in una misura piuttosto che in un’altra: ragion per cui sembrerebbe perdere peso il domandarsi perché anche in questo caso non sia stata prevista una attestazione speciale dell’esperto, lasciando al Tribunale il vaglio della possibilità che i creditori non aderenti siano soddisfatti, in base all’accordo, in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili, né quindi dovrebbe porsi il problema, di conserva, se il Tribunale potrà fare ricorso ad un CTU in caso di valutazione non particolarmente agevole: semplicemente perché la convenzione di moratoria non ha comunque neppure indirettamente una finalità satisfattoria” (così Falcone, La nuova disciplina delle “convenzioni di moratoria” e l’intervento del professionista attestatore, cit., 568).
[63] Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1280, osserva che “pare […] preferibile postulare la ricorribilità per cassazione senza lasciarsi condizionare dal rilievo per il quale la durata del processo di legittimità è sicuramente incompatibile con la durata della moratoria. Infatti, dalla affermata legittimità o illegittimità dell’operare della convenzione verso i terzi possono discendere rilevanti conseguenze sulle posizioni giuridiche soggettive dei creditori finanziari, sui loro reciproci rapporti e, non da ultimo, su pretese di natura risarcitoria”.
[64] Cfr. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 506.
[65] V. Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1280.
[66] Cfr. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 500.
[67] Sul punto v. Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1280, il quale afferma altresì che “dovrebbe ritenersi che il procedimento non sia soggetto alla sospensione dei termini feriali, in quanto procedimento che deve essere trattato con urgenza”.
[68] Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1273, osserva che, “di sicuro l’espressione “in via provvisoria” andrà calibrata rispetto al prodursi di effetti irreversibili, nel senso che si deve evitare che la convenzione consenta di oltrepassare una barriera, passata la quale, non è più possibile conseguire determinati obiettivi in virtù di decadenze che possono sopraggiungere”.
[69] Cfr. Lamanna, La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: un primo commento. Parte IV: le nuove figure dell’“accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari” e della “convenzione di moratoria”, cit., 10-11; Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e la convenzione di moratoria: deroga al principio di relatività del contratto ed effetti sui creditori estranei, cit., 521; Falcone, La nuova disciplina delle “convenzioni di moratoria” e l’intervento del professionista attestatore, cit., 566.
[70] Così Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, cit., 1274.
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