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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 02/04/2016 Scarica PDF

Ancora sulla chiusura anticipata del fallimento in pendenza di giudizi

Massimo Montanari, Professore Ordinario di Diritto processuale civile nell'Università di Parma


Sommario: 1. Limiti e finalità dell’indagine. – 2. La ribadita necessità di ricomprendere entro la sfera applicativa della nuova disciplina anche le azioni di pertinenza della massa. – 3. Chiusura del fallimento ed esecuzioni pendenti nell’interesse della massa: a) su beni del fallito. – 4. Segue: b) su beni di terzi debitori verso il fallito o la massa. – 5. Chiusura del fallimento anche in pendenza di liti relative a beni richiedenti un’attività di liquidazione. – 6. Divergenze di vedute in merito agli sviluppi post-fallimentari dei giudizi in questione. – 7. La pretesa discrezionalità della chiusura in pendenza di cause.


     

1. Limiti e finalità dell’indagine

Non è mio intento, oggi, procedere ad un partita esegesi delle diverse disposizioni, sparse tra gli artt. 118 e 120 l. fall., di cui si compone la disciplina del nuovo istituto, introdotto dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modifiche, in l. 6 agosto 2015, n. 132, della chiusura del fallimento anticipata rispetto alla definizione del contenzioso pendente in funzione recuperatoria dell’attivo fallimentare ([1]). A distanza di diversi mesi dall’intervento riformatore, tali disposizioni possono darsi ormai come ampiamente note; senza contare che alla relativa disamina già ho atteso in altre sedi ([2]), sì che a quello che ne è scaturito mi sia qui consentito fare rinvio.

Il mio odierno obbiettivo è un altro ed invero assai più modesto: quello, per l’esattezza, di proseguire e integrare il discorso allora intrapreso raccogliendo taluni degli spunti offerti dalla successiva letteratura in argomento, che, da un lato, è venuta a sollecitare la mia attenzione su profili che mi erano proprio sfuggiti o che, comunque, non avevo tenuto nella dovuta considerazione; dall’altro, mi costringe a saggiare la tenuta di alcune delle idee che avevo originariamente manifestato in materia, esibendo, sui punti corrispondenti, valutazioni opposte o, quantomeno, non perfettamente coincidenti con quelle da me professate.

Gli elementi di dibattito che tra breve emergeranno traggono in larga misura origine da un dettato testuale delle norme in rassegna decisamente non adeguato e rispondente alle finalità che il legislatore ha inteso per loro tramite perseguire: ciò che obbliga l’interprete a una delicata opera di contemperamento, dagli esiti sempre opinabili e mai, veramente, risolutivi, tra le ragioni dell’interpretazione letterale e quelle dell’interpretazione funzionale o teleologica. E se il confronto con la letteratura di cui poc’anzi ho detto mi ha indotto a dubitare (ma il dubbio, come vedremo, non si tradurrà mai in abiura) di alcuni snodi cardine della ricostruzione che avevo in precedenza maturato, ne esco però, ed al contempo, rafforzato in un convincimento di fondo, che ebbi modo di esprimere già all’indomani della novellazione di cui al predetto d.l. n. 83/2015: il convincimento, cioè, di trovarmi di fronte a una disciplina frettolosamente e, dunque, assai male confezionata, sì da doversi senz’altro condividere la professata necessità, di cui all’art. 7, punto 9, lett. b, del d.d.l. delega C. 3671 «per la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza» presentato dal Governo alla Camera in data 11 marzo 2016 (e frutto, a sua volta, della revisione operata in sede ministeriale della bozza proposta dalla Commissione istituita dal Ministro della Giustizia con decreto 24 febbraio 2015: c.d. Commissione Rordorf), di «integrare la disciplina della chiusura della procedura in pendenza di procedimenti giudiziari specificando che essa concerne tutti i processi nei quali è parte il curatore e definendone presupposti, condizioni ed effetti in rapporto alla loro differente tipologia ed alla eventuale natura societaria del debitore».

   

2. La ribadita necessità di ricomprendere entro la sfera applicativa della nuova disciplina anche le azioni di pertinenza della massa

La necessità di trascendere il dettato di legge per conformare il nuovo istituto della chiusura del fallimento in pendenza di cause alle finalità per le quali è stato concepito appare, detta necessità, conclamata, e sussiste al riguardo generale consenso, in quanto attiene al riferimento operato all’art. 43 l. fall. da parte della disposizione cardine del sistema riformato, vale a dire il primo dei sei periodi che sono stati aggiunti dalla novella al secondo comma dell’art. 118 l. fall., ossia quello che ne è divenuto (stante la sopravvivenza dei due periodi di cui originariamente si componeva la disposizione) il terzo periodo, dove si legge che la chiusura del fallimento nel caso di cui allo stesso art. 118, primo comma, n. 3 – ossia la chiusura per intervenuta ripartizione finale dell’attivo – non deve più reputarsi «impedita dalla pendenza di giudizi rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi [per l’appunto] dell’art. 43».

Ed invero, se l’esigenza che il legislatore ha inteso in questo modo soddisfare è quella di una più celere definizione delle procedure fallimentari, come argine all’ondata crescente dei risarcimenti dovuti, a norma della c.d. legge Pinto, a causa dell’eccessiva lunghezza delle medesime ([3]), senza scordare i problemi che quest’ultima crea all’immagine, specie internazionale, della nostra giustizia e, perché no, del nostro stesso Paese; e se, a questo fine, si è stabilito che la chiusura del fallimento non dev’essere ritardata dalla necessità di ricorrere alle vie giudiziali per l’acquisizione di beni destinati a integrare o ricostituire la massa attiva ([4]): allora non v’è alcuna ragione per distinguere, in questa prospettiva, tra le differenti categorie di azione che il curatore si possa trovare costretto ad intraprendere per conseguire quell’obbiettivo. Non v’è ragione di distinguere, cioè, tra azioni direttamente tratte dal patrimonio del fallito ed esercitate in sua vece dal curatore in forza della sua legittimazione sostitutiva ex art. 43 l. fall.; ed azioni di pertinenza della massa, esercitate dal curatore in forza di una legittimazione propria oppure anche sostitutiva, ma non del fallito ai sensi del predetto art. 43, bensì dei creditori.

Avverso questa conclusione non vale addurre la persistente presenza, a livello del secondo comma dell’art. 120 l. fall., della comminatoria di improcedibilità, per effetto della chiusura del fallimento, delle «azioni esperite dal curatore per l’esercizio di diritti derivanti dal fallimento» medesimo. È bensì vero che quelle cui la legge così si richiama sono senz’altro riconducibili al genus delle azioni di pertinenza della massa ([5]). Ma questo non costringe assolutamente a rivedere la lettura estensiva dell’art. 118, 2° comma, terzo periodo, che si è poc’anzi ribadita ([6]). A parte il fatto che la categoria delle azioni che detto art. 120, 2° comma, qualifica come esercitate a tutela «di diritti derivanti dal fallimento» non può dirsi esaustiva delle azioni di massa ([7]), sì che vi sarebbe pur sempre qualcuna di queste a poter proseguire dopo la chiusura del fallimento, decisiva è la considerazione che la nuova disciplina dell’art. 118, 2° comma, terzo periodo e seguenti, non interessa tutte le fattispecie di chiusura regolate dal precedente comma primo, ma soltanto quella di cui al relativo n. 3. L’affermata applicabilità di quella disciplina anche alle azioni di pertinenza della massa ben può conciliarsi, quindi, con la persistente vigenza della regola di improcedibilità delle stesse ex art. 120, 2° comma, in quanto quest’ultima veda delimitato il proprio raggio operativo entro la più ristretta cerchia delle residue ipotesi di chiusura ex art. 118, nn. 1, 2 e 4 ([8]).

   

3. Chiusura del fallimento ed esecuzioni pendenti nell’interesse della massa: a) su beni del fallito

Se sui concetti appena esposti si registra una sostanziale unanimità di vedute e tutti, in definitiva, hanno convenuto sulla non riconoscibilità di un’autentica valenza limitativa o selettiva al riferimento compiuto dal novellato art. 118 l. fall. alle controversie di cui al precedente art. 43 ([9]), tutt’altro è a dirsi relativamente all’assunto, da me parimenti professato, per cui le ragioni dell’interpretazione teleologica non possono essere spinte sino al punto di affermare che, alla ripartizione finale dell’attivo ed all’annessa chiusura del fallimento ai sensi dell’art. 118, primo comma, n. 3, si potrebbe far luogo anche in pendenza di procedure esecutive, più precisamente, in pendenza di procedure esecutive esterne al fallimento: a) in cui il curatore sia subentrato per farne propri i risultati e devolverli alla massa b) ovvero che abbia direttamente promosso nei confronti di soggetti terzi, debitori del fallito o della massa medesima ([10]).

È indiscutibile che l’impatto negativo di queste procedure sui tempi complessivi del processo fallimentare, costretto ad attenderne la definizione per potersi a sua volta concludere, non possa ritenersi meno significativo di quello che consuetamente produceva, nella medesima direzione, la corrispondente attesa della conclusione dei procedimenti cognitivi di cui s’è finora fatto parola. Il problema è, però, che ben più rilevante è il sacrificio che il dettato testuale del predetto art. 118, 2° comma, terzo periodo, dovrebbe subire a voler estendere il proprio perimetro applicativo sino a ricomprendere anche quelle procedure medesime: perché qui non si tratterebbe semplicemente di amputare la norma del suo riferimento all’art. 43 l. fall., bensì, ed assai più radicalmente, di misconoscere il fatto che essa parli di «giudizi» e relativi «stati e gradi», nozioni proprie della giurisdizione cognitiva ma, almeno tendenzialmente, estranee a quella esecutiva.

Come precedentemente lasciato intendere, questo convincimento, però, non ha avuto riscontri diffusi ([11]); ed anzi, la generalità dei commentatori si è attestata, in argomento, su una differente, anzi contraria, posizione ([12]), come diversamente orientate appaiono le prassi applicative suggerite dagli Uffici ([13]).

Non tutti, invero, si sono dati la pena di motivatamente argomentare avverso l’interpretazione che si è qui riproposta. Chi se ne è preoccupato, le ha obiettato essere affetta da un eccesso di formalismo, rilevando che sul dato letterale che essa enfatizza dovrebbe necessariamente far premio il fatto funzionale che l’esito di quelle procedure tenderebbe ad assicurare una sopravvenienza per la massa dei creditori allo stesso modo dei processi di cognizione cui soli parrebbe far riferimento la legge ([14]): onde la necessità di trattare quelle alla stessa stregua di questi.

Come è agevole constatare, non s’è andati molto al di là delle considerazioni d’ordine, per l’appunto, meramente funzionale di cui si è, in precedenza, riconosciuto il fondamento, escludendone al contempo la decisività. A prescindere da ciò, mi sembra di dover osservare che l’impiego, da parte del legislatore, del termine “giudizi” non possa tranquillamente essere liquidato come il frutto di una svista o della sua consueta approssimazione e superficialità nella redazione dei testi normativi, approssimazione e superficialità per effetto delle quali detto termine sarebbe stato utilizzato nell’accezione assai più ampia, e dunque come sinonimo, di “procedimenti”. All’opposto, io credo che alla base di quella scelta lessicale vi sia una logica, ossia che si sia trattato di una scelta deliberatamente compiuta, magari discutibile, contra tenorem rationis, incongrua rispetto alle finalità acceleratorie nella specie avute di mira dal legislatore, sin anco incostituzionale, ma ribadisco, deliberatamente compiuta e tale, pertanto, da non poter essere sovvertita dall’interprete ma soltanto per effetto di un nuovo, e, per quanto appena ipotizzato, auspicabile, intervento del legislatore o, al più, della Corte costituzionale.

La logica cui faccio riferimento è quella per cui, se la possibilità non meramente astratta o virtuale di realizzare delle sopravvenienze attive non dev’essere più, come tale, di impedimento all’attuazione del riparto finale ed all’annessa chiusura del fallimento, si deve però trattare di possibilità tassativamente subordinata all’esito di una determinata vicenda cognitiva: perché, se così non fosse, ad essere messa in discussione non sarebbe semplicemente la lettera del novellato art. 118, nel suo riferimento a “giudizi”, e non a “procedimenti”, pendenti, bensì il persistente raccordo che intercorre tra riparto finale e chiusura del fallimento, da un lato, ed esaurimento della liquidazione dell’attivo, dall’altro, come fatto palese da quel «compiuta la liquidazione dell’attivo» che l’art. 116 l. fall. continua ad assumere, in quanto sua immutata formula d’apertura, come presupposto per addivenire alla presentazione del rendiconto del curatore e di riflesso, giusta il riferimento a quest’ultimo ed alla sua approvazione da parte del successivo art. 117, all’esecuzione del riparto finale. Eppertanto, se si vuole conservare un senso a quella immutata previsione di legge, necessario è supporre che, per potersi far luogo alla chiusura, si sia liquidato tutto quello che, nella massa attiva del fallimento, già sia presente, ovvero già sia stato acquisito, potendosi a quello stesso fine soprassedere solamente alla liquidazione di quello che si presume di acquisire ma ancora non sia stato introitato ([15]).

Ebbene, le procedure esecutive la pendenza delle quali si vorrebbe non fosse più ostativa alla chiusura del fallimento per intervenuta ripartizione finale, ineriscono, almeno in un determinato ordine di ipotesi, a beni che in realtà fanno già parte dell’attivo. Non si dimentichi, ad intenderci, che chi, per prima, ha affacciato il problema di cui ora si sta discutendo ([16]), lo ha fatto avendo preminentemente riguardo alle esecuzioni fondiarie promosse o proseguite in costanza di fallimento dall’istituto finanziatore ai sensi dell’art. 41, 2° comma, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia): esecuzioni, certo, che si snodano extra moenia concursus ma che hanno pur sempre ad oggetto beni compresi nell’attivo fallimentare e che, in forza dei meccanismi di mero privilegio processuale che connotano la loro procedibilità in corso di fallimento ([17]), si svolgono nell’interesse della massa e non solo del creditore istante. Il che permette di guardare loro come a vere e proprie appendici, sia pure in regime di extraterritorialità, della liquidazione dell’attivo, identicamente a quanto può dirsi dell’esecuzione individuale sui beni del fallito in cui il curatore abbia a subentrare a norma dell’art. 107, penult. comma, l. fall.

Immaginare che il fallimento possa chiudersi in pendenza di queste vicende esecutive significherebbe dunque ammettere che il fallimento si possa chiudere senza che la liquidazione dell’attivo già disponibile sia stata completata, in contrasto, perciò, con quanto prescritto dall’art. 116 l. fall. nel suo raccordo con il successivo art. 117.

Che poi, una volta abbattuto, con la novella, il tabù per cui il fallimento deve restare aperto sin tanto che sussista la possibilità di recuperare altro attivo e, dunque, una volta ammesso che esso possa venir meno quando pur residua quella possibilità, allora, a quel punto, si possa concedere che esso venga meno anche quando non sia stato ancora integralmente liquidato l’attivo già recuperato, questo è vero e non lo posso negare: ma resta inteso che dev’essere il legislatore ad effettuare quella concessione, non certo l’interprete ad auto-elargirsela.

   

4. Segue: b) su beni di terzi debitori verso il fallito o la massa

Le cose parrebbero stare diversamente allorché si tratti di esecuzioni promosse dal curatore su beni non del fallito ma di un terzo, per la riscossione coattiva di ragioni creditorie vantate nei suoi confronti dal fallito o dalla massa. Qui, addirittura, l’idea che la pendenza di tali esecuzioni sia d’ostacolo alla chiusura della procedura fallimentare, mentre più non lo sarebbe la pendenza dei giudizi ad esse prodromici, trae seco conseguenze paradossali, come sarebbe quella per cui:

a) se alla data dell’esaurimento della liquidazione dell’attivo già recuperato, il giudizio diretto all’accertamento delle ragioni creditorie cui s’è ora accennato è ancora in corso, il fallimento si può chiudere immediatamente;

b) mentre, se a quella data tale giudizio si è già concluso e occorre portare ad esecuzione l’accertamento che ne è scaturito, allora il fallimento deve restare aperto sin tanto che quell’esecuzione non sia stata portata a compimento; e se si trattasse di esecuzione fallimentare – nell’ipotesi, evidentemente, di credito vantato contro debitore a sua volta dichiarato fallito -, ne discenderebbe che il fallimento del creditore dovrebbe restare aperto sin tanto che non si sia chiuso il fallimento del debitore, salva integrale soddisfazione del creditore all’esito di uno dei riparti parziali.

Si tratta di evidenti incongruenze, non lo posso negare. Il punto è, pero, che esse non sono insite in quell’interpretazione restrittiva, o rigorosamente letterale, dell’art. 118 da cui si sono prese le mosse: sono insite, viceversa, nel sistema di legge.

Una volta giudizialmente accertato, il credito che si voglia portare ad esecuzione contro il terzo, in bonis o fallito che sia, deve reputarsi una posta già acquisita dell’attivo fallimentare; e ammettere che non sia d’ostacolo alla chiusura del fallimento la pendenza di quell’esecuzione, significherebbe sganciare la chiusura del fallimento e, a monte, la ripartizione finale dalla previa liquidazione integrale dell’attivo recuperato, in aperto contrasto, pertanto, con le indicazioni, di cui sopra, che la legge offre in proposito.

Resta inteso che quella della riscossione diretta nei confronti del debitore non è l’unica forma prevista dall’ordinamento positivo per la liquidazione dei crediti inclusi nell’attivo fallimentare. L’art. 106, primo comma, l. fall. ne contempla, infatti, anche la possibilità di cessione a terzi, che è, dunque, strumento a disposizione degli organi della procedura che non intendano scaricare su quest’ultima i tempi della riscossione coattiva di detti crediti.

Certo, si tratta di soluzione penalizzante sul piano economico, implicando la necessità di adeguatamente compensare il terzo che se ne accolli i rischi. E ben può apparire irrazionale un sistema che costringa a subire una siffatta penalizzazione chi non intenda mantenere in piedi il processo di fallimento per tutto il tempo necessario a condurre in porto, fuori del fallimento, quelle procedure di riscossione coattiva. Ma allora si cambi il sistema, l’imminente riforma costituisce un’eccellente occasione per stabilire, una volta per tutte, che la chiusura del fallimento possa essere decretata anche in pendenza delle procedure esecutive in questione, in tal modo coniugando la redditività della liquidazione e l’esigenza che i fallimenti ne paene immortales fiant.

Sin tanto che, però, de hoc iure utimur, a quella conclusione non è dato pervenire attraverso le comuni tecniche ermeneutiche e l’interprete si deve rassegnare alle incongruenze di cui poc’anzi s’è detto.

   

5. Chiusura del fallimento anche in pendenza di liti relative a beni richiedenti un’attività di liquidazione

Nel riflettere sul nuovo assetto della chiusura del fallimento per avvenuta ripartizione finale dell’attivo e dei suoi rapporti con le liti pendenti destinate a incidere sulla composizione dell’attivo medesimo, non ho mai avuto dubbi in ordine a ciò, che dei beni recuperati all’esito con successo di quelle stesse liti, il curatore sia abilitato a provvedere alla liquidazione, secondo modalità che, per analogia con quanto la legge prevede per i riparti supplementari, dovrebbero essere determinate dal tribunale con il decreto di chiusura ([18]). Il ricorso all’analogia è evidentemente dettato dal fatto che, delle modalità secondo cui procedere a detta liquidazione, la legge non parla affatto. Ma doveroso è notare che la legge non parla proprio di liquidazione tout court, limitando i propri riferimenti alla ripartizione delle eventuali sopravvenienze attive senza dire alcunché in merito ad una loro previa liquidazione.

Il silenzio serbato dalla legge sul punto ha allora indotto autorevoli commentatori a ritenere che l’ultrattività degli organi della procedura nelle loro funzioni non abbia a comprendere quelle liquidatorie, ergo che una liquidazione dell’attivo, supplementare o post-fallimentare che dir si voglia, non possa per ciò stesso aver luogo ([19]). Il che, ovviamente, si riflette sul novero dei giudizi che il curatore sarebbe abilitato a proseguire a fallimento concluso nell’interesse della massa: novero dal quale, secondo detti commentatori, verrebbero necessariamente ad esorbitare i giudizi aventi ad oggetto beni la cui retrocessione nella disponibilità del fallimento involgerebbe la necessità di un’attività di liquidazione ([20]). Per dirla alla maniera, stringata ma efficacissima, di Galletti: «non sono proseguibili giudizi che mirino a recuperare beni o diritti che debbano essere ulteriormente liquidati, perché la legge consente di effettuare un riparto supplementare, non una liquidazione supplementare» ([21]).

Coerenza vuole che, da parte di chi, come il sottoscritto, si sia prestata precipua attenzione al dato letterale nell’esame della questione che si è dianzi passata in rassegna, il silenzio legislativo in punto di liquidazione post-fallimentare non possa certo essere trascurato o sottovalutato.

Il problema è, però, che a voler svolgere ad consequentias quel silenzio, il risultato che ne scaturisce si pone in conflitto con altri elementi della littera legis. Perché, se sosteniamo che a poter proseguire, su istanza del curatore, a fallimento concluso sono, di fatto, solamente i giudizi finalizzati alla diretta apprensione di una somma di denaro, così da potersi appunto evitare una successiva attività di liquidazione, si viene automaticamente a sconfessare l’onnicomprensiva previsione dell’art. 118, 2° comma, terzo periodo, che parla di giudizi pendenti senza distinzioni di sorta sub specie objecti.

E se ciò non dovesse bastare, si consideri la previsione di chiusura dell’art. 120 l. fall., a mente della quale «in nessun caso i creditori possono agire su quanto è oggetto dei giudizi» che possono proseguire in sede post-fallimentare su iniziativa del curatore. È pensabile, infatti, che, se a beneficiare di questa protezione avverso le iniziative aggressive dei creditori, in una sorta di proiezione ultrafallimentare dello schermo di cui all’art. 51 l. fall. ([22]), fossero soltanto i crediti pecuniari sub judice del fallito (o della massa), il legislatore avrebbe impiegato espressioni così generiche e, nuovamente, onnicomprensive, facendo indifferenziato riferimento a «quanto è oggetto dei giudizi» de quibus?

Quello che si para di fronte ai nostri occhi è allora, in definitiva, un conflitto tra dissonanti elementi testuali, per risolvere il quale è necessario far capo al criterio teleologico. E in nome di questo criterio, giocoforza è privilegiare l’interpretazione più estensiva, che ai fini di quella procedibilità post-fallimentare delle liti che la legge viene oggi a consentire in vista di una più celere definizione della procedura fallimentare, non distingue affatto in ragione del cespite patrimoniale per cui vi sarebbe contesa.

D’altro canto, se quello dell’ultrattività, rispetto alla chiusura, delle funzioni degli organi della procedura è fenomeno eccezionale e, perciò, di stretta interpretazione ([23]), nessuno dubita, però, che esso possa essere ricostruito in termini che travalicano gli stretti confini della lettera della legge. Ed invero, se la vittoria conseguita dal curatore nella lite coltivata a fallimento concluso richiede, per apportare un effettivo risultato utile alla massa, un’opportuna iniziativa in executivis, nessuno dubita che il curatore sia legittimato a promuovere questa iniziativa anche se la legge non ne fa menzione alcuna ([24]): ad intenderci, nessuno dubita che egli possa avviare l’espropriazione forzata dei beni di colui nei confronti del quale abbia ottenuto, a fallimento cessato, la condanna all’adempimento di un’obbligazione pecuniaria e questa pronuncia non abbia poi ricevuto spontanea attuazione.

Ma se le cose stanno in questi termini, se effettivamente è dato al curatore, pur nel silenzio di legge, di aggredire i beni di un terzo per trarne risorse liquide da destinare ai creditori, perché mai gli dovrebbe essere negato di trasformare in denaro i beni che abbia recuperato all’attivo fallimentare come beni di pertinenza del fallito? Se l’una di queste attività è consentita a dispetto della mancata previsione normativa, allora, insomma, non v’è motivo perché non lo debba essere anche l’altra.

   

6. Divergenze di vedute in merito agli sviluppi post-fallimentari dei giudizi in questione

In un recente commento vediamo affermato che, per poter rimettere in cammino, a mezzo dell’istanza di prosecuzione ex art. 302 c.p.c., i giudizi che siano rimasti interrotti a séguito della chiusura del fallimento, il curatore deve munirsi di apposita autorizzazione ([25]), ai fini del cui rilascio egli sarebbe tenuto a rivolgersi, in sede di istanza di chiusura, al tribunale ovvero, in fase successiva alla chiusura e con separata richiesta, al giudice delegato ([26]).

A parte il fatto che, dell’autorizzazione a proseguire un giudizio che il curatore già sia stato autorizzato a promuovere, faccio fatica a scorgere la necessità, fermo dissenso debbo esprimere nei confronti di quello che costituisce il presupposto di tutto il ragionamento, vale a dire la sopravvenuta interruzione, per effetto della chiusura, dei giudizi della cui prosecuzione a fallimento cessato si tratta ([27]). Perché è vero che la chiusura del fallimento implica che una delle parti dei rapporti sostanziali in discussione abbia a recuperare la capacità di stare in giudizio perduta con la sentenza d’apertura. Ma come si desume chiaramente dall’art. 299 c.p.c., non è il fatto in sé stesso della riacquisita capacità processuale di una delle parti a produrre l’interruzione del giudizio, bensì la consequenziale cessazione dell’ufficio rappresentativo in capo a colui che stava in giudizio in luogo di quella: e questo, nella fattispecie, è recisamente da escludere, visto che il giudizio è destinato a proseguire su istanza e in presenza del curatore.

Sul versante opposto si è sostenuto che la partecipazione del fallito tornato in bonis al processo che prosegua a fallimento concluso assumerebbe carattere eventuale, in quanto legato alla sua libera scelta di spiegare intervento in causa ([28]).

Sul punto non posso che ribadire quanto già propugnato in altra sede e, cioè, che chi intenda escludere il necessario coinvolgimento processuale del fallito tornato in bonis deve muovere dall’idea che ad esaurire la res in iudicium deducta sia una situazione soggettiva propria del curatore ovvero della massa, rispetto alla quale il rapporto sostanziale facente capo all’ex fallito rilevi meramente come nodo pregiudiziale ([29]). Diversamente, non riesco proprio a vedere come quest’ultimo possa essere tenuto fuori dal processo, fermo restando che il suo coinvolgimento non avverrebbe nelle forme della riassunzione nei suoi confronti del giudizio interrotto, bensì dell’integrazione del contraddittorio ([30]).

     

7. La pretesa discrezionalità della chiusura in pendenza di cause

L’invito a soffermare l’attenzione su un profilo non adeguatamente approfondito nelle mie pregresse indagini sull’argomento ([31]) mi viene dalle prese di posizione che si sono nell’ultimo periodo registrate nel senso del carattere meramente discrezionale o facoltativo che il nuovo istituto della chiusura del fallimento in pendenza di cause avrebbe obiettivamente a rivestire ([32]).

Non mi posso nascondere che a favore di questo inquadramento militino buone, se non ottime, ragioni sul piano della stretta opportunità pratica, consentendo esso una debita ponderazione di costi e benefici dell’operazione, così, in particolare, da evitare la conclusione anticipata della procedura allorché le complicazioni operative che ineluttabilmente ne discendono - in termini, ad es., di determinazione delle somme da accantonare per coprire gli oneri connessi alla prosecuzione dei giudizi ovvero di previa definizione delle modalità di liquidazione e ripartizione supplementari dell’attivo ([33]) - non abbiano, tali complicazioni, a trovare giustificazione in virtù della possibilità, nel caso concreto, di abbreviare i tempi del fallimento in misura scarsamente apprezzabile rispetto a quelli di una chiusura “fisiologicamente” postergata alla definizione delle cause pendenti.

Al contempo, però, la soluzione mi sembra difficilmente difendibile sul piano sistematico, valendo essa ad introdurre elementi di marcata discrezionalità in un contesto cui gli stessi sono tipicamente estranei, ovvero, dove anche siano ravvisabili, lo sono in quanto attiene al riscontro, nella vicenda concretamente occorsa, della fattispecie di chiusura – e ciò vale, essenzialmente, soltanto per quella di cui al n. 4 dell’art. 118, primo comma -; laddove, una volta appurato il perfezionamento della fattispecie in tutti i suoi elementi costitutivi, le scelte operative diventano per contro vincolate. Anche perché, a venire qui in gioco, come attestato dalla conformazione del procedimento di chiusura, che vede oggi anche ex positivo iure elargite le garanzie proprie (leggi, fondamentalmente: possibilità di adire in ultima istanza la Corte di cassazione) dei procedimenti decisori, a venire qui in gioco, dicevo, sono diritti soggettivi, che verrebbero fatalmente a degradare al rango di interessi legittimi qualora la chiusura venisse a dipendere da scelte di tipo discrezionale.

Senza trascurare, poi, che chi ha propugnato la facoltatività della chiusura in pendenza di cause ha soggettivato questo carattere nei termini di una facoltà del curatore e non del tribunale, parlando, per l’esattezza, di una sua «discrezionale scelta gestionale», soggetta all’autorizzazione del comitato dei creditori ([34]): costrutto che non mi sembra facilmente coerenziabile con il persistente potere d’iniziativa del fallito o con la stessa possibilità di una chiusura ex officio. Al punto da indurmi a ritenere che, se proprio vogliamo parlare di facoltatività della chiusura nel caso di specie, questa facoltà andrebbe imputata al tribunale chiamato a decretarla piuttosto che ai soggetti legittimati a promuoverla.

Non pretendo con ciò di aver offerto indicazioni risolutive, su un tema che presenta indubbi risvolti di complessità e sul quale è auspicabile che, in occasione della prossima riforma, il legislatore pronunci una parola chiara e univoca. Più modestamente, mi accontenterei di aver dimostrato che, contrariamente a chi assume che «non v’è dubbio che la chiusura nella pendenza di cause sia una facoltà» ([35]), qualche dubbio sul punto, in realtà, avrebbe motivo di essere.



* Il presente lavoro riproduce, con l’aggiunta delle note, il testo della relazione presentata nell’àmbito della Giornata di studio, organizzata dalla S.I.S.CO. a Milano in data 22 marzo 2016, sul tema «Le modifiche alla disciplina del fallimento introdotte dal d.l. 83/2015».

([1]) Si precisa qui, nuovamente, che ad essere, nella circostanza, anticipata rispetto alla definizione del contenzioso in parola, non è tanto, a rigore, la chiusura del fallimento quanto la ripartizione finale dell’attivo, cui la chiusura fa séguito, a norma dell’art. 118, 1° comma, n. 3, l. fall., come involgimento obbligato e immanente alla logica del sistema: sul punto, diffusamente, Montanari, Nozione e presupposti della chiusura del fallimento, in Jorio-Sassani, Trattato delle procedure concorsuali, III, Milano, 2016, 569 s.; per una valutazione consonante, Minutoli, La chiusura e la riapertura del fallimento, Jorio (a cura di), Fallimento e concordato fallimentare, II, Torino, 2016, 2429; Spadaro, Casi di chiusura, in Bottai et alii, La nuova riforma del diritto concorsuale, Torino, 2015, 83.

([2]) Faccio in tal senso riferimento, oltre al lavoro citato alla prec. nota 1, a Montanari, Il procedimento di chiusura, in Jorio-Sassani, Trattato delle procedure concorsuali, III, cit., 581 ss.; Gli effetti della chiusura, ivi, 607 ss.; e, soprattutto, La recente riforma della normativa in materia di chiusura del fallimento: primi rilievi, in www.ilcaso.it, 28 settembre 2015.

([3]) V., per ogni altro, Ziino, Le recenti disposizioni sulla “chiusura provvisoria” del fallimento in attesa della definizione di giudizi pendenti, in www.eclegal.it, 25.3.2016, 1.

([4]) Ovvero per determinare la consistenza di detta massa attiva: sulle ragioni che impongono di escludere, dal novero dei giudizi cui è riferimento, nella specie, da parte del legislatore, la generalità ma non, al contempo, la totalità delle c.d. liti passive del fallimento (includendovi, infatti, quelle innescate per effetto dell’esercizio, da parte di soggetti terzi, di azioni di restituzione o rivendica ex art. 103 l. fall.), v. Montanari, La recente riforma, cit., 4 s. e 7 s.

([5]) Montanari, Gli effetti della chiusura, cit., 624 ss.

([6]) Analogamente, sia pur per differenti ragioni da quelle che saranno immediatamente esplicitate nel testo, Galletti, La chiusura del fallimento con prosecuzione dei giudizi in corso: uno strumento da incentivare o da osteggiare?, in www.ilfallimentarista.it, 1.12.2015, 2.

([7]) Come aventi ad oggetto «diritti derivanti dal fallimento» non possono infatti qualificarsi quelle azioni – come, ad es., quella diretta all’accertamento della simulazione di un contratto stipulato dal debitore ancora in bonis oppure l’azione surrogatoria ex art. 2900 c.c. – in cui il petitum fatto valere dal curatore in nome e nell’interesse della massa non sia dissimile, neppure sul piano quantitativo, da quello perseguibile dai singoli creditori al di fuori del fallimento: cfr., anche per indicazioni dottrinali di segno avverso sul punto, Montanari, op. ult. cit., 627.

([8]) Non dissimilmente Minutoli, La chiusura, cit., 2430; Spadaro, Casi di chiusura, cit., 84.

([9]) Cfr. Galletti, La chiusura del fallimento, loc. cit.; Ambrosini, Il diritto della crisi d’impresa nella legge n. 132 del 2015 e nelle prospettive di riforma, in www.ilcaso.it., 30 novembre 2015, 55; Minutoli, La chiusura, cit., 2429 ss.; Spadaro, op. cit., 82; Brogi, Il D.L. 83/2015: tutte le novità in materia fallimentare, in Quotidiano giur., 6.8.2015, 2; Nisivoccia (-Marinoni-Santoriello), Decreto Giustizia: le novità in materia fallimentare, Milano, 2015, 39 s.

([10]) Sulla valenza ostativa della chiusura che la pendenza di queste procedure dovrebbe tuttora esplicare, Montanari, La recente riforma, cit., 8 s.; Id., Nozione e presupposti, cit., 574 s.

([11]) Cfr. comunque Ambrosini, Il diritto della crisi, cit., 56.

([12]) Cfr. Vitiello, La chiusura anticipata del fallimento in pendenza di giudizi, in www.ilfallimentarista.it, 1.2.2016, 2; Minutoli, La chiusura, cit., 2431; Ziino, op. cit., 2; De Matteis (-Norelli), sub Art. 118 l. fall., in Lo Cascio (diretto da), Codice commentato del fallimento, 3a ed., Milano, 2015, nella versione aggiornata online, consultata tramite il sito http://pluris-cedam.utetgiuridica.it, 9; Brogi, op. loc. cit.; Spadaro, op. cit., 82 s.

([13]) V., da ultima, la circolare della Sezione fallimentare del Tribunale di Siracusa emessa in data 8 marzo 2016, consultabile in www.ilcaso.it; per ulteriori riferimenti in proposito, cfr. Ziino, op. loc. ult. cit.; Minutoli, op. loc. ult. cit.

([14]) Così, pressoché testualmente, Minutoli, op. loc. ult. cit. Per un diverso percorso argomentativo, v. infra, alla nota 24.

([15]) Come detto da Galletti, La chiusura del fallimento, loc. cit., «l’esigenza di liquidare resta un limite alla chiusura, quella di ripartire non più».

([16]) Si allude a Brogi, op. loc. cit.

([17]) Sul significato della formula di mero privilegio processuale con la quale correntemente si designa la sottrazione delle esecuzioni de quibus al generale divieto di cui all’art. 51 l. fall., v., da ultimo, Galletti, Il concorso nel fallimento, in Jorio (a cura di), Fallimento e concordato fallimentare, I, Torino, 2016, 1266 ss.

([18]) Montanari, La recente riforma, cit., 16 s.; Id., Gli effetti della chiusura, cit., 634 s.; analogamente Spadaro, op. cit., 87, nonché, se ben s’intende, De Matteis (-Norelli), sub Art. 118, cit., 9.

([19]) Galletti, La chiusura del fallimento, cit., 2; Vitiello, La chiusura anticipata, cit., 2.

([20]) Vitiello, op. loc. cit.

([21]) Galletti, op. loc. ult. cit.

([22]) Così Montanari, op. loc. ult. cit.

([23]) Vitiello, op. loc. cit.

([24]) Come scrive De Matteis (-Norelli), op. loc. cit., il curatore non agisce “per la gloria”. Per l’estensione a questa iniziativa esecutiva dell’ultrattività della legittimazione del curatore, v. anche Galletti, op. loc. ult. cit.; Vitiello, op. loc. cit., che ne trae, però, argomento non, ça va sans dire, nella direzione che sarà tosto indicata, bensì in quella, dianzi criticata, dell’estensione di detta ultrattività anche alle esecuzioni pendenti alla data della chiusura del fallimento.

([25]) De Matteis (-Norelli), op. cit., 10.

([26]) De Matteis (-Norelli), op. cit., 10 s.

([27]) Contro l’interruzione dei giudizi in questione, v. pure Minutoli, op. cit., 2431.

([28]) Minutoli, op. loc. ult. cit.

([29]) Montanari, La recente riforma, cit., 18.

([30]) Montanari, op. ult. cit., 17 s.

([31]) Se non per quanto attiene all’incidenza, sulla questione specifica, delle problematiche d’ordine fiscale: v. infra, alla nota 33.

([32]) Vitiello, op. cit., 1; Mancinelli, Brevi note sulla chiusura della procedura fallimentare in pendenza di giudizi, in www.ilcaso.it, 26 ottobre 2015, 7 s.

([33]) Secondo Mancinelli, op. loc. cit., l’opportunità di disporre la chiusura del fallimento in presenza di giudizi pendenti andrebbe, caso per caso, valutata dal curatore in relazione, fondamentalmente, alle complicazioni ed ai problemi che ne verrebbero a derivare quanto alla gestione fiscale della procedura: per una disamina critica di questo punto di vista, si rinvia a Montanari, Nozione e presupposti, cit., 575 s., nt. 86.

([34]) Vitiello, op. loc. ult. cit.

([35]) Vitiello, op. loc. ult. cit.


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