CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 02/02/2016 Scarica PDF
Il concetto di crisi d'impresa come incontro tra la prospettiva aziendale e quella giuridica
Alberto Quagli, Direttore del Dipartimento di Economia dell'Università di Genova e componente della Commissione Rordorf e della Commissione del CNDCEC per la elaborazione degli indicatori della crisiSommario: 1. Sulla necessità di definire la crisi di impresa in modo puntuale; 2. La relazione crisi – insolvenza; 3. I possibili approcci per la definizione della crisi; a) l’approccio esterno; b) l’approccio interno-consuntivo; c) l’approccio interno-previsionale; 4. L’uso dei piani e la vigilanza degli organi di controllo sulla crisi d’impresa; 5. Una riflessione di sintesi.
1. Sulla necessità di definire la crisi di impresa in modo puntuale
La crisi di impresa è il presupposto per l’attivazione delle procedure volte a scongiurare il fallimento (art. 160 - L'imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo…..; art. 182 – bis - L'imprenditore in stato di crisi può domandare….l'omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti…..). Per cui parrebbe ovvia la definizione del concetto di crisi. In realtà il legislatore non ha mai definito cosa intende per “crisi”, forse perché ritenuto banale, forse perché vi è un implicito rinvio alle discipline aziendali. La questione è rilevante non solo per definire formalmente il momento a partire dal quale le suddette procedure sono esperibili ma anche per tutti quei casi in cui periti ed esperti ricevono incarichi giudiziali che contengono un quesito circa la determinazione temporale del momento nel quale si verifica la “crisi” di impresa.
Purtroppo nella prassi accade sovente che il momento di verifica della “crisi” viene fatto coincidere con quello di “grave insolvenza”, vanificando in sostanza le finalità ultime dei suddetti istituti pre-fallimentari che dovrebbero consistere nel tentativo di risanare l’impresa salvaguardandone la continuità gestionale prima che inizino le aggressioni al patrimonio da parte di creditori insoddisfatti, con conseguente progressivo disfacimento liquidatorio dell’impresa.
La coincidenza “crisi = (grave) insolvenza” poggia peraltro su due basi oggettive. Da un lato la certezza dell’insolvenza, intesa come comportamento facilmente verificabile anche da parte di soggetti esterni all’impresa (sistematico inadempimento delle obbligazioni assunte). Dall’altro, si deve mettere in conto il comportamento di molti imprenditori che decidono di ricorrere alle procedure pre-fallimentari solo quando costretti da situazioni ormai compromesse da gravi insolvenze e per le quali si può prospettare un fallimento. Quest’ultimo comportamento riposa su una malintesa percezione di visibilità di una “disfatta” imprenditoriale derivante dal ricorso a tali procedure che molti imprenditori, legati profondamente alla propria impresa, avvertono. Detto comportamento è umanamente certo comprensibile, ma non giustificabile razionalmente.
Le discipline aziendali d’altro canto trattano molto diffusamente il tema delle crisi ma ne mettono soprattutto in risalto il tratto dinamico, andamentale. In altre parole, la crisi è descritta come un processo che trae origine da fattori che possono essere molteplici e che si aggravano più o meno gradualmente per poi, all’atto finale, sfociare in insolvenza. Tale accento sulla involuzione progressiva è giusto e doveroso. Tuttavia proprio l’idea fortemente radicata negli aziendalisti della dinamica gestionale, tende forse a scoraggiare delimitazioni puntuali del fenomeno in parola.
Per cui, in sostanza, il concetto di crisi oscilla tra l’estremo fin troppo generico di sistematici “andamenti negativi” dell’impresa tali da richiedere un intervento energico, all’altro estremo, abusato nella prassi imprenditoriale, professionale ed anche giudiziaria, fin troppo specifico e, direi anche, lapalissiano e tardivo, che la crisi si identifica con una insolvenza finanziaria.
Non è con tali estremizzazioni concettuali che si facilita l’applicazione delle procedure della Legge Fallimentare volte a scongiurare il fallimento. Non le si facilita intendendo la crisi come situazione complessiva di andamento negativo, perché lascia permanere numerose incertezze negli operatori giuridici circa le modalità di accertamento. Ma allo stesso tempo, interpretando la crisi come grave insolvenza effettiva, si fa in modo di render quasi vano il ricorso a concordati e ristrutturazioni, che finiscono per essere spesso delle anticamere al fallimento definitivo, quasi come vacui tatticismi dilatori.
Serve pertanto una definizione del concetto di crisi che sia “operativa”, presentando almeno due caratteri di fondo:
1) puntuale, ossia temporalmente identificabile con una certa precisione, con l’idea di poterne definire un inizio (momento in cui l’azienda entra in crisi;
2) verificabile, intendendo con ciò la possibilità di poterla riscontrare con un grado di discrezionalità ridotto anche da parte di un soggetto diverso dall’imprenditore.
È ovvio che una definizione del genere rischia di semplificare eccessivamente la realtà, quasi forzando l’esistenza di un “prima” e di un “dopo”. Che il fenomeno abbia natura squisitamente dinamica è fuor di dubbio. Ma se vogliamo come aziendalisti supportare concettualmente la strumentazione giuridica, dobbiamo necessariamente forzare la naturale concezione progressiva della crisi nel senso sopra indicato.
La definizione del momento in cui l’impresa entra in crisi è d’altronde necessaria perché può sensibilizzare imprenditori e relativi consulenti sulla necessità di adottare gli opportuni provvedimenti e responsabilizzare gli organi di controllo societari sulla esigenza di domandare agli amministratori la proposizione di una strategia di risanamento e conseguente piano. Se poi nella riforma della Legge Fallimentare di cui si discute adesso nella Commissione Rordorf del Ministero della Giustizia, si vorrà introdurre l’istituto di allerta, allora si capisce come tale definizione divenga indispensabile, dal momento che tale allerta, qualunque sia il modo con il quale sarà declinato, dovrà coincidere con l’entrata in crisi dell’impresa.
2. La relazione crisi – insolvenza
Per garantire la suddetta necessaria operatività giuridica, la crisi dovrà necessariamente essere definita come prodromo dell’insolvenza. Tale presupposto porta il ragionamento aziendale a basarsi sugli andamenti finanziari (entrate-uscite) dell’impresa piuttosto che su quelli economici (costi-ricavi), proprio perché l’insolvenza risiede nella insussistenza delle risorse finanziarie sufficienti ad adempiere le obbligazioni. Ovviamente andamenti economici negativi che possono tradursi in perdite di esercizio costituiscono generalmente le causa di incapacità delle entrate monetarie di fronteggiare le necessarie uscite, ma i due fenomeni non sono necessariamente contestuali.
In questo senso, è di ausilio la “Raccomandazione dell’Unione Europea del 12 marzo 2014 su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all’insolvenza” che al punto 6 a) stabilisce che il debitore dovrebbe poter procedere alla ristrutturazione in una fase precoce, non appena sia evidente che sussiste probabilità di insolvenza[2]. La definizione della crisi, ai fini strumentali di un suo precoce (e quindi, presumibilmente, efficace) fronteggiamento quindi deve poggiare sulla esistenza di tale probabilità. L’espressione usata dalla Commissione Europea indica anche implicitamente la necessità di una prospezione circa i probabili andamenti futuri della gestione d’impresa.
Prima di approfondire questo punto deve tuttavia esser chiaro quali siano i primi destinatari, fruitori diremmo meglio, del concetto di crisi. Questi non sono i tribunali, quanto piuttosto gli imprenditori e i relativi organi societari. Sono loro che per primi dovranno attivarsi per il risanamento; starà poi ai magistrati addetti valutare, nei casi e nei limiti definiti dalla legge, la sussistenza di tale condizione. Quindi la definizione di crisi come “probabilità di insolvenza” dovrà esser meglio declinata in senso aziendale, specie con ricorso alla necessaria strumentazione tecnico- amministrativa.
3. I possibili approcci per la definizione della crisi
Passando quindi ad una declinazione operativa della crisi come “probabilità di insolvenza”, è possibile delineare tre possibili approcci, ciascuno dei quali presenta delle potenzialità e dei limiti. Ci sentiamo di definirli come approccio esterno, approccio interno-consuntivo, approccio interno-previsionale.
a) L’approccio esterno
L’approccio esterno si basa su specifiche evidenze dei progressivi inadempimenti da parte dell’impresa. Esso si qualifica come esterno in quanto l’effetto dei comportamenti si riflette nella sfera economica dei terzi creditori ed è quindi osservabile anche dall’esterno. Il peggioramento delle tensioni finanziarie si traduce in effetti in una progressione di eventi che tipicamente prende spunto da ritardi nei pagamenti dei fornitori meno “strategici” e conseguenti solleciti e diffide. Peggiora poi con l’omesso versamento di ritenute previdenziali ed erariali per giungere poi a non rispettare scadenze nei fornitori essenziali. La percezione di tali difficoltà da parte dei finanziatori e delle banche in particolare determina quindi conseguenze in termini di revoca dei fidi concessi, richieste di rientro dei finanziamenti. Da tali premesse discende quindi l’inizio delle azioni esecutive da parte dei creditori e il blocco delle forniture essenziali. A quel punto la gestione è ormai compromessa e le istanze di fallimento sono già state presentate.
In questo senso la crisi può esser definita come uno degli stadi della progressiva insolvenza che si afferma entro la suddetta successione involutiva di eventi, senza ritenere di proporre uno di tali eventi in particolare. Dalla sua, questo approccio ha il vantaggio della evidenza oggettiva (ritardo di pagamento, domanda di azione esecutiva, ecc.) risultante anche all’esterno. Il notevole svantaggio che lo caratterizza dipende tuttavia dalla emersione tardiva, in quanto, sia pur con fasi progressive, si è già manifestata una insolvenza, sia pur non definitiva e circoscritta ad alcuni e non a tutti creditori.
b) L’approccio interno-consuntivo
Questo approccio si basa sui consuntivi contabili elaborati dall’azienda. È interno in quanto l’accertamento trae origine dalla situazioni contabili infrannuali elaborate internamente (che poi sfociano ogni esercizio nella pubblicazione del bilancio); è consuntivo, perché si basa su una fotografia della situazione finanziaria aziendale quale risulta dai saldi contabili. Per cui entro questo approccio ricadono tutti i modelli, più o meno supportati da rigorosi metodi scientifici, che individuano la crisi come un giudizio sulla gravità della situazione finanziaria scaturente da singoli o più spesso combinazioni di indicatori economico-finanziari.
Non è questa la sede per sintetizzare una vastissima letteratura economico-aziendale esistente sul tema e la miriade di indicatori proposti. Basti solo dire che ci si può basare sia su indicatori statici patrimoniali (rapporti di indebitamento, rapporti tra attività e passività correnti, ecc.), sia su indicatori di flusso economico (andamento dei ricavi, dei margini operativi, ecc.) e/o finanziario (flusso di cassa prodotto dalla gestione operativa o reddituale), sia su combinazioni dei predetti indici (dal molto usato rapporto tra EBITDA e passivo finanziario, fino al meno usato ma assolutamente da apprezzare rapporto tra flusso di cassa reddituale e ricavi).
Il vantaggio basilare di questo approccio è la sua natura eminentemente quantitativa fondata sull’utilizzo di saldi contabili, per cui alcuni potrebbero giungere a proporre addirittura delle soglie numeriche di certi indicatori oltre le quali l’impresa è definibile “in crisi”. Se poi si usassero i bilanci pubblicati, lo stato di crisi sarebbe anche accertabile dall’esterno, essendo sufficiente un minimo di competenze aziendali.
Tale approccio tuttavia risente di due forti limiti.
Il primo limite consiste nello stabilire quali debbano essere i valori “soglia” degli indicatori suddetti. Tale definizione presuppone un confronto contestuale con altre aziende omogenee per natura dell’attività, settore di appartenenza, ambito geografico di operatività, dimensione. Questi profili infatti condizionano sensibilmente i valori che possono assumere tali indicatori. Per cui sarebbe necessario disporre di capaci data-base che con rapide frequenze selezionino degli opportuni campioni di confronto.
Il limite principale tuttavia dipende dalla natura consuntiva dei dati contabili. Questi ultimi riepilogano gli esiti monetari delle operazioni concluse e, finché si usano dati patrimoniali ed economici, sono in parte condizionati da soggettivi criteri di valutazione. Non si è in grado con essi di capire quali siano le prospettive gestionali, l’esito futuro degli investimenti in corso, le riserve di indebitamento dell’impresa, tutti elementi che condizionano notevolmente l’esistenza o meno di probabilità di insolvenza futura.
In particolare, in questa sede si vuole solo avvisare del rischio di impiego acritico dei cosiddetti “modelli di previsione delle insolvenze” nell’accertamento della crisi di impresa. Tali modelli si basano nella maggior parte dei casi sull’analisi discriminante (a partire dal famoso modello di Altman del 1968) nel senso che l’autore del modello ha selezionato una certa funzione tipo Z = aX1 + bX2 + cX3 + dX4 +eX5+………..dove le X sono costituite dagli indici di bilancio che lo sviluppatore ritiene più opportuni e le lettere rappresentano i pesi attribuiti. Applicando tale funzione al bilancio di un’impresa si ottiene un certo valore Z che, comparato con dei valori soglia che in precedenza l’autore ha calcolato usando un campione di imprese “sane” ed un campione di imprese insolventi, permette di capire se l’impresa esaminata “assomiglia di più” alle prime o alle seconde. Tali modelli non esprimono la probabilità di insolvenza ma solo la somiglianza dell’impresa esaminata a quel campione di imprese insolventi usato per calcolare il valore Z di soglia. Per cui qualunque diversità spaziale, temporale, dimensionale (solo per limitarci alle differenze più significative) tra l’impresa esaminata e tale campione, finisce per rendere di nessun rilievo il confronto tra gli Z score. Purtroppo ogni tanto in qualche relazione art. 33 L.F. o in qualche CTU o CTP è dato ritrovare un impiego di tali modelli senza alcuna valutazione preventiva sulla loro applicabilità al caso in esame.
c) L’approccio interno-previsionale
Il terzo approccio definisce la crisi sulla base dei piani economico-finanziari. Si capisce quindi che esso sia possibile solo disponendo di una vista “interna” dell’impresa, che permetta di consultare i piani previsionali predisposti dall’imprenditore. Esso si qualifica “previsionale” nella misura in cui i piani espongono la futura dinamica gestionale e non si basano, così come nell’approccio precedente, sui consuntivi della gestione trascorsa. Si può già percepire che definendo in termini generali la crisi come probabilità (futura) di insolvenza, tale approccio sia quello più logico in quanto si preoccupa di valutare contabilmente quale sarà il momento futuro in cui l’azienda diverrà insolvente, ossia senza più disponibilità finanziarie per adempiere le obbligazioni assunte.
Chi scrive è convinto della necessità di questo approccio, tanto da aver proposto in vari contesti la crisi come sistematica incapacità dei flussi di cassa reddituali attuali e prospettici di fronteggiare l’adempimento delle obbligazioni assunte e pianificate tramite il normale andamento gestionale. E si è con piacere osservato che tale definizione è stata ripresa, con lievi modifiche dal recentissimo documento “Informativa e valutazione nella crisi d’impresa” del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili[3].
Si consideri il primo elemento componente tale definizione, cercando di delinearne meglio il profilo tecnico:
sistematica incapacità dei flussi di cassa reddituali attuali e prospettici di adempiere le obbligazioni assunte e pianificate
In parole semplici, tale condizione significa che l’impresa non è in grado di generare prospetticamente, tramite la propria gestione caratteristica, sufficiente cassa per il pagamento dei debiti. Il riferimento deve essere non solo limitato alle disponibilità liquide attuali e ai debiti attuali, altrimenti si ricadrebbe nell’approccio interno-consuntivo, quanto anche a quella cassa ed a quei debiti ad oggi non risultanti ma la cui assunzione futura sia pianificata sulla base del previsto andamento gestionale (es. se si ipotizza un certo volume di acquisti futuri, se ne dovranno pianificare i relativi esborsi).
I due profili tecnici implicati da tale definizione riguardano il concetto di flusso di cassa reddituale e la sua relazione con gli altri flussi e il ruolo dei piani finanziari prospettici. È opportuno quindi chiarire meglio questi due aspetti.
Il flusso di cassa reddituale (o operativo) è la differenza tra entrate monetarie da clienti e uscite monetarie a fornitori di beni e servizi. Esso rappresenta la prima delle tre aree di cui si compone il rendiconto finanziario. Le altre due aree sono costituite dal flusso di cassa da investimenti (uscite per nuovi acquisti, entrate per dismissioni) e dal flusso di cassa da finanziamenti (entrate per nuovi finanziamenti, a titolo di capitale proprio o di debiti di finanziamento ed uscite per dividendi e rimborsi dei medesimi oltre a pagamento di dividendi). Per inciso, il D.Lgs 139/2015 ha introdotto con il nuovo art. 2425-ter l’obbligo di redazione del rendiconto finanziario per le imprese al di sopra dei limiti di cui al 2435-bis per gli esercizi che iniziano dal 1 gennaio 2016.
In un’impresa in equilibrio, tali flussi di cassa reddituali devono essere positivi e impiegati per investire nella struttura e rimborsare armonicamente i finanziamenti ottenuti. In altre parole, in equilibrio il flusso di reddituale di cassa deve essere superiore alla somma degli altri due flussi, in modo da ottenere liquidità finali maggiori delle iniziali, idonee a supportare i successivi esercizi.
Il piano finanziario con i suddetti flussi di cassa prospettici è il documento base su cui poggia la definizione di crisi sopra riportata, in quanto è nel suo sviluppo che si può prospettare una futura insolvenza.
A mero titolo di esempio, si supponga che l’azienda all’inizio del 2015 adotti una pianificazione che copre i tre semestri successivi con i seguenti valori.
Consuntivo 2014 |
1° sem. 2015 previsione |
2° sem.2015 previsione |
1° sem. 2016 previsione |
|
Cassa iniziale |
50 |
80 |
55 |
15 |
Flusso di cassa reddituale |
+ 80 |
+ 15 |
- 10 |
- 20 |
Flusso di cassa da investimenti |
|
|
|
|
Flusso di cassa da finanziamenti |
- 50 |
- 40 |
- 30 |
- 40 |
Flusso di cassa totale del periodo |
+ 30 |
- 25 |
- 40 |
- 60 |
Cassa finale |
80 |
55 |
15 |
- 45 |
Si prospetta che nel primo semestre 2015 il flusso reddituale sia ancora positivo ma non in grado di fronteggiare i rimborsi dei finanziamenti; tale situazione si aggrava nel 2° semestre 2015, pur mantenendo residue disponibilità liquide che permettono di fronteggiare ancora i rimborsi dei finanziamenti. Nel primo semestre 2016 la situazione diviene insostenibile. I flussi di cassa reddituali continuano ad essere previsti negativi ed i rimborsi di finanziamenti pianificati consumano la cassa residua. Si determina quindi uno stato di insolvenza per il quale non si prospetta una inversione di tendenza tramite il normale andamento gestionale, di cui diremo successivamente.
Secondo la definizione suddetta, la crisi dunque si manifesta nel 1° semestre 2015 quando redigendo il suddetto piano finanziario si prospetta una insolvenza, anche se riferita al primo semestre 2016. Ed è a partire da tale momento che gli organi di controllo societari e l’imprenditore dovranno attivarsi per impostare un possibile risanamento. Solo in questo modo si può impostare, come afferma la Raccomandazione dell’Unione Europea, ristrutturazione in una fase precoce. Attendere il 2016 e la verifica della insolvenza effettiva, riduce ovviamente le possibilità di risanamento.
Nel concreto gli organi di controllo, in presenza dei suddetti valori di piano, attiveranno la consultazione con l’imprenditore per capire le possibilità di risanamento, anche tramite ricorso ad operazioni straordinarie (dismissioni cespiti, conferimento nuovi capitali). Se tali opzioni risultano impraticabili o se comunque i loro presunti esiti nei piani conseguentemente modificati non elimineranno la prospettata insolvenza, non rimarrà che attivare l’allerta.
Si consideri adesso il secondo elemento componente la definizione:
tramite l’ordinario andamento gestionale
Questa parte della definizione sta a significare che l’insolvenza prospettica implica la “crisi” anche se siano esperibili per fronteggiarla azioni straordinarie. In questo senso è ovvio che non elimina il concetto di crisi la possibilità che l’azienda ritenga di poter fronteggiare le prospettate insolvenze con dismissione di parte della struttura e/o con aumenti di capitale o ristrutturazioni di debiti previste proprio dalle procedure pre-fallimentari.
Tutte queste azioni esorbitano dall’ordinario andamento gestionale, rappresentando piuttosto strade per il risanamento.
È il caso di precisare se l’incremento dell’indebitamento bancario reso necessario da futuri esborsi, per quanto non pianificato, possa considerarsi “ordinario andamento gestionale”. Chi scrive è dell’avviso che finché tale incremento, anche se non pianificato, rientra nei limiti di fido esistenti si resta nell’ambito dell’ordinario andamento gestionale. Si esce invece dalla portata dell’ordinaria gestione, per quanto non pianificata, se si può pensare di fronteggiare le insolvenze prospettiche confidando in nuovi finanziamenti. D’altra parte, la percezione delle tensioni finanziarie esistenti da parte del canale bancario renderà molto difficile se non impossibile ritenere “ordinaria” l’acquisizione di nuovi linee di finanziamento.
L’approccio interno-previsionale presenta al pari degli altri due approcci, delle obiezioni di cui tener conto.
La prima perplessità deriva dal fatto che la pianificazione finanziaria non è ancora una prassi manageriale diffusa capillarmente. Molte imprese, anche non necessariamente di minore dimensione, sviluppano dei budget solo economici e con orizzonte temporale raramente superiore al termine dell’esercizio successivo. In questo senso ci piace pensare che definire la crisi nei termini suddetti e attribuire conseguentemente agli organi di controllo la responsabilità in chiave di attivazione dell’allerta imponga alle imprese un maggior ricorso di tale strumentazione previsionale. Si tenga poi conto che gli attuali obblighi posti a sindaci e revisori contabili (si veda quanto discusso nel paragrafo successivo) già impongono direttamente o meno una simile pianificazione.
La seconda obiezione deriva dalla circostanza che i piani presentati dall’imprenditore possono essere inattendibili, costruiti anche in buonafede nell’ipotesi che la gestione futura sia ben migliore di quanto uno scrutinio attento facilmente rilevi. In questo senso è di auspicio che la discussione succedutasi intorno al ruolo delle attestazioni del revisore contabile indipendente di cui all’art. 67 e seguenti della attuale Legge Fallimentare ha fatto acquisire piena consapevolezza nella professione dell’importanza di rigorosi standard per la valutazione dei piani, che è sfociata poi nella emanazione e applicazione dei “Principi di attestazione dei piani di risanamento”[4]. La graduale affermazione nella professione di crescenti capacità nella valutazione critica dei piani di impresa è anche favorevolmente supportata dalla ormai necessaria predisposizione di piani quali presupposto per certe valutazioni di bilancio (impairment di avviamento e partecipazioni, recupero imposte anticipate, ecc.).
4. L’uso dei piani e la vigilanza degli organi di controllo sulla crisi d’impresa
La esigenza di sviluppare dei piani aziendali in presenza di indizi di crisi, che sospinge verso l’utilizzo del terzo tipo di approccio per l’accertamento della crisi, non è una novità per gli standard professionali. In merito si evidenziano due ambiti, quello del revisore contabile e quello del collegio sindacale, per i quali vi è già una disciplina rivolta in tale direzione.
Per quanto riguarda l’attività di revisione legale, si richiama l’attenzione sul Principio Revisione ISA Italia 570 (Continuità aziendale), il quale al par. 13 stabilisce che il revisore deve valutare la sussistenza del requisito della continuità aziendale lungo lo stesso orizzonte temporale usato dalla direzione nella propria attività di pianificazione. Lo stesso principio stabilisce che se tale prospezione è inferiore a 12 mesi, il revisore deve comunque estendere la sua valutazione almeno ai prossimi 12 mesi.
Per il Collegio Sindacale, le recenti Norme di comportamento diffuse dal CNDCEC stabiliscono (Norma 11.1. Prevenzione ed emersione della crisi) che “il collegio sindacale, nello svolgimento della funzione riconosciutagli dalla legge, vigila che il sistema di controllo e gli assetti organizzativi adottati dalla società risultino adeguati a rilevare tempestivamente segnali che facciano emergere dubbi significativi sulla capacità dell’impresa di continuare ad operare come una entità in funzionamento.
Il collegio sindacale può chiedere chiarimenti all’organo di amministrazione e, se del caso, sollecitare lo stesso ad adottare opportuni provvedimenti.
Quindi nel commento di tale principio, si legge che “…..Di talché ogni volta in cui il collegio sindacale, anche a seguito dello scambio di informazioni con l’incaricato della revisione legale, ritenga che il sistema di controllo interno e gli assetti non risultino adeguati a rilevare segnali che possano far emergere dubbi significativi sulla capacità dell’impresa a continuare ad operare come entità in funzionamento è opportuno che:
· Il collegio richieda all’organo amministrativo di fornire informazioni e chiarimenti in merito (cfr. Norme 4.2. e 5.2.);
· il collegio richieda all’organo amministrativo di intervenire tempestivamente ponendo in essere provvedimenti idonei a garantire la continuità aziendale nel caso di conferma dei dubbi o di insufficienti informazioni e chiarimenti da parte degli amministratori;
· il collegio vigili sull’attuazione dei provvedimenti adottati dall’organo amministrativo, sollecitando, se del caso, l’adozione anche di uno degli istituti di composizione negoziale della crisi.
È auspicabile che il collegio sindacale vigili attentamente effettuando controlli e ispezioni tanto più mirati quanto più evidenti siano i segnali di crisi.”
In sostanza, sebbene non esclusivamente riferiti alla crisi, quanto al più generale problema della continuità aziendale, gli organi di controllo sono già tenuti a richiedere all’impresa l’impiego di strumenti di pianificazione capaci di prospettare probabili insolvenze.
5. Una riflessione di sintesi
Una definizione puntuale della crisi nell’impianto normativo è ormai necessaria per accrescere la consapevolezza nelle imprese della necessità di prospettarla precocemente in modo funzionale ai tentativi di risanamento. Tale definizione dovrebbe contestualmente chiarire le evidenze documentali e la strumentazione tecnico-amministrativa necessaria per il suo precoce accertamento.
Dei tre approcci presentati, si è cercato di evidenziare la necessità dell’approccio interno-previsionale, che riposa sullo sviluppo di attendibili piani finanziari. Gli organi di controllo societari già adesso sono responsabilizzati sulla esigenza di richiedere all’impresa tale prospezione. Con l’istituzione probabile dell’allerta nella prossima riforma della Legge Fallimentare, lo saranno ancor di più in futuro. In questa direzione, si spera che la prossima obbligatorietà del rendiconto finanziario quale terzo prospetto contabile del bilancio favorirà ulteriormente questa necessaria diffusione della cultura della pianificazione finanziaria.
[1] Alberto Quagli è professore ordinario di Economia Aziendale presso l’Università di Genova, presidente di APRI (Associazione Professionisti per il Risanamento di Impresa). Ha coordinato il gruppo di lavoro AIDEA-ANDAF-APRI-IRDCEC per la definizione dei “Principi di Attestazione di Piani di Risanamento”. È membro della Commissione Rordorf. Le opinioni espresse in questo contributo sono espresse a titolo personale.
[2] Testo disponibile sub http://ec.europa.eu/justice/civil/files/c_2014_1500_it.pdf
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