Societario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 10/12/2015 Scarica PDF
La «specificitá» delle clausole statutarie di esclusione del socio di s.r.l.: un invito alla dottrina
Giovanni Cucchiarato, Avvocato specializzato in M&A e diritto societarioSommario: 1. Decisione e motivazione. – 2. La vicenda. – 3. La giurisprudenza. – 4. Le implicazioni pratiche dell´orientamento giurisprudenziale prevalente. – 5. La malleabilità del dato normativo. – 6. Conclusioni.
1. Introduzione
Innovando rispetto all´ordinamento societario previgente, il legislatore della riforma organica delle società di capitali ha previsto – nel contesto di un più ambizioso progetto di “autonomizzazione” della disciplina del tipo da quella delle societá azionarie – che i soci di una società a responsabilità limitata possano inserire in statuto una clausola di esclusione: in tal caso, però, dovranno curarsi di prevedere – dice l´art. 2473-bis c.c. – «specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa».
Secondo il Giudice del provvedimento in commento[1], in applicazione della suddetta disposizione di legge, «[l]a previsione statutaria a mente della quale è ammessa l’esclusione del socio che “si renda gravemente inadempiente alle obbligazioni che derivano dalla Legge e dallo Statuto, ovvero in qualsiasi modo causi discredito commerciale alla società o leda il rapporto di fiducia con gli altri soci” [dovrebbe dirsi] priva del requisito della specificità», in quanto:
(a) «[si limita] a fare riferimento alla clausola generale ex art. 2286 c.c., senza alcuna tipizzazione preventiva dei comportamenti inadempienti ex ante considerati rilevanti quanto ad area e a gravità ai fini della esclusione [deve] ritenersi invalida»; e
(b) «indeterminata l’area dei comportamenti che potranno essere valutati dalla maggioranza ai fini di imporre l’exit a un membro della compagine, disattende in sostanza la ratio della previsione normativa».
La decisione – e con essa le numerose pronunce di analogo od identico tenore rese dalle corti nostrane nel corso degli ultimi 10 anni – non è però condivisibile: essa infatti conduce allo svilimento dell´istituto, che in pratica non può quasi mai essere utilizzato.
Nel prosieguo, compendiati i termini fattuali della vicenda e della motivazione elaborata dal Giudice milanese e brevemente illustrate le evoluzioni della giurisprudenza in tema, si evidenziano i limiti pratici dell´esegesi ad oggi preferita dalle corti nostrane e, poco dopo, la possibilità di pervenire ad una più morigerata interpretazione alternativa: che – tanto si auspica nelle conclusioni – la dottrina saprà prontamente offrire.
2. La vicenda
In questo paragrafo si dà breve atto (a) della vicenda e (b) della decisione adottata dal Giudice milanese e della relativa motivazione.
(a) I fatti e la decisione
Il socio di una s.r.l. era stato estromesso dalla societá ed aveva pertanto impugnato la relativa delibera. A suo dire, la clausola statutaria era infatti “generica” e, pertanto, nulla per violazione della disposizione di cui all’art. 2473-bis c.c. Questi, in conclusione, aveva pertanto formulatodomanda di declaratoria di invalidità della delibera di esclusione.
La società convenuta aveva eccepito che la clausola fosse certamente da dirsi caratterizzata da un sufficiente grado di specificitá e sottolineato, in subordine, come le preoccupazioni circa il rischio di un possibile abuso da parte della maggioranza associati ad una clausola di tal fatta non fossero giustificate, perché vi sarebbe comunque stata la possibilitá per il socio escluso di provocare un sindacato giudiziale sul merito della delibera.
Il Tribunale ha ritenuto – come accennato – che le ipotesi di giusta causa contemplate nello statuto della società siano generiche – ossia carenti sotto il profilo della “specificità” imposta dall’art. 2473-bis c.c. e, pertanto, in contrasto con la previsione di legge.
(b) La motivazione
A motivazione della decisione la corte richiama alcune decisioni rese in precedenza dallo stesso Tribunale, limitandosi a riassumerne il ragionamento nei termini seguenti: «[…] la peculiarità della disciplina ex art. 2473-bis c.c., con la quale il legislatore del 2003, innovando rispetto al precedente regime della s.r.l., [è che essa] ha previsto per tale tipo sociale la possibilità di esclusione del socio oltre che nel caso, comune alla s.p.a. e previsto anche nel sistema previgente, della mancata esecuzione dei conferimenti disciplinato dall´art. 2466 c.c., anche nel caso di “giusta causa” contemplata da apposita clausola statutaria la quale individui “specifiche ipotesi” di esclusione” appunto per giusta causa, richiedendo dunque una predeterminazione statutaria dei casi di esclusione, predeterminazione che, per rispettare il dato normativo, deve corrispondere ai due requisiti: - della riconducibilità del caso di esclusione alla nozione di giusta causa […]; e della specificità […]».
Poco più chiari, al riguardo, erano stai i provvedimenti cui è fatto rinvio nella decisione in commento[2], dove si può leggere che la corrente interpretazione della disposizione di cui all´art. 2473-bis c.c. si spiega in quanto «il legislatore, mediando consapevolmente tra la natura capitalistica del contratto costitutivo di s.r.l. (e l´organizzazione che ne scaturisce) e la possibilità per le parti di accentuarne […] il sostrato personale, ha sì introdotto anche nelle ss.r.l. la possibilità che l´atto costitutivo preveda la facoltà dei soci di escludere uno di essi, ma la ha appunto subordinata – non come nelle società personali – alla mera constatazione di gravi inadempienze alle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale […] ed al conseguente venire meno dell´intuituspersonae che connota la disciplina delle società non capitalistiche, bensì alla specifica predeterminazione di fattispecie tipizzate di giusta causa, proprio allo scopo di evitare che la decisione di esclusione possa volta per volta essere riempita con una valutazione discrezionale della maggioranza in merito alla ricorrenza della giusta causa stessa».
Oltretutto – nota ora il tribunale milanese – a legittimare una meno stringente lettura della disciplina controversa non varrebbe neppure rilevare che una valutazione giudiziale “caso per caso” circa le concrete modalità di esercizio del potere di esclusione è comunque in ogni caso resa necessaria dall’impossibilità di operare a priori una completa mappatura di tutte le ipotesi di grave inadempimento o di violazione del pactum fiduciae tra i soci, perché la diversità di contenuti della disciplina dell’esclusione del socio di società a responsabilità limitata rispetto a quella di cui all´art. 2286 c.c. non può essere considerata irrilevante, ma deve – al contrario – essere massimamente valorizzata.
3. La giurisprudenza
Nel decidere in tal senso, il Tribunale milanese si è uniformato all´orientamento prevalente in giurisprudenza.
Di seguito, per un verso si dà atto – delle pronunce rese ad oggi sulla stessa questione; e per altro verso si sintetizza l´orientamento dominante.
(a) I precedenti
Numerosi sono infatti i precedenti in termini:
(1) Trib. Treviso, 17 giugno 2005[3] – è nulla la pattuizione incentrata, tra l´altro, sul richiamo allo «svolgimento di attività dirette ad arrecare pregiudizio alla vita sociale»;
(2) Trib. Milano, 5 febbraio 2009[4] – è invalida, perchè generica, la clausola che consente di escludere il socio nel caso di inadempimento agli obblighi di buona fede e correttezza[5];
(3) Trib. Trento, 4 aprile 2013[6] – è nulla, perchè generica, la pattuizione in base alla quale sarebbe stato possibile escludere il socio in ragione di «comportamenti che compromettono il corretto funzionamento della società»[7];
(4) Trib. Milano, 7 novembre 2013[8] – «è nulla per mancanza del requisito di specificita` richiesto dall’art. 2473 bis c.c. la clausola statutaria di s.r.l. che si limiti a riprodurre la formula impiegata dal legislatore nell’art. 2286 c.c., in base al quale può essere escluso il socio che si renda gravemente inadempiente alle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale»;
(5) Trib. Milano, 28 febbraio 2014[9] – «la previsione statutaria a mente della quale è ammessa l’esclusione del socio che “si renda gravemente inadempiente alle obbligazioni che derivano dalla Legge e dal presente Statuto” risulta priva del requisito della specificità, limitandosi a fare riferimento alla clausola generale ex art. 2286 c.c., senza alcuna tipizzazione preventiva dei comportamenti inadempienti ex ante considerati rilevanti quanto ad area e a gravità ai fini della esclusione. Essa, pertanto, lasciando indeterminata l’area dei comportamenti che potranno essere valutati dalla maggioranza ai fini di imporre l’exit a un membro della compagine, disattende in sostanza la ratio della previsione normativa e deve, in conseguenza, ritenersi invalida»;
Constano, tuttavia, anche prese di posizione in senso contrario. Valga in particolare richiamare:
(6) Trib. Milano, 31 gennaio 2006[10] – è valida la clausola che prevede la possibilità di escludere il socio il quale non partecipi senza giustificato motivo ai lavori dell´assemblea, con la sua condotta renda impossibile il funzionamento dell´assemblea, nonchè commetta gravi inadempienze che non solo impediscono il raggiungimento dello scopo sociale, ma incidono negativamente sulla situazione della società, rendendone agevole il perseguimento i fini istituzionali suoi propri ovvero assuma obbligazioni in nome e per conto della società senza averne i poteri;
(7) Trib. Modena, 12 dicembre 2007[11] – è valida la clausola che consente escludere il socio che abbia prestato attività in favore di altra impresa concorrente;
(8) Trib. Lucca, 3 novembre 2004[12] – “specifici” i contenuti della previsione in forza della quale poteva escludersi il socio «al verificarsi delle seguenti circostanze, da intendersi quali fattispecie di giusta causa in quanto configurano una grave violazione dei doveri posti a suo carico – tra cui – l´esercizio di una attività concorrente, svolta direttamente o partecipando in qualsiasi forma ad una società o anche per interposta persona o ente, esplicata nei confronti dei clienti nel portafoglio della società»[13].
(b) Una sintesi: la summa divisio tra clausole “specifiche” e clausole “generiche”
Le posizioni della giurisprudenza, al di là delle peculiarità delle singole vicende sottoposte all´attenzione dei giudici nei singoli casi, sono chiare: almeno tendenzialmente, i tribunali nazionali offrono una interpretazione del disposto legislativo alquanto restrittiva, in conseguenza della quale:
(i) le clausole incentrate sul richiamo eventi precisi («interdizione», «inabilitazione», «fallimento» del socio o sua «condanna alla reclusione per un periodo minimo», «cancellazione del socio da un determinato albo» sono da dirsi con sicurezza valide;
(ii) le clausole incentrate sul mero riferimento all’esistenza di una «giusta causa» di esclusione, anche quelle pattuizioni che consentano di disporre l’esclusione del socio sulla scorta del sintetico richiamo a «la violazione dei doveri di collaborazione nei confronti della società», «lo svolgimento di attività atte a fomentare dissidi o ad arrecare pregiudizio alla vita sociale», «la violazione degli obblighi di correttezza o buona fede», «gravi inadempimenti delle obbligazioni derivanti dalla legge o dall’atto costitutivo» devono reputarsi inammissibili o comunque, se inserite in statuto, dirsi nulle.
4. Le implicazioni pratiche dell´orientamento giurisprudenziale prevalente
La scelta delle corti di interpretare restrittivamente il dato normativo può dirsi plausibile solo ove valutata in termini astratti, ossia come esito di un processo esegetico del tutto indifferente alle conseguenze che ne derivano sul piano applicativo.
Ove, invece, se ne considerino le implicazioni pratiche, i suoi limiti sono evidenti e, invero, anche preoccupanti: siccome è impossibile per le parti prevedere quali in concreto saranno le condotte idonee – ad esempio – a ledere «la reputazione commerciale della società» o a «pregiudicare il rapporto di fiducia con gli altri soci», queste clausole sono per forza di cose destinate, alla luce di quanto già brevemente osservato, ad essere dette “nulle”.
In tal modo, però, la applicazione del rimedio finisce per essere inevitabilmente limitata e certamente del tutto esclusa ove vengano in rilievo disfunzioni dei rapporti endosocietari causati dal contegno “scorretto” di uno dei membri della compagine sociale.
È però proprio allora che vale la pena fare luogo all´esclusione del socio, al fine di ripristinare i presupposti per la ottimale e piana esecuzione del contratto sociale.
Da qui la necessitá di valutare se, ed eventualmente in che misura, il disposto di legge consenta altre, meno “inabilitanti” soluzioni interpretative.
5. La malleabilità del dato normativo
È agevolmente constatabile come tutte le decisioni che hanno invalidato le clausole statutarie di esclusione per carenza del requisito della “specificità” muovano dall´implicito presupposto che il diritto positivo rivolga ai privati un comando essenziale ed inequivocabile (e cioè che il contenuto delle clausole di esclusione debba essere tale da identificare in modo analitico le vicende dalle quali potrà eventualmente dipendere la futura estromissione del socio). Non sembra peró che ad una tale conclusione debba pervenirsi necessariamente ed inevitabilmente.
Dal modesto punto di vista del pratico, ci si limita a sottolineare che l´espressione «specifiche ipotesi di giusta causa» sembra più che altro preordinata a comandare ai privati di declinare il concetto di «giusta causa» in base alle concrete e mutevoli preferenze delle parti, al fine di predefinire, in ottica garantista, le situazioni che varranno (se del caso) a legittimare l´esclusione di un membro della compagine sociale.
Se non ci si inganna, dovrebbe allora farsene logicamente derivare che nulla interessa al diritto positivo della preferenza dai privati accordata, a seconda dei casi, ad espressioni “analitiche” o ad espressioni “sintetiche”; e pertanto, nella misura in cui ci si muova nel perimetro del concetto di «giusta causa», qualsiasi clausola di esclusione dovrebbe dirsi salva.
Del resto (e da altro punto di vista), è davvero difficile immaginare come si possa migliorare, sotto il profilo della specificità, una clausola che ad esempio preveda – come appunto era a dirsi nel caso di specie – la possibilità di escludere il socio il quale «si renda gravemente inadempiente alle obbligazioni che derivano dalla Legge e dallo Statuto, ovvero in qualsiasi modo causi discredito commerciale alla società o leda il rapporto di fiducia con gli altri soci».
L´altro argomento cui la giurisprudenza si richiama per legittimare decisioni come quelle in esame è quello secondo cui una tale lettura del disposto di legge sarebbe necessario per evitare che la discrezionalità della maggioranza preluda ad una esclusione arbitraria.
Anche a tal riguardo è sufficiente notare come, pur essendo vero che una clausola del genere si risolve nel riconoscimento di certi margini di discrezionalità alla maggioranza (maggiori, intuibilmente, rispetto a quelli consentiti da una qualunque delle clausole che la giurisprudenza dice legittime), il socio escluso ha comunque il diritto di impugnare il provvedimento e ottenere un sindacato sul punto da parte di un giudice indipendente.
Il che – appare chiaro – vale comunque a tutelare il socio dal rischio di una estromissione abusiva, di guisa che invocarne la attualizzazione per legittimare una più restrittiva interpretazione denota soltanto una visione distorta, parziale dei rapporti tra regole sostanziali e funzione giurisdizionale, almeno nella misura in cui si pretende che le prime diventino strumento esclusivo di disciplina della condotta dei consociati ed implicitamente si escluda che la seconda possa valere a ripristinare lo status quo ante nel caso di loro violazione.
6. Conclusioni: un invito alla dottrina
La giurisprudenza dominante ritiene che il requisito della specificità imposto dal legislatore con riferimento alle clausole statutarie di esclusione possa dirsi soddisfatto solo a condizione che la regola negoziale richiami eventi specifici.
Tale interpretazione si risolve in una forte riduzione degli spazi di utilizzabilità del rimedio.
Auspicabile è che la dottrina, finora insensibile al tema concernente le implicazioni pratiche dell´orientamento giurisprudenziale prevalente, si curi (finalmente) di segnalare le limitazioni “operative” scaturenti da questa impostazione e, quindi, di offrire un´opzione interpretativa alternativa idonea a consentire, se seguita dalle corti, il recupero delle potenzialità del rimedio.
* * *
Tribunale MILANO, 5.9.2014 (dep.) – Pres. Est. Riva Crugnola – A. Caracciolo (Avv.ti Maridati e Mazzotti) v. Viar Engineering S.r.l. (Avv.ti Toffoletto, Cherubini e Tarrino)
Società a responsabilità limitata – Esclusione – Clausola statutaria – Giusta causa – Genericità – Nullità – Sussistenza
(Cod. civ., artt. 2473-bis; 1418, comma 2).
«La previsione statutaria a mente della quale è ammessa l’esclusione del socio che “si renda gravemente inadempiente alle obbligazioni che derivano dalla Legge e dallo Statuto, ovvero in qualsiasi modo causi discredito commerciale alla società o leda il rapporto di fiducia con gli altri soci” risulta priva del requisito della specificità, limitandosi a fare riferimento alla clausola generale ex art. 2286 c.c., senza alcuna tipizzazione preventiva dei comportamenti inadempienti ex ante considerati rilevanti quanto ad area e a gravità ai fini della esclusione. Essa, pertanto, lasciando indeterminata l’area dei comportamenti che potranno essere valutati dalla maggioranza ai fini di imporre l’exit a un membro della compagine, disattende in sostanza la ratio della previsione normativa e deve, in conseguenza, ritenersi invalida».
«E’ legittima la cognizione incidentaledi questioni pregiudiziali da parte del giudice ordinario (nel caso di specie, della validità della detta clausola di esclusione) anche ove tali questioni siano compromettibili in arbitri in forza di apposita clausola compromissoria» (massima non ufficiale) (2).
(… omissis …) – I. L’attore ing. A. Caracciolo, quale socio della Viar Engineering s.r.l., ha impugnato (con atto di citazione affidato alle poste per la relativa notifica il 4.2.2013) la delibera adottata in sua assenza dall’assemblea dei soci della s.r.l. l’11.12.2012 recante la sua esclusione dalla società, delibera a suo dire invalida[14] in quanto:
1. la esclusione è stata deliberata per giusta causa ex art. 2473-bis c.c. in riferimento alle previsioni ex art. 10, lettere a) e d), dello statuto della s.r.l., configuranti quale giusta causa: «a) gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale», «d) qualsiasi circostanza che causi discredito commerciale alla società o leda il rapporto di fiducia con gli altri soci», previsioni di per sè generiche e prive del requisito della specificità richiesto dall’art. 2473-bis c.c., con conseguente nullità della clausola statutaria sulla quale si regge la delibera;
2. la giusta causa sarebbe comunque da escludere nel caso di specie, data la risalenza nel tempo delle condotte addebitate;
3. nella delibera è stato addebitato, quale giusta causa di esclusione, lo svolgimento di attività di concorrenza sleale in relazione a prestazioni del socio escluso in favore della Officina Meccanica Melesi & C., svolgimento che, al più, rappresenterebbe inadempimento alle obbligazioni del Caracciolo quale amministratore della s.r.l. convenuta e non già inadempimento del socio alle obbligazioni nella esecuzione del contratto sociale, essendo poi irrilevante il patto parasociale 26.11.2008;
4. la condotta concorrenziale addebitata al socio escluso non è in concreto sussistente.
II. La convenuta ha contrastato la impugnazione avversaria, illustrando le condotte concorrenziali del Caracciolo, in relazione alle quali è stata presentata denuncia penale e promossa nell’aprile 2013 azione di responsabilità; e inoltre:
1. a) eccependo la inammissibilità di cognizione incidentale da parte del Tribunale quanto alla nullità della clausola statutaria ex art. 10, rispetto alla quale l’attore non avrebbe comunque formulato in citazione specifica domanda, domanda di per sè, inoltre, riservata alla cognizione arbitrale ai sensi dell’art. 38 dello statuto (recante una eccezione a tale cognizione per la sola “opposizione” alla delibera di esclusione); [e] b) affermando la validità della clausola statutaria, conforme al significato letterale e sistematico dell’art. 2473-bis c.c.;
2. affermando la rilevanza del comportamento del socio amministratore quanto alla permanenza del rapporto fiduciario tra i soci, tenuto anche conto del carattere di società chiusa della s.r.l. convenuta e dell’intuitus personae emergente nelle vicende relative alla sua costituzione, con rilevanza del patto parasociale a colorare i doveri del socio; [e, infine,]
3. affermando la sussistenza di gravi condotte del Caracciolo, non solo in senso concorrenziale ma anche nel senso di distrazione di know how dalla convenuta con violazione anche della norma generale ex art. 98 CPI.
III. Nelle memorie ex art. 183, sesto comma, c.p.c., le parti hanno ribadito le rispettive posizioni, in particolare: - l’attore, nella sua prima memoria, contrastando l’eccezione avversaria sub 1. a. e precisando le conclusioni con richiesta, “ove occorra” di accertamento incidentale della nullità della clausola statutaria in discussione, nonchè affermando il carattere non concorrenziale dell’attività addebitata, dato il diverso core business tipico delle due imprese Viar Engineering S.r.l. e Officine Melesi S.r.l.; - la convenuta, nella sua seconda memoria, eccependo la tardività delle nuove conclusioni avversarie; - entrambe le parti deducendo poi prove orali.
IV.1. Ritenuta quindi dal G.I. la causa matura per la decisione, le parti hanno precisato le conclusioni come sopra riportate ed hanno depositato le difese conclusionali. All’esito di tale contraddittorio, reputa il Tribunale che l’impugnazione debba essere accolta, risultando fondato il motivo di impugnazione come sopra indicato sub 1.
2. Al riguardo va in primo luogo ritenuto condivisibile l’orientamento già seguito da questo Tribunale in altre pronunce in tema di interpretazione della disciplina ex art. 2473-bis c.c., orientamento: - in particolare espresso nell’ordinanza cautelare monocratica del 5.11.2013, confermata dal collegio con provvedimento del 28.2.2014 nel procedimento di reclamo n. 81078/2013[15], alla cui motivazione può qui farsi rinvio; - e secondo il quale: « [l]a previsione statutaria a mente della quale è ammessa l’esclusione del socio che “si renda gravemente inadempiente alle obbligazioni che derivano dalla Legge e dal[lo] Statuto” risulta priva del requisito della specificità, limitandosi a fare riferimento alla clausola generale ex art. 2286 c.c., senza alcuna tipizzazione preventiva dei comportamenti inadempienti ex ante considerati rilevanti quanto ad area e a gravità ai fini della esclusione. Essa, pertanto, lasciando indeterminata l’area dei comportamenti che potranno essere valutati dalla maggioranza ai fini di imporre l’exit a un membro della compagine, disattende in sostanza la ratio della previsione normativa e deve, in conseguenza, ritenersi invalida », dunque applicabile nella presente fattispecie, nella quale, come si è visto sopra: - una delle ipotesi statutarie di giusta causa di esclusione richiamate dalla delibera impugnata consiste nel grave inadempimento alle obbligazioni derivanti dalla legge o dal contratto sociale, - e l’altra ipotesi si riferisce a «qualsiasi circostanza» screditante sul piano commerciale la società ovvero lesiva del rapporto fiduciario tra i soci, risolvendosi dunque anch’essa in una clausola generale.
Nè a confutare tale orientamento possono poi valere, ad avviso del Tribunale, le argomentazioni difensive svolte in senso contrario dalla convenuta (cfr. in particolare comparsa di risposta, pagg. 18 e ss.), le quali, pur se pregevolmente formulate, si risolvono nel richiamo alla imprescindibilità della valutazione della giusta causa «caso per caso», in riferimento alla non predeterminabilità di tutte le ipotesi di grave inadempimento o di violazione del pactum fiduciae tra i soci, citando al riguardo pronunce rese in materia di società di persone, e così, in sostanza, vengono a negare la peculiarità della disciplina ex art. 2473-bis c.c., con la quale il legislatore del 2003, innovando rispetto al precedente regime della s.r.l., ha previsto per tale tipo sociale la possibilità di esclusione del socio oltre che nel caso, comune alle s.p.a. e previsto anche nel sistema previgente, della mancata esecuzione dei conferimenti disciplinato dall’art. 2466 c.c. anche nel caso di “giusta causa” contemplata da apposita clausola statutaria la quale individui «specifiche ipotesi di esclusione» appunto per giusta causa, richiedendo dunque una predeterminazione statutaria dei casi di esclusione, predeterminazione che, per rispettare il dato normativo, deve corrispondere ai due requisiti: - della riconducibilità del caso di esclusione alla nozione di giusta causa (codificata, quanto alla estinzione del rapporto di lavoro, dall’art. 2119 c.c. quale «causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto» e richiamata anche in altre aree del diritto privato, cfr., ad esempio, art. 2383 c.c. in tema di revoca degli amministratori di s.p.a., art. 2285 c.c. in tema di recesso da società di persone, art. 1725 cc in tema di revoca del mandato oneroso); - e della specificità, secondo un regime significativamente differente rispetto a quello preesistente e tuttora vigente in materia di società di persone, nel quale l’esclusione del socio si fonda su clausole normative generali e non richiede previsioni statutarie espresse e specifiche (cfr. art. 2286 c.c.).
Ciò posto quanto alla contrarietà della clausola statutaria in esame rispetto alla disciplina legale, e, dunque, quanto alla inidoneità di tale clausola, da ritenere nulla, a sorreggere la delibera di esclusione, va esaminata l’eccezione della convenuta, secondo la quale la cognizione incidentale della nullità della clausola sarebbe preclusa al Tribunale, posto che: - da un lato difetterebbe in citazione specifica conclusione dell’attore al riguardo, con conseguente inammissibilità della «nuova» conclusione formulata dall’attore nella sua prima memoria; - d’altro lato, poi, tale cognizione sarebbe riservata agli arbitri ai sensi della clausola compromissoria di cui all’art. 38 dello Statuto della società, al quale l’art. 10 dello stesso Statuto prevede espressa deroga solo per la introduzione da parte del socio escluso di opposizione «al Tribunale competente». L’eccezione è infondata, ad avviso del Tribunale, dovendosi considerare, quanto al primo profilo: - che la richiesta di «accertamento incidentale, ove occorra» della nullità della clausola statutaria in tema di esclusione appare ricavabile dal complessivo tenore della citazione, dalla cui lettura emerge chiaramente la deduzione di tale nullità quale motivo di invalidità della delibera impugnata (cfr. in particolare p.8), cosicchè la esplicitazione di tale richiesta in sede di prima memoria ex art. 183, sesto comma c.p.c.: non può essere considerata quale conclusione nuova, integrante una – non consentita in tale sede – mutatio libelli, o ma una mera precisazione della domanda nel senso della emendatio libelli, come tale pienamente ammissibile ai sensi del n. 1 del sesto comma dell’art. 183 c.p.c.
3. Quanto al secondo profilo va poi in primo luogo rilevato: - che la conclusione dell’attore appena sopra citata, o di “accertamento incidentale, ove occorra” di nullità della clausola statutaria, data la sua stessa formulazione dubitativa («ove occorra»), non può essere intesa come comprendente espressa richiesta nel senso che tale accertamento sia svolto con efficacia di giudicato, sicchè la relativa questione, secondo un condivisibile orientamento, va configurata quale questione pregiudiziale «riservata all’accertamento del giudice della causa pregiudicata da compiersi, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., solamente in via incidentale – salvo che talune delle parti, che dimostri di avervi un concreto interesse trascendente quello immediato alla risoluzione della controversia, non chieda una pronuncia con efficacia di giudicato sulla specifica questione» (così, ad es., Cass. n. 1639/2012, in motivazione; nello stesso senso cfr. anche Cass. n. 8093/2013), l’accertamento incidenter tantum non essendo poi in particolare precluso dal fatto che la questione sia di per sè riconducibile alla giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. ancora Cass. n. 1639/2012, nonchè Cass. SS.UU., n. 11512/2012) ovvero alla giurisdizione tributaria (cfr., ad es., Cass. SS.UU. n. 206472011).
E tali principi, contrariamente a quanto sostenuto dalla convenuta, ad avviso del Tribunale devono applicarsi anche nei rapporti tra giurisdizione ordinaria e arbitri, considerato: - che la disciplina ricavabile dall’art. 34 c.p.c. - sulla riserva, in capo al giudice della causa pregiudicata, di accertamenti incidentali senza efficacia di giudicato su questioni pregiudiziali appare espressione di un principio sistematico generale, coerente con il canone costituzionale di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost. e, del resto, espressamente sancito, nel rapporto speculare tra arbitri e giurisdizione ordinaria, dalla nuova versione dell’art. 819, primo comma, c.p.c.[16]; e che, dunque, la contraria soluzione sostenuta dalla convenuta, escludente la cognizione incidenter tantum di questioni pregiudiziali da parte del giudice ordinario laddove le stesse siano riconducibili a clausola compromissoria, si risolverebbe in un ingiustificato detrimento di posizioni processuali quale quella dell’attore, in contrasto con i principi ex artt. 3 e 24 Cost., in sostanza facendo discendere dalla previsione statutaria di clausola compromissoria non applicabile alle controversie in tema di opposizione alla esclusione del socio, la non conoscibilità in via incidentale da parte del giudice ordinario di questioni pregiudiziali rilevanti quanto alla validità di tale esclusione (questioni, si noti, la cui presenza neppure può determinare la sospensione del giudizio ordinario in attesa della loro decisione da parte degli arbitri, posta la non applicabilità dell’art. 295 c.p.c. ai rapporti tra arbitrato e processo, inapplicabilità sancita dall’art. 819-ter secondo comma c.p.c.), così in particolare contraddicendo l’autorevole insegnamento della Corte Costituzionale, secondo la quale: «[s]e il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia, struttura l’ordinamento processuale in maniera tale da configurare l’arbitrato come una modalità di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziale, è necessario che l’ordinamento giuridico preveda anche misure idonee ad evitare che tale scelta abbia ricadute negative per i diritti oggetto delle controversie stesse»[17].
4. Sulla scorta della interpretazione costituzionalmente orientata fin qui esposta l’eccezione di parte convenuta va quindi disattesa, dovendosi conclusivamente dichiarare l’invalidità della delibera di esclusione impugnata, la cui adozione si fonda su previsione statutaria da valutarsi come contraria alla disciplina legale e perciò nulla.
La pronuncia che precede assorbe poi ogni altra questione discussa tra le parti così come tutte le richieste istruttorie.
5. Le spese di lite possono essere interamente compensate tra le parti, considerata l’assenza di orientamenti consolidati quanto alla interpretazione del requisito di specificità ex art. 2473-bis c.c.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:
1. in accoglimento della impugnazione dell’attore, dichiara la invalidità della delibera di esclusione adottata l’11.12.2012 dall’assemblea dei soci della s.r.l. convenuta;
2. compensa interamente tra le parti le spese del giudizio.
Milano, così deciso nella camera di consiglio di questo Tribunale il 3 luglio 2014.
(… omissis …)
[1] Che può leggersi nella sua integralità in calce.
[2] Cfr. Trib. Milano, 7 novembre 2013, in Giur. it., 2014, pp. 907-908; e Trib. Milano, 28 febbraio 2014, consultabile sul sito <www.giurisprudenzadelleimprese.it>, le cui massime sono comunque entrambe riprodotte infra, sub par. 3, lett. a).
[3] Pubblicata in Società, 2006, pp. 1273 ss.
[4] Pubblicata in Giur. it., 2009, pp. 1964 ss.
[5] E invalida la clausola per cui poteva escludersi il socio che avesse esercitato attività concorrenziali in quanto si tratterebbe di fatti non qualificabili come “giusta causa”.
[6] Pubblicata in Pluris online.
[7] Ma validato – perchè specifica – la clausola che consenta l´esclusione del socio il quale «senza consenso degli altri soci eserciti in via diretta o indiretta un´attività concorrente con quella sociale»
[8] Giá cit., supra (nt. 2).
[9] Anch´essa giá cit., supra (nt. 2).
[10] Pubblicata in Società, 2006, pp. 1403 ss.
[11] Pubblicata in Pluris online.
[12] Pubblicata in <www.ilcaso.it>.
[13] Salvo poi comunque dichiararne la nullità in quanto il valore di liquidazione avrebbe dovuto determinarsi in base al valore contabile del patrimonio sociale secondo l’ultimo bilancio approvato, con esclusione di plusvalenze consolidate dalle società.
[14] In citazione l’attore ha anche chiesto la sospensione della efficacia della delibera impugnata, richiesta che ha rinnovato con separato ricorso depositato il 12.4.2013, ricorso che il G.I. ha accolto con ordinanza del 23.4.2013 sul presupposto della mancata dimostrazione degli addebiti da parte della convenuta, non costituitasi nel subprocedimento cautelare: l’ordinanza è stata reclamata dalla convenuta e riformata dal Tribunale, con provvedimento del 15.7.2013, sulla scorta di comparazione dei contrapposti interessi delle parti nel senso della prevalenza dell’interesse sociale alla permanenza della delibera medio tempore.
[15] L’ordinanza del Tribunale, riportante anche il testo del primo provvedimento, è consultabile nel sito www.giurisprudenzadelleimprese.it.
[16] Art. 819 c.p.c. primo comma: “[g]li arbitri risolvono senza autorità di giudicato tutte le questioni rilevanti per la decisione della controversia, anche se vertono su materie che non possono essere oggetto di convenzione di arbitrato, salvo che debbano essere decise con efficacia di giudicato per legge”.
[17] Così, in motivazione, Corte cost. n .223/2013, la quale, sulla scorta di tali considerazioni, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 819-ter, secondo comma, c.p.c .nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’art. 50 c.p.c. in tema di traslatio iudicii.
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