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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 13/11/2015 Scarica PDF

Appunti sul concordato preventivo dopo la legge di conversione del d.l. n. 83/2015

Emma Sabatelli, Professore


Sommario: 1. Premessa. – 2. Il contesto normativo previgente. – 3.1. Le novità del d.l. n. 83/2015 in materia di concordato preventivo: a) L’estensione al concordato «in bianco» della disciplina dei finanziamenti interinali. – 3.2. b) La previsione di una percentuale minima di soddisfacimento per i creditori chirografari. – 4.1. La nascita di un «mercato» competitivo e trasparente per la circolazione delle aziende nelle crisi di impresa?: a) le proposte concorrenti: il contenuto. – 4.1.2. b) le proposte concorrenti: il procedimento. – 4.2. c) le offerte concorrenti. – 5. Conclusioni.


     

1. Premessa

I reiterati interventi legislativi in materia di concordato preventivo, a partire dalla riforma organica delle procedure concorsuali, sono stati contrassegnati finora da una netta cesura rispetto alla originaria configurazione dell’istituto delineata nella legge fallimentare del 1942. Si è passati da un sistema estremamente rigido e di netta connotazione pubblicistica alla enfatizzazione dei profili negoziali del procedimento concordatario mediante l’ampliamento a tutto campo dell’autonomia propositiva del debitore, accompagnato da un forte ridimensionamento del ruolo svolto dall’Autorità Giudiziaria e da una altrettanto netta compressione della tutela dei creditori.

Se nella originaria versione della legge fallimentare il debitore – necessariamente già in stato di insolvenza – era posto di fronte ad un’alternativa secca, potendo scegliere fra due tipologie di concordato (il concordato cosiddetto «con garanzia» e quello con cessione dei beni) dal contenuto predeterminato dalla legge, ed era altresì vincolato a soddisfare interamente i crediti con prelazione e nella misura di almeno il quaranta per cento i crediti chirografari[1], già nella prima stesura della riforma, era consentito all’imprenditore, che versasse anche soltanto in una situazione di crisi, di proporre ai creditori un piano che gli consentisse di pervenire alla ristrutturazione dei debiti e alla soddisfazione dei crediti in qualsiasi forma, senza dover offrire né il regolare pagamento dei crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca (essendo sufficiente, per tali crediti, la previsione di un soddisfacimento non inferiore al valore di mercato dei beni o dei diritti sui quali insiste la causa di prelazione), né una percentuale minima di soddisfacimento per i chirografari. Di contro, l’Autorità giudiziaria veniva degradata da vero e proprio arbitro delle sorti del concordato a controllore del regolare svolgimento della procedura[2].

   

2. Il contesto normativo previgente

Sulla novellata struttura di base del concordato preventivo il legislatore è intervenuto successivamente, soprattutto con il d.l. n. 83/2012 (conv. dalla l. n. 134/2012), allo scopo di incentivarne la fruibilità da parte del debitore; sono stati così affiancati al concordato, per così dire, «ordinario», il concordato cosiddetto «con riserva» ovvero «con prenotazione» o, ancora, «in bianco» e il concordato con continuità aziendale. Inoltre, l’approvazione della proposta da parte dei creditori risultava fortemente agevolata dall’introduzione, in sede di votazione, dell’istituto del silenzio-assenso. Tuttavia, proprio questa norma, che esprimeva il massimo sforzo del legislatore per favorire il buon esito della soluzione concordataria, è stata soppressa dal d.l. n. 83/2015, con una scelta, che già da sola mostra quanto sia mutata la considerazione normativa dell’istituto.

Per quel che concerne il concordato «in bianco», esso, previo il solo deposito dei bilanci degli ultimi tre esercizi e di un ricorso nel quale veniva manifestato l’intento di presentare la documentazione completa entro il termine fissato dal giudice, consentiva al debitore di godere immediatamente del medesimo trattamento di favore (segnatamente, della sospensione delle azioni esecutive e cautelari), previsto per coloro che avevano presentato la domanda di ammissione al concordato corredata da tutta la documentazione richiesta.

La disciplina del concordato con continuità aziendale, invece, era ed è tuttora connotata dallo specifico intento di salvaguardare, ove possibile, l’integrità e la funzionalità del complesso produttivo ancora in esercizio, benché in una situazione di difficoltà. In realtà, fin dalla prima versione della riforma della legge fallimentare, in ragione dell’ampiezza con la quale l’oggetto del concordato preventivo è delineato nell’art. 160, comma 1, lett. a), l. fall., era indiscussa l’ammissibilità di una proposta accompagnata da un piano, il quale prevedesse la prosecuzione dell’attività di impresa. Il d.l. n. 83/2012, però, fece emergere con chiarezza, insieme al generico intento del legislatore di agevolare l’accesso alla disciplina concordataria per le imprese in crisi, uno specifico favor per il superamento delle difficoltà delle imprese ancora operative con potenzialità di recupero, che è, poi, la chiave di volta per intendere la ratio della disciplina speciale - introdotta in quell’occasione - per il solo concordato con continuità aziendale.

Ai sensi dell’art. 186-bis, comma 1, l. fall., si ha concordato con continuità aziendale, qualora il piano preveda:

- la prosecuzione dell’impresa da parte del debitore;

- la cessione dell’azienda inesercizio;

- il conferimento dell’azienda inesercizio in una o più società, anche di nuova costituzione[3].

In chiusura il comma citato precisa che la continuità aziendale non è incompatibile con un piano, il quale contempli la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa[4].

Le regole di particolare favore, tuttora vigenti, dettate per il concordato con continuità aziendale contemplano:

1) la sospensione del pagamento dei crediti prelatizi per il termine massimo di un anno, a meno che il piano non preveda la liquidazione dei beni su cui grava la prelazione (che, evidentemente, non sono reputati indispensabili ai fini della prosecuzione dell’impresa);

2) la prosecuzione dei contratti in corso di esecuzione alla data del deposito del ricorso, anche se stipulati con la P.A., a condizione – per questi ultimi - che il professionista designato dal debitore medesimo ne attesti la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento da parte dell’imprenditore. In più, a ulteriore tutela della continuità aziendale, il vantaggio della prosecuzione di tali rapporti si estende anche alla società concessionaria o conferitaria dell’azienda o di un ramo di questa, qualora sia in possesso dei requisiti richiesti dalla legge. Di contro, quale che sia il sotto-tipo di concordato proposto, il debitore, ex art. 169-bis, primo comma, l. fall., può essere autorizzato a sospendere o a sciogliere i contratti in corso di esecuzione[5];

3) la possibilità - successivamente all’ammissione al concordato – di partecipare a gare pubbliche, anche come componente di una rete temporanea di imprese;

4) la possibilità di pagare, previa autorizzazione del Tribunale, i crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi c.d. strategici, se l’essenzialità di questi per la prosecuzione dell’attività e la funzionalità al migliore soddisfacimento dei creditori viene attestata da un professionista qualificato.

Le condizioni richieste per usufruire di questa disciplina di favore sono, tutto sommato, abbastanza blande: il piano di ristrutturazione deve essere conformato come un vero e proprio business plan, dovendo contenere, in aggiunta alla descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta, secondo quanto previsto dall’art. 161, comma 2, lett. e), l. fall., anche una dettagliata specificazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura. In più, la relazione del professionista, oltre che la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, deve attestare anche che la prosecuzione dell’attività di impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori[6].

È essenziale, dunque, affinché si possa rientrare nella fattispecie del concordato con continuità, che l’impresa sia ancora vitale e che abbia la potenzialità prospettica di generare flussi di cassa, che possano essere utilizzati per innalzare il livello di soddisfacimento dei creditori. Infatti, nel momento in cui tali presupposti vengono meno - l’impresa cessa o la prosecuzione dell’attività risulta manifestamente dannosa per i creditori – l’art. 186-bis, ultimo comma, l. fall., attribuisce al Tribunale il potere di revocare il concordato, ex art. 173 l. fall.

Le fattispecie di concordato con continuità aziendale, elencate nell’art. 186- bis, comma 1, l.fall., assumono un particolare interesse alla luce del recentissimo intervento legislativo. Come è stato da più parti osservato, già in esse il legislatore inizia a separare le sorti dell’imprenditore da quelle dell’impresa, poiché la disciplina di favore trova applicazione non soltanto nel caso in cui l’attività continui a essere gestita dal debitore, ma anche se, tramite la circolazione dell’azienda, essa prosegua in capo ad un soggetto diverso dall’originario imprenditore. Insomma, può ben dirsi che con questo intervento normativo inizia a emergere la tendenza, che troverà manifesta espressione nel d.l. n. 83/2015 (conv. dalla l. n. 132/2015), a porre al centro dell’attenzione più la protezione dell’integrità e della efficienza del complesso produttivo che del soggetto, che ne è il gestore, il quale, fosse pure per cause a lui non imputabili, non ha dato buona prova di sé, conducendo l’impresa in una situazione di crisi, se non proprio di insolvenza.   

In questo contesto legislativo, sostanzialmente immutato, se si eccettuano le modifiche apportate dal d.l. n. 69/2013 (conv. dalla l. n. 98/2013), che ha dettato una disciplina più rigorosa per il concordato «in bianco» alla palese finalità a limitarne l’uso abusivo, che se ne stava facendo frequentemente nella pratica[7], è intervenuto il d.l. n. 83/2015, che ha introdotto regole di tale spessore da indurre a ritenere che si sia voluta attuare una vera e propria ristrutturazione dell’istituto concordatario complessivamente considerato. E, si badi, ciò è avvenuto senza che se ne sia mutato l’impianto di base: è rimasta invariata la bipartizione fra il concordato preventivo non accompagnato da alcuna altra qualificazione, ma comunemente definito come «liquidatorio» e il concordato «con continuità aziendale».

   

3. Le novità del d.l. n. 83/2015 in materia di concordato preventivo: a) l’estensione al concordato «in bianco» della disciplina dei finanziamenti interinali

Per quel che concerne il concordato «in bianco», le innovazioni più rilevanti sono concentrate nella novellata stesura dell’art. 182-quinquies, comma 1 e comma 2, l. fall., che, in verità, costituisce una delle parti meno felici del recentissimo provvedimento, già in sé non felicissimo. Nel primo comma della norma, l’inserimento di un inciso, che precisa che l’autorizzazione a contrarre finanziamenti c.d. interinali – parametrati, cioè, alle esigenze dell’impresa fino alla data fissata per l’omologazione - può essere richiesta al Tribunale «anche prima del deposito della documentazione di cui all’art. 161, (commi secondo e terzo)», non fa altro che ribadire quanto la disposizione già diceva e tuttora dice: e, cioè, che il ricorso alla finanza interinale può essere consentito anche al debitore, che presenta una domanda di concordato preventivo, «ai sensi dell’art. 161, sesto comma».

Si tratta, dunque, di una modifica che è insieme superflua e dannosa, poiché rinfocolerà i dubbi e le critiche, che in punto di applicazione della disposizione già si ponevano, senza apportare alcun elemento utile per superarli. Infatti, in precedenza, nonostante la formulazione della norma, era opinione assolutamente prevalente che essa non potesse essere applicata al concordato «in bianco» tout court; trattandosi di finanziamenti, che la legge stessa qualifica come «prededucibili» (dunque, potenzialmente idonei ad incidere negativamente sugli interessi dei creditori preesistenti), l’autorizzazione a contrarli – si diceva - non può che essere concessa con estrema cautela e con piena cognizione di causa dal Tribunale, a seguito di una ponderata valutazione degli elementi evidenziati dal legislatore.

Tale valutazione dovrebbe tuttora fondarsi in massima parte sull’attestazione di un professionista, designato dal debitore, al quale è affidato il compito sia di verificare il complessivo fabbisogno finanziario dell’impresa fino all’omologazione, sia di attestare che l’erogazione dei finanziamenti è funzionale al migliore soddisfacimento dei creditori. Ma è evidente che il professionista non può essere materialmente in grado di stimare il fabbisogno finanziario dell’impresa e tantomeno di valutare l’impatto che la concessione del finanziamento potrebbe avere sul soddisfacimento dei creditori in una situazione nella quale, non soltanto un piano e una proposta potrebbero ancora non esservi o essere in uno stato embrionale, ma potrebbe non essere nemmeno chiaro allo stesso debitore, se sia più opportuno orientarsi verso un concordato liquidatorio o con continuità aziendale ovvero, anche, verso un accordo di ristrutturazione dei debiti, ex art. 182-bis l. fall.

Per tali ragioni, prima dell’emanazione del d.l. n. 83/2015, anche l’opinione più «benevola» verso il debitore, che avesse presentato una proposta di concordato «in bianco», reputava che questi potesse essere autorizzato a contrarre i finanziamenti di cui all’art. 182-quinquies, comma 1, l. fall., soltanto se fosse stato in grado di presentare almeno delle linee-guida o una bozza di piano, sufficientemente articolati, sì da consentire la formulazione dei giudizi richiesta dalla legge[8]. È evidente che la puntigliosa e inutile precisazione effettuata dall’ultimo intervento legislativo non contribuisce a chiarire nessuno degli interrogativi posti dalla disposizione, lasciando interpreti e operatori del diritto a dibattersi di fronte ad un testo normativo di cui sembra impossibile fornire una ricostruzione pienamente convincente, se non – come si vedrà di seguito - facendo ricorso al pericoloso strumento della interpretatio abrogans per le parti che si riferiscono al concordato «in bianco».

Fra l’altro, non si è nemmeno colta l’occasione della novella legislativa per introdurre qualche indispensabile chiarimento circa le «sommarie informazioni», che «se del caso» il Tribunale può assumere, al fine di decidere se autorizzare il finanziamento. Permangono, infatti, del tutto indeterminati non solo i contenuti di tali informazioni, ma anche i soggetti, che potrebbero essere sentiti, essendone i detentori, e le modalità secondo le quali le informazioni suddette possono essere acquisite.

A complicare questo contesto già confuso è intervenuto il secondo comma dell’art. 186-quinquies l. fall., introdotto ex novo dal d.l. n. 83/2015, che, benché ad un primo approccio paia avere ad oggetto una fattispecie del tutto differente, regola in realtà una situazione in larga parte sovrapponibile a quella contemplata nel primo comma della stessa disposizione. Innanzitutto, il soggetto legittimato a usufruire della disciplina di favore in esso contenuta è esclusivamente il debitore, che proponga una domanda di ammissione ad un concordato «in bianco»[9]; inoltre, la suddetta disciplina ruota interamente intorno al requisito dell’«urgenza»: il debitore si rivolge al Tribunale «in via d’urgenza» per essere autorizzato a contrarre finanziamenti interinali «funzionali a urgenti necessità relative all’esercizio dell’attività aziendale».

Rispetto a quanto disposto nel primo comma, completamente differente è il procedimento per ottenere l’autorizzazione a contrarre tali finanziamenti. A tal fine è sufficiente una mera dichiarazione del debitore ricorrente, non essendo prevista alcuna attestazione di un perito; e già questa opzione appare criticabile, poiché l’«urgenza» non sembra una ragione sufficiente per fare a meno dell’opera dell’attestatore, che, in caso di necessità, potrebbe di certo essere fornita in tempi assai brevi. Comunque sia, il debitore deve specificare nel ricorso: 1) la destinazione dei finanziamenti; 2) di non avere la possibilità di reperirli in altro modo; 3) il pregiudizio imminente e irreparabile, che la mancanza di essi cagionerebbe all’azienda.

Il Tribunale, prima di qualsivoglia decisione, è tenuto ad assumere sommarie informazioni, rispetto alle quali sono individuati l’oggetto (il piano e la proposta in corso di elaborazione) e i soggetti da consultare (il commissario giudiziale, se nominato, e, se del caso, i principali creditori, che vengono ascoltati senza formalità); non è, invece, prevista, ma è certamente consentita l’audizione del debitore. In più, e diversamente da quanto non è detto nel primo comma, viene precisato che la decisione deve essere assunta dal Tribunale in camera di consiglio, con decreto motivato ed entro dieci giorni dal deposito dell’istanza di autorizzazione. Per questa parte, dunque, la disposizione in commento appare redatta con una tecnica legislativa sicuramente migliore rispetto a quella utilizzata per disciplinare i finanziamenti di cui al primo comma – al quale sarebbe stato opportuno estenderla - poiché, pur non essendo richiesta l’attestazione del perito, sono stati precisati con maggiore cura i presupposti e le modalità per la concessione dell’autorizzazione.

La differenza fra le fattispecie regolate rispettivamente nel primo e nel secondo comma dell’art. 182-quinquies l. fall., che dovrebbe giustificare la diversità della disciplina, parrebbe, dunque, essere costituita: a) dal diverso perimetro della legittimazione soggettiva, poiché i finanziamenti di cui al secondo comma possono essere autorizzati soltanto a vantaggio di coloro che propongono un concordato «in bianco»; b) dalla ricorrenza del requisito dell’«urgenza», che sembra mancare rispetto ai finanziamenti di cui al primo comma; c) dalla finalità dei finanziamenti, che hanno lo scopo di evitare «un pregiudizio imminente e irreparabile all’azienda», a differenza dei finanziamenti di cui al primo comma, che devono essere «funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori».

Fermo restando che il secondo comma dell’art. 182-quinquies ha un’operatività più ridotta, potendo essere utilizzato soltanto (e non anche) dall’imprenditore, che abbia proposto un concordato «in bianco», le differenze fra le fattispecie sono assai meno nette di quanto potrebbe apparire, in quanto l’urgenza può ritenersi implicitamente presente anche nella fattispecie contemplata nell’art. 182-quinquies, comma 1, l. fall. Se, aderendo alla opinione favorevole all’inapplicabilità di tale disposizione al concordato «in bianco», si focalizza l’attenzione sugli altri sottotipi concordatari (liquidatorio e con continuità), risulta evidente che la richiesta dell’autorizzazione a contrarre finanziamenti non inclusi nel piano presuppone che si sia verificato un evento imprevisto e imprevedibile da parte del debitore, tale da richiedere un supporto economico, che ovviamente deve essere fruibile tempestivamente, affinché nelle more della procedura non venga pregiudicata la possibilità di dare attuazione al piano medesimo.

La conoscenza del piano è, dunque, un elemento imprescindibile – tanto per il perito, che deve redigere la relazione, quanto per il Tribunale, che deve decidere se autorizzare o meno l’operazione – per stabilire se la strategia imprenditoriale, che esso esprime, necessiti effettivamente dell’apporto di nuova finanza. Altrettanto imprescindibile è che siano definiti i termini della proposta: dal momento che i finanziamenti devono essere «funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori», è necessario che sia noto quanto il debitore si propone di offrire a ciascuno, perché si sia in grado di apprezzare se l’erogazione del finanziamento possa realmente sortire un effetto migliorativo, o anche solo conservativo, sul livello di soddisfacimento offerto.

Il dato, che differenzia le fattispecie contemplate rispettivamente dal primo e dal secondo comma dell’art. 182-quinquies l. fall., è costituito dalla circostanza che in quest’ultimo il piano e la proposta mancano o sono ancora in fase di elaborazione, cosicché l’unico elemento che può essere valutato al fine di decidere se autorizzare i finanziamenti è costituito dalla considerazione obiettiva dello stato in cui versa l’azienda. E su di esso, infatti, si concentra la norma, prevedendo che il debitore rappresenti al Tribunale l’esistenza di «urgenti necessità relative all’esercizio dell’attività aziendale», che impongono il ricorso ad un nuovo apporto finanziario e il «pregiudizio imminente e irreparabile», che la mancanza dei finanziamenti cagionerebbe all’azienda.

Si potrebbe, allora, supporre che, in maniera assolutamente deprecabile e confusa, senza intervenire per correggere il vizio logico contenuto nel primo comma - e, anzi, aggravandolo - il legislatore abbia introdotto il nuovo secondo comma dell’art. 182-quinquies l. fall. con l’intento di chiarire una volta per tutte che l’accesso a finanziamenti interinali urgenti è consentito anche all’imprenditore, che abbia proposto una domanda di concordato «in bianco». Le peculiarità della fattispecie hanno imposto, però, che si dovesse tenere conto di una situazione «di diritto», connotata dall’assenza del piano e della proposta, e di uno stato «di fatto», che può conoscere declinazioni diversissime fra loro.

Si intendere sottolineare che la norma esigeva di essere redatta in maniera tanto flessibile da poter essere utilizzata sia dal debitore ancora totalmente indeciso circa l’indirizzo da dare al piano e alla proposta, sia da chi, pur non avendo ancora provveduto al deposito, li abbia elaborati completamente. La circostanza che il parametro di riferimento per decidere sull’autorizzazione di nuovi finanziamenti sia stato individuato nella conservazione della funzionalità dell’azienda consente di rispondere adeguatamente alle richieste di chi abbia proposto un concordato «in bianco», quale che sia la situazione di fatto in cui si trovi; per i motivi più diversi (per esempio, per lavori di ripristino del complesso produttivo danneggiato da calamità naturali) un finanziamento urgente può essere necessario sia a chi non abbia ancora predisposto alcun piano, sia a chi lo abbia completato, ma non lo abbia ancora depositato.

Occorre anche precisare che non ci si deve lasciare trarre in inganno dal riferimento, contenuto nella prima parte della norma, a «urgenti necessità relative all’esercizio dell’attività aziendale» quale causa giustificativa della richiesta di autorizzazione, sì da ritenere che sia implicitamente richiesto al debitore di orientarsi verso la proposizione di un concordato con continuità. Questa opinione non può essere condivisa non soltanto perché – come sostiene un’autorevole dottrina - è possibile che anche nel concordato liquidatorio l’azienda continui ad essere in attività (per esempio, nella prospettiva di pervenire alla cessione ex art. 182 l. fall.)[10], ma soprattutto per il fatto che il debitore potrebbe avere interesse a ottenere finanziamenti allo scopo di mantenere integra ed efficiente un’azienda momentaneamente inattiva al fine di collocarla sul mercato con esiti più favorevoli di quelli che si otterrebbero mediante la vendita disaggregata dei singoli cespiti.

Benché i limiti dell’opinione che si sostiene - fondata sull’interpretazione abrogatoria proprio di un aspetto dell’art. 182-quinquies, primo comma, l. fall., che è stato nuovamente ribadito dal d.l. n. 83/2015 - siano ben chiari a chi scrive, sembrerebbero non esservi alternative razionali ad essa. In conclusione, si dovrebbe ritenere che tanto il primo, quanto il secondo comma della disposizione citata regolino l’accesso a finanziamenti internali – straordinari e urgenti – nell’ambito del concordato preventivo. Solo che nella fattispecie regolata nel primo comma, essendo già stati depositati il piano e la proposta, la cura primaria del legislatore è stata di rimarcare che essi possono essere autorizzati solo se risultano «funzionali alla migliore soddisfazione per i creditori»; per i finanziamenti di cui al secondo comma, non potendo essere valutato l’impatto che l’erogazione dei finanziamenti può avere sul soddisfacimento dei creditori, poiché è ancora ignoto a quanto esso ammonterà, la giustificazione per l’assunzione di un nuovo debito prededucibile non può che essere rinvenuta nell’esigenza di evitare «un pregiudizio imminente ed irreparabile all’azienda».

Non si sottrae a critica nemmeno la parte finale della norma, ai sensi della quale «la richiesta di autorizzazione può avere ad oggetto anche il mantenimento di linee autoliquidanti in essere al momento della domanda». Tale espressione, insolita per un testo normativo, sta ad indicare una tipologia di contratti, nei quali la controparte è un erogatore professionale del credito, il quale fornisce liquidità all’imprenditore come contropartita della cessione – in senso ampio – di crediti non scaduti; comunemente, si ritiene che rientrino in questa nozione contratti di sconto, anticipazioni su fatture e operazioni similari.

Questo genere di rapporti, di solito, non comportano per il debitore l’assunzione di un significativo rischio finanziario, tant’è che è d’uso che vengano collocati fra gli atti che rientrano nel normale esercizio dell’impresa. Per di più la norma si riferisce al «mantenimento di linee autoliquidanti in essere», sicché non si riesce davvero ad intendere la ragione per la quale gli atti compiuti all’interno di un rapporto preesistente siano stati sottratti alla disciplina alla quale dovrebbero naturalmente soggiacere, che è quella contenuta nell’art. 161, comma 7, l. fall. Ai sensi di tale disposizione, se li si considerano atti di ordinaria amministrazione, come parrebbe corretto, potrebbero essere compiuti dall’imprenditore senza necessità di alcuna autorizzazione; e, comunque, il creditore sarebbe garantito dalla prededucibilità, che, ai sensi della norma, assiste tutti gli atti legalmente compiuti dal debitore[11].

   

4. b) la previsione di una percentuale minima di soddisfacimenti per i creditori chirografari

Fra le novità di maggior rilievo, che concorrono alla modifica della configurazione del concordato preventivo, vi è la prescrizione ora contenuta nell’ultimo comma dell’art. 160 l. fall., ai sensi della quale «in ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all’art. 186-bis». Viene così reintrodotta fra i requisiti della proposta l’indicazione dell’offerta ai chirografari di una percentuale minima di soddisfacimento, che era stata soppressa dalla riforma della legge fallimentare in linea con il duplice scopo di agevolare il ricorso alle procedure concordatarie e di «privatizzare» il procedimento, rimettendo ai creditori stessi la valutazione della convenienza di quanto offerto.

Infatti, prima della recente riforma questo aspetto era disciplinato dal solo l’art.161, comma 2, lett. e), l. fall., il quale si limitava a richiedere – e tuttora richiede – che il piano di ristrutturazione contenga la «descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta». Dal momento che, come è stato osservato, la nozione di «modalità» è ben diversa da quella di «entità» o «misura» del soddisfacimento, era opinione diffusa che l’indicazione di una percentuale determinata non dovesse essere considerata una condizione di ammissibilità del procedimento[12]. Naturalmente al debitore non era preclusa la possibilità di impegnarsi ad offrire un soddisfacimento dei crediti chirografari in percentuale; essendogli riconosciuta dalla legge la più ampia autonomia nella strutturazione del piano e della proposta, egli poteva ben formularli secondo il modello del concordato con garanzia, come previsto nella originaria stesura della legge fallimentare, ovviamente senza il vincolo della offerta di una percentuale minima.

Come è noto a tutti, questa «liberalizzazione» del contenuto dell’accordo, unita all’introduzione dell’istituto del silenzio-assenso ai fini dell’approvazione della proposta, ha condotto alla proliferazione dei concordati preventivi e spesso alla omologazione di accordi concordatari nei quali erano previste percentuali di soddisfacimento assai ridotte per i crediti chirografari. Con la celebre e discussa Cass. S.U., 23 gennaio 2013, n. 1521, la Suprema Corte ha preso posizione su questo aspetto, chiarendo che, in punto di sussistenza della causa del procedimento, essendo affidato al Tribunale esclusivamente un controllo di legittimità (id est: di regolarità formale) del procedimento, esso deve limitarsi ad acclarare che ai creditori sia riconosciuta «una sia pure minimale consistenza del credito da essi vantato in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti», mentre la valutazione della convenienza economica della proposta è rimessa in toto all’apprezzamento discrezionale dei creditori[13].

Naturalmente, restava aperto il problema di stabilire in concreto che cosa dovesse intendersi per «minimale consistenza del credito». Il legislatore della mini-riforma è andato ben oltre l’implicita richiesta di chiarimento su questo profilo, che proveniva da larga parte delle Corti di merito, in quanto la percentuale del venti per cento, benché notevolmente ridotta rispetto al valore complessivo del credito, è assai più alta di quella offerta ai chirografari nella maggior parte dei concordati omologati in questi ultimi anni. Inoltre, la precisazione, contenuta nell’incipit dell’ultimo comma dell’art. 160 l. fall., ai sensi della quale il pagamento della percentuale minima di soddisfacimento deve essere assicurata «in ogni caso», induce a ritenere che la norma trovi applicazione anche nel concordato con cessione dei beni, in deroga a quanto si riteneva nel sistema previgente. In esso, infatti, prevaleva la tesi secondo la quale il debitore, che avesse proposto un concordato con cessione dei beni,  poteva non indicare affatto la percentuale di soddisfacimento dei chirografari, essendo incerto quale sarebbe stato l’effettivo ricavo conseguente alla liquidazione del suo patrimonio[14].

Inoltre, la disposizione in vigore stabilisce anche che la proposta di concordato deve «assicurare» la percezione della suddetta percentuale da parte dei creditori. Omettendo ogni commento sull’uso improprio del verbo, resta l’interrogativo circa la portata concreta dell’espressione. Se si esclude, come sembra evidente, che essa possa essere stata utilizzata in maniera inadeguata ed ellittica per indicare un presunto obbligo del debitore di «offrire serie garanzie reali o personali» - che effettivamente in passato era contemplato dall’abrogato art. 160, comma 2, n. 1), l. fall., per il concordato c.d. con garanzia - non si comprende davvero come il pagamento percentuale possa essere «assicurato» dal proponente.

Si può, allora, provare ad attribuire un significato alla formulazione attuale della norma, ponendola in rapporto con le funzioni e con i poteri riconosciti all’Autorità giudiziaria nell’ambito del procedimento. Si intende dire che l’indicazione di una percentuale minima di soddisfacimento, unita all’enfasi con la quale viene sottolineata la necessità che essa venga effettivamente percepita dai chirografari, indurrebbe a ritenere che il legislatore abbia introdotto un ulteriore requisito di ammissibilità, di cui, al pari degli altri, il Tribunale è tenuto ad appurare la ricorrenza mediante un controllo di carattere sostanziale.

Se ci si pone in questa prospettiva, è possibile apprezzare pienamente il rilevante valore innovativo della disposizione, che certamente riconosce al Tribunale, in sede di ammissione alla procedura, poteri di controllo ben più ampi di quelli circoscritti entro i ristretti confini della fattibilità giuridica dalla citata Cass. S.U. n. 1521/2013. È vero che la riforma non è intervenuta sull’art. 162, comma 2, l. fall., ai sensi del quale il controllo da svolgersi in sede di ammissione al procedimento ha per oggetto i presupposti di cui all’art. 160, comma 1 e comma 2, e all’art. 161, mentre la disposizione di cui si discute è collocata nell’ultimo comma dell’art. 160, ma, se si considerano la titolazione della norma («Presupposti per l’ammissione alla procedura») e, ancora una volta, la fretta con la quale il d.l. n. 83/2015 è stato confezionato e convertito in legge, il mancato richiamo può legittimamente essere attribuito ad una dimenticanza del legislatore.

Inoltre, se, condividendo la tesi appena esposta, si perviene a qualificare l’indicazione di una percentuale minima come un presupposto di ammissibilità alla procedura, si dovrebbe, poi, anche ammettere che il Tribunale abbia il potere di revocare l’ammissione al concordato, ai sensi dell’art. 173, comma 3, l. fall., nel caso in cui, presumibilmente su segnalazione del commissario giudiziale, si renda conto che la suddetta percentuale non può essere raggiunta. La contraria opinione, in precedenza ampiamente condivisa sulla scia dell’indirizzo interpretativo sostenuto dalla Suprema Corte, che si fondava sulla distinzione fra la fattibilità giuridica, che doveva essere verificata dal Tribunale, e la convenienza economica, rimessa alla valutazione esclusiva della maggioranza dei creditori, risulta superata dall’attribuzione di uno specifico valore giuridico all’indicazione di una precisa percentuale di soddisfacimento nella proposta.

Viene, così, nettamente ridimensionato uno fra i dati più rilevanti, che connotavano in senso privatistico la procedura concordataria dopo la riforma del diritto fallimentare; ci si riferisce a quanto disposto dall’art. 186, comma 1 e comma 2, l. fall., ai sensi del quale soltanto i creditori uti singuli sono legittimati a chiedere la risoluzione del concordato per inadempimento – come, in effetti, prima del d.l. n.83/2015 doveva essere qualificata la mancata corresponsione ai creditori di quanto offerto nella proposta approvata e omologata – ed esclusivamente nel caso in cui l’inadempimento non sia di scarsa importanza.

Si aprono al contempo nuovi interrogativi: la qualifica di presupposto di ammissibilità deve essere riconosciuta solo alla percentuale minima fissata dalla legge ovvero a qualsivoglia percentuale di pagamento offerta nella proposta? Alla luce delle considerazioni appena esposte appare chiaro che non si tratta di una questione di poco conto, in quanto, se si rispondesse positivamente al secondo dei quesiti formulati, si attribuirebbe al Tribunale il dovere di interrompere la procedura concordataria nel momento stesso in cui si rendesse conto che i creditori non percepiranno quanto promesso,  anche se vi fosse uno scostamento di minima rilevanza rispetto a quanto indicato nella proposta.

Diverso sarebbe se si ritenesse che, ai fini della sussistenza del presupposto richiesto per lo svolgimento della procedura, è necessario e sufficiente che ai creditori venga effettivamente corrisposto il minimo fissato dalla legge. In tal caso, qualora la proposta prevedesse una percentuale di soddisfacimento superiore, il Tribunale sarebbe legittimato ad intervenire solo in presenza di uno scostamento, che, pur se scarsamente rilevante, intaccasse la percentuale legislativamente stabilita; invece, di fronte ad inadempimenti – si badi, di non scarsa importanza - che non ledano il soddisfacimento minimale «garantito» ai chirografari, il Tribunale non avrebbe alcun potere, ma resterebbe ferma in capo a ciascun creditore la facoltà di chiedere la risoluzione del concordato. Questa è probabilmente l’opinione preferibile, poiché, se da un lato, dà il giusto rilievo alla connotazione pubblicistica che attualmente la legge sembra attribuire alla corresponsione di una aliquota predeterminata ai chirografari, d’altra parte, non elimina del tutto il carattere privatistico dell’accordo e non priva di senso le disposizioni tuttora contenute nell’art.186 l. fall.

 Un’ulteriore novità di estremo rilievo è costituita dalla precisazione che la proposta di concordato deve assicurare il «pagamento» almeno di una percentuale minima ai chirografari. L’espressione non può che essere intesa come offerta di soddisfacimento in danaro, non solo perché questo è il significato letterale del termine, ma anche in considerazione del fatto che il calcolo di un’aliquota su forme di soddisfacimento diverse (quale, p.es., la datio in solutum) risulterebbe, oltre che difficoltosa, altamente opinabile. Questa innovazione, anch’essa ascrivibile al d.l. n. 83/2012, deve essere coordinata con la descrizione dell’oggetto del piano, di cui all’art. 160, comma 1, lett. a), l. fall., che è rimasto invariato. Se, dunque, in passato si poteva supporre che anche ai creditori chirografari potesse essere proposta «la ristrutturazione dei crediti e la soddisfazione dei debiti in qualsiasi forma», secondo quanto tuttora recita la disposizione appena citata, attualmente si deve ritenere che per il concordato non in continuità l’ampia autonomia riconosciuta al debitore nella predisposizione del piano e della proposta possa esplicarsi pienamente soltanto nei confronti dei creditori muniti di titolo di prelazione, dovendo essere offerto ai chirografari il pagamento di una somma di danaro pari ad almeno un quinto dell’ammontare dei crediti.

Inoltre, rispetto a questi ultimi ci si potrebbe chiedere se, una volta soddisfatta la condizione del pagamento della percentuale minima, la proposta non possa prevedere in aggiunta un soddisfacimento di tipo non numerario; e, in verità, non sembrerebbero esservi motivi per dubitarne. La questione merita, però, qualche ulteriore riflessione per il fatto che l’art. 161, comma 4, l. fall., nulla dice in ordine alla applicazione della regola del soddisfacimento minimo nel caso in cui il concordato preveda la suddivisione dei creditori in classi. Due sono le soluzioni astrattamente ipotizzabili: a) che il pagamento del quinto del debito costituisca il valore di base, che deve essere corrisposto a ciascuna classe, ferma restando per il debitore la possibilità di prevedere per alcune classi un trattamento migliorativo, che – alla luce di quanto si è appena osservato – potrebbe anche consistere nell’integrazione del suddetto pagamento con l’offerta di beni diversi dal denaro; b) che il venti per cento debba essere computato in rapporto al valore complessivo del pagamento offerto ai chirografari, sicché sarebbe ammissibile una proposta che offrisse ad alcune classi un pagamento percentuale inferiore, se fosse compensato da quanto offerto in più ad altre classi.

Il tenore letterale della norma, che indica come base di calcolo «almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari» depone a favore di quest’ultima interpretazione, dal momento che viene naturale riferire il termine «ammontare» ad un valore globale. Se ciò è vero, a maggior ragione la proposta dovrebbe ritenersi ammissibile una volta soddisfatto il requisito del soddisfacimento mediante l’offerta della percentuale complessiva ai chirografari, anche nel caso in cui ad una classe venga offerto un soddisfacimento «misto», costituito in parte dal pagamento di una somma di denaro e in altra parte dall’attribuzione di beni di altro genere. Anzi, ci si dovrebbe chiedere fino a che punto si possa spingere l’autonomia del debitore nella strutturazione della proposta; se, cioè, egli possa concentrare la percentuale di soddisfacimento in denaro solo su alcune classi e offrire ad altre modalità di soddisfacimento diverse; e anche a questo quesito sembrerebbe che si debba dare una risposta positiva. Tuttavia, non ci si può nascondere che, essendo stato abolito, sempre dal d.l. n. 83/2015, l’istituto del silenzio-assenso, il raggiungimento della maggioranza necessaria per l’approvazione del concordato risulterà meno agevole in generale e, ancor più, nel caso in cui emergano vistose disparità nel trattamento offerto alle classi.

La previsione di una percentuale minima, non propriamente irrisoria, il cui pagamento deve essere «assicurato» ai chirografari, non sortirà solo l’effetto di rendere più difficoltoso il ricorso al concordato preventivo non in continuità, ma nei fatti potrebbe segnare la fine dell’utilizzo delle classi nell’ambito dell’istituto. Essendo rimasta invariata la disposizione contenuta nell’art. 160, comma 2, ultimo periodo, l. fall., ai sensi della quale il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione, è evidente che ogni eventuale aumento della percentuale prevista per una classe produrrebbe un effetto riflesso «a cascata», costringendo il debitore ad incrementare il soddisfacimento per i creditori di grado superiore.        

Non sul piano della facoltà del ceto creditorio di accettare o respingere il concordato, ma sul differente piano della valutazione della legittimità della proposta da parte del Tribunale si colloca, invece, l’interrogativo concernente l’ammissibilità di un concordato, che pur rispettando il requisito del pagamento percentuale complessivo, non preveda nessun tipo di soddisfacimento per una o più classi di chirografari. Una proposta di tal genere deve essere considerata senz’altro inammissibile e deve essere respinta proprio per il difetto di causa, evocato dalla più volte richiamata Cass. S. U. n. 1521/2013. Diversamente da quanto avviene nel concordato con continuità, rispetto al quale, come si vedrà fra breve, è possibile prospettare una soluzione diversa, nella fattispecie in esame il rapporto fra debitore e creditori è destinato ad esaurirsi a seguito della regolare esecuzione del concordato, cosicché mancherebbe il requisito di legittimità che la Suprema Corte ha individuato in un sia pure minimale – ma, si dovrebbe aggiungere, socialmente significativo - soddisfacimento del credito offerto ai creditori.

Di contro, secondo quanto stabilisce il periodo finale dell’art. 161, comma 4, l. fall., nessuna percentuale minima di soddisfacimento per i creditori chirografari è imposta per il concordato con continuità aziendale. La norma deve essere coordinata, però, con quanto ora è previsto dall’art. 161, comma 2, lett. e), l. fall., nel quale, con riguardo al contenuto del piano, è stato aggiunto un inciso finale, che precisa che «in ogni caso la proposta deve indicare l’utilità specificamente individuata che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore»[15].

Anche la formulazione di questa disposizione sollecita qualche considerazione. Innanzitutto – ed in coerenza con quanto si è osservato in precedenza – l’esplicito riferimento ad un «obbligo» a far percepire ai creditori un’«utilità specificamente individuata» autorizza a ritenere inammissibile ogni proposta che non rispetti tali requisiti; che, cioè, non si configuri come offerta di assunzione di una vera e propria obbligazione giuridica con oggetto determinato (e non semplicemente determinabile).

Manca, però, ogni riferimento ad un’aliquota minima di soddisfacimento del credito, che deve essere «assicurata» ai chirografari, e non si fa nemmeno menzione di un «pagamento». La norma utilizza, invece, un’espressione assolutamente generica («utilità»), senza fare alcun riferimento ad una valutazione economica di questa; anzi, considerando le variazioni del testo del decreto intervenute nei passaggi parlamentari, si può notare che è stato soppresso l’inciso, che precisava che si dovesse trattare di una utilità «economicamente valutabile». È evidente, dunque, l’intento del legislatore di riconoscere un’ampia autonomia al debitore nella predisposizione della proposta: venuto meno il requisito della quantificazione del soddisfacimento sul piano economico, ogni entità specificamente individuata, che sia suscettibile di arrecare al debitore un vantaggio, anche solo potenziale e prospettico (p. es., la partecipazione ad utili futuri, la continuazione di rapporti di impresa, l’instaurazione di nuovi rapporti contrattuali, …), potrebbe essere oggetto della proposta. Per questa strada, dunque, si dovrebbe pervenire a ritenere ammissibili – ovviamente, nel solo concordato con continuità - le cosiddette «classi a zero», di cui sotto la disciplina previgente la giurisprudenza pressoché unanime e la dottrina prevalente negavano la legittimità[16].

   

4.1. La nascita di un «mercato» competitivo e trasparente per la circolazione delle aziende nelle crisi di impresa?: a) le proposte concorrenti: il contenuto

Anche per l’assoluta novità rispetto al passato uno dei profili più interessanti della mini-riforma del 2015 è costituito dalla possibilità che siano presentate proposte concorrenti con quella formulata dal debitore, che, se approvate dalla maggioranza dei creditori, si sostituiscono ad essa. La disciplina di questa fattispecie, che, forse avrebbe meritato maggiore ponderazione, è parzialmente contenuta nell’ultima parte (dal quarto comma in poi) dell’art. 163 l. fall., ora titolato «Ammissione alla procedura e proposte concorrenti» e, per il resto, frazionata in alcune fra gli articoli, che regolano la fase dell’approvazione della proposta.

La legge, tuttavia, prevede una sorta di «sbarramento» a tutela del debitore, in quanto, ai sensi del quinto comma della norma citata, non sono ammissibili proposte concorrenti, se dalla relazione del professionista attestatore risulta che la proposta del debitore assicura il pagamento di almeno il quaranta per cento dei crediti chirografari per il concordato liquidatorio ovvero di almeno il trenta per cento nel caso di concordato con continuità aziendale. Dunque, se il debitore vuole sottrarre la sua proposta ad una possibile competizione con altre deve essere in grado di affrontare uno sforzo economico notevolissimo per un soggetto, che versa in una situazione di crisi: innanzitutto, anche per il concordato con continuità, deve assicurare ai creditori chirografari il pagamento (id est: il soddisfacimento in forma numeraria) di una percentuale di un certo rilievo, ma soprattutto perché – come si è già osservato – quanto più elevato è il livello di soddisfacimento offerto ai chirografari, tanto maggiore, di riflesso, deve essere la percentuale offerta ai crediti di rango superiore, dovendo essere rispettato l’ordine delle cause legittime di prelazione.

Benché il testo legislativo non lo espliciti, è evidente che lo scopo del nuovo istituto è quello di consentire ai soggetti interessati di sottrarre all’imprenditore l’impresa in crisi e di sostituirsi ad esso, formulando un’offerta che incontri un maggiore consenso fra i creditori. Se il fine è chiaro, non può dirsi altrettanto né del procedimento mediante il quale si dovrebbe pervenire ad esso, né degli esiti ai quali conduce l’inadempimento o l’impossibilità di dare regolare esecuzione ad una proposta concordataria non proveniente dal debitore.

Legittimati a promuovere l’iniziativa sono i creditori, che, anche per effetto di acquisizioni successive alla presentazione della domanda di ammissione al concordato, rappresentino almeno il dieci per cento dell’esposizione debitoria risultante dalla situazione patrimoniale depositata dal debitore congiuntamente al ricorso[17]. Già l’incipit della disposizione solleva un interrogativo, poiché, se è chiaro che la proposta può essere presentata tanto da chi possieda ab origine la percentuale richiesta, tanto da chi, essendo in possesso di una aliquota inferiore, abbia raggiunto successivamente il limite minino previsto dalla legge, non è altrettanto certo che siano legittimati anche soggetti che, non essendo creditori al momento del deposito del ricorso, lo siano divenuti per acquisizioni successive di crediti preesistenti, effettuate, magari, proprio allo scopo di presentare una proposta concorrente. La questione meriterebbe probabilmente un approfondimento maggiore di quello che è possibile fornire in questa sede; pertanto, ci si limiterà ad osservare che, anche se non è proprio conforme alla lettera della norma, la soluzione da ultimo prospettata sembra di primo acchito preferibile, perché appare più in linea con la ratio dell’intervento legislativo, finalizzato a incentivare quanto più è possibile la contendibilità dell’impresa in crisi.

Per quel che concerne il contenuto della proposta concorrente e del relativo piano la legge si limita soltanto a prevedere espressamente che essi possono contemplare l’intervento di un terzo, che potrebbe essere tanto una persona fisica, quanto una società (per esempio, anche una newco appositamente costituita). Inoltre, se il debitore è una società per azioni o una società a responsabilità limitata, il concorrente può addirittura proporre di modificare la struttura della compagine sociale, sì da consentire l’ingresso degli stessi creditori ovvero di terzi, inserendo nel piano la previsione di un aumento di capitale con limitazione o esclusione del diritto di opzione.

Si deve, dunque, ritenere che nella organizzazione della proposta i proponenti godano della stessa autonomia, che la legge riconosce all’imprenditore in difficoltà. A questo proposito, non si può che non notare che non viene mai precisato che la proposta concorrente debba essere necessariamente migliorativa; vi è, anzi, un dato normativo – in verità, anch’esso non chiarissimo, come tutta questa parte della nuova disciplina - che sembra deporre a favore della possibilità che essa sia perfettamente sovrapponibile a quella depositata dal debitore. Ci si riferisce a quanto dispone l’ultima frase dell’art. 163, comma 4, l. fall., ai sensi della quale la relazione del professionista di cui all’art. 161, comma 3[18] - che si riferisce al piano del debitore e alla documentazione allegata - può essere limitata alla fattibilità del piano per gli aspetti che non siano già oggetto di verifica da parte del commissario giudiziale e può essere omessa, qualora non ve ne siano[19].

Dal momento che è indiscusso che, al fine di consentire ai creditori l’esercizio consapevole del voto, la relazione particolareggiata, che, ai sensi dell’art. 172, comma 1, l. fall., deve essere redatta dal commissario giudiziale, deve esaminare e valutare tutti gli aspetti di fattibilità della proposta del debitore (e, di conseguenza, anche del piano sul quale essa si fonda)[20], solo nel caso in cui vi sia una perfetta coincidenza fra il piano presentato dall’imprenditore e il piano allegato alla proposta concorrente, la relazione del professionista potrebbe essere considerata superflua.

Inoltre, il secondo comma dello stesso art. 172, per quel che concerne la relazione integrativa, che deve essere predisposta dal commissario giudiziale nel caso in cui siano state presentate proposte concorrenti, precisa che essa deve contenere «di norma» una particolareggiata comparazione tra tutte le proposte depositate. L’inciso evidenziato, che non appare di agevole lettura, non può che avere il significato di esonerare il commissario giudiziale dall’obbligo di effettuare la particolareggiata comparazione esclusivamente nel caso in cui non sia possibile effettuarla. Questa situazione può verificarsi in due ipotesi opposte: qualora le proposte siano così radicalmente differenti da risultare assolutamente incomparabili (e non si può escludere che tale evenienza possa, seppure raramente, verificarsi) ovvero, come sembra più probabile, se, essendo state presentate proposte perfettamente corrispondenti a quella formulata dal debitore, non possa essere effettuato alcun confronto.

In conclusione, si dovrebbe ritenere che i concorrenti possano appropriarsi del piano e della proposta formulata dal debitore e sottoporli al voto, contando sulla circostanza che la loro maggiore stabilità economica e finanziaria induca i creditori a preferirli all’imprenditore in difficoltà. Ma se così è, ci si troverebbe di fronte ad un’innovazione davvero eversiva del sistema, che – oltre a sollevare qualche perplessità sul piano della legittimità costituzionale - costituirebbe un fortissimo deterrente per gli imprenditori, che intendano proporre un concordato preventivo, in quanto un procedimento originariamente predisposto per risolvere le crisi d’impresa, consentendo all’imprenditore di decidere in totale autonomia se mantenerne o dismetterne la titolarità, si trasformerebbe nella massima parte dei casi in un totale «salto nel buio»: di fatto, equivarrebbe ad una collocazione dell’impresa sul mercato con la possibilità che, a parità di condizioni, essa venga acquisita da un soggetto diverso dall’originario titolare.

Ma non minori perplessità - totalmente ignorate dal legislatore – sorgono, qualora il piano e la proposta concorrenti siano differenti da quelli formulati dall’imprenditore; in questo caso il problema è stabilire se vi siano dei limiti all’autonomia dei proponenti. Si pensi all’ipotesi estrema: la scelta del sotto-tipo concordatario, liquidatorio o in continuità; è legittimo chiedersi se il concorrente possa spingersi fino a proporre la sostituzione di un piano liquidatorio con un piano, che preveda la continuità aziendale, ovvero il passaggio inverso, da un concordato con continuità ad un concordato liquidatorio. Pur nel silenzio della legge, che teoricamente autorizza ogni illazione, la risposta sembrerebbe non poter essere che negativa; l’opposta soluzione costituirebbe una clamorosa violazione del principio costituzionale, che tutela la libertà di iniziativa economica, in quanto il debitore verrebbe costretto a scelte imprenditoriali né volute, né concordate con lui, delle quali continuerebbe ad essere responsabile sul piano economico, fino ad andare incontro ad una dichiarazione di fallimento, se la situazione dell’impresa precipita, mentre egli ne è ancora il titolare[21].

Ma anche modifiche meno radicali della proposta e del piano predisposti dal debitore devono inevitabilmente fare i conti con le medesime perplessità: se, cioè, sia ammissibile che, senza avere la possibilità di sottrarsi al rischio di impresa, il debitore debba essere costretto a seguire una strategia di composizione della crisi, che non è la sua, ma è decisa da soggetti, i quali non è detto che divengano titolari dell’impresa e, comunque, almeno fino ad un certo punto della procedura - la sottoscrizione dell’aumento di capitale, l’intervento in veste di assuntori, … - che parrebbe corretto collocare temporalmente in un momento successivo all’approvazione e all’omologazione della proposta concorrente[22], continuano a restare estranei ad essa.

   

4.1.2. b) le proposte concorrenti: il procedimento

Ai sensi del quarto comma dell’art. 163 l. fall., le proposte concorrenti e il relativo piano devono «essere presentati» non oltre trenta giorni prima della data stabilita per l’adunanza dei creditori.  Al verbo «presentare», impropriamente usato, ma che ricorre con una certa frequenza nella disciplina del concordato preventivo, deve essere attribuito il più tecnico significato di «depositare», ovviamente, presso la cancelleria del Tribunale. Davvero inspiegabilmente, invece, non è prevista alcuna forma di pubblicità delle proposte concorrenti: né la pubblicazione nel registro delle imprese, né la comunicazione individuale ai creditori, ma soprattutto – e ciò è davvero singolare – nemmeno la comunicazione personale al debitore proponente.

Anche in questo caso ci si trova di fronte ad un vuoto normativo, che non sembra giustificabile. I creditori estranei alle proposte concorrenti vengono ufficialmente informati dell’esistenza di esse, non mediante la comunicazione dell’avvenuto deposito e men che meno attraverso la trasmissione diretta del testo della proposta, ma soltanto in via riflessa, in base alla particolareggiata comparazione fra tutte le proposte presentate, che, ai sensi dell’art. 172, comma 2, l. fall., deve essere contenuta, di regola, nella relazione integrativa redatta dal commissario giudiziale. Tale relazione, oltre che depositata in cancelleria, deve essere comunicata soltanto ai creditori secondo le modalità previste dall’art. 171, comma 2, l. fall.; paradossalmente, nessuna forma di comunicazione è prevista a favore del debitore[23].

Altrettanto insoddisfacente appare la disciplina dello svolgimento della fase relativa all’approvazione della proposta. Un ruolo non indifferente sulla (in)efficienza della procedura è dovuto all’assenza di ogni controllo circa l’ammissibilità delle proposte concorrenti. Oltre alla attestazione predisposta dal perito di parte, ex art. 163, comma 4, terzo periodo, l. fall., sulla quale ci si è già soffermati, non sono previste altre allegazioni documentali a corredo della proposta concorrente. Peraltro, non si dice nemmeno quali siano le conseguenze del mancato deposito della relazione nei casi in cui essa sarebbe necessaria. Parrebbe, anzi, che non ve ne sia alcuna (salvo, probabilmente, l’evidenziazione di tale circostanza nella relazione integrativa del commissario giudiziale), perché la legge non soltanto non prevede nulla in proposito, ma soprattutto nel nuovo ultimo comma dell’art. 175 l. fall. stabilisce che devono essere sottoposte alla votazione tutte le proposte presentate dal debitore e dai creditori, senza aggiungere nessuna altra precisazione.

In conclusione, parrebbe proprio che, se la relazione del perito manca o è incongrua ovvero se la proposta e il piano sono mal formulati o incompleti, l’unica reazione preventiva contemplata dall’ordinamento sia la segnalazione di tali circostanze da parte del commissario giudiziale, vuoi nella relazione integrativa, vuoi in occasione della discussione delle proposte di concordato. In quella stessa sede anche il debitore e ciascun creditore hanno la facoltà di esporre le ragioni per le quali non ritengono ammissibili le proposte di concordato; ma è dubbio che questa attività possa portare all’esclusione dal voto, posto che, come si è già rammentato, per un verso, non vi è traccia dell’esistenza di un ipotetico potere del Tribunale di dichiarare inammissibile una proposta concorrente e, per altro verso, la legge stabilisce esplicitamente che «sono sottoposte alla votazione dei creditori tutte le proposte presentate dal debitore e dai creditori».

Il rischio, che solo la prassi potrà dire quanto sia reale, è che vengano approvate proposte concorrenti poco trasparenti e, non fosse altro che per questo, non completamente affidabili. Sarebbe, dunque, auspicabile un intervento tempestivo del legislatore, che specifichi in maniera adeguata quale deve essere la documentazione allegata – al momento praticamente inesistente – che deve accompagnare le proposte concorrenti e, coerentemente, valorizzi il ruolo del Tribunale, demandando ad esso la verifica dell’ammissibilità di tali proposte, esattamente come avviene per la proposta formulata dal debitore. Secondo la disciplina vigente, infatti, il Tribunale interviene soltanto nel caso in cui la proposta concorrente preveda la suddivisione dei creditori in classi, esclusivamente al fine di verificare che siano stati correttamente applicati i criteri di formazione delle classi.

A questo proposito è appena il caso di rammentare che con una disposizione, che non può non suscitare perplessità - perché si è completamente ignorata la situazione di conflitto di interessi in cui i creditori che hanno presentato una proposta concorrente vengono a trovarsi – non soltanto si è scelto di non «sterilizzare» il voto di costoro rispetto a tutte le proposte presentate, ma si è addirittura consentito ai proponenti di votare sulla propria proposta, a condizione che siano collocati in un’autonoma classe. Se si considera che la percentuale richiesta per la presentazione di proposte concorrenti non è particolarmente alta - dovendo essere pari al dieci per cento dell’esposizione debitoria risultante dalla situazione patrimoniale presentata dal debitore, decurtata dei crediti infragruppo – non è difficile supporre che, qualora siano coinvolti nel progetto creditori, che siano titolari di una percentuale superiore, la proposta concorrente venga comunque presentata e formalmente strutturata in maniera tale da far figurare come proponenti i soli creditori, che rappresentino il minimo previsto dalla legge, così da garantire l’«appoggio esterno» degli altri creditori interessati a subentrare all’imprenditore, ai fini dell’approvazione della proposta.

Il novellato art.185 l. fall., infine, regola l’esecuzione della proposta di concordato, qualora sia stata approvata e omologata la proposta presentata da uno o più creditori. Esso prevede: a) l’obbligo del debitore di dare esecuzione alla proposta approvata e omologata; b) il dovere del commissario giudiziale di segnalare senza indugio al Tribunale eventuali comportamenti ostruzionistici del debitore, che non dia esecuzione o ritardi l’esecuzione del concordato; c) il diritto del creditore, che ha presentato la proposta approvata e omologata, di denunziare al Tribunale i ritardi e le omissioni del debitore. Nelle ultime due ipotesi il Tribunale può attribuire al commissario giudiziale il potere di sostituirsi al debitore per il compimento degli atti richiesti. Se il debitore inadempiente è una società, il Tribunale può revocarne l’organo amministrativo e nominare un amministratore giudiziario avente il compito di dare esecuzione alla proposta; qualora questa preveda l’aumento del capitale della società debitrice, l’amministratore giudiziario è anche legittimato a convocare l’assemblea straordinaria avente per oggetto la suddetta deliberazione.

Nulla è detto, invece, per l’ipotesi opposta; cioè, per il caso in cui siano i creditori proponenti a non collaborare per la parte che ad essi compete, o può competere, all’attuazione del piano, per esempio, non sottoscrivendo l’aumento di capitale senza diritto di opzione dopo che esso sia stato deliberato dall’assemblea della società. È intuibile l’ampiezza del campo di indagine, che questo vuoto normativo lascia all’interprete, che i limiti di queste osservazioni non consentono di esplorare. Ci si limiterà solo a considerare che, se il fallimento del debitore, in queste circostanze, sembra un esito inevitabile, ma certamente iniquo, l’individuazione di strumenti di reazione adeguati avverso la condotta dei creditori si presenta come una questione di estrema complessità.      

   

4.2. Le offerte concorrenti

Altrettanto mal scritta appare la disciplina delle offerte concorrenti, contenuta per intero nell’art.163-bis l. fall., introdotto ex novo dal d.l. n. 83/2015, anche se almeno qualcuno dei problemi esegetici, che essa pone, potrebbero essere risolti semplicemente ignorando i macroscopici errori di formulazione della norma, allo scopo di dare un senso logico alla disciplina in essa contenuta, che – diversamente – ne rimarrebbe totalmente priva.

L’art. 163-bis l. fall. impone lo svolgimento di una procedura competitiva obbligatoria in tutti i casi in cui il piano comprenda un’offerta da parte di un soggetto individuato, avente per oggetto il trasferimento – anche non immediato - a titolo oneroso dell’azienda, di uno o più rami d’azienda o di specifici beni; l’ultimo comma della norma estende la medesima disciplina «in quanto compatibile» anche agli atti urgenti di straordinaria amministrazione, che devono essere autorizzati ai sensi dell’art. 161, comma 7, l. fall., nonché all’affitto di azienda o di singoli rami di essa.

Benché la lettera della disposizione non lasci spazio all’interprete, sul piano della politica legislativa risulta incomprensibile la ragione per la quale la procedura competitiva non sia stata resa obbligatoria in via generale, ma soltanto nel caso in cui la controparte risulti già individuata nel piano; se la norma è finalizzata a garantire la trasparenza e la contendibilità dell’azienda e delle sue componenti in funzione del migliore soddisfacimento dei creditori, sarebbe stato più logico non porre alcun limite soggettivo all’applicazione di essa. La difficoltà di attribuire un senso al precetto normativo aumenta ulteriormente, se si considera che, invece, ai sensi dell’ultimo comma della disposizione la procedura competitiva dovrebbe essere sempre espletata, qualora il piano preveda l’affitto dell’azienda ovvero di un ramo di essa. Allo stesso modo, l’estensione della disciplina agli atti autorizzati ex art. 161, comma 7, l. fall., induce a ritenere che essa debba essere applicata, di regola, ogniqualvolta l’atto urgente implichi un trasferimento di beni del debitore verso un corrispettivo e, probabilmente, anche nel caso in cui sia questi a dover acquisire sollecitamente beni o servizi forniti da terzi a pagamento, a prescindere dalla circostanza che la controparte del debitore sia un soggetto predeterminato.

Discutibile appare anche, sul piano tecnico, la correttezza della qualificazione del terzo – tanto il soggetto già individuato nel piano, quanto chi decida di competere con questi - come «offerente»; se il piano prevede il trasferimento dell’azienda, di singoli rami o di specifici beni, il ruolo di offerente sembrerebbe dover essere assegnato al debitore proponente, piuttosto che ai potenziali acquirenti/concorrenti. Comunque sia, l’apertura della procedura competitiva è disposta dal Tribunale con decreto, che disciplina lo svolgimento della fase della presentazione delle «offerte» concorrenti; in particolare, il provvedimento deve: a) assicurare che tutte le offerte siano strutturate in modo da poter essere comparabili fra loro; b) fissare le garanzie, che devono essere prestate dagli offerenti; c) stabilire le forme di pubblicità del decreto, che si aggiungono in ogni caso alla pubblicità sul portale delle vendite pubbliche, di cui all’art. 490 c.p.c. Inoltre, con una disposizione inserita in sede di conversione del d.l. n. 83/2015, si è stabilito che il decreto del Tribunale deve indicare anche l’aumento minimo del corrispettivo, che le offerte concorrenti devono prevedere; pertanto, esse devono essere necessariamente migliorative rispetto all’offerta di base, concordata fra il debitore e il soggetto pre-individuato nel piano.

L’ultima parte del secondo comma della norma in commento è formulata in maniera sciatta, per l’aspetto lessicale, e di difficile comprensione nel merito. Nell’incipit la reiterazione del termine «offerta» («l’offerta di cui al primo comma diviene irrevocabile dal momento in cui viene modificata l’offerta in conformità a quanto previsto dal decreto di cui al presente comma») è frutto di un palese errore materiale, che induce il lettore a chiedersi – senza trovare risposta – quale sia l’offerta da ultimo menzionata, la cui modifica renderebbe irrevocabile (e perché, poi?) la prima. Invece, sarebbe sufficiente cassare la ripetizione per rendersi conto che si intendeva dire che l’offerta menzionata nel piano diviene irrevocabile nel momento in cui viene nuovamente depositata (anche se di un nuovo deposito, in verità, la norma non parla) dopo essere stata modificata, secondo le indicazioni contenute nel decreto (e dopo che l’offerente abbia prestato la garanzia stabilita con il medesimo decreto).

La disposizione avrebbe lo scopo, dunque, di rendere le offerte strutturalmente omogenee fra loro e, perciò, agevolmente comparabili. Tant’è che, immediatamente di seguito, si precisa che esse sono inefficaci, se non risultano conformi alle prescrizioni contenute nel decreto, e lo sono in ogni caso, se sottoposte a condizione. Che, poi, di «inefficacia» in senso tecnico si tratti, appare assai dubbio, quando palesemente si è di fronte ad un’ipotesi di «inammissibilità» alla procedura competitiva delle offerte carenti dei requisiti richiesti. Comunque sia, la sanzione della cosiddetta inefficacia, sembrerebbe colpire tutte le offerte presentate, qualora non rispettino i requisiti indicati dal Tribunale, non esclusa quella risultante dal piano, di cui al primo comma dell’art. 163-bis l. fall., qualora l’offerente non vi apporti le modifiche richieste dal decreto.

Si pongono, da questo punto in poi una serie di interrogativi, ai quali è difficile dare una risposta certa. Posto che anche l’offerta resa pubblica nel piano diviene irrevocabile nel momento in cui viene adeguata alle prescrizioni dettate dal Tribunale, la modificabilità concerne soltanto i profili indicati nel decreto o si estende anche agli aspetti di carattere sostanziale? In altri termini, è possibile che l’offerente formuli in questa fase un’offerta migliorativa rispetto a quella da lui stesso originariamente prospettata? La risposta al quesito dovrebbe essere positiva. All’interno della disposizione, che estende la sanzione dell’«inefficacia» a tutte le offerte, che non sono conformi alle indicazioni contenute nel decreto, viene altresì precisato esse devono essere presentate «in forma segreta». L’inciso non avrebbe alcun senso rispetto all’offerta risultante dal piano, se l’offerente non fosse legittimato ad apportarvi anche modifiche non richieste dal decreto, elevando segretamente il prezzo offerto come corrispettivo.

Sembrerebbe che si stia trattando di una questione di poco conto, dal momento che il comma successivo, che regola la fase della vendita o dell’aggiudicazione, prevede che «se sono state presentate più offerte migliorative, il giudice dispone la gara fra gli offerenti». Singolarmente, dunque, non prevale chi abbia formulato l’offerta migliore fra offerte confrontabili tra loro, ma, sulla base dell’offerta più elevata, si apre una gara fra gli offerenti, di tal che, se questo è il risultato al quale si voleva pervenire, appare legittimo chiedersi quale sia l’utilità della fase propedeutica ad esso, se non per la parte finalizzata a rendere le offerte comparabili.

Si pone, a questo punto, un ulteriore problema, anch’esso ascrivibile alla scrittura approssimativa del decreto. L’apertura della gara è prevista nel caso in cui – letteralmente – siano state presentate «più offerte migliorative»; di conseguenza, si dovrebbe intendere che, se è stata presentata una sola offerta concorrente e il potenziale acquirente o assegnatario risultante dal piano non ha migliorato la propria, la gara non dovrebbe avere luogo. Essa dovrebbe svolgersi, invece, se sono state presentate più offerte migliorative, compresa quella, anch’essa secretata, del primo offerente. È evidente che un’interpretazione rigorosamente aderente alla lettera della legge porta a conclusioni assolutamente irrazionali, poiché la legittimazione dell’offerente indicato nel piano a partecipare alla procedura competitiva sarebbe collegata a circostanze assolutamente occasionali. In realtà, perché la disposizione riacquisti un significato pianamente logico, sarebbe sufficiente eliminare dal testo l’aggettivo «migliorative», ma sarebbe certo opportuno che ciò avvenisse ad opera del legislatore e che non ci si affidasse allo sforzo degli interpreti di razionalizzare il sistema. 

La parte finale della disciplina delle offerte competitive – concernente la liberazione del primo proponente, qualora non risulti acquirente o aggiudicatario; il rimborso a costui delle spese sostenute nella misura massima del tre per cento del prezzo indicato nell’offerta; il dovere del debitore di modificare la proposta e il piano in conformità degli esiti della gara – ad una prima lettura non sembra sollevare particolari problemi. E, parimenti, appare coerente con lo scopo della disposizione la previsione dell’obbligo del debitore di modificare la proposta e il piano in conformità con l’esito della gara.

   

5. Conclusioni

Tirare le somme su questo estemporaneo e, in certa misura, più temuto che atteso intervento normativo non è semplice; esso manifesta una scelta di politica legislativa sulla quale sarà il tempo, attraverso la prassi delle imprese e dei Tribunali, ad esprimere un giudizio. Certo è che rispetto all’incentivazione al ricorso al concordato preventivo per risolvere le crisi di impresa, che si era avuta con i precedenti interventi legislativi, il d.l. n. 183/2015 segna una netta inversione di marcia.

Da ora in poi il concordato liquidatorio potrebbe essere destinato a svolgere un ruolo ridottissimo, vuoi per l’introduzione dell’obbligo di pagare una percentuale minima, relativamente elevata, ai chirografari, vuoi per la difficoltà di conseguire la maggioranza necessaria per l’approvazione dell’accordo, a seguito dell’abolizione della regola del silenzio-assenso. Ferma restando tale obiettiva difficoltà, che concerne anche il concordato con continuità aziendale, le sorti di quest’ultimo parrebbero migliori, non essendo previste percentuali di pagamento da «assicurare» ai creditori chirografari.

Resta il fatto, però, che - quale che sia la tipologia di concordato proposta - il debitore, che voglia avere la sicurezza di mantenere in pugno le sorti della sua impresa, deve poter disporre di una notevole liquidità per poter pagare le somme, che lo pongano al riparo da eventuali proposte concorrenti. Conseguentemente l’utilizzo delle procedure concordatarie per tentare il risanamento dell’impresa ovvero per addivenire ad una liquidazione esdebitatoria dell’attività sarà praticato concretamente soltanto se si verificherà un profondo mutamento nella mentalità degli imprenditori, i quali, a differenza di quanto avviene ora nella massima parte dei casi, dovrebbero accettare di ricorrere ad esse, quando hanno ancora la possibilità di offrire le percentuali di pagamento previste dalla legge.

La parte «sperimentale» della miniriforma, concernente la contendibilità sul mercato delle imprese in una situazione di crisi autodichiarata mediante il deposito del ricorso per il concordato ne, ne costituisce certamente il nucleo di maggiore interesse. Resta da verificare se le incertezze e le goffaggini mostrate dal legislatore nella redazione della disciplina relativa renderanno effettivamente appetibili per altri imprenditori gli istituti delle offerte e delle proposte concorrenti.



[1] Salvo quanto previsto dall’abrogato art. 186, comma 2, l. fall., per il concordato con cessione dei beni, ai sensi del quale non si aveva risoluzione del concordato, se dalla liquidazione dei beni si ricavava una percentuale inferiore al quaranta per cento.

[2] E’ appena il caso di ricordare che nella prima versione della legge fallimentare il Tribunale poteva negare l’omologazione, se reputava che il debitore non fosse munito dei requisiti di meritevolezza richiesti, nonché se riteneva che la proposta non fosse conveniente, sebbene fosse stata approvata dalla maggioranza dei creditori.

[3] La formulazione della disposizione è stata oggetto di critiche, poiché è dubbio se contenga un’elencazione tassativa delle fattispecie. Si è con ragione rilevato, per un verso, che anche il conferimento di azienda rientra nell’ampia nozione di cessione (cosicché le tre ipotesi contemplate dovrebbero in effetti essere ridotte a due) e, d’altro canto, che, ove il legislatore avesse optato per una enunciazione analitica delle fattispecie, rimarrebbe comunque oscura la ragione per la quale avrebbe omesso di menzionare anche altre ipotesi di operazioni straordinarie (p.es. la fusione), che nella sostanza costituiscono delle cessioni. Su tali tematiche, cfr., recentemente, V. PETTIROSSI, Il concordato preventivo: della fattispecie con continuità aziendale, in Dir. fall., 2015, I, p. 221 e p. 232.

[4] Per l’individuazione della disciplina applicabile a tale concordato «misto», assieme liquidatorio e in continuazione, si rinvia alle differenti opinioni formulate da V. PETTIROSSI (nt. 3), p. 228 e da S. AMBROSINI, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, in www.ilcaso.it.

[5] La disposizione è stata modificata dal d.l. n. 83/2015, che ne ha mutato il titolo (attualmente, «Contratti pendenti»), chiarendo anche che sono tali i «contratti ancora ineseguiti o non completamente eseguiti alla data della presentazione del ricorso».  

[6] L’altro termine di paragone per individuare quale sia il «migliore soddisfacimento dei creditori» si ritiene sia costituito dal valore patrimoniale netto realizzabile mediante la cessione dell’intera azienda, o dei singoli rami di questa, in condizione di non operatività, o di entità negoziabili, che possono essere aggregate in blocco, ovvero dei singoli beni individualmente. Cfr. C. CINCOTTI – F. NIEDDU ARRICA, La gestione del risanamento nelle procedure di concordato preventivo, in Giur. comm., 2013, I, p. 1238 ss.

[7] Con tale ultimo provvedimento sono stati previsti: 1) l’obbligo per il debitore di allegare al ricorso l’elenco nominativo dei creditori con l’indicazione dei rispettivi crediti; 2) un’intensificazione degli obblighi informativi periodici a carico del debitore; 3) il potere, anche officioso, del Tribunale di abbreviare il termine fissato per il deposito della domanda, ogniqualvolta l’attività svolta dal debitore risulti manifestamente inidonea alla predisposizione della proposta e del piano.

Inoltre, l’Autorità giudiziaria può procedere alla nomina del commissario giudiziale con lo stesso decreto con il quale fissa il termine entro cui devono essere presentati il piano, la proposta e la documentazione allegata; il commissario giudiziale, poi, qualora accerti che il debitore ha posto in essere una delle condotte di cui all’art. 173 l. fall., deve riferirne immediatamente al Tribunale, il quale, una volta che ne abbia accertata la sussistenza, dichiara improcedibile la domanda e, su istanza dei creditori o del P.M., il fallimento dell’impresa.

[8] Fra molti, cfr., recentemente, P. BELTRAMI, La disciplina dei finanziamenti alle imprese in crisi nelle operazioni di ristrutturazione dei debiti, in Banca, borsa, tit. cred., 2015, I, p. 43 ss.; ID., Il preconcordato “in” continuità, Milano, 2013, p. 115 ss.

[9] Incomprensibile, poi, e, forse, attribuibile alla fretta con la quale il decreto è stato confezionato e convertito in legge, appare l’inciso contenuto nella disposizione in commento secondo il quale il debitore, che presenta una domanda di concordato ai sensi dell’art. 161, comma 6, l. fall., può chiedere l’autorizzazione «anche in assenza del piano di cui all’art. 161, comma 2, lett. e)». Se si considera che l’art. 161, comma 6, l. fall., consente appunto al debitore di presentare il piano, la proposta e la documentazione allegata successivamente al deposito del ricorso, entro il termine fissato dal giudice, e che la elaborazione della proposta presuppone logicamente che vi sia un piano definito, quantomeno nell’impostazione, il senso di questa parte della norma - e il richiamo alla sola mancanza del piano - restano assolutamente oscuri al lettore.

[10] Sulla specificità del concordato con continuità aziendale cfr., per tutti, E. BARCELLONA, Concordato con continuità aziendale: quale il quid dell’istituto?, in www.orizzontideldirittocommerciale.it, draft per il V Convegno annuale dell’Associazione “Orizzonti del Diritto commerciale” – Roma, 2014.

[11] Sulla disciplina alla quale doveva ritenersi sottoposta questa tipologia di finanziamenti prima del d.l. n. 83/2015, si vedano C. CINCOTTI – F. NIEDDU ARRICA (nt.6), p. 1256 ss.   

[12] Cfr., recentemente, S. AMBROSINI, Il piano di concordato. Concordato con continuità aziendale e cessione dei beni, in Le altre procedure concorsuali, in Tratt. dir. fall. e delle altre proc. concorsuali, diretto da F. Vassalli, F. P. Luiso, E. Gabrielli, IV, Torino, 2014, p. 701 s.    

[13] L. GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare6, a cura di F. Padovini, Torino, 2014, p. 334.

[14] Così, fra gli ultimi, C. COSTA, Il concordato preventivo con cessione dei beni, in Il diritto della impresa in crisi fra contratto, società e procedure concorsuali, a cura di F. Barachini, Torino, 2014, p. 72 s.

[15] Nonostante la lettera della norma, l’indicazione per ciascun singolo creditore della utilità, che il debitore si obbliga a fargli conseguire, non ha senso né rispetto ai creditori chirografari, unitariamente considerati nella proposta, né nel caso di suddivisione dei creditori in classi, in quanto in ambedue le ipotesi ai creditori viene offerto o il trattamento (unico) previsto per tutti i chirografari ovvero quello della classe di appartenenza.

[16] Nel senso del testo, cfr. S. AMBROSINI, La disciplina della domanda di concordato preventivo nella “miniriforma” del 2015, in www.ilcaso.it.

[17] L’art. 163, comma 4, seconda frase, l. fall., precisa che, ai fini del computo dell’aliquota «non si considerano i crediti della società che controlla la società debitrice, delle società da questa controllate e di quelle sottoposte a comune controllo».

[18] Il rinvio alla relazione di cui all’art. 161, comma 3, l. fall., senza alcuna altra precisazione, potrebbe ingenerare un equivoco, in quanto la norma richiamata si riferisce, ovviamente, alla relazione predisposta dal professionista designato dal debitore. Benché nulla sia detto in proposito nell’art. 163, comma 4, l. fall., logica e buon senso suggeriscono che, in caso di proposte concorrenti, siano i proponenti a scegliere (e a pagare) l’attestatore; ma, certo, una maggiore chiarezza nella formulazione della disposizione non avrebbe nuociuto. 

[19] La circostanza che manchi qualsiasi richiamo ad un controllo di veridicità da parte del perito contribuisce a rendere ulteriormente oscura la disposizione. Parrebbe indiscutibile che vi sia l’esigenza, che venga attestata anche l’attendibilità dei contenuti della proposta e del piano concorrenti, quantomeno per le parti non coincidenti con la documentazione presentata dal debitore. Tuttavia, in base alla lettera della norma non è dato sapere con certezza nemmeno se, né rispetto a quali dati l’esperto debba esercitare questo genere di controllo.

[20] Per tutti, S. PACCHI,  La valutazione del piano del concordato preventivo: i poteri del Tribunale e la relazione del commissario giudiziale, in Dir. fall., 2011, I, p. 95 ss.

[21] Nello stesso senso, ma seguendo un percorso interpretativo diverso, v. F. LAMANNA, Le nuove proposte concorrenti: è configurabile un concordato con continuità aziendale del creditore competitor? A quali limiti è soggetta la sua proposta?, in www.ilfallimentarista.it.

[22] F. LAMANNA (nt. 21), cit.

[23] La nuova tempistica introdotta dal d.l. n. 83/2015 risulta, dunque, così articolata. Il commissario giudiziale deve depositare la sua relazione in cancelleria almeno quarantacinque giorni prima dell’adunanza dei creditori (in luogo dei dieci giorni precedentemente previsti) e nello stesso termine deve comunicarla agli stessi a mezzo posta elettronica certificata; le eventuali proposte concorrenti devono essere presentate non oltre trenta giorni prima della data dell’adunanza; tutte le proposte, non esclusa quella del debitore, possono essere modificate fino a quindici giorni prima dell’adunanza; in caso di presentazione di proposte concorrenti, ma, per coerenza logica, anche in caso di modifica dell’unica proposta presentata dal debitore, il commissario giudiziale deve depositare una relazione integrativa almeno dieci giorni prima dell’adunanza dei creditori.


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