Sovraindebitamento
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 20/07/2015 Scarica PDF
L'imprenditore agricolo insolvente tra fallimento e sovraindebitamento: un caso nel florovivaismo pistoiese
Tommaso Sannini e Tommaso Stanghellini, Avvocati in PistoiaSommario: 1. Introduzione 2. La sentenza del Tribunale di Pistoia 14.10.2014. 3. L’ampliamento della definizione di imprenditore agricolo ed il “rischio” della fallibilità: a) l’attività principale; b) le attività connesse. 4. La scelta di campo del legislatore: la conferma dell’esonero dalla fallibilità con la legge n. 3/2012. 5. Riflessi sul piano probatorio dell’esenzione dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili. 6. I poteri del giudice nella verifica della natura giuridica dell’imprenditore agricolo. 8. Conclusioni. L’insolvenza dell’imprenditore agricolo e l’inadeguatezza della legge.
1. Introduzione
L’ampia nozione di imprenditore agricolo dettata dall’art. 2135 c.c. e la sua possibile interazione con le varie procedure concorsuali previste dall’ordinamento ha aperto una serie di questioni in ordine ai confini che escludono la fallibilità dell’imprenditore agricolo e la possibilità di utilizzare il nuovo istituto della composizione della crisi da sovraindebitamento previsto dalla legge 27.01.2012, n. 3. Parte della dottrina ritiene che rappresenti un ingiustificato privilegio[1] non estendere il fallimento a fattispecie che rischiano di non aver nulla di agricolo se non il solo prodotto commercializzato.[2] Come vedremo, anche la Suprema Corte ha in più occasioni richiesto un rigoroso accertamento in ordine alla sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 2135 c.c. con particolare riferimento al collegamento funzionale dell’impresa con il fondo, attribuendo la qualifica di impresa commerciale assoggettabile al fallimento tutte le volte in cui tale collegamento non aveva alcuna incidenza sul ciclo produttivo ed il fondo era stato di fatto degradato a mero bene fungibile.[3] D’altra parte le imprese agricole possono avere volumi d’affari del tutto simili a quelli delle imprese commerciali ed un massiccio ricorso al credito,[4] per cui si sostiene che l’unitarietà del concetto economico di impresa non può più consentire ingiustificati trattamenti differenziati in base al concetto di agrarietà.[5] Le problematiche connesse alla dilatazione dell’art. 2135 c.c. hanno persino portato il Tribunale di Torre Annunziata a sollevare, con ordinanza 20.01.2011, la questione di costituzionalità dell’art. 1 L.F. con riferimento all’art. 3 Cost. nella parte in cui esclude gli imprenditori agricoli e quelli ad essi equiparati dalla assoggettabilità alla dichiarazione di fallimento. Secondo il Tribunale remittente sarebbe ormai venuta meno la ragione di distinguere la posizione dell’imprenditore agricolo rispetto a quello commerciale, in quanto ormai vi è la possibilità di svolgere un’attività agricola anche senza l’utilizzazione del fondo, dato che questo può “assurgere a mero strumento di conservazione delle piante”, e l’attività agricola può essere ormai “limitata ad una sola fase necessaria del ciclo animale e vegetale”.[6] Tale irrazionalità sarebbe ancor più evidente con riferimento alle attività “connesse” di cui all’art. 2135, III comma, c.c. in quanto l’adozione del criterio della prevalenza consentirebbe di considerare “agricola anche l’attività di chi commerci, trasformi o conservi unitamente a quelli da lui prodotti, anche frutti naturali provenienti da altri fondi non da lui coltivati”.[7] La questione è stata comunque dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza 20.04.2012, n. 104 la quale però ha lasciato del tutto aperto il problema.[8] Le criticità non appaiono diminuite neppure con l’entrata in vigore della legge sul sovraindebitamento, che per la prima volta ha previsto la possibilità di regolare i propri debiti per tutta una serie di soggetti, tra i quali vi è espressamente l’imprenditore agricolo. Questo particolare intreccio normativo ed i dubbi interpretativi in ordine allo status dell’imprenditore agricolo ha portato la giurisprudenza di merito ad imporre oneri probatori assai stringenti a carico dei soggetti, esposti ad una procedura concorsuale, che si dichiarino imprenditori agricoli. Un esempio in tal senso è dato dalla sentenza del Tribunale di Pistoia del 14.10.2014.
2. La sentenza del Tribunale di Pistoia 14.10.2014
Con la sentenza 14.10.2014 il Tribunale di Pistoia ha dichiarato il fallimento di un’azienda vivaistica costituita in Società Semplice e dei suoi numerosi soci illimitatamente responsabili, poiché il creditore istante ne aveva invocato la natura commerciale, pur essendo la società iscritta nel registro delle imprese come impresa agricola e pur avendo come oggetto sociale l’attività di “orticolture specializzate vivaistiche e sementiere”. Infatti il credito insoddisfatto, e non contestato, superiore a 30.000 euro ex art. 15, u.c. L.F., era inerente a ripetute forniture di piante da cui il creditore deduceva che la debitrice acquistasse regolarmente piante per rivenderle a terzi. La Società debitrice, pur essendosi costituita in giudizio, non ha contestato i fatti addotti dal creditore e non ha prodotto alcuna documentazione contabile di supporto, deducendo esclusivamente di aver chiesto ed ottenuto la nomina di un professionista che svolgesse le funzioni di Organismo di Composizione della Crisi allo scopo di predisporre una proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti, nell’ambito di una procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento. Pertanto, a seguito della non contestazione in ordine allo svolgimento di attività anche di tipo commerciale e sulla base della mancata prova della misura non prevalente di tale attività rispetto a quella agricola, sia dei requisiti congiunti attinenti al sottodimensionamento, che ai sensi dell’art. 1, II comma, L.F. devono essere provati dal debitore, il Tribunale ha ritenuto sussistenti tutti i presupposti per la dichiarazione di fallimento senza disporre verifiche d’ufficio. Per quanto riguarda lo stato di insolvenza, questo è stato ritenuto provato oltre che dal mancato pagamento del debito, anche dal fatto che la Società aveva fatto ricorso ad una procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento. La pronuncia del Tribunale di Pistoia offre l’opportunità per alcune riflessioni inordine al confine sussistente tra impresa agricola e impresa commerciale e di conseguenza in ordine alla possibile soggezione alla procedura fallimentare dell’imprenditore agricolo, ed alla possibilità di utilizzare gli strumenti offerti dalla disciplina relativa alla composizione della crisi da sovraindebitamento di cui alla legge n. 3/2012.
3. L’ampliamento della nozione di imprenditore agricolo ed il rischio della sua fallibilità
Si deve anzitutto premettere che secondo la tesi prevalente per la ricostruzione degli elementi essenziali dell’impresa agricola, per il campo che qui interessa, si devono utilizzare i parametri stabiliti dalle norme civilistiche e dalla giurisprudenza, tralasciando le definizioni date dalle normative speciali, quali ad esempio quelle di natura fiscale[9] od amministrativa, perché predisposte per fini specifici e non idonee a circoscrivere l’area dell’impresa agricola non fallibile.[10]
Ciò premesso, la nozione di imprenditore agricolo quale risulta dall’art. 2135 c.c. è assai ampia: “1. E’ imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. 2. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. 3. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”.[11]
a) L’attività principale
Gli elementi caratterizzanti l’attività agricola principale, disciplinata dai primi due commi dell’art. 2135 c.c., vengono identificati nella cura del ciclo biologico o di una fase dello stesso, e nel collegamento potenziale con il fondo (o il bosco o le acque). La norma, attraverso il richiamo alle attività dirette alla cura di un ciclo biologico od anche di una sola fase dello stesso, ha quindi esteso e, per così dire, reso più rarefatta, la nozione di imprenditore agricolo riducendone le differenze con l’imprenditore commerciale. Perché ciò che qualifica ora la nozione di imprenditore agricolo non è più il necessario sfruttamento diretto del fondo o la riconducibilità dell’attività all’esercizio normale dell’agricoltura, bensì il collegamento con un ciclo biologico e il legame con il terreno, inteso ora in senso lato, che ricomprende “anche attività che non richiedono una connessione necessaria tra produzione ed utilizzazione del fondo”,[12] elemento accessorio o eventuale,[13] divenuto bene strumentale dell’organizzazione aziendale dell’impresa. Anche i parametri meramente quantitativi non possono più essere uno strumento utile per la determinazione della natura dell’impresa ai fini dell’assoggettamento alla legge fallimentare. Ciò anche perché i confini notevolmente più ampi, ma anche più sfumati, della nozione di imprenditore agricolo rispetto alla disciplina precedente, rendono sufficiente che il suo intervento nel processo produttivo sia limitato ad un’attività di controllo sulle condizioni necessarie allo sviluppo ed alla progressione di una fase del ciclo biologico,[14] e tale attività ben potrà riguardare, come accade ormai nella prassi, anche imprese di notevoli dimensioni. Ne deriva che l’attività vivaistica proprio in relazione al riferimento al ciclo biologico, rientra astrattamente nella previsione dell’art. 2135 c.c., senza che assuma alcun rilievo la dimensione dell’impresa o le modalità della sua organizzazione.[15] Il fatto che si sia resa “facoltativa e non necessaria l'utilizzazione del fondo, purché si realizzino prodotti anche solo potenzialmente collegati all'utilizzazione del fondo”,[16] ha reso molto più complessa la prova della natura agricola dell’impresa esercitata, in presenza di un’istanza di fallimento, perché, a seguito delle contestazioni e delle allegazioni del creditore relative alla mancata connessione concreta dell’attività con il fondo, potrebbe ricadere sull’imprenditore l’onere di dimostrare che, pur in assenza di un collegamento materiale del prodotto con la terra, vi è stata un attività di cura, anche limitata ad una fase specifica, del ciclo biologico così da rientrare nell’area della non fallibilità delimitata in prima battuta dallo stesso art. 2135 c.c.
Bisogna comunque tener presente che il mero richiamo al ciclo biologico, pur rivestendo una importanza centrale nella qualificazione dell’impresa agricola, non è di per sé sufficiente ad esaurirne la fattispecie in quanto, in ultima analisi, sono la natura concreta dell’attività esercitata[17] ed il principio della connessione potenziale i criteri principali per distinguere e separare lo spazio giuridico tra attività agricola ed attività commerciale. Si dovrà quindi verificare se l’attività abbia un collegamento funzionale con la terra vista come fattore produttivo anche solo potenziale, senza poter tuttavia ridurre il fondo a mera sede dell'attività produttiva, a bene fungibile. Circostanza che si verifica, ad esempio, quando si utilizzi il fondo per il mero stazionamento di prodotti di cui non si cura alcuna fase del ciclo biologico o di animali che non si allevano. Per cui ai fini della declaratoria di fallimento si dovrà tener conto del bene prodotto dall’impresa individuato secondo il criterio del ciclo agrobiologico “purché possa svolgersi, dal punto di vista naturale, nel fondo” anche come semplice supporto strumentale limitato, parziale purché questo abbia una qualche incidenza sullo sviluppo del ciclo produttivo e sui prodotti che ne derivano.[18] Quindi solamente l’indagine sull’attività concretamente svolta potrà individuare la natura agricola o commerciale dell’impresa e quindi la sua assoggettabilità al fallimento indipendentemente dalle indicazioni formali dell’oggetto sociale.[19] Tale dato sembrerebbe apparentemente ovvio, ma invece riveste particolare rilevanza sul piano della linea difensiva delle imprese agricole nell’istruttoria prefallimentare data la tendenza ad opporre alle istanze di fallimento il solo dato formale di avere un oggetto sociale di tipo agrario. Di conseguenza la sola indicazione nell’oggetto sociale di attività rientranti nella nozione di impresa agricola così come disciplinata dall’art. 2135 c.c. non sarà di per sé sufficiente ad evitare una dichiarazione di fallimento qualora l’attività in concreto esercitata sia prevalentemente commerciale. In particolare la Suprema Corte ha evidenziato come abbia “carattere commerciale o industriale e sia quindi soggetta al fallimento, se esercitata sotto forma di impresa grande e media, quell’attività che, oltre ad essere idonea a soddisfare esigenze connesse alla produzione agricola, risponda a scopi commerciali o industriali e realizzi utilità del tutto indipendenti dall’impresa agricola o, comunque, prevalenti rispetto ad essa”.[20] Coerente con questa linea interpretativa è anche la sentenza della Suprema Corte n. 12215 del 17.07.2012, richiamata in motivazione dai giudici pistoiesi, secondo la quale “la sottrazione dell’impresa agricola alle norme sul fallimento non è di ostacolo all’applicabilità del R.D. n. 267 del 1942, art. 1, che dichiara soggetta alle norme in materia di fallimento l’impresa commerciale, nonostante l’impresa medesima svolga contemporaneamente anche un’attività di natura agricola”. Tali pronunce quindi tracciano una prima delimitazione del confine attualmente sussistente tra impresa agricola ed impresa commerciale. Tuttavia secondo l’interpretazione maggioritaria, per condurre ad una dichiarazione di fallimento non sarà sufficiente che l’impresa agricola svolga contemporaneamente anche un’attività commerciale ma sarà necessario anche che tale attività sia esercitata in misura prevalente o in via del tutto indipendente rispetto all’attività agricola stessa, facendo venir meno qualsiasi collegamento, anche potenziale, con il fattore terra.[21]
In altre parole l’attività commerciale dovrà presentarsi come del tutto autonoma ed a sé stante per rendere privo di rilevanza il fatto che l’impresa eserciti anche un’attività agricola in senso proprio.
b) Le attività connesse
Anche le attività connesse sono state notevolmente ampliate. L’art. 2135, III comma c.c. le qualifica come quelle attività esercitate dall’imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti agricoli. La norma non richiede più che tali attività siano svolte “nell’esercizio normale dell’agricoltura”, ma ritiene sufficiente che i prodotti, oggetto di tali attività, provengano in misura prevalente dall’attività di coltivazione del fondo, del bosco o di allevamento rispetto a quelli acquistati dai terzi.[22] Per cui non può considerarsi connessa, ai sensi dell’art. 2135, I e III comma, c.c. quell’attività che non derivi dall’esercizio delle attività c.d. agricole principali.[23] Anche per le attività “connesse” quindi l’utilizzazione del fondo ed il “fattore terra” divengono elemento meramente potenziale.[24] E’ evidente che il rapporto di connessione richiesto dalla norma riguarda la relazione intercorrente con l’attività principale dell’impresa agricola, per cui le attività connesse si porranno in una relazione di strumentalità rispetto all’attività agricola principale sia per quanto riguarda la fase della produzione sia per quanto riguarda la fase di utilizzazione e commercializzazione dei prodotti. Le attività connesse, quindi, avranno il solo scopo di integrare il fatturato complessivo dell’impresa agricola senza poterne in alcun modo costituire la voce prevalente, né tantomeno unica.[25] Sotto il profilo specifico della commercializzazione, quindi, l’art. 2135 c.c. consente all’imprenditore agricolo la commercializzazione di prodotti agricoli acquistati da terzi purché tali prodotti non siano prevalenti rispetto a quelli provenienti dal proprio fondo; rientra altresì nel paradigma dell’art. 2135 c.c. l’ipotesi in cui i prodotti, acquistati da altri, siano curati, almeno in una fase del loro ciclo biologico, dall’imprenditore prima di rivenderli. In altre parole, perché vi sia “connessione” è necessario che l’attività connessa sia svolta dall’imprenditore agricolo (c.d. connessione soggettiva) e che vi sia un collegamento prevalente tra attività principale e attività connessa (c.d. connessione oggettiva). Una volta rispettate queste condizioni sarà sempre possibile commercializzare prodotti di terzi alla condizione che tali prodotti non siano prevalenti dal punto di vista quantitativo rispetto ai propri.[26]
4. La scelta di campo del legislatore: la conferma dell’esonero dalla fallibilità con la legge n. 3/2012
E’ innegabile la scelta di campo del legislatore il quale, nonostante una sicura analogia fra l’imprenditore agricolo e quello commerciale, ha confermato che l’imprenditore agricolo può accedere solo alla procedura di sovraindebitamento e non è assoggettabile al fallimento. Una scelta che riteniamo ampiamente condivisibile anche in virtù della profonda diversità economica dell’impresa agricola rispetto all’impresa commerciale, già sottolineata da attenta dottrina, ed individuata essenzialmente “nel carattere della terra come bene finito, dalla lunghezza delle operazioni di riconversione delle strutture produttive, dalla polverizzazione dell’offerta, dalla immissione del prodotto sul mercato non in ragione della domanda, ma a date fisse corrispondenti ad un ciclo produttivo, dalla deperibilità dei beni agricoli non sopprimibile e solo arginabile a fronte però di aumenti del costo di conservazione, ma anche per ciò che attiene il rapporto tra domanda e offerta”.[27] E’ noto infatti che nel settore dei prodotti agricoli dal punto di vista economico la domanda è particolarmente rigida sia rispetto al prezzo che rispetto al reddito, per cui da una parte il surplus di produzione determina un deprezzamento dei prodotti maggiore rispetto a quello che si avrebbe avuto se l’offerta fosse stata adeguata alla domanda, dall’altro al crescere del reddito la domanda dei beni agricoli cresce in misura inferiore rispetto a quanto accade per i beni non agricoli. Peraltro, a differenza dei prodotti industriali o dei servizi, non vi è la possibilità di aumentare il livello della domanda attraverso meccanismi di induzione del bisogno per cui la domanda rimarrà sempre pressoché uniforme e costante.[28] Sulla base di queste peculiarità attinenti la struttura economica agraria, che permangono anche dopo le forti innovazioni tecnologiche ed il miglioramento delle tecniche di coltivazione che hanno interessato il settore, è quindi più che legittimo il permanere della differenziazione dello statuto dell’imprenditore agricolo rispetto a quello dell’imprenditore commerciale.
5. Riflessi sul piano probatorio dell’esenzione dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili
Il problema dell’onere della prova nella fase dell’istruttoria prefallimentare si riconnette alla problematica relativa all’esenzione dell’obbligo delle scritture contabili nei confronti dell’impresa agricola. Si potrà verificare infatti, come successo nel caso sottoposto all’esame del Tribunale di Pistoia, la circostanza che il debitore ritenga di non fornire alcuna documentazione sulla base del fatto di essere un imprenditore agricolo, magari costituito in società semplice, e di conseguenza di non essere obbligato alla tenuta delle scritture contabili od alla redazione di bilanci. Tuttavia, per la giurisprudenza di legittimità, anche in materia fallimentare, la presentazione dei bilanci non rappresenta un onere imprescindibile posto che la prova della non assoggettabilità o, al contrario, della soggezione al fallimento potrà comunque “desumersi da documenti altrettanto significativi”.[29] Di conseguenza anche chi non ha tenuto le scritture previste dall’art. 2214 c.c. e non potesse produrre i bilanci degli ultimi tre esercizi potrà presentare la documentazione contabile tenuta in ragione della propria attività, che andrà individuata caso per caso, e che tendenzialmente coinciderà con la documentazione contabile e fiscale che gli imprenditori sono obbligati a tenere in base alle leggi fiscali e di settore.[30] Peraltro, anche nell’ambito delle procedure della composizione da sovraindebitamento, di cui alla legge n. 3 del 2012, il fatto di non essere obbligato alla tenuta delle scritture contabili previste dall'art. 2214 c.c. non esonera l’imprenditore agricolo dal presentare tutta la documentazione idonea a ricostruire compiutamente la sua situazione patrimoniale ed economica, eventualmente predisponendola ex novo, proprio in funzione del deposito della proposta. Tale documentazione, infatti, rappresenta un presupposto imprescindibile di ammissibilità del piano da sottoporre ai creditori ex art. 7, comma II, lett. d), della legge n. 3 del 2012. Dunque le esenzioni che l’imprenditore agricolo gode sul piano civile o fiscale non determinano alcuna deroga alla disciplina della regolazione della crisi da sovraindebitamento che presuppone sempre l’accertamento dei dati contabili di partenza e la loro ricostruzione secondo criteri di veridicità, perché tale disciplina ha come ratio l’esigenza di rendere trasparente la situazione economica e patrimoniale del debitore e conseguentemente tutelare i creditori, i quali dovranno sempre essere posti nella condizione di conoscere con completezza tale situazione e di poterne verificare l’attendibilità.[31] Si deve sottolineare l'estrema ambiguità del ruolo assegnato all'Organismo di composizione della crisi (O.C.C.) chiamato da una parte dallo stesso art. 7, I comma, della legge n. 3 del 2012 a prestare un generico ausilio nella predisposizione del piano e dall'art. 15, VI comma, a verificare la veridicità dei dati contenuti nella proposta e nei documenti allegati; dall’altra ad attestare la fattibilità del piano ai sensi dell'art. 9, II comma, il che impone una posizione non più ausiliaria ma di terzietà dell’Organismo rispetto al debitore. Da sottolineare anche l'estrema indeterminatezza della locuzione usata dall'art. 17, I comma, nell'attribuire allo stesso O.C.C. il potere di assumere “ogni opportuna iniziativa, funzionale alla predisposizione del piano di ristrutturazione, al raggiungimento dell'accordo e alla buona riuscita dello stesso”. Tale genericità può quindi generare equivoci di particolare gravità quando, come nel caso sottoposto al giudizio del Tribunale di Pistoia, un creditore presenti istanza di fallimento nelle more della predisposizione della proposta di accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento. Si tenga conto del fatto che l’istanza di nomina da parte del debitore dell’O.C.C. o di un professionista sostituivo ex art. 15, IX comma, della legge n. 3 del 2012, vista la sua funzione ausiliare, deve precedere il deposito della proposta di accordo (o del piano), per cui vi è il serio rischio che il debitore si ritenga in qualche modo garantito dalla mera nomina di un O.C.C. (nella veste del professionista sostituto), pur essendo sprovvisto di una documentazione che invece risulta necessaria sia per il buon esito del piano di composizione della crisi da sovraindebitamento, sia per evitare di incorrere in una dichiarazione di fallimento come successo nel caso della sentenza in commento. Da ciò se ne deve dedurre l'insufficienza dell'O.C.C. (e del professionista sostituto) così come configurato nell'attuale legge nel gestire l'intero procedimento di sovraindebitamento di cui alla L. n. 3/2012. A parere di chi scrive sembra dunque assai ingenuo ritenere che un’unica figura professionale possa occuparsi dell’intera gestione della proposta, dell’attestazione della veridicità dei dati contabili e della fattibilità economica e giuridica della stessa, con riferimento ad imprese agricole il cui volume d’affari può avere dimensioni consistenti, e che quindi possa riassumere in sé funzioni che nel concordato preventivo vengono svolte, di regola, da tre distinte figure: l’Advisor, l’Attestatore ed il Commissario giudiziale. Si tenga anche conto del fatto che nell’ambito del sovraindebitamento il blocco delle azioni esecutive individuali, dei sequestri conservativi e dei diritti di prelazione sul patrimonio del debitore può essere disposto dal giudice solo con il decreto che fissa l’udienza ex art. 10, II comma lett. c), della legge n. 3 del 2012, e quindi dopo la predisposizione del piano, della proposta e dell’attestazione, per cui in questo ampio lasso di tempo, a differenza della proposta di concordato preventivo, l’imprenditore agricolo sarà completamente esposto all’aggressione dei creditori. Tali aggressioni vanificheranno o renderanno estremamente più complesso l’iter della composizione della crisi. Anche sotto tale profilo, quindi, la normativa sul sovraindebitamento presenta gravissime lacune che il legislatore dovrà colmare.
6. La difficoltà in ordine alla prova della natura dell’impresa: i poteri del giudice nella verifica della natura giuridica dell’imprenditore agricolo
Alcuni Tribunali, partendo dal presupposto che la natura giuridica dell’impresa di cui si chiede il fallimento costituisca elemento costitutivo della domanda, hanno disposto una consulenza tecnica d’ufficio per verificare l’attività concretamente esercitata, indipendentemente dall’astratta indicazione dell’oggetto sociale.[32] Il Tribunale di Pistoia ha, invece, escluso che si potessero ipotizzare verifiche officiosesulla natura, commerciale o agricola dell’imprenditore di cui si è dichiarato il fallimento data la totale assenza di contestazione da parte del debitore stesso in ordine allo svolgimento di attività non agricole (oltre alla mancata prova sia della misura minoritaria di detta attività rispetto a quella agricola sia del sottodimensionamento ex art. 1, II comma, L.F. data la mancanza di produzione documentale di parte sul punto). I giudici pistoiesi in base a questa constatazione hanno ritenuto provata la natura commerciale dell’imprenditore, ritenendo che “la natura di imprenditore commerciale soggetto al fallimento ex art. 1 L.F. è da considerarsi il presupposto stesso posto a fondamento del ricorso del creditore ai sensi dell’art. 6 L.F. per cui, in assenza di contestazioni e di elementi in senso contrario, eventualmente desumibili dagli atti, la circostanza deve considerarsi alla stregua di un elemento di fatto acquisito”.[33] Secondo il Tribunale di Pistoia l’eccezione avrebbe dovuto essere sollevata ed il suo fondamento dimostrato dal debitore dato che a seguito dell’abrogazione dell’iniziativa d’ufficio ex art. 6 devono ritenersi espunti dall’ordinamento i poteri di intervento e di verifica d’ufficio in capo al Tribunale, il quale può solo disporre mezzi istruttori se integrativi dei mezzi di prova già introdotti nel procedimento. Il venir meno dell’iniziativa officiosa in ordine all’apertura del procedimento fallimentare si pone quindi come riaffermazione del principio dispositivo sostanziale all’interno del processo fallimentare, principio che fa venir meno in capo al giudice l’autonomo potere di ricerca di fonti materiali della prova. Conseguentemente il Tribunale avrà solo un ruolo suppletivo nell’ambito della formazione della prova. In quest’ottica anche il principio di non contestazione, utilizzato dal Tribunale di Pistoia per dedurre la qualità di imprenditore commerciale dell’impresa vivaistica, risponde ad un’esigenza di economia processuale conforme al disposto dell’art. 115 c.p.c., per cui i fatti non contestati si pongono inevitabilmente al di fuori del thema probandum.[34] Quindi la natura, commerciale o agricola, della società di cui si chiede il fallimento, costituisce fatto costitutivo della domanda sul quale il giudice potrà disporre un indagine d’ufficio (quale ad esempio la consulenza tecnica) solo nel caso in cui vi siano lacune probatorie dovute ad un’allegazione insufficiente delle parti.[35]
Per quanto attiene la dimostrazione del mancato raggiungimento dei requisiti dimensionali, imposti all'imprenditore ex art. 1, II comma, L.F., si deve sottolineare come tale onere sia a carico del debitore in quanto costituisce un fatto impeditivo della assoggettabilità al fallimento. E ciò in conformità al principio dispositivo ex art. 115 c.p.c.[36]
Il criterio da applicare è dunque quello in base al quale il potere istruttorio del Tribunale può essere esercitato soltanto in via integrativa e non in via suppletiva dell’onere di allegazione e di prova che grava sulle parti[37]: “sicché il criterio guida dovrebbe consistere, come detto, nella vicinanza o riferibilità della prova: non potendo l’iniziativa ufficiosa svilupparsi, anche se richiesta, ove siano demandati accertamenti e acquisizioni circa fatti nella disponibilità in concreto della parte”.[38]
7. Conclusioni. L’insolvenza dell’imprenditore agricolo vivaista e l’inadeguatezza della legge 3/2012
La vendita di piante acquistate da terzi non potrà essere definita come unicamente commerciale e determinare l'assoggettabilità al fallimento dell'impresa quando tale attività risulti connessa a quella agricola e sia di natura complementare rispetto all'attività principale. Tale complementarietà sarà desumibile da dati numerici, dalla entità dell’incidenza della attività connessa nell'economia dell'attività agricola esercitata od anche da dati cronologico temporali quali la breve durata od addirittura l'esaurirsi in un unico atto.[39] Si potrà quindi acquistare prodotti sul mercato per poi metterli nuovamente in commercio attraverso la vendita diretta nel proprio vivaio, purché sia prevalente la commercializzazione di prodotti ottenuti dalla coltivazione del fondo.[40] Nel frequentissimo caso, poi, in cui all'acquisto del prodotto vivaistico segua un'attività di cura di una fase del ciclo biologico della pianta, il prodotto perderà la sua origine “connessa” per diventare a tutti gli effetti oggetto dall'attività principale dell'impresa agricola. In sede pre-fallimentare sarà poi onere dell'impresa eccepire il fatto che si è posta in essere l'attività di cura, di mantenimento e di sviluppo attinente al ciclo biologico.
Si evidenzia inoltre che l’attività vivaistica, sebbene agricola, è pur sempre un’attività imprenditoriale e conseguentemente destinata al mercato, per cui l’attività di vendita non rappresenta altro che il necessario sviluppo della sua natura economica. Come sostiene condivisibile dottrina “l’impresa agricola è, allora, la risultante di due fasi: produzione caratterizzata, come l’art. 2135 c.c. precisa, da cura del ciclo biologico e utilizzo o utilizzabilità del fondo e immissione del prodotto, così ottenuto, sul mercato (…). Il momento dell’immissione sul mercato, dunque la valutazione delle leggi economiche che regolano lo scambio dei prodotti, non può rimanere estraneo all’operazione di qualificazione della concreta attività, perché la struttura giuridica dell’impresa agricola e, prima ancora, la sua qualificazione ed identificazione come tale è determinata dalla sua struttura economica”.[41] Anzi risulta del tutto evidente come la spinta comunitaria che ha fatto venir meno il collegamento necessario con il fondo agricolo ed ha spinto per l’adozione del criterio del ciclo biologico e del relativo rischio[42] ha determinato in modo irreversibile un vero e proprio spostamento del baricentro dell’impresa agricola dalla fase della produzione alla fase dello scambio.[43] Uno spostamento evidente nel particolare caso del settore del florovivaismo dove il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, nel predisporre il Piano nazionale del settore florovivaistico per il periodo 2014-2016, definendo il settore florovivaistico uno dei settori più dinamici della nostra economia agricola, ha individuato una serie di interventi e di linee di azione proprio al fine di esaltare la competitività sui mercati comunitari e internazionali, con l’intento di riequilibrare la posizione dei vivaisti italiani nei confronti dei competitor esteri (soprattutto Paesi Bassi e Danimarca) e soprattutto di aumentare gli scambi con l’estero sia nel mercato comunitario sia nel mercato mondiale.[44] Scambi che non consentiranno tuttavia una meccanica sovrapposizione dello statuto giuridico dell’impresa agricola con quello della impresa commerciale senza stravolgere e fraintendere la linea indicata dalle politiche comunitarie e soprattutto dal legislatore nazionale che ha inteso conservare la specificità della normativa relativa all’impresa agricola, innanzitutto preservandola dal fallimento aprendo diverse opportunità alternative a fronte di una sua crisi: da una parte infatti si potrà utilizzare gli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis L.F. oppure si potrà fruire della transazione fiscale ex art. 182 ter L.F., dall’altra vi sarà la possibilità di percorrere la strada della procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento di cui alla legge n. 3 del 2012, che consente, al termine del procedimento, una completa esdebitazione, fermo restando, de jure condendo, come già accennato nel Par. 5, la profonda necessità di una riforma legislativa delle fasi prodromiche alla procedura di composizione della crisi e della disciplina relativa agli Organismi di composizione della crisi.Si sono in proposito segnalate le criticità ed inadeguatezze della legge n. 3 del 2012 con particolare riferimento alle imprese, anche agricole, di medie e grandi dimensioni. Inadeguatezza circa le competenze dell’Organismo di composizione della crisi, la mancanza del blocco preventivo delle azioni esecutive individuali, la totale mancanza della previsione di quella pregiudizialità della procedura di regolazione della crisi, rispetto all’istruttoria prefallimentare, esaminata magistralmente nel concordato preventivo dalle Sezioni Unite della Cassazione con la nota sentenza 15.05.2015, n. 9935.[45]
[1] Storicamente l’esonero dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali dell’imprenditore agricolo era fondato su due ragioni fondamentali: 1) il forte rischio ambientale, derivante dall’influenza dei fattori naturali non governabili dall’uomo; 2) il fatto che l’insolvenza dell’imprenditore agricolo non arrecava all’economia lo stesso turbamento dell’insolvenza dell’imprenditore commerciale viste le esigue dimensioni e lo scarso ricorso al credito nell’economia agraria.
[2] G. Pisciotta, L’impresa agricola tra mercato e statuto speciale, in Giureta, Rivista di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente, Vol. VII, 2009.
[3] Cass. 17.12. 2002, n. 17251; Minutoli, Il “nuovo” imprenditore agricolo tra non fallibilità e privilegio del coltivatore diretto, in Il Fallimento, 2003, p. 1157.
[4] Cfr. S. Carmignani, Sul fallimento dell’imprenditore ittico, in il Fallimento 10/2012, p. 1181; cfr. G. Fauceglia, I presupposti della dichiarazione di fallimento, in Trattato di diritto delle procedure concorsuali, a cura di U. Apice, Torino, 2010, p. 25; G. Pisciotta, L’impresa agricola tra mercato e statuto speciale, in Giureta, Rivista di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente, Vol. VII, 2009; C. Zarafana, M.Giorgetti, Analisi dei requisiti contabili ai fini della verifica di fallibilità ex art. 1 L. Fall, in Le procedure concorsuali a cura di P. G. De Marchi e C. Giacomazzi, Milano, 2008, p. 2; L. Mandrioli, I presupposti per la dichiarazione di fallimento, in Le riforme della legge fallimentare a cura di A. Didone, Milano, 2009, p. 47; G. Minutoli, op. cit., p. 1163; L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2009, p. 29.
[5] V. Buonocore, Il nuovo imprenditore agricolo, l’imprenditore ittico e l’eterogenesi dei fini, in Giur. Comm. 2002, 29/1. La dottrina favorevole all’estensione del fallimento all’imprenditore agricolo ha visto anche nel D.P.R. 7.12.1995 n. 581 e soprattutto nel D.lgs. n. 228 del 2001 che prevede all’art. 2 per le imprese agricole l’obbligo di registrazione al registro delle imprese per gli effetti previsti dall’art. 2193 c.c. e dettata per le imprese commerciali, una volontà di superamento dello “statuto speciale” dell’imprenditore agricolo Cfr. G. Pisciotta, L’impresa agricola tra mercato e statuto speciale, in Giureta, Rivista di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente, Vol. VII, 2009.
[6] Corte Costituzionale, 20.04.2012, n. 104.
[7] Ibidem.
[8] La dichiarazione di inammissibilità è dipesa dal fatto che il rimettente ha trascurato di verificare la sostanziale congruità dell’attività effettivamente svolta dall’impresa fallenda rispetto al suo oggetto statutario, per cui, secondo il Giudice costituzionale, risultava insufficiente l’identificazione quale imprenditore agricolo, identificazione che si pone come requisito necessario per motivare adeguatamente la rilevanza nel giudizio a quo della questione di legittimità costituzionale sollevata.
[9] Dal punto di vista fiscale, per quanto attiene alla commercializzazione dei prodotti agricoli, si deve notare come le attività di manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione generino un reddito agrario ex art. 32 T.U.I.R. e quindi una tassazione su base catastale se hanno ad oggetto prodotti ottenuti in via prevalente dalla coltivazione del fondo, del bosco o dall’allevamento di animali e individuati ora dal D.M. 13.02.2015. Per queste attività il reddito verrà determinato ai sensi dell’art. 34 T.U.I.R. Si deve notare come anche ai fini fiscali l’art. 32, II comma, lettera c) T.U.I.R. si considerino espressamente le attività agricole connesse “a prescindere dal loro effettivo esercizio sul terreno”. Si deve anche evidenziare come l’Agenzia delle Entrate con la Circolare 44/E/2002 e con la Circolare 44/E/2004 abbia ammesso l’acquisto e l’utilizzazione di prodotti di soggetti terzi al fine di migliorare la qualità del prodotto finale e la reddittività complessiva dell’impresa agricola od anche al fine di ottenere un mero aumento quantitativo della produzione o un ampliamento della gamma di beni offerti dall’impresa agricola purché tali beni siano riconducibili allo stesso comparto produttivo. Se non viene rispettato il requisito della prevalenza, il surplus generato è soggetto alle norme sulla determinazione del reddito d’impresa ai sensi dell’art. 56 T.U.I.R.
[10] Cass. 5.12.2002, n. 17521; Cass. 23.10.1998, n. 10527.
[11] L’art. 2135 include ormai definitivamente nell’ambito dell’impresa agricola l’attività ortoflorovivaistica, la coltivazione fuori terra, l’utilizzo di sostanze nutritive diverse dall’humus del fondo, le colture idroponiche, gli allevamenti in batteria; sotto altro profilo la riforma del 2001 ha allargato lo spettro dell’agrarietà sostituendo il termine “bestiame” con il termine “animali” per cui, in linea di principio, si potrà qualificare imprenditore agricolo anche chi esercita un allevamento con qualunque specie di animali.
[12] Cass. 17.07.2012, n. 12215 richiamata in motivazione dalla sentenza di Pistoia in commento; Cass. 10.12.2010, n. 24995;cfr. anche Trib. Rovigo, 20.11.2014, in www.ilcaso.it
[13] App. Catania, 31.05.2012.
[14] Cass. 10.12.2010, n. 24995.
[15] Alcune correnti giurisprudenziali minoritarie hanno invece operato una netta distinzione tra società agricole semplici e società agricole commerciali (Spa, Srl, Sas, Soc. cooperative) ritenendo queste ultime assoggettabili al fallimento, visto che avrebbero assunto la qualifica di imprenditore commerciale in virtù della forma assunta indipendentemente dalla attività concretamente posta in essere, cfr.Cass. 26.06.2001, n. 8694; cfr. anche G. Minutoli, Caratteri dell’impresa agricola soggetta a fallimento, in Il Fallimento N. 11/2003, p. 1156; App. L’Aquila 20.05.2012 che giunge alla conclusione della assoggettabilità al fallimento sulla base di un ragionamento circolare di dubbia validità dal punto di vista logico. La Corte infatti afferma: “Ritenuto che nelle attività agricole rientrano quelle attività connesse, aventi ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente con l’esercizio di attività essenzialmente agricole, ne consegue che l’esercizio delle attività agricole può costituire l’oggetto sociale delle società commerciali riconoscendo, la norma, la qualifica di imprenditore agricolo sia alle società di persone che alle società di capitali o alle cooperative esercenti l’attività agricola. Ne consegue che l’esercizio di un’attività commerciale di natura agricola, ne comporta l’assoggettabilità al fallimento in caso di insolvenza”. A chi scrive pare evidente il circolo vizioso di tale argomentazione, in cui premesse e conclusioni derivano le une dalle altre in un rapporto reciproco realizzando quello che in logica viene definito un diallele.
[16] Tribunale Udine 27.03.2015 in www.ilcaso.it che richiama anche Cass. 10.12.2010, n. 24995; App. Catania 31.05.2012.
[17] App. L'Aquila 26.02.2013; Trib. Rovigo 20.11.2014 in www.il caso.it; Trib. Udine 21.09.2012, in www.ilcaso.it; M.M. Gaeta, Il fallimento di una associazione di imprenditori agricoli, in Giust. Civ. Fasc. 11-12, 2012, p. 2761 e ss. L’attenzione alla concreta attività svolta dall’impresa agricola può tuttavia, in sede di valutazione dell’attribuzione dello statuto agrario o viceversa dello statuto commerciale ai fini del fallimento, porsi in contrasto con la tendenza di parte della giurisprudenza ad affermare il principio opposto secondo il quale ai fini della attribuzione della qualifica di imprenditore commerciale ciò che assume rilevanza è l’oggetto sociale quale risulta dall’atto costitutivo e non l’attività in concreto esercitata, per cui qualora risulti dall’oggetto sociale un’attività di commercializzazione anche di prodotti rientranti nelle attività previste dall’art. 2135 c.c. ma non si riesca a dimostrare la prevalente provenienza di tali prodotti dall’attività c.d. agricole principali ci si esporrà ad un evidente rischio di dichiarazione di fallimento. Cfr. Trib. Mantova 30.08.2007 che cita Cass. 28.04.2005, n 8849; Cass. 26.6. 2001, n. 8694; Cass. 4.11.1994, n. 9084.
[18] Cass. 5.12.2002 n. 17251 sul punto cfr. anche Cass. 24.03.2011 n. 6853; Cass. 10.12.2010 n. 24995; si veda anche Appello Bologna 9.05.2011 che afferma come in ordine al riconoscimento della qualità di imprenditore agricolo, rilevante per il giudizio di fallibilità ex art.1 L.F., sia sufficiente che sussista un legame anche solo astratto e potenziale con il fattore terra anche se, nel caso concreto, il fondo stesso non sia di fatto utilizzato.
[19] Trib. Rovigo 20.11.2014, in www.ilcaso.it; Trib. Udine 21.09.2012 in www.il caso.it
[20] Cass. 24.03.2011, n. 6853.
[21] Ibidem.
[22] Cfr. Cass. 26.11.2014, n. 25176.
[23]Trib. Mantova, 30.08.2007.
[24] Cass. 5.12.2002, n. 17521.
[25]G. Minutoli, Op. Cit., p. 1157.
[26]Il dato viene confermato, anche sul piano amministrativo, dall’art. 4. D.lgs. n. 228 del 2001 che, regolando la vendita diretta al pubblico dell’imprenditore agricolo, afferma che: “gli imprenditori agricoli, singoli o associati, iscritti nel registro delle imprese di cui all'art. 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, possono vendere direttamente al dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità”; ribadendo al comma quinto che: “La presente disciplina si applica anche nel caso di vendita di prodotti derivati, ottenuti a seguito di attività di manipolazione o trasformazione dei prodotti agricoli e zootecnici, finalizzate al completo sfruttamento del ciclo produttivo dell'impresa”. Stabilendo un limite quantitativo basato sul fatturato all’ottavo comma: “Qualora l'ammontare dei ricavi derivanti dalla vendita dei prodotti non provenienti dalle rispettive aziende nell'anno solare precedente sia superiore a 160.000 Euro per gli imprenditori individuali ovvero a 4 milioni di Euro per le società, si applicano le disposizioni del citato D. Lgs. n. 114 del 1998.
[27] S. Carmignani, Presupposto soggettivo del fallimento e confini dell’impresa agraria in Il Fallimento 5/2011 p. 547.
[28] S. Carmignani, Presupposto soggettivo del fallimento e confini dell’impresa agraria in Il Fallimento 5/2011, p. 547.
[29] Cass., 15.05.2009, n. 11309.
[30] E. Stasi, Aspetti problematici sulle soglie di non fallibilità, nota a Corte d’Appello Torino 12.04.2012, in Il Fallimento 12/2012, p. 1448.
[31] Così Trib. Cremona, 17.04.2014.
[32]Cfr. ad esempio Trib. Rovigo 20.11.2014 in www.ilcaso.it
[33] Trib. Pistoia, 14.11.2014.
[34] Cfr. M. Fabiani, Diritto Fallimentare. Un profilo organico, Bologna, 2011, p. 172.
[35] Cfr. Tribunale Rovigo, 20.11.2014, in www.ilcaso.it
[36] F. Canazza, Apparato probatorio ed oggetto dell’indagine fallimentare, in Il Fallimento 2012, 692; F. De Santis, Oneri della prova nel processo di fallimento, in Il Fallimento 2011, 668; F. Canazza, Onere della prova, poteri di indagine del Tribunale ed esame dei presupposti di fallibilità, in Il Fallimento 12/2011, p. 1431; M. Giusta, sub art. 1, in AA VV, Codice commentato del Fallimento. Disciplina comunitaria e transfrontaliera. Disciplina tributaria, G. Lo Cascio, Milano, 2008, p. 17; M. Fabiani, Diritto Fallimentare. Un profilo organico, Bologna, 2011, p. 173 il quale ritiene che, date le posizioni coinvolte nel dissesto dell’impresa e vista la presenza di interessi sovraindividuali, il fatto impeditivo dimensionale previsto dal comma 2 dell’art. 1 L.F. dia luogo ad un’eccezione in senso lato. Altri hanno ritenuto che l’eccezione del mancato superamento del limiti imposti dall’art. 1, II comma, L.F. costituisca un’eccezione in senso lato che il tribunale dovrà verificare d’ufficio anche nell’ipotesi di mancata costituzione del debitore o nel caso in cui questi non abbia sollevato l’eccezione, non in virtù della natura pubblica dell’istituto, bensì in quanto le eccezioni in senso stretto, oltre ad essere quelle espressamente indicate dalla legge, si caratterizzano per essere fondate su di un fatto che può essere causa petendi di un’azione di tipo costitutivo, dato non riscontrabile in una ipotetica domanda di accertamento del mancato superamento dei limiti dimensionali connessi alla dichiarazione di fallimento. Cfr. C. Trentini, Imprenditore non fallibile, procedimento prefallimentare e questioni processuali, in Il Fallimento, 5/2009, p. 606. Sul rapporto tra principio dispositivo e disponibilità dell’oggetto del processo tenuto conto delle interferenze pubblicistiche legate alla dichiarazione di fallimento si veda anche B. Farsaci L’onere delle soglie di fallibilità ex art. 1, comma 2, L. Fall.,in Giust. Civ. fasc. 4, 2010, p. 951. F. Canazza, Onere della prova, poteri di indagine del Tribunale ed esame dei presupposti di fallibilità, in Il Fallimento 12/2011, p. 1431; M. Giusta, sub art. 1, in AA VV, Codice commentato del Fallimento. Disciplina comunitaria e transfrontaliera. Disciplina tributaria, G. Lo Cascio, Milano, 2008, p. 17.
[37] La giurisprudenza ha evidenziato come l’art. 1 L.F. segua il criterio della “prossimità della prova” per cui sarà il soggetto che si trova nella condizione di conoscere meglio i fatti e ad avere a disposizione i mezzi probatori ad avere l’onere della dimostrazione del fatto e a dover sopportare le conseguenze derivanti dall’incertezza sulla sussistenza dei requisiti dimensionali relativi alla fallibilità dell’impresa. Di conseguenza a fronte della mancata prova del non raggiungimento delle soglie di fallibilità stabilite dall’art. 1 L.F. non potrà che conseguire la dichiarazione di fallimento. Anche per evitare il paradosso che si gravi il creditore istante di un onere probatorio relativo alla situazione patrimoniale, ai ricavi ed all’indebitamento del debitore impossibile da assolvere. Cfr. Cass. 15.11.2010, n. 23052; Cass. 15.05.2009, n. 11309.
[38]Trib. Novara, ordinanza, 6.12.2011.
[39] Trib. Rovigo, 20.11.2014.
[40] App. Potenza, 17.04.2014.
[41] S. Carmignani, Presupposto soggettivo del fallimento e confini dell’impresa agraria, in Il Fallimento 5/2011 p. 54.
[42] Connesso al concetto di cura del ciclo biologico vi è il correlato concetto di “rischio biologico” connesso alla vita dei prodotti, quale elemento caratterizzante l’attività agricola, già evidenziato da alcune pronunce giurisprudenziali prima della riforma del 2001. Tale rischio viene identificato nella impossibilità di un controllo totale delle forze biologiche che possono incidere sulla qualità e sulla stessa esistenza del prodotto dell’impresa agricola (ad es. batteri, parassiti, virus, funghi, agenti nocivi, ma anche, in un accezione più lata fattori climatici e microclimatici, ecc. Un prodotto sensibilmente connesso ai cicli stagionali e soggetto a deperibilità. Anche questa peculiarità fa sì che ai fini della qualifica di imprenditore agricolo diventi del tutto irrilevante l’impiego anche imponente di attrezzature meccaniche e di ingenti capitali. Cfr. S. Ziniti, Fallimento dell’imprenditore agricolo vivaista, in Il Fallimento, n. 6/1997, p. 635.
[43] C. Russo, Imprenditore agricolo professionale e fallibilità dell’impresa agricola, commento a App. Catania 31.05.2012, in Il corriere del merito n. 11/2012, p. 1003.
[44] Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, Piano Nazionale del settore florovivaistico 2014/2016, in www.politicheagricole.it. Il Piano si pone principalmente l’obiettivo di preservare il patrimonio occupazionale in un settore, quale quello florovivaistico, che è un importante comparto dell’agricoltura italiana in cui “l’entità di superficie investita in termini di SAU corrisponde al 30% circa della superficie europea complessiva, conferendo all’Italia una posizione dominante nell’ambito UE. Gli occupati, in base al censimento ISTAT 2010, sono oltre centomila e riguardano esclusivamente il settore agricolo. La produzione delle aziende florovivaistiche italiane è pari a 2,6 miliardi di Euro l’anno (media biennio 2012-2013), suddivisa in 1,3 miliardi per fiori e piante da vaso e 1,3 miliardi per i prodotti vivaistici; rappresenta quasi il 5% della produzione agricola totale (in contrazione rispetto al quinquennio 2008-2012, quando era al 6%) e deriva per il 50% dai comparti fiori e piante in vaso e il restante 50% da piante, alberi e arbusti destinati alle sistemazioni di spazi a verde (….). Le aziende nazionali per la quasi totalità sono di limitata superficie: mediamente inferiori ad 1 ettaro quelle floricole e superiori a 2 ettari quelle che producono piante in vaso e prodotti vivaistici; di conseguenza prevalgono nel settore del fiore e fronda recisi le aziende caratterizzate da una struttura elementare, generalmente a gestione familiare, al contrario nel settore delle piante in vaso o del vivaismo la gestione si ispira a principi imprenditoriali. Negli ultimi anni è visibile una contrazione del numero di aziende (...) sia per la diminuzione dei margini di redditività sia per l’aumento dei costi di produzione. Rispetto agli stati membri l’Italia è ai primi posti della classifica per dimensione della superficie destinata al vivaismo e a coltivazioni di piante e fiori in genere: l’incidenza degli ettari investiti a florovivaismo è del 15% nel caso delle produzioni di fiori e piante in vaso e del 14% nel vivaismo” (op. cit., p. 5).
[45] Consultabile su www.ilcaso.it.
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