Bancario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 07/10/2011 Scarica PDF
Lo ius non variandi: prime considerazioni, e alcune supposizioni, sul comma 2-bis dell'art. 118, t.u.b., dopo la l. 106/2011
Federico Ferro-Luzzi, Professore ordinario di Diritto privato Università degli Studi di Sassari; avvocato in RomaSOMMARIO: 1. Il nuovo comma 2-bis, art. 118, t.u.b.: dubbi interpretativi - 2. La «storia» dell'art. 2-bis: la formulazione di cui al d.l. 70/2011 - 3. Conseguenze applicative della formulazione definitiva.
1. Il nuovo comma 2-bis, art. 118, t.u.b.: dubbi interpretativi
A seguito dell'entrata in vigore della l. 106/2011, il comma 2-bis dell'art.
118, d.lgs. 385/93 (d'ora in poi, anche: t.u.b.), statuisce che: «Se il cliente
non é un consumatore né una micro-impresa come definita dall'articolo 1, comma
1, lettera t), del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, nei contratti di
durata diversi da quelli a tempo indeterminato di cui al comma 1 del presente
articolo possono essere inserite clausole, espressamente approvate dal cliente,
che prevedano la possibilità di modificare i tassi di interesse al verificarsi
di specifici eventi e condizioni, predeterminati nel contratto».
Il comma è, di per sé, incomprensibile e fa sorgere non pochi dubbi.
La circostanza, infatti, che le parti di un negozio giuridico possano
prevedere, all'interno del contratto e al momento del perfezionamento di
questo, il verificarsi di eventi al ricorrere dei quali le condizioni negoziali
possano subire delle modifiche è circostanza che nessuno può mettere seriamente
in dubbio, rientrando nel principio cardine del sistema che riconosce alle
parti di un contratto la possibilità di (auto)regolamentare i propri interessi,
anche prevedendo pattiziamente il ricorrere di circostanze che possono
determinare una modifica delle condizioni date (e ciò proprio per mantenere il
sinallagma negoziale inizialmente valutato come congruo da entrambi i
contraenti).
L'introduzione del comma 2-bis mette, dunque, in seria difficoltà l'interprete.
Innanzitutto, di difficile inquadramento sistematico l'inserimento, all'interno
della disciplina dello jus variandi (1), di un sistema basato sullo jus non
variandi, ovvero l'impossibilità per le parti di modificare il contratto se non
con l'accordo, preventivo, dell'altro contraente.
In secondo luogo, l'affermazione del legislatore in base alla quale soltanto se
il cliente non è un consumatore né una microimpresa le parti possono inserire
clausole che prevedano la possibilità di modificare le condizioni del
contratto, potrebbe far sorgere il dubbio che - in senso uguale e contrario -
qualora il cliente non appartenga a una delle due categorie di cui sopra, sia
da escludersi la possibilità di prevedere negozialmente ipotesi al ricorrere
delle quali le condizioni contrattuali possano essere modificate, il che
costituirebbe eccezione al sistema dell'autoregolamentazione dei propri
interessi di non poco momento (trattandosi poi di comprendere per quale ragione
sistematica, o di opportunità, il divieto in discorso sussista soltanto all'interno
dei contratti ove una parte è una banca).
Ancora. L'asserzione legislativa in base alla quale una banca e un'impresa (non
micro) possono predeterminare esclusivamente le ipotesi al ricorrere delle
quali può variare il tasso di interesse, fa sorgere l'ulteriore dubbio che sia
da escludersi la possibilità a che le parti individuino ipotesi al ricorrere
delle quali possano essere modificate altre condizioni (in via meramente
esemplificativa ma non esaustiva: la durata del finanziamento), ma anche in
questo caso la ragione logica, prima ancora che giuridica, francamente sfugge.
Il comma così inserito sembra, dunque, non aggiungere ma sottrarre libertà
negoziale delle parti, senza che sia evidente la ragione sottostante a tale
limitazione.
In vero, per poter comprendere la (non) portata negoziale del comma 2-bis,
t.u.b., risulta necessario analizzare la precedente formulazione di cui al d.l.
70/2011.
2. La «storia» del comma 2-bis: la precedente formulazione di cui al d.l.
70/2011
Con l'art. 8, comma 5, lett. J), d.l. n. 70/2011 era stato introdotto un nuovo
comma all'art. 118, d.lgs. 385/1993 (d'ora in poi, anche: t.u.b.) - il comma 2-
bis - ai sensi del quale «Se il cliente non è un consumatore, né una microimpresa
come definita dall'articolo 1, comma 1, lettera t), del decreto legislativo 27
gennaio 2010, n. 11, le parti possono convenire di non applicare, in tutto o in
parte, le disposizioni del presente articolo.».
Con il medesimo intervento normativo, il legislatore aveva poi previsto una
norma, in senso assai lato, transitoria (art. 8, comma 5, lett. g) ai sensi
della quale: «ai fini dell'applicazione del comma 2-bis dell'articolo 118 del
decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, introdotto dalla presente legge,
ai contratti in corso alla data di entrata in vigore della presente decreto
stipulati con soggetti che non siano consumatori o micro-imprese, i soggetti di
cui all'articolo 115 del medesimo decreto, entro il 30 giugno 2011 comunicano,
con le modalità indicate al comma 2 dell'articolo 118 del decreto legislativo
1° settembre 1993, n. 385, le modifiche apportate ai contratti medesimi. La
modifica si intende approvata qualora il cliente non receda dal contratto entro
sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione. Al cliente che ha
esercitato il diritto di recesso non possono essere applicati oneri superiori a
quelli che egli avrebbe sostenuto in assenza di modifica.».
L'intervento del legislatore era profondamente innovativo (e, in parte,
incostituzionale), posto che l'art. 118, t.u.b., nella sua formulazione
precedente all'intervenuta modifica di cui al d.l., riconosceva alle parti il
potere di concedere a una o a entrambe il diritto potestativo di modificare le
clausole contrattuali, al ricorrere di tre condizioni: (i) che tale clausola
fosse approvata specificatamente (per iscritto secondo la regola generale
dettata in tema di contratti bancari dall'art. 117 t.u.b.); (ii) che ricorresse
un giustificato motivo; (iii) che non prevedesse la modifica del tasso di
interesse pattuito (meglio: del metodo di calcolo del tasso di interesse
dovuto) qualora si fosse in presenza di un contratto di durata (allora a tempo
determinato).
Con l'introduzione del comma 2-bis, al contrario, veniva riconosciuto alle
parti il potere di concedere, a una o a entrambe, il diritto potestativo di
modificare le clausole contrattuali anche in assenza di giustificato motivo, al
ricorrere di due requisiti: (i) mancata appartenenza del cliente alla categoria
dei consumatori o delle micro-imprese; (ii) sussistenza di apposito accordo
negoziale sul punto. La formulazione di cui al d.l. consentiva, peraltro e al
ricorrere delle condizioni soggettive e oggettive nello stesso indicate,
sicuramente di modificare anche il tasso di interesse nei contratti di durata
(2).
Ancora più «innovativa» la (presunta) norma transitoria, ai sensi della quale:
«ai fini dell'applicazione del comma 2-bis dell'articolo 118 del decreto
legislativo 1° settembre 1993, n. 385, introdotto dalla presente legge, ai
contratti in corso alla data di entrata in vigore della presente decreto
stipulati con soggetti che non siano consumatori o micro-imprese, i soggetti di
cui all'articolo 115 del medesimo decreto, entro il 30 giugno 2011 comunicano,
con le modalità indicate al comma 2 dell'articolo 118 del decreto legislativo
1° settembre 1993, n. 385, le modifiche apportate ai contratti medesimi. La
modifica si intende approvata qualora il cliente non receda dal contratto entro
sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione. Al cliente che ha
esercitato il diritto di recesso non possono essere applicati oneri superiori a
quelli che egli avrebbe sostenuto in assenza di modifica.» (lett. g, comma 5,
art. 8, d.l. 70/2011).
Evidente, infatti, la circostanza che la disciplina dettata alla lettera g)
dell'art. 8, comma 5, d.l. 70/2011 non avesse nulla a che fare con la norma
introdotta alla lettera f); al di là del portato meramente letterale («ai fini
dell'applicazione del comma 2-bis dell'art. 118 (...) introdotto dalla presente
legge») la norma certamente inseriva una disciplina del tutto nuova.
La lettera g) dell'art. 8, comma 5, non disciplinava, invero, l'applicazione
dell'art. 2-bis ai contratti conclusi prima della sua entrata in vigore ma
statuiva un principio nuovo (l'applicabilità dello ius variandi in assenza di
qualsivoglia accordo negoziale sulla sua esperibilità) e che avrebbe avuto
applicazione esclusivamente per i contratti con tre caratteristiche: (i) essersi
perfezionati prima dell'entrata in vigore del nuovo comma 2-bis; (ii) essere in
corso; (iii) avere quale parti una banca o un intermediario e un soggetto né
consumatore né microimpresa. I clienti nella condizione indicata, si sarebbero
trovati in una posizione di indubbio svantaggio (modificabilità delle clausole
o recesso contrattuale alla sola manifestazione di volontà della banca o
dell'intermediario) in cui: (i) non si erano trovati (per espresso divieto
normativo) coloro i quali, pur ricorrendo i requisiti di cui al comma 2-bis,
avevano visto esaurire la funzione del contratto perfezionato prima
dell'entrata in vigore della norma; (ii) non si sarebbero trovati coloro i
quali, al ricorrere dei requisiti del comma 2-bis, avessero perfezionato un
contratto dopo l'entrata in vigore del decreto, poiché sarebbe stata necessaria
l'esplicita approvazione. Sotto il profilo indicato, la norma appariva
chiaramente illegittima, creando una disparità di trattamento in situazioni
assolutamente identiche e senza che vi fosse alcuna necessità logica o
sistematico/giuridica.
L'intervento legislativo di cui al d.l., ha provocato un'immediata reazione da
parte della realtà imprenditoriale, in particolare di Confindustria (3),
reazione che ha determinato la riformulazione del comma 2-bis nella
enunciazione definitiva sopra indicata, oltre a un ulteriore disposizione di
natura (realmente) transitoria, a mente della quale: «le disposizioni del comma
2-bis dell'articolo 118 del testo unico di cui al decreto legislativo 1o settembre
1993, n. 385, introdotto dalla lettera f) del presente comma, non si applicano
ai contratti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto. Le
modifiche introdotte ai contratti in corso alla predetta data sono inefficaci»
(lett. g, comma 5, art, 8, l. 106/2011).
Orbene, mentre la soppressione della «famigerata» lettera g) non può che essere
condivisa appieno, e la ragione è perfettamente individuabile nella sua
assoluta eccentricità (prima ancora che incostituzionalità), non si comprende
la riformulazione della lettera f) che - nei fatti e come visto - priva la
novità di qualsivoglia profilo di rilevanza applicativa, se non in senso
deteriore rispetto alla libertà negoziale delle parti.
Sul punto, possono essere fatte soltanto delle supposizioni.
Quella che più mi convince, per vero malevola, è che l'unico interesse dei
soggetti che avevano proposto (prima) e supportato (dopo) la modifica
legislativa, fosse rappresentato - e in via esclusiva - dal contenuto di cui
alla lettera g) (poi malamente camuffata come norma transitoria rispetto alla
disciplina di cui alla lettera f) e, dunque, di concedere alle banche il
diritto potestativo di incidere direttamente sulle condizioni economiche dei
contratti di durata in essere, senza che al cliente fosse data possibilità di
evitarlo (4). Scoperti e venuta meno la possibilità di effettuare quanto
voluto, poco interesse è stato riposto nella lettera f) che così ha perso di
qualsivoglia portata normativa, trasformandosi in una ripetizione di cose (giuridicamente)
note.
In vero, se correttamente strutturata, anche la disposizione di cui alla
lettera f) avrebbe potuto rappresentare una novità legislativa di interesse per
le banche, ma a condizione che fosse mantenuta l'intelaiatura di cui al primo
comma dell'art. 118, t.u.b., allora prevedendo che per i clienti che non
appartengono alla categoria dei consumatori né a quello delle micro-imprese,
anche per i contratti di durata «può essere convenuta, con clausola approvata
specificatamente dal cliente, la facoltà di modificare unilateralmente i tassi,
prezzi e le altre condizioni previste dal contratto qualora sussista un
giustificato motivo». Con una tale formulazione, ovviamente per i soli
contratti perfezionatisi successivamente all'entrata in vigore della norma, si
sarebbe aggiunta una facoltà per le banche, facoltà oggi non riconosciuta alla
luce della formulazione della norma.
3. Conseguenze applicative della formulazione definitiva
In ragione dei passaggi che hanno caratterizzato la definitiva formulazione del
comma 2-bis, ritengo si possano ora risolvere alcuni dubbi interpretativi che
sorgono da una prima lettura della formulazione della disposizione, così come
entrata in vigore.
Ritengo, infatti, che la norma sia meramente ricognitiva di un potere già in
capo alle parti e alla luce della disciplina generale dei contratti, con la
conseguenza che la stessa non è indicativa della sussistenza di un limite alla
predisposizione, nel contratto, di ipotesi al ricorrere delle quali, nei
contratti di durata a tempo determinato, possano cambiare le condizioni
contrattuali e ciò né (i) sotto il profilo soggettivo, con la conseguenza che
anche se la parte è un consumatore o una microimpresa possono essere
negozialmente individuate ipotesi al ricorrere delle quali le condizioni
contrattuali possono essere modificate, né sotto quello (ii) «tipologico», con
l'effetto che le parti (e indipendentemente dalla categoria alla quale
appartengono) possono negozialmente individuare ipotesi al ricorrere delle
quali qualsivoglia condizione contrattuale potrà essere modificata, non solo il
tasso di interesse, allora.
Sostanzialmente, e in altri termini, la norma è inutile (per non dire dannosa,
visti i dubbi che ingenera).
Sotto il profilo meramente esecutivo, la banca dovrà comunicare all'impresa il
ricorrere di una delle ipotesi negozialmente previste e, in conseguenza, la
decisione di avvalersi della possibilità di variare le condizioni contrattuali,
poi nella misura prevista nel contratto. Non trattandosi di ius variandi, al
cliente non sarà data la possibilità di recedere dal contratto, essendo la
variazione una delle ipotesi negoziali concordate, ma al venir meno del
presupposto per la variazione, il cliente avrà il diritto all'applicazione
delle precedenti condizioni contrattuali.
(1) Ovvero "Il diritto (potestativo) di una delle parti contraenti di
modificare il contratto mediante una manifestazione unilaterale di
volontà" (P. SIRENA, Lo jus variandi della banca dopo il c.d.
decreto-legge sulla competitività (n. 223 del 2006), in Banca Borsa e tit.
cred., I, 2007, p. 262), così come previsto dal comma 1 dell'art. 118, t.u.b.
(2) Sotto il profilo sistematico, una volta che il primo comma dell'art. 118,
nella sua seconda parte, prevede l'esplicito divieto di modificare i tassi di
interesse nei contratti di durata, l'inserimento di altro comma (2-bis) che
espressamente prevede la derogabilità «in tutto» delle disposizioni dello
stesso articolo 18 consente, al ricorrere delle condizioni indicate, il
superamento del divieto esplicito (dunque, la modificabilità del tasso di
interesse nei contratti di durata). Gli è, allora, che ai sensi della lettera
g) dell'art. 8, comma 5, d.l. 70/2011, ben avrebbe potuto la banca o
l'intermediario finanziario comunicare al cliente (né consumatore, né
micro-impresa) la modifica al tasso di interesse apportata al contratto di
durata.
(3) Vedonsi gli articoli apparsi su Italia Oggi: Mutui, guerra
Abi-Confindustria, del 18.05.2011, p. 10; Mutui, imprese contro il dl sviluppo,
del 19.05.2011, p. 10; Mutui, l'Abi accusa Confindustria, del 20.05.2011, p.
10; Sui Mutui ecco la zampata di Mps, del 25.05.2011, p. 10; tutti di S.
SANSONETTI.
(4) In via meramente esemplificativa ma esaustiva, si pensi all'ipotesi di una
apertura di credito per alcuni milioni di euro a tempo determinato; a fronte
della notifica dell'intervenuta modifica del tasso di interesse, l'impresa
cliente, avendo quale alternativa quella di accettare la modifica o di recedere
dal contratto dovendo restituire immediatamente tutta la somma ricevuta, si
sarebbe trovata innanzi una "scelta" obbligata.
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