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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 30/06/2014 Scarica PDF

Il processo civile telematico, brevi riflessioni sul sistema delle fonti

Giuseppe Vitrani, Avvocato in Torino


Con lo scoccare del fatidico 30 giugno ’14 è entrata ufficialmente in vigore la normativa sul deposito obbligatorio in forma telematica degli atti del processo[1]; appare pertanto opportuna una riflessione, allo stato poco approfondita da dottrina e giurisprudenza, riguardo al sistema delle fonti che reggono il cosiddetto “processo telematico”; ciò soprattutto per gli importanti riflessi di natura pratica che si tentano di esporre nel presente articolo e soprattutto se si considera che ci si trova di fronte ad una riforma che segna “una tappa irrinunciabile nel percorso di innovazione e modernizzazione della giustizia civile essenziale alla crescita del paese[2]

Restringendo pertanto il campo alle norme di maggior interesse ai fini della presente analisi, occorre partire dall’art. 4 del d.l. 193/09 il quale prevede che “con uno o più decreti del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, sentito il Centro nazionale per l'informatica nella pubblica amministrazione e il Garante per la protezione dei dati personali, adottati, ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono individuate le regole tecniche per l'adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni. Le vigenti regole tecniche del processo civile telematico continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore dei decreti di cui ai commi 1 e 2”.

In esecuzione di quanto previsto dalla suddetta norma è stato quindi emanato il d.m. 21 febbraio ’14, recante le “regole tecniche per l'adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione”. Detto provvedimento si snoda in ben 37 articoli attraverso i quali è stata disegnata l’architettura del processo telematico per come oggi la conosciamo.

L’iter seguito dal legislatore merita una prima riflessione, soprattutto alla luce dei principi posti dall’art. 17 legge n. 400/88; nel caso specifico occorre infatti domandarsi se il decreto ministeriale sia stato emanato al fine di dare attuazione al principio posto dalla norma primaria (art. 17, I comma, lett. b, legge n. 400/88) o se piuttosto la norma (secondaria) non sia andata a disciplinare una materia in cui manca la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge (art. 17, I comma, lett. c, legge n. 400/88).

Stante il tenore dell’art. 4 del d.l. 193/09 sembra invero potersi sposare la seconda ipotesi; la norma di legge in commento non pare aver dettato principi ai quali si è poi dovuto attenere il regolamento ma ha invero demandato alla fonte secondaria la regolamentazione di un’intera materia, le regole tecniche del processo telematico, istituendo così una sorta di “riserva di regolamento”.

Nel caso specifico, dunque, la fonte regolamentare si pone come unica fonte regolatrice, o meglio, come vedremo appreso, come la fonte di rango maggiormente elevato. In tale ipotesi, pertanto, la misura dell’efficacia sostanziale del regolamento è pari a quella della legge, fermo restando che dal punto di vista formale la fonte è pur sempre inferiore alla legge (e così, ad esempio, non è sottoponibile al giudizio della Corte Costituzionale ex art. 134 Cost)[3].

Il passaggio in questione è importante in quanto, se è vera questa ipotesi, la normativa primaria e secondaria di formazione successiva dovrà confrontarsi con quanto disposto dal d.m. 44/11, stante la sua efficacia (sostanziale) di norma primaria.

La discussione sul punto non è solo materia di studio per costituzionalisti ma ha invece riflessi molto pratici nell’attività dell’avvocato civilista; è sufficiente a tal fine considerare le vicende dell’art. 13, III comma, del d.m. 44/11, il quale, a proposito della tempestività del deposito di atti del processo effettuato per via telematica, testualmente dispone che “quando la ricevuta è rilasciata dopo le ore 14 il deposito si considera effettuato il giorno feriale immediatamente successivo”.

In apparente contrasto con la suddetta norma, l’art. 16 bis, VII comma, d.l. 179/12 prevede che il deposito per via telematica degli atti e dei documenti si ha per avvenuto nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna dal gestore di posta elettronica certificata del Ministero della Giustizia, senza porre limitazioni orarie di sorta.

Ebbene, fermandosi al solo dato formale si dovrebbe ritenere prevalente la norma di legge, in quanto sovraordinata rispetto a quella tecnica (che ha natura formalmente secondaria), e giungere quindi alla conclusione di considerare tempestivo anche un deposito telematico perfezionatosi dopo le ore 14,00 del giorno di scadenza; ciò in quanto la legge, al contrario del decreto ministeriale, non pone alcun limite orario[4].

Ad analoghe conclusioni si potrà pervenire laddove si consideri che l’art. 155 c.p.c. prevede che il computo dei termini debba effettuarsi a giorni, senza poter considerare alcuna limitazione oraria; anche in tal caso, seguendo una ricostruzione prettamente formalista del sistema delle fonti, si potrà affermare che la norma primaria non può subire limitazioni (orarie) dall’emanazione di una norma regolamentare.

A conclusioni diametralmente opposte si dovrà invece pervenire laddove si sposi la tesi dell’efficacia sostanziale di norma primaria del d.m. 44/11; è evidente che in tal caso la dialettica con l’art. 155 c.p.c. e con l’art. 16 bis, VII comma, d.l. 179/12 sarebbe tra fonti (sostanzialmente) primarie e dovrebbe risolversi a favore del limite temporale posto dall’art. 13, III comma, del d.m. 44/11; ciò sulla base del rilievo che le prime due norme pongono principi di natura generale[5] mentre la norma contenuta nelle regole tecniche detta una disciplina speciale; varrebbe pertanto il brocardo lex specialis derogat generali.

A dire il vero indizi gravi, precisi e concordanti lasciano supporre che lo stesso legislatore abbia sposato tale ultima interpretazione; non sembra infatti un caso che all’interno del recentissimo decreto legge n. 90 del 2014 (pubblicato il 24 giugno ’14 in Gazzetta Ufficiale) si sia sentita la necessità di intervenire sull’art. 16 bis, comma VII, del d.l. 179/12, inserendo l’inciso con il quale si prevede ora espressamente che “il deposito è tempestivo quando è eseguito entro la fine del giorno di scadenza”.

È infatti evidente che, laddove allo stato della legislazione vigente si fossero ritenute prevalenti le norme di cui all’art. 155 c.p.c. e all’art. 16 bis, VII comma, d.l. 179/12 rispetto all’art. 13 d.m. 44/11 (in quanto norma meramente regolamentare), non vi sarebbe stata alcuna necessità di emanare un provvedimento di legge ad hoc per precisare quando si deve considerare tempestivo il deposito di un atto in scadenza; evidentemente, pertanto, il legislatore ha scelto di intervenire per risolvere un contrasto tra norme tutte dotate di efficacia sostanziale di norma primaria; e ciò ha fatto proprio per non lasciare gli interpreti spiazzati e a barcamenarsi tra incerti riferimenti normativi. In adesione al principio della successione delle leggi nel tempo, non vi sono pertanto più dubbi che la norma (primaria) cui far riferimento è ora quella introdotta dal decreto legge n. 90/14.

Come si vede, peraltro, sin qui i possibili punti di frizione appaiono risolvibili ricorrendo all’applicazione di principi ormai consolidati nel campo del diritto costituzionale.

Le cose però si complicano se si prosegue nell’analisi delle fonti oggetto della presente riflessione; leggendo il d.m. 44/2011 ci accorgiamo infatti che la stragrande maggioranza delle norme in esso contenute fanno rimando alle “specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’art. 34”.

Ci rendiamo così conto che si è così creato un sistema in cui una fonte di rango regolamentare (ancorché probabilmente con efficacia sostanziale di norma primaria) cui era stato dato dal legislatore il compimento di dettare le regole tecniche ha poi demandato ad una fonte di rango ancora inferiore il compito di dettare le specifiche tecniche; sembra un gioco di parole ma è invece le realtà normativa che stiamo esaminando.

E quale sia la fonte di rango inferiore in cui sono contenute le suddette specifiche tecniche lo chiarisce l’art. 34, I comma, del d.m. 44/11, prevedendo che “le specifiche tecniche sono stabilite dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, sentito DigitPA e, limitatamente ai profili inerenti alla protezione dei dati personali, sentito il Garante per la protezione dei dati personali”.

Ovvio che, leggendo tali disposizioni, aumentino (e non poco) le incertezze dal momento che il regolamento ha demandato ad un atto di natura amministrativa e non più normativa il compito di dettare le specifiche tecniche in analisi; le incertezze diventano veri e propri dubbi laddove si considera che le disposizioni in commento, emanate dapprima con Provvedimento del 18 luglio ’11 e poi con successivo Provvedimento del 16 aprile ’14 (sostitutivo del primo), dettano prescrizioni fondamentali per il funzionamento dell’intero processo telematico e compiono (come vedremo) scelte fondamentali, anche di natura squisitamente giuridica e non solo tecnica; basti pensare che solo in tali specifiche tecniche si trovano le disposizioni relative ai dispositivi di firma utilizzabili o alle modalità di formazione dell’atto telematico o, ancora, alle tipologie di documenti depositabili.

Diventa pertanto fondamentale, sia per l’avvocato che per il giudice, comprendere quale sia la forza cogente di tali disposizioni, potendo avere la risposta effetti più che rilevanti ai fini, addirittura, della valida formazione dell’atto processuale.

Al fine della presente indagine appaiono innanzitutto significativi alcuni arresti giurisprudenziali e dottrinari; secondo la Corte Costituzionale, ad esempio, le regole tecniche costituiscono prescrizioni che vengono elaborate generalmente sulla base dei principi desunti dalle c.d. “scienze esatte” o dalle arti che ne sono applicazione (come ad esempio le prescrizioni che individuano standards qualitativi o metodologie di rilevazione dati e/o di trattamento materiali)[6]. Secondo la dottrina, invece, le norme tecniche sono norme giuridiche che hanno una capacità di presupporre o di recepire conoscenze tecniche; la regola tecnica è dunque onere che deve essere rispettato per raggiungere un determinato scopo[7].

È altresì nota la ratio per cui prolifera siffatta forma di provvedimenti; invero i normali procedimenti di formazione delle norme giuridiche consentono difficilmente la corretta e consapevole valutazione dei contenuti e delle conseguenze applicative delle disposizioni tecniche, così come ne rendono quasi impossibile il tempestivo aggiornamento[8].

Vera questa premessa occorre però considerare che gli atti amministrativi in analisi pongono comunque problemi delicati sul piano del principio di legalità, perché da essi, soprattutto nel nostro campo di indagine, derivano obblighi e scelte giuridiche che, si ribadisce, potrebbero astrattamente condizionare l’ammissibilità o l’esistenza di un atto processuale.

Il problema comincia del resto ad essere sentito anche dalla magistratura, tant’è che in sede di tavolo tecnico sul processo telematico presso il Ministero della Giustizia è stata richiesta dagli esponenti dell’ANM la previsione di una disciplina espressa sul regime degli atti processuali non conformi alle regole (rectius, specifiche, n.d.r.) tecniche, ad esempio perché solo scansionati, essendosi già profilate diverse interpretazioni, foriere di contenzioso e da prevenire per scongiurare il rischio di soluzioni opposte circa un tema di assoluta delicatezza; non a caso, a chiusura di tale argomentazione si è citato l’esempio dell’ipotetica invalidità di un atto (non conforme alle specifiche tecniche) previsto a pena di decadenza[9].

In altra sede si giunge invece ad ipotizzare la possibilità di dichiarare inammissibile il deposito di un atto in formato diverso da quelli previsti dalle specifiche tecniche, ovvero contenente elementi attivi (la norma di riferimento è ora l’art. 12 del Provvedimento 16 aprile ’14, n.d.r.), ovvero il deposito di un atto trasmesso da utenti abilitati esterni da indirizzo diverso rispetto a quello inserito nel REGINDE, ma da altro indirizzo PEC, il che determinerebbe l’impossibilità da parte dei registri di cancelleria di classificare gli atti pervenuti telematicamente all’interno dei rispettivi fascicoli [10].

Addirittura, con recentissimo provvedimento si è dichiarato inammissibile un ricorso per decreto ingiuntivo perché ottenuto mediante scansione documentale e non mediante conversione testuale e pertanto redatto in violazione dell’art. 12 delle specifiche tecniche in commento[11].

Come si vede, i dubbi che si pongono non sono di poco momento ed è al pari evidente come le ricadute sull’attività professionale dell’avvocato possano essere gravissime; appare pertanto doveroso tentare di fornire una chiave interpretativa che possa dirimere i dubbi degli operatori del diritto.

Un’ipotesi di lettura conforme al ragionamento sviluppato sino ad ora potrebbe essere quella secondo cui il provvedimento in commento mantenga la sua forza cogente solo laddove detti disposizioni che abbiano la capacità di presupporre o di recepire conoscenze tecnico – scientifiche e che pongano pertanto oneri che devono essere rispettati per potere validamente raggiungere un determinato scopo.

Un esempio può essere utile a chiarire il concetto.

L’art. 12, comma I, lett. d) prescrive ad esempio che l’atto processuale debba essere sottoscritto con firma digitale; d’altro canto l’art. 21 del d. lgs. 82/05 (il cosiddetto CAD – Codice dell’Amministrazione Digitale) attribuisce pieno valore legale ad atti e documenti sottoscritti con firma digitale ma anche, ad esempio, con firma elettronica avanzata. Si potrebbe perciò porre il dubbio se possa essere validamente sottoscritto un atto del processo mediante l’utilizzo di una particolare tipologia di firma elettronica avanzata, che è la firma grafometrica (attraverso apposito tablet di firma); del resto il valore legale della stessa è sancito da una norma di legge, il CAD appunto, che è senza dubbio fonte sovraordinata rispetto al Provvedimento del 16 aprile ’14.

Ebbene, in tal caso, ad avviso di chi scrive la risposta deve essere negativa in quanto, allo stato della tecnica, la firma digitale è l’unico dispositivo che presenta soluzioni di interoperabilità tra diversi devices mentre la firma grafometrica può essere decrittografata solo da dispositivi messi a disposizione dal singolo certificatore di firma[12]; inoltre l’archivio delle chiavi pubbliche necessarie alla lettura dei file contenuti nella busta informatica oggetto di deposito telematico è istituito, allo stato, solo allorché la generazione delle stesse sia avvenuta attraverso l’emissione di un certificato di firma digitale.

In tal caso, pertanto, la regola (o meglio, la specifica) tecnica che impone appunto l’utilizzo della firma digitale rappresenta il miglior stato dell’arte in quanto identifica l’unico dispositivo che consente la creazione di un atto facilmente “decifrabile” dalla controparte e dal giudice; per tale ragione la stessa non può che avere forza cogente, essendo in tal caso pienamente rispettata l’essenza propria delle norme in commento.

Analogo discorso può farsi per il caso in cui l’avvocato invii il proprio atto non dall’indirizzo pec censito al REGINDE ma da altra pec; anche in tal caso la norma tecnica, che vieta tale operazione[13] esprime a pieno il suo potenziale dal momento che l’utilizzo del suddetto indirizzo di pec renderebbe impossibile la lavorazione dell’atto da parte della cancelleria; anche in tal caso siamo dunque in presenza di previsioni con una vera e propria “essenza tecnica” alle quali deve essere dunque data forza cogente.

Ancor più valido è poi tale ragionamento nel caso degli allegati al provvedimento in commento, in specie quelli dal numero 2 in avanti; in essi sono infatti contenuti gli schemi XML (sigla di eXstensible Markup Language, che identifica un linguaggio di markup, ovvero un linguaggio marcatore basato su un meccanismo sintattico che consente di definire e controllare il significato degli elementi contenuti in un documento o in un testo – fonte Wikipedia); tali files sono invero necessari al funzionamento dell’architettura del processo telematico e sono caratterizzati da un elevatissimo tasso tecnologico – scientifico; pare pertanto giusto pertanto che gli stessi siano contenuti nelle specifiche tecniche e, ancor di più, che gli stessi debbano obbligatoriamente essere rispettati da tutti coloro che utilizzano l’infrastruttura informatica in esame.

Diverso è il caso, invece, in cui, all’interno del provvedimento in analisi, si compiono scelte dal tenore più squisitamente giuridico, come ad esempio il divieto del deposito di un atto frutto di una scansione anziché di un’operazione di conversione testuale, ovvero il caso di cui si è recentissimamente occupata la giurisprudenza[14]. In siffatte ipotesi l’atto, ancorché non rispettoso delle specifiche tecniche, giunge perfettamente leggibile sul computer del giudice e della controparte, sicché sanzionare lo stesso con un declaratoria di inammissibilità costituirebbe, ad avviso di chi scrive, una sanzione spropositata e irrispettosa del principio di legalità; è infatti evidente che l’atto raggiungerebbe pienamente il proprio scopo dal momento che la controparte potrebbe articolare le proprie difese e il giudice potrebbe fare le proprie valutazioni senza impedimenti di sorta; si ritiene pertanto che la validità dell’atto in questione dovrebbe essere preservata in applicazione dell’art. 156, III comma, c.p.c., che è ovviamente norma sovraordinata rispetto alle specifiche tecniche in commento.

Una terza soluzione è invece ipotizzabile nell’ipotesi di deposito di un documento in formato diverso da quelli ammessi dall’art. 13 delle specifiche tecniche (si pensi ad esempio ad un file in formato word o a file audio o video, che per l’appunto sono formati non ammessi dalla norma in commento).

Verificandosi siffatta evenienza possono astrattamente verificarsi due situazioni:

1) la busta informatica contenente il documento in questione potrebbe essere bloccata dai controlli automatici effettuati dal sistema informatico ministeriale prima di giungere al Tribunale di destinazione; in tal caso il deposito verrebbe rifiutato e l’avvocato non potrebbe dolersi di alcunché in quanto l’art. 13 in commento avrà dimostrato di essere una vera e propria norma descrittiva dello stato attuale della tecnica informatica applicata al processo telematico, che non consente il deposito di siffatti documenti;

2) la busta informatica potrebbe però anche raggiungere correttamente il Tribunale di destinazione, senza essere bloccata dai sistemi ministeriali[15]; in tali casi, analogamente al caso sopra esaminato di deposito di atto frutto di scansione e non di conversione testuale, il documento sarebbe liberamente fruibile ed ispezionabile dalla controparte e dal giudice, cosicché sarebbe arduo e spropositato dichiararne l’inammissibilità; ancora una volta, pertanto, la specifica tecnica dimostrerebbe di aver esorbitato dal campo di sua competenza, avendo in ultima analisi dettato una regola giuridica (l’esclusione di determinati formati documentali pur depositabili a sensi della tecnica informatica disponibile) che certamente non le competeva.

In chiusura di trattazione si rimarca come la necessaria esposizione dei problemi interpretativi oggetto del presente lavoro abbia preso le mosse dalla pratica quotidiana di chi si approccia al complesso mondo del “diritto processuale informatico”, che è campo ancora giovane e dai contorni non ben definiti e in larga parte inesplorati; al fine di consentire uno sviluppo ed un approfondimento delle problematiche che esso sottende sarebbe pertanto opportuna una chiarezza dei dati di partenza, ovvero delle fonti normative di riferimento; analogamente a quanto auspicato dalla magistratura si ritiene che ben farebbe il legislatore a riordinare il sistema delle fonti, tarpando le ali a possibili eccezioni processuali che certamente stresserebbero in maniera eccessiva il processo civile e lo allontanerebbero ancora di più dalla ricerca della verità.



[1] Seppur con il percorso modulare previsto dall’art. 44 d.l. 90/14 e con limitazione alle cause di nuova iscrizione; il provvedimento era stato preannunciato dal Ministro della Giustizia nella lettera inviati agli organismi componenti il tavolo permanente per l’attuazione del processo telematico; il documento può essere reperito al seguente link: http://www.pergliavvocati.it/wp-content/uploads/2014/06/Tavolo-Permanente-per-lattuazione-del-PCT-lettera-di-ringraziamento-del-Ministro-della-Giustizia-11-6-2014.pdf

[2] Sono le parole testualmente usate dal Ministro nella lettera di cui si è dato conto alla nota precedente.

[3] Si veda in tal senso MARTINES, Diritto Costituzionale, Milano, 2007, pag. 36.

[4] Secondo questa testi, pertanto, il deposito potrebbe essere effettuato entro le ore 23.59 del giorno di scadenza; si veda in tal senso Trib. Milano, 5 marzo ’14, n. 3115.

[5] Del resto la norma contenuta nel VII comma dell’art. 16 bis d.l. 179/12 è speculare a quella contenuta nell’art. 13, II comma, d.m. 44/11, che però al comma successivo pone la limitazione oraria in commento.

[6] Cosi Corte Cost, 14 marzo ’97, n. 91.

[7] Così GRASSI, Problemi di diritto costituzionale dell’ambiente, Milano, 2012, pagg. 187 e seguenti.

[8] V. GRASSI, op. cit., pag. 188.

[9] Il documento,  relativo all’incontro tenutosi il 21 maggio ’14, può essere reperito all’indirizzo http://www.associazionemagistrati.it/doc/1605/tavolo-tecnico-sul-processo-civile-telematico.htm.

[10] Così MARINAI, Il deposito telematico di atti giudiziari, in Questione Giustizia, rivista on-line di Magistratura Democratica; l’articolo, che affronta anche il problema dell’orario per il tempestivo deposito degli atti processuali è reperibile all’indirizzo http://www.magistraturademocratica.it/ mdem/qg/articolo.php?id=434

[11] Trib. Roma, 9 giugno ’14, decr.; dà notizia del provvedimento  il bravissimo Juri Rudi nel suo blog http://www.studiolegalerudi.it/pct/?p=1529; il provvedimento non è purtroppo isolato; si ha infatti notizia di analoghi provvedimenti assunti da altri magistrati.

[12] L’utilizzo della firma grafometrica richiederebbe pertanto la presenza di un unico fornitore per tutti gli attori del processo e di tablet di firma uguali per tutti; sarebbe pertanto evidente l’onerosità e l’irrazionalità di un simile sistema.

[13] Si veda l’art. 14 del provvedimento 16 aprile ’14.

[14] art. 12, comma I, lett. c., Provvedimento  16 aprile ’14; è il caso esaminato dal provvedimento del Tribunale di Roma cui si è fatto cenno nelle pagine precedenti.

[15] Questa appare invero l’ipotesi più probabile leggendo l’art. 14 delle specifiche tecniche; in sostanza la busta giungerebbe al Tribunale con un avviso di errore che però non impedirebbe la lavorazione del deposito da parte della cancelleria.


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