CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 04/05/2014 Scarica PDF
La modifica, la rinuncia e la ripresentazione della domanda di concordato preventivo
Stefano Ambrosini e Marco Aiello, Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte Orientale. Marco Aiello, Professore associato di diritto commerciale nell'università di Torino, AvvocatoSommario: 1. La modifica del piano e della proposta di concordato. – 2. Il diritto dell’imprenditore di rinunciare alla domanda in qualsiasi momento dell’iter concordatario. – 3. La presentazione di una nuova domanda a valle della rinuncia al precedente concordato. – 4. La consecutio tra la procedura di concordato oggetto di rinuncia, quella instaurata ex novo e l’eventuale successivo fallimento.
1. La modifica del piano e della proposta di concordato
Come si evince dal disposto dell’art. 175, 2° comma, l. fall., il debitore può modificare il piano e la proposta di concordato presentati unitamente al ricorso (o, comunque, depositati nel termine all’uopo fissato ai sensi dell’art. 161, 6° comma, l. fall.), a condizione che le variazioni intervengano prima dell’inizio delle operazioni di voto. Sono pertanto certamente inammissibili – e, come tali, tamquam non essent e inidonee a spiegare effetti nell’ambito dell’iter concordatario[1] – le iniziative tese a incidere sul contenuto dell’offerta esperite quando ormai i creditori siano stati chiamati a manifestare il proprio consenso alla soluzione prospettata dall’imprenditore in crisi; diversamente opinando, del resto, si rischierebbe di fondare il calcolo delle maggioranze sui voti espressi con riguardo a un piano diverso da quello destinato a essere davvero eseguito, con palese sovvertimento dei principi che governano l’approvazione del concordato (nonché, più in generale, la stipulazione di qualsiasi intesa negoziale, la quale notoriamente presuppone la piena coincidenza tra la proposta e l’accettazione).
Qualche incertezza è sorta circa l’esatta determinazione del momento in cui l’impostazione del debitore diviene immodificabile, tenuto conto della scarsa perspicuità della locuzione “operazioni di voto”. A questo proposito, sulla tesi secondo la quale la preclusione sorgerebbe con la prima manifestazione di voto, sembra essere definitivamente prevalsa quella che conferisce rilievo alla formale apertura delle votazioni nel corso dell’adunanza da parte del giudice delegato[2]. Questa seconda interpretazione si rivela senz’altro preferibile, in quanto fa coincidere il dies ad quem dello ius variandi del debitore con l’espletamento di un adempimento agevolmente collocabile nel tempo e immediatamente conoscibile (anche in ragione del fatto che dell’adunanza viene redatto apposito verbale), a differenza della prima espressione del voto, in particolare ogniqualvolta si avvalga del servizio postale, con conseguente scissione tra formazione, spedizione e ricezione della dichiarazione; senza dire delle criticità che deriverebbero – sotto il profilo in esame – dall’adesione all’opinione che ammette il c.d. “voto anticipato”, formulato in epoca antecedente all’adunanza o, addirittura, al deposito della relazione ex art. 172 l. fall. (il c.d. “voto a scatola chiusa”).
Una parte della giurisprudenza ha ravvisato un ulteriore limite alla modificabilità della domanda, predicandone l’inammissibilità ogniqualvolta si sia dato luogo all’apertura del sub-procedimento ex art. 173 l. fall.[3]. Questa impostazione presta tuttavia il fianco alla critica – difficilmente superabile – dell’assenza di idoneo riscontro nel testo della legge. Anzi, a ben vedere, essa rischia addirittura di porsi in contrasto con la disciplina positiva: la facoltà offerta al debitore di apportare (pur, come si è visto, entro il termine di cui all’art. 175, 2° comma, l. fall.) variazioni all’impianto originario induce infatti a ritenere pienamente legittime le correzioni in corso d’opera, vale a dire tutte quelle iniziative che, emendando il piano o la proposta, favoriscano il superamento degli ostacoli eventualmente emersi durante la procedura, quand’anche essi abbiano dato origine alla segnalazione della necessità d’interromperne prematuramente l’iter. A tale stregua, può ragionevolmente affermarsi che rientra nella fisiologica dialettica tra l’imprenditore in crisi e il commissario giudiziale la circostanza che i rilievi del secondo (a fortiori quando si traducano nella prospettazione della revoca dell’ammissione) inducano il primo a modificare la proposta, se necessario migliorandola (anche, in ipotesi, mediante l’apporto di risorse esterne), allo scopo di ripristinare le condizioni del regolare incedere del concordato.
D’altro canto, ciò non significa che la mera presentazione di una qualche variazione della domanda comporti, di per sé, l’automatica chiusura del sub-procedimento; al contrario, il tribunale deve verificare se le misure in concreto adottate dal debitore siano davvero idonee a porre rimedio alle mende enucleate dal commissario, fermo restando che neppure la modifica è in grado di sanare i vizi insuscettibili di correzione postuma: ogniqualvolta, ad esempio, il ricorrente abbia esposto dati aziendali inveritieri o dolosamente taciuto una circostanza idonea a incidere sul consenso dei creditori, il fatto che lo stesso si rassegni, a posteriori, all’effettuazione di una piena disclosure rischia di rivelarsi insufficiente a superare l’impasse, quantomeno nella misura in cui la circostanza sia stata scoperta e denunciata dal commissario e abbia per l’appunto condotto – prima del “ravvedimento operoso” dell’imprenditore – alla formulazione della segnalazione ex art. 173 l. fall. In questo senso, non a caso, è orientata – a quanto consta – la più diffusa prassi giurisprudenziale.
La modifica, diversamente dalla nuova domanda, si esplica nel contesto di una procedura già instaurata, con la conseguenza che non è necessaria l’emanazione di un nuovo decreto di ammissione, né si assiste alla designazione di un nuovo commissario giudiziale, permanendo nell’esercizio delle proprie funzioni quello già nominato; semmai, si rende opportuno il rinvio dell’adunanza, onde consentire l’aggiornamento della relazione ex art. 172 l. fall.[4].
L’insussistenza di una vera e propria cesura nel procedimento aveva indotto, in passato, a dubitare della necessità che la modifica si accompagnasse a una nuova attestazione o, quantomeno, a un supplemento di quella precedentemente resa[5]. L’incertezza è stata definitivamente superata grazie all’intervento del legislatore: l’art. 33 d. l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella l. 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto il secondo periodo all’art. 161, 3° comma, l. fall., il quale prescrive che ogni modifica sostanziale del piano o della proposta dev’essere accompagnata dalla relazione dell’esperto. Al fine di fare scattare il predetto obbligo d’integrazione documentale è pertanto sufficiente che le variazioni riguardino uno dei due profili nei quali si articola la domanda (vale a dire il piano e la proposta), benché – di norma – esse finiscano per interessare sia il percorso che l’imprenditore si propone di seguire per superare il proprio stato di crisi, sia il trattamento riservato ai creditori[6].
D’altro canto, il supplemento dell’attestazione non è richiesto in ogni caso, ma – come si è detto – soltanto quando ci si trovi al cospetto di modifiche “sostanziali”. Quanto al piano, vanno ritenuti tali anzitutto gli interventi che attengono alla sua struttura, a cominciare dal passaggio dallo scenario della continuità aziendale “pura” alla prospettiva della cessione dell’azienda o, addirittura, della liquidazione atomistica; parimenti, rileva l’emersione della disponibilità (o del diniego) di terzi a erogare finanziamenti o, comunque, la prospettazione ex novo (o, al contrario, la cancellazione) di una qualsiasi componente caratterizzante la soluzione in concreto elaborata dall’imprenditore, incluse la presenza dell’assuntore o di forme di garanzia. Con riferimento alla proposta, vengono in considerazione tutte le variazioni capaci di determinare un apprezzabile mutamento nel trattamento di creditori: l’introduzione, la modifica o l’eliminazione della divisione in classi; la prospettazione della falcidia delle pretese assistite da privilegio insistente su beni (parzialmente) incapienti; la (significativa) correzione della percentuale prospettata ai chirografari, con oscillazione che superi la “forbice” eventualmente prospettata ab origine. Restano invece escluse dal perimetro della necessaria rinnovazione dell’attestazione le semplici chiarificazioni della domanda, al pari delle modifiche di mero dettaglio, per loro natura incapaci d’incidere sulla sostanza dell’operazione concordataria.
2. Il diritto dell’imprenditore di rinunciare alla domanda in qualsiasi momento dell’iter concordatario
All’imprenditore è pacificamente riconosciuta la potestà di rinunciare alla domanda di concordato, indipendentemente dal fatto che la stessa sia stata depositata con la riserva di presentare in un secondo momento tutta la documentazione prescritta dall’art. 161, 2° e 3° comma, l. fall., o che fosse ab origine accompagnata dal piano e dalla proposta. Ciò nondimeno, non si registra piena consonanza di opinioni con riguardo, da un lato, alle modalità di esplicazione dell’atto abdicativo, dall’altro, all’ammissibilità dell’eventuale successiva presentazione di un nuovo ricorso ex artt. 160 ss. l. fall.
Con riferimento al primo profilo (mentre al secondo è dedicato il successivo paragrafo), conviene anzitutto rammentare che – com’è stato rilevato – “la revocabilità o rinunciabilità della domanda di c.p. era stata comunemente affermata, nel vigore della disciplina precedente la riforma del 2005, sia da parte di chi privilegiava la natura contrattuale dell’istituto (qualificando così la domanda come proposta negoziale revocabile sino all’accettazione), sia da parte di chi ne riteneva la natura processuale (qualificando così la proposta come domanda giudiziale liberamente rinunciabile sino alla relativa decisione)”[7]. In altre parole, già in passato non si dubitava del fatto che il concordato fosse suscettibile di rinuncia, mentre restava controverso l’orizzonte temporale entro il quale la stessa potesse essere validamente esercitata: secondo l’orientamento che tendeva a porre enfasi sul fenomeno negoziale essa doveva intervenire – in conformità alla nota regola per cui l’offerta può essere caducata fino alla conclusione del contratto (art. 1328 c.c.) – prima dell’approvazione della proposta da parte dei creditori[8]; diversamente, quanti ponevano l’accento sui tratti pubblicistici (e procedurali) dell’istituto facevano coincidere la scadenza con l’emanazione del provvedimento di omologazione[9]. Era invece rimasta – per vero comprensibilmente – isolata la voce secondo la quale la rinuncia si sarebbe dovuta reputare efficace soltanto a condizione che fosse rassegnata addirittura prima dell’ammissione[10].
La dottrina che ha affrontato ex professo la questione a valle della riforma delle procedure concorsuali, nel ribadire la piena legittimità del ritiro della domanda di concordato, ha messo in luce la necessità che la stessa intervenga entro la chiusura del giudizio di omologazione[11], restando irrilevante – a questo fine – il momento dell’approvazione della proposta, anche in ragione dell’impossibilità di ricondurre tout court il fenomeno concordatario al mero incontro della volontà del debitore e dei creditori, attesi i persistenti profili pubblicistici della fattispecie[12]. Questa soluzione è del tutto coerente con il rilievo (difficilmente superabile) che il semplice raggiungimento delle maggioranze è inidoneo, di per sé solo, a spiegare gli effetti del concordato, i quali scaturiscono – ex art. 184 l. fall. – dall’omologazione, vale a dire dal provvedimento conclusivo dell’ulteriore fase giudiziale caratterizzata, al pari di quella afferente all’ammissione, dall’impulso della parte. Com’è stato giustamente osservato, infatti, “la proposta di concordato (sia preventivo sia fallimentare), pur dopo l’approvazione da parte dei creditori, è nella disponibilità della parte da cui proviene, la quale può ancora ritirarla. Infatti, […] se la proposta fosse vincolante e irretrattabile fin dall’approvazione da parte dei creditori, non dovrebbe essere affatto necessario un nuovo atto di impulso processuale riservato al proponente, ma dovrebbe essere possibile pervenire all’omologazione su impulso anche di uno dei creditori consenzienti o dell’organo “ausiliare” della procedura (curatore o commissario giudiziale)”[13].
In questa luce, il ritiro della domanda può legittimamente collocarsi in qualsiasi momento della procedura; in particolare, non rileva che siano già iniziate le operazioni di voto[14], né che le stesse si siano concluse, indipendentemente dal relativo esito. Come si è visto infatti, per un verso, l’approvazione non esaurisce la procedura di concordato, ben essendo possibile che l’imprenditore rinunci a instare per l’omologazione; per l’altro, non può escludersi che, dinanzi al rifiuto dei creditori di aderire alla soluzione inizialmente prospettata, egli preferisca porre immediatamente fine all’iter concordatario (per l’appunto, rinunciandovi), al dichiarato scopo di presentare una nuova domanda, il che – come si dirà meglio nel paragrafo seguente – deve ritenersi ammissibile, fatti salvi i limiti imposti dal divieto di condotte abusive.
Di qui la conclusione che la domanda di concordato è rinunciabile da parte del debitore fino alla chiusura della procedura[15]. Durante la successiva fase dell’esecuzione del piano, invece, non vi è spazio per il ritiro della domanda (ormai definitivamente accolta), sicché eventuali atti abdicativi andrebbero al più interpretati alla stregua di manifestazioni negative della volontà di adempiere, il che dischiuderebbe la strada a eventuali istanze di risoluzione del concordato[16].
Come si è anticipato, tra i profili oggetto di dibattito vi è quello delle modalità di estrinsecazione della rinuncia, essendo in particolare controverso se essa sia rimessa alla libera ed esclusiva disponibilità dell’imprenditore o se, al contrario, abbisogni – al fine del relativo perfezionamento – di elementi ulteriori. A questo proposito, una parte della dottrina ha sostenuto che “la rinunzia alla domanda di concordato nel corso del giudizio di revoca, se uno dei legittimati ha svolto istanza di fallimento, presuppone l’assenso di questi ultimi”, in ragione del fatto che la stessa “appare sussumibile nella fattispecie della rinunzia agli atti (art. 306 c.p.c.): essa infatti vuolevitare che il Tribunale si pronunzi sulla domanda concordataria, senza tuttavia rinunziare al diritto del debitore di chiedere il concordato. Essa pertanto presuppone l’accettazione delle altre parti che abbiano un interesse ulteriore rispetto a quello del regolamento delle spese di lite”[17]. Alla medesima conclusione sono pervenute alcune sentenze di merito, le quali – chiamate a pronunciarsi con riferimento a fattispecie contraddistinte dall’apertura del sub-procedimento ex art. 173 l. fall., nel cui contesto erano state formulate richieste ai sensi degli artt. 6 e 7 l. fall. – hanno subordinato l’efficacia del ritiro della domanda all’accettazione dei creditori instanti per il fallimento[18].
Questa impostazione sembra tuttavia prestare il fianco a critiche non agevolmente superabili, essendo in qualche misura inficiata dall’indebita sovrapposizione tra due procedimenti chiaramente distinti: da un lato, quello concordatario, dall’altro, l’istruttoria prefallimentare. Mentre il primo resta – anche in virtù del perspicuo tenore dell’art. 160, 1° comma, l. fall., che configura la presentazione della domanda come una facoltà dell’imprenditore, con esclusione della legittimazione attiva di qualsivoglia terzo – nella sola disponibilità del debitore, l’istante per il fallimento coltiva una iniziativa del tutto autonoma, destinata – in ipotesi – ad affiancarsi all’iter concordatario e a interferire con esso, senza tuttavia alcuna possibilità né di riunione né, tantomeno, d’identificazione tout court. Del resto, la ricostruzione del rapporto tra concordato e istruttoria prefallimentare in termini di procedimenti “paralleli” e indipendenti ha trovato conforto nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha stabilito che il deposito della domanda di cui agli artt. 160 ss. l. fall. non impedisce, in presenza d’idonee istanze, l’eventuale declaratoria di fallimento, non trovando applicazione la regola della prevenzione, né il fenomeno della sospensione, né il divieto d’instaurare o proseguire azioni esecutive di cui all’art. 168 l. fall., ravvisandosi invece “un’esigenza di coordinamento che il giudice fallimentare è tenuto a risolvere a seconda dei casi, dando precedenza all’una ovvero all’altra procedura, purché nel rispetto indefettibile delle garanzie di difesa, del debitore rispetto alle istanze di fallimento, e degli stessi creditori rispetto alla domanda di concordato”[19]. Tale ricostruzione ha trovato ulteriore conferma, com’è noto, da parte delle Sezioni Unite, le quali hanno ribadito che “il rapporto tra concordato preventivo e fallimento si atteggi[a] come un fenomeno di consequenzialità (eventuale del fallimento, all’esito negativo della procedura di concordato) e di assorbimento (dei vizi del provvedimento di rigetto in motivi di impugnazione del successivo fallimento) che determina una mera esigenza di coordinamento fra i due procedimenti. Ne consegue […] che la facoltà per il debitore di proporre una procedura concorsuale alternativa al suo fallimento non rappresenta un fatto impeditivo della relativa dichiarazione […], ma una semplice esplicazione del diritto di difesa del debitore, che non potrebbe comunque disporre unilateralmente e potestativamente dei tempi del procedimento fallimentare, venendo così a paralizzare le iniziative recuperatorie del curatore […] e ad incidere negativamente sul principio costituzionale della ragionevole durata del processo”[20].
A tale stregua, deve verosimilmente escludersi che i creditori instanti per il fallimento siano davvero portatori di un interesse giuridicamente rilevante alla prosecuzione della procedura minore, con conseguente cancellazione della premessa da cui muove il sillogismo che predica il relativo (preteso) diritto di opporsi alla rinuncia dell’imprenditore. Vero è, semmai, l’opposto: essi sono destinati a beneficiare immediatamente del ritiro della domanda di concordato, atteso che esso determina l’automatico superamento della necessità di coordinare l’iter concordatario e l’istruttoria prefallimentare: l’estinzione del primo, infatti, comporta l’immediata prosecuzione della seconda[21]; mentre solo dinanzi all’eventuale presentazione di una nuova domanda ex artt. 160 ss. l. fall. il tribunale sarebbe chiamato a valutare se dare precedenza a tale ulteriore iniziativa o, piuttosto, alla precedente istanza di fallimento.
Per completezza, merita evidenziare l’irrilevanza della circostanza che, prima della rinuncia, si sia dato luogo al sub-procedimento di cui all’art. 173 l. fall. o a opposizioni all’omologazione, ancorché si tratti di fasi procedimentali nelle quali è ammessa la partecipazione di soggetti ulteriori rispetto al debitore. Più nel dettaglio, quand’anche i creditori intervenienti dovessero considerarsi a tutti gli effetti parti del giudizio di revoca dell’ammissione o di quello di omologazione (come in effetti sembrerebbe doversi ricavare, quantomeno per il secondo, dal fatto che l’art. 180, 1° comma, l. fall. ne ammette la costituzione entro il decimo giorno anteriore all’udienza), ciò non sarebbe comunque sufficiente a rendere indispensabile la loro accettazione della rinuncia, tenuto conto che essi non sono portatori di alcun effettivo interesse alla prosecuzione dell’iter concordatario, mirando soltanto all’accoglimento dell’eventuale istanza di fallimento; accoglimento, questo, adeguatamente tutelato dalla circostanza che – come già detto – l’estinzione del concordato non pregiudica (anzi, accelera) la prosecuzione dell’istruttoria prefallimentare.
Resta quindi valida, nella sostanza, la conclusione cui si era addivenuti già nel vigore della legge del 1942, vale a dire che, “poiché la domanda di concordato è una domanda giudiziale, il cui esercizio è riservato al monopolio del creditore insolvente, anche la rinuncia a far valere tale strumento rientra nella sfera della sua illimitata disponibilità”[22].
Non a caso, la più recente e avvertita giurisprudenza ha messo in luce l’ammissibilità e l’immediata efficacia (a prescindere, quindi, dall’accettazione di terzi) del ritiro della domanda di concordato, affermandone la validità quand’anche subordinata alla pubblicazione nel registro delle imprese di nuovo ricorso ex art. 161, 6° comma, l. fall. (sempre che il debitore si avvalga di questo strumento per la prima volta o, comunque, nel rispetto del termine di due anni di cui all’art. 161, 9° comma l. fall.), in quanto “la pubblicazione nel Registro delle Imprese del ricorso ex art. 161, comma 6, della L. Fall. è […] atto dovuto sul quale il Tribunale non ha alcun potere. Pertanto l’espressione usata nelle conclusioni dell’atto di rinuncia di rinunciare “subordinatamente alla pubblicazione del contestuale ricorso…” non può certo equivalere ad una dichiarazione di rinuncia condizionata, posto che nel contesto dell’atto palesi sono le intenzioni della società”[23].
Per quanto concerne, poi, le modalità di formalizzazione della rinuncia, si ritiene che la stessa debba essere perfettamente speculare alla domanda[24], sicché essa non solo va sottoscritta dall’imprenditore (o da chi sia legittimato a spenderne validamente il nome), ma va altresì preceduta da idonea deliberazione ai sensi dell’art. 152 l. fall.[25]. In particolare, è indispensabile che quest’ultima sia assunta e verbalizzata nel rispetto delle prescrizioni di legge (con conseguente intervento del notaio), mentre non sembra che l’efficacia, sul piano processuale, del ritiro della domanda sia subordinata all’iscrizione della delibera nel registro delle imprese, dal momento che tale incombente – come accade, del resto, con riguardo alla richiesta di ammissione alla procedura – è funzionale non all’integrazione dei poteri del rappresentante dell’ente, ma a spiegare i noti effetti pubblicitari nei confronti dei terzi[26].
Una volta perfezionatosi il ritiro della domanda, il tribunale è chiamato a prenderne atto, con conseguente emanazione della dichiarazione dell’estinzione della procedura[27]. La circostanza che tale provvedimento abbia tenore essenzialmente ricognitivo della determinazione assunta dall’instante induce a ritenere ammissibile la prassi – andata incontro a una certa diffusione, anche perché presenta in non trascurabile vantaggio di scongiurare cesure temporali nella protezione di cui all’art. 168 l. fall. – del contestuale deposito della rinuncia e del nuovo ricorso (talvolta addirittura incorporati in un unico atto). Ancorché la procedura più risalente venga meno – a stretto rigore – solo con la pronuncia che ne formalizza la chiusura, la gerarchia logica (e cronologica) tra il ritiro della prima domanda e la presentazione della nuova iniziativa resa evidente dall’impostazione adottata dallo stesso imprenditore si rivela probabilmente idonea a scongiurare ipotetici profili di contrasto con il principio di unicità della procedura concorsuale afferente al medesimo debitore; quantomeno nella misura in cui il medesimo, per l’appunto, manifesti – attraverso l’obiettivo tenore dei propri atti – la volontà di dare impulso alla domanda più recente successivamente (e, per così dire, sotto condizione) del superamento di quella originaria, prevenendo ipotetici rischi di duplicazione del concordato, quelli sì verosimilmente forieri del vizio d’inammissibilità.
3. La presentazione di una nuova domanda a valle della rinuncia al precedente concordato
L’imprenditore che abbia rinunciato al concordato, quando non si rassegni alla presentazione di una istanza di fallimento in proprio (segno della presa d’atto della – sopravvenuta – impossibilità di coltivare utilmente una risposta alternativa all’insolvenza), formula all’indirizzo dei propri creditori una diversa proposta di soluzione alla crisi, di frequente destinata a tradursi nella presentazione di una nuova domanda ex artt. 160 ss. l. fall. (pur non potendosi escludere – quantomeno in astratto – l’opzione per l’accordo di ristrutturazione dei debiti).
Le ragioni che possono indurre il debitore a innescare il meccanismo che comporta, di fatto, il regresso dell’iter concordatario allo stadio iniziale, preferendolo alla “strada maestra” della modifica del piano e della proposta, sono molteplici. Anzitutto, può darsi il caso che le variazioni all’impianto originario siano ormai precluse, come accade – lo si è visto – ogniqualvolta si sia dato avvio alle operazioni di voto, stante l’invalicabile limite di cui all’art. 175, 2° comma, l. fall.[28]. Può altresì accadere che l’imprenditore si avveda – direttamente o alla luce dei rilievi del commissario – di vizi della procedura non utilmente emendabili[29] (quali, ad esempio, una grave incongruenza nei dati aziendali o un’incolmabile lacuna logico-argomentativa nella relazione dell’esperto). Vanno poi considerate le fattispecie nelle quali la crisi dell’impresa s’inserisce in un contesto di gruppo e l’evoluzione dello scenario complessivo dello stesso imponga, a valle della presentazione della prima domanda, modificazioni (quali, in particolare, quelle discendenti dalla sopravvenuta esigenza di accesso al concordato di entità collegate alla prima) tali da consigliare – anche al fine di garantire un andamento coordinato tra le procedure delle singole realtà – la rinunzia all’istanza originaria, con contestuale presentazione di nuovi ricorsi, in modo che gli stessi possano incedere con tendenziale parallelismo[30]. Senza dire delle ipotesi – infrequenti ma non impossibili, alla luce dell’incessante susseguirsi d’interventi sulla legge fallimentare – d’introduzione di un regime più favorevole per le procedure instaurate a partire da una determinata data[31], con conseguente incentivo per l’imprenditore ad abbandonare la vecchia domanda per depositarne una nuova.
La legge non vieta la consecuzione tra itinera concordatari attraverso il meccanismo del ritiro del ricorso e della contestuale (ma logicamente successiva) presentazione di analoga iniziativa, il che, pertanto, deve ritenersi ammissibile[32], fatti salvi i limiti posti, da un lato, dal divieto di condotte abusive (di cui si dirà più diffusamente infra), dall’altro, dalla preclusione di cui all’art. 161, 9° comma, l. fall. Quest’ultima disposizione impedisce la presentazione di una domanda di concordato “con riserva” da parte dell’imprenditore che, nei due anni antecendenti, abbia depositato identico ricorso ex art. 161, 6° comma, l. fall. senza che si sia medio tempore addivenuti all’ammissione al concordato o, in alternativa, all’omologazione dell’accordo di ristrutturazione sottoscritto nel termine all’uopo assegnato dal tribunale. La ratio della regola va verosimilmente ravvisata nell’opportunità di precludere l’indefinita protrazione dell’automatic stay mediante il recursus ad infinitum alla protezione interinale, senza mai procedere alla formalizzazione del piano e della proposta.
Tale fattispecie – la quale può a buon diritto qualificarsi come un caso codificato di abuso – esaurisce lo spettro dei divieti specificamente previsti dalla legge in materia, dal che si desume non solo l’ammissibilità del piano e della proposta depositati – insieme a un nuovo ricorso – quando sia ormai scaduto il termine fissato ai sensi dell’art. 161, 6° comma, l. fall.[33], ma anche, più in generale, che il deposito di una precedente domanda di concordato (se del caso “con riserva”) non costituisce mai, di per sé solo, elemento ostativo alla presentazione di un nuovo ricorso accompagnato dal piano e dalla relazione (né di una istanza “in bianco”, a meno che ricorra la peculiare ipotesi enucleata dalla norma), neppure allorquando la prima procedura si sia chiusa prematuramente a causa della revoca dell’ammissione o del mancato raggiungimento della maggioranza prescritta dalla legge[34].
A conclusioni diverse è addivenuto chi ha predicato la necessità d’interpretare analogicamente l’art. 161, 9° comma, l. fall., traendone il corollario che il divieto biennale opererebbe altresì quando: (i) la domanda “con riserva”, pur dando luogo – dopo il deposito del piano e della proposta – all’ammissione, non sia sfociata nell’omologazione; (ii) s’intenda depositare un ricorso ex art. 161, 6° comma, l. fall. dopo un concordato non omologato (ancorché non introdotto da una iniziativa “in bianco”); (iii) il debitore abbia omesso di osservare il termine per il deposito della documentazione di cui all’art. 161, 2° e 3° comma, l. fall. stabilito dal tribunale a seguito della richiesta di “pre-concordato”[35].
Questa ricostruzione sembra tuttavia prestare il fianco ad alcuni rilievi critici, a cominciare da quello relativo al contrasto con il dettato normativo: non sembra infatti eludibile il fatto che la legge è specificamente – e perspicuamente – riferita al solo fenomeno della successione di domande “con riserva” e, in particolare, al caso in cui la prima di queste si sia tradotta in un procedimento interrottosi senza l’emanazione del decreto di ammissione (non di omologazione)[36]. Tale obiettivo ostacolo non pare poter essere validamente superato neppure mediante l’invocazione dello strumento analogico, atteso il difetto, nella specie, del presupposto dell’eadem ratio.
Ogniqualvolta non ci si trovi al cospetto della mera richiesta di reiterare l’automatic stay senza che l’istanza originaria abbia condotto alla prospettazione di una soluzione della crisi ritenuta idonea ai fini dell’ammissione alla procedura (indipendentemente – lo si ripete – dal successivo esito della stessa), ma sia già stato depositato un piano giudicato non irricevibile dal tribunale, non vi è ragione per inferire in via automatica che il nuovo ricorso costituisca un abuso della protezione, essendo invece necessario vagliare la richiesta nel merito, se del caso coordinandola con eventuali istanze di fallimento pendenti. In altre parole, tutte le volte in cui non si ricada nella peculiare fattispecie di cui all’art. 161, 9° comma, l. fall. (eccezionale e, come tale, di stretta interpretazione), la sequenza di atti consistente nel ritiro del ricorso originario e nel deposito della nuova domanda si rivela ammissibile, fatte salve – come già detto – le ipotesi di abuso.
A quest’ultimo proposito, una recente decisione di merito resa precisamente in materia di rinuncia al concordato e ri-presentazione dello stesso ha rilevato che “un atto di esercizio del diritto è abusivo se il titolare: - ha intenzionalmente creato un danno ad altri facendosi schermo dell’apparente legittimità della propria condotta offerta dal diritto; - nella valutazione del calcolo economico ha peggiorato la situazione di un altro soggetto senza sostanzialmente migliorare la propria; - ha esercitato il diritto deviando dalla sua funzione tipica, dalla sua ragion d’essere, dai principi dell’ordinamento”[37]. Muovendo da questi principi, si è esclusa l’abusività della condotta del debitore che, dopo aver presentato ricorso per concordato preventivo (corredato dal piano, dalla proposta e dall’attestazione) abbia, dinanzi alla richiesta di chiarimenti ai sensi dell’art. 162 l. fall., rinunziato allo stesso, con contestuale deposito di una domanda “in bianco”, sul presupposto che “il ricorso da parte dell’imprenditore in crisi allo strumento del preconcordato, dopo aver già presentato una domanda di concordato, può in astratto anche configurare un utilizzo abusivo delle facoltà normativamente riconosciute, tuttavia nella specie deve escludersi che si sia realizzata tale ipotesi e ciò proprio in base a quella valutazione degli opposti interessi cui prima si faceva cenno. E invero non risulta che la condotta della debitrice abbia arrecato un pregiudizio all’unico creditore procedente il quale ha anzi addirittura reclamato la sentenza dichiarativa di fallimento (fatto assolutamente inusuale)”[38].
In altre parole, ferma la tendenziale ammissibilità della presentazione di una nuova domanda a valle della rinunzia alla precedente, vanno rigettate in limine soltanto quelle iniziative che si rivelino manifestamente abusive, per tali intendendosi quelle che mirino esclusivamente a procrastinare indefinitamente la protezione interinale dalle misure esecutive e cautelari di cui all’art. 168 l. fall., senza fornire una credibile ipotesi di soluzione alla crisi; iniziative, queste, le quali per vero sembrano poter essere agevolmente paralizzate – anche a prescindere dalla dichiarazione d’inammissibilità del nuovo ricorso – ogniqualvolta penda una istruttoria prefallimentare, privilegiando quest’ultima nel discrezionale coordinamento con la parallela iniziativa concordataria. Di qui la conclusione che, al cospetto del deposito della domanda di concordato che segua quella oggetto di rinuncia (o, comunque, non omologata), il tribunale non può limitarsi ad applicare una (inesistente) preclusione automatica (ad eccezione, si ripete, dell’ipotesi in cui ricorra la speciale fattispecie di cui all’art. 161, 9° comma, l. fall.), essendo invece chiamato alla valutazione, nel merito, della non abusività del ricorso; valutazione, questa, alla quale non è estranea la comparazione tra l’interesse del debitore a evitare il fallimento e quello degli eventuali instanti per questa procedura (i creditori e, se del caso, il Pubblico Ministero), con la precisazione che le richieste dei secondi sono destinate a prevalere solo nella misura in cui la soluzione concordataria appaia ictu oculi inidonea a fornire un’adeguata risposta all’insolvenza (è il caso, ad esempio, dell’imprenditore che riproponga telle quelle il piano e la proposta già oggetto di reiezione all’esito delle antecendenti operazioni di voto, senza apportare il benché minimo miglioramento[39]) e comunque quando il tempo che sarebbe verosimilmente assorbito dall’esame, da parte del nominando commissario, della nuova iniziativa sia davvero foriero del concreto rischio di cagionare un immediato e apprezzabile nocumento per la massa.
4. La consecutio tra la procedura di concordato oggetto di rinuncia, quella instaurata ex novo e l’eventuale successivo fallimento
Mentre la modifica del piano o della proposta che intervenga prima dell’inizio delle operazioni di voto si esplica – come si è visto – all’interno dell’originario iter concordatario, la rinuncia alla domanda e la presentazione di una nuova iniziativa si traducono giocoforza in una cesura a livello procedurale: in questo diverso scenario, infatti, si rende necessaria l’emanazione, in prima battuta, del provvedimento dichiarativo dell’estinzione del vecchio concordato e, poi, del decreto di ammissione al secondo. La presenza di questo ineludibile saltum induce a interrogarsi se lo stesso comporti invariabilmente una netta soluzione di continuità tra le due procedure, sia con riferimento all’identità dei relativi organi, sia – soprattutto – per quanto attiene agli effetti del concordato.
Con riguardo al primo profilo, può ritenersi pacifico che la rinnovata ammissione debba condurre alla designazione ex novo tanto del giudice delegato quanto del commissario giudiziale, senza che il collegio sia in alcun modo vincolato all’assunzione di scelte nel segno della continuità. D’altro canto, non può sottacersi che sembra in via di affermazione la prassi – sorretta da apprezzabili ragioni di speditezza e di economia (non solo processuale) – di confermare i soggetti precedentemente nominati[40], anche al fine di non vanificare il lavoro che gli stessi abbiano svolto nel contesto del primo concordato.
Quanto al secondo aspetto, occorre verificare se il meccanismo della rinuncia e della ripresentazione determini l’automatica caducazione degli effetti della domanda originaria o se, al contrario, essi possano saldarsi con quelli del nuovo iter, con evidenti ricadute sull’inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni precedenti la pubblicazione nel registro delle imprese del primo ricorso, sulla determinazione del momento di apertura del concorso e sulla prededucibilità dei debiti sorti in occasione del vecchio concordato. L’interrogativo va con ogni probabilità risolto alla luce del noto principio della consecutio tra procedure concorsuali, di cui si è ormai definitivamente acclarata la perdurante applicabilità a valle della riforma della legge fallimentare[41]. A tale stregua, ogniqualvolta il passaggio dalla prima procedura alla seconda avvenga senza soluzione di continuità a livello logico e temporale (come accade quando il decreto che dichiari estinto il concordato reso oggetto di rinuncia sia emanato contestualmente a quello di ammissione del nuovo, la cui domanda ben può essere presentata – come si è visto – unitamente alla rinuncia e sul presupposto della presa d’atto della stessa da parte del tribunale), gli effetti del nuovo concordato retroagiscono alla data del primo ricorso, con la conseguenza che a esso deve aversi riguardo per stabilire quali ipoteche giudiziali siano efficaci nei confronti della massa, quali passività vadano assoggettate al concorso e quali, invece, vadano pagate in prededuzione, in quanto sorte in occasione del concordato. Di qui l’ulteriore corollario che, in queste situazioni, laddove la seconda procedura dovesse sfociare in fallimento, per il computo del dies a quo del periodo sospetto ai fini dell’esperimento delle azioni revocatorie si dovrebbe fare riferimento al momento della presentazione non della domanda più recente, bensì di quella originaria.
Questa impostazione pare trovare conforto – con specifico riguardo alla prededuzione – nell’art. 11, comma 3-quater, d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito nella l. 21 febbraio 2014, n. 9, il quale stabilisce che “la disposizione di cui all’articolo 111, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che i crediti sorti in occasione o in funzione della procedura di concordato preventivo aperta ai sensi dell’articolo 161, sesto comma, del medesimo regio decreto n. 267 del 1942, e successive modificazioni, sono prededucibili alla condizione che la proposta, il piano e la documentazione di cui ai commi secondo e terzo siano presentati entro il termine, eventualmente prorogato, fissato dal giudice e che la procedura sia aperta ai sensi dell’articolo 163 del medesimo regio decreto, e successive modificazioni, senza soluzione di continuità rispetto alla presentazione della domanda ai sensi del citato articolo 161, sesto comma”[42].
La norma, seppur dettata con riferimento a una fattispecie diversa da quella che ci occupa (essendo riferita alla successione tra pre-concordato e concordato, la quale costituisce un’ipotesi di consecuzione non tra procedure, ma tra due fasi della medesima procedura, introdotte da un’unica domanda – contenuta nel ricorso ex art. 161, 6° comma, l. fall. –, pur abbisognevole di essere successivamente integrata con il piano, la proposta e la relazione dell’esperto), induce a ritenere rilevante, ai fini della conservazione della prededuzione fondata sul nesso di occasionalità, la circostanza dell’insussistenza di una qualche soluzione di continuità, la quale viene per l’appunto evitata allorquando non sia riscontrabile alcuno iato tra il vecchio e il nuovo concordato.
Diversamente, laddove la dichiarazione dell’estinzione della prima procedura e l’apertura della nuova non intervengano contestualmente, ma siano separate da un’apprezzabile discontinuità (tanto logica quanto temporale), non sembra vi siano i margini per l’utile invocazione della consecutio, con la conseguenza che – ferma la protezione ex art. 168 l. fall. che scaturisca dalla pubblicazione della seconda domanda nel registro delle imprese – gli effetti del nuovo concordato non possono legittimamente retroagire alla data di quello originario, con conseguente necessità di qualificare alla stregua di obbligazioni sottoposte al concorso i debiti sorti in occasione della prima procedura[43]; fatta eccezione – beninteso – per quelli che siano espressamente qualificati come prededucibili da una specifica disposizione, indipendentemente dalla sussistenza del nesso di funzionalità o di occasionalità. Ed invero, l’intervento d’interpretazione autentica attiene esclusivamente a questo profilo (come reso palese dal tenore letterale della disposizione), mentre non incide minimamente sull’art. 111. 2° comma, l. fall. nella misura in cui lo stesso predica la prededucibilità dei crediti la cui soddisfazione all’esterno del concorso discenda da una regola diversa[44].
Di conseguenza, il verificarsi di una soluzione di continuità tra due procedure che si susseguano nel tempo, pur impendendo di ravvisare tra le stesse una situazione di consecutio, non determina la perdita della prededucibilità per quei crediti che l’abbiano ottenuta, nel contesto del primo concordato, in forza di una specifica disposizione, a cominciare dall’art. 182-quater c.c., il quale – com’è noto – stabilisce che vanno pagati con preferenza sulle pretese concorsuali quelle derivanti dai finanziamenti effettuati in esecuzione di un concordato preventivo o erogati in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla medesima procedura, alla duplice condizione (nella seconda ipotesi) che queste ultime operazioni siano previste dal piano e che la prededuzione sia espressamente disposta nel decreto di ammissione[45]. Parimenti, l’assenza di consecutio non pregiudica la prededucibilità dei crediti discendenti dai finanziamenti di cui all’art. 182-quinquies, 1° comma, l. fall., vale a dire quelli la cui stipulazione sia stata autorizzata sulla base dell’intervenuta attestazione – da rendersi dopo aver verificato il complessivo fabbisogno finanziario dell’impresa fino all’omologazione – della funzionalità al miglior soddisfacimento dei creditori.
Tra le suddette regole speciali parrebbe a tutta prima annoverabile altresì l’art. 161, 7° comma, c.c., il quale – com’è noto – stabilisce che i crediti di terzi sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal debitore tra la presentazione della domanda “in bianco” e l’ammissione sono prededucibili ai sensi dell’art. 111 l. fall. A tale stregua, sembrerebbe potersi concludere che – anche con riguardo a queste poste – il venir meno della procedura (di pre-concordato) non produca la cancellazione della prededuzione nel successivo concordato, a prescindere dall’eventuale sussistenza di soluzioni di continuità[46]. Senonché, manca una disposizione equipollente con riguardo alla fase che segue l’ammissione, atteso che l’art. 167 l. fall. (che rappresenta l’omologo dell’art. 161, 7° comma, l. fall.) nulla stabilisce in materia di prededuzione. Di qui il rischio di una ingiustificata disparità di trattamento tra i crediti sorti in conseguenza degli atti legalmente compiuti dal debitore nella fase del pre-concordato e in quella del concordato “vero e proprio”: solo i primi, infatti, conserverebbero il beneficio della prededuzione nella successiva procedura a prescindere dalla sussistenza della consecutio, mentre, quanto ai secondi, la verificazione di una qualsiasi soluzione di continuità comporterebbe l’automatico assoggettamento al concorso.
A ciò potrebbe ovviarsi, in thesi, predicando l’applicazione analogica del disposto dell’art. 161, 7° comma, l. fall. al concordato post ammissione, con conseguente prededucibilità delle pretese generate da tutti gli atti legalmente compiuti dal debitore in qualsiasi fase della procedura, indipendentemente dalla verifica dei nessi di funzionlità e occasionalità di cui all’art. 111, 2° comma, l. fall. Non può tuttavia sottacersi che una prospettazione siffatta si scontra con l’ostacolo – invero difficilmente superabile – della natura eccezionale dell’art. 161, 7° comma, l. fall. (come tale verosimilmente insuscettibile di applicazione analogica), senza dire della circostanza che essa rischierebbe, da un lato, di “assorbire” la regola generale dettata dal menzionato art. 111 l. fall. (di fatto abrogandolo), dall’altro, di vanificare – quantomeno nella sostanza – la recente interpretazione autentica, svalutando del tutto il rilievo che il legislatore ha inequivocabilmente inteso attribuire all’assenza di soluzioni di continuità (in linea – come si è visto – con la teoria della consecutio).
Pur nella consapevolezza dell’obiettiva controvertibilità della questione (anche a causa della tecnica – non impeccabile – che contraddistingue il più recente intervento normativo), ove non ci si voglia rassegnare all’aporia che conduce, da una parte, alla censura d’incostituzionalità per disparità di trattamento tra i crediti sorti nel pre-concordato e quelli prodottisi nel concordato “vero e proprio”, dall’altra, all’automatico recupero della prededucibilità per tutte le pretese discendenti dagli atti legittimamente compiuti dal debitore nel corso della prima procedura (nel pre-concordato come nella fase successiva all’ammissione) a prescindere da eventuali soluzioni di continuità (con sostanziale abrogazione della norma d’interpretazione autentica), potrebbe forse prospettarsi che – diversamente da quanto ipotizzato dai primi commentatori – l’art. 161, 7° comma, l. fall. non vada equiparato, ai fini che ci occupano, agli artt. 182-quater e 182-quinques l. fall., dal momento che – a ben vedere – il primo, diversamente dai secondi, costituisce non una disposizione speciale di per sé idonea ad attribuire il rango della prededuzione a una determinata categoria di crediti, bensì la mera conferma della rilevanza del nesso di occasionalità di cui all’art. 111, 2° comma, l. fall. In altre parole, l’art. 161, 7° comma, l. fall. non estende i confini della prededuzione al di là di quelli tracciati dalla regola generale, ma si limita a ribadirla, affermandone la necessaria applicazione, oltre che per la fase successiva all’ammissione, altresì fin dalla presentazione della domanda “in bianco”. Già dal deposito del ricorso ex art. 161, 6° comma, l. fall., infatti, occorre avere riguardo al nesso di occasionalità, il quale è idoneo a generare la prededucibilità dei crediti che ne sono contraddistinti sia nella procedura di riferimento che in quella successiva, a condizione, beninteso, che la seconda succeda alla prima senza soluzione di continuità.
[1] Trib. Novara, 7 marzo 2013, in IlCaso.it, I, 8687, ha affermato che, “ferma l’inammissibilità di proposte modificative successive alla votazione dei creditori in sede di adunanza, la società debitrice può adempiere, al di fuori della procedura concordataria, alle obbligazioni naturali identificabili nella corresponsione di una percentuale maggiore di quella offerta ai creditori, approvata e omologata, senza facoltà di ripetere (trattandosi, appunto, di obbligazioni naturali) quanto eventualmente a tale titolo corrisposto”.
[2] Trib. Pescara 16 ottobre 2008, in IlCaso.it, I, 1665, ha rilevato che “è possibile (e probabilmente preferibile sul piano testuale) una interpretazione che, valorizzando il riferimento alle “operazioni” – piuttosto che alla generica espressione – di voto, e agganciandolo allo schema normativo secondo cui il momento procedurale appositamente riservato al voto ha inizio nella fase finale dell’adunanza dei creditori, dopo l’illustrazione della relazione del commissario giudiziale, la discussione e l’adozione dei provvedimenti di ammissione al voto, individui in tale momento il dies ad quem della modificabilità della proposta”.
[3] App. Milano, 29 giugno 2011, in IlCaso.it, I, 6162, ha stabilito che “l’inizio della procedura ex art. 173 LF rende inoperante la procedura di concordato preventivo e conseguentemente non possono essere introdotte modifiche a proposte che riguardano una procedura che non è in corso”. La medesima impostazione è stata propugnata da Trib. Parma, 2 ottobre 2012, in IlFallimentarista.it, 2013, con nota di Ranieli, Rinuncia alla domanda e contestuale ricorso per ammissione a preconcordato in pendenza di revoca dell’ammissione per atti in frode; Trib. Napoli, 4 dicembre 2012, in IlCaso.it, I, 8360.
[4] Trib. Palermo, 18 maggio 2007, in Fallimento, 2008, 84; Trib. Pescara 16 ottobre 2008, cit.; contra Trib. Siracusa, 2 maggio 2012, in IlFallimentarista.it, 2012, con nota di Terenghi, Effetti delle modifiche della proposta concordataria sull’attestazione e sul sindacato giurisdizionale di ammissibilità, secondo cui “laddove la modificazione della proposta concordatario implichi […] un mutamento “qualitativo” dell’offerta rivolta ai creditori, si rende indispensabile e pregiudiziale, rispetto alla celebrazione dell’adunanza e all’avvio della votazione, revocare la precedente ormai “tramontata e inconducente” ammissione e procedere ad un nuovo vaglio di ammissibilità della nuova e differente proposta, da parte del medesimo Tribunale”.
[5] Si sono pronunciati per la superfluità del supplemento di attestazione Trib. Palermo, 18 maggio 2007, cit.; Trib. Pescara, 16 ottobre 2008, cit.; ne ha invece predicato la necessità Trib. Siracusa, 2 maggio 2012, cit.
[6] Cfr., ex aliis, Ambrosini, Profili giuridici della crisi d’impresa alla luce della riforma del 2012, in Ambrosini-Andreani-Tron, Crisi d’impresa e restructuring, Milano, 2013, 99.
[7] Filocamo, sub art. 175, in Ferro (a cura di), La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, Padova, 2007, 1318.
[8] De Semo, Diritto fallimentare, Padova, 1989, 540, nota 11, cui adde, in giurisprudenza, Trib. Chieti, 24 settembre 1986, in Dir. fall., 1986, II, 947; Trib. Roma, 26 maggio 1993, in Fallimento, 1994, 102; Trib. Perugia, 2 settembre 1996, in Rass. giur. umbra, 1996, 636.
[9] Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 2239; Bonsignori, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, 99; Frascaroli Santi, Il concordato preventivo, in Panzani (diretto da), Il fallimento e le altre procedure concorsuali, V, Torino, 2000, 117; nonché, in giurisprudenza, Trib. Catania 17 marzo 1983, in Dir. fall., 1983, II, 1178.
[10] Trib. Roma, 19 luglio 1990, in Giur. merito, 1991, 6.
[11] Ferro, sub art. 163, in Ferro (diretto da), La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, cit., 1229; Nonno-D’Amora, Revoca della proposta, in Ferro-Ruggero-Di Carlo, Concordato preventivo, concordato fallimentare e accordi di ristrutturazione dei debiti, Torino, 2009, 42.
[12] Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, 122-123 osserva che, “nonostante la presenza di rilevanti e prevalenti caratteristiche privatistiche dell’istituto, tuttavia, non può ritenersi del tutto superata la concezione di una ricostruzione non unitaria del concordato. […] Non pare dubbio che solo la valorizzazione di un’esigenza che trascende l’interesse dei singoli possa giustificare l’obbligatorietà ex lege della soluzione concordataria e che il decreto di omologazione, se pure non ha la funzione di costituire il nuovo assetto dei rapporti che derivano dall’accettazione della proposta concordataria, non rappresenti una mera presa d’atto di tale accordo ma il momento di valutazione della regolarità della procedura quale condizione anche dell’estensione degli effetti della volontà della maggioranza dei creditori ai creditori dissenzienti e assenti, con conseguente conferma della impossibilità di addivenire ad una soluzione netta in presenza di un istituto che se non lascia alcuno spazio all’intervento valutativo dell’organo giurisdizionale vede pur sempre l’imposizione della falcidia concordataria anche ai dissenzienti e agli assenti con artificiosa creazione di un unico corpus votante”.
[13] Norelli, La proposta di concordato, Relazione all’incontro di studio organizzato dal CSM sul tema “L’insolvenza dell’imprenditore e le procedure alternative al fallimento” (Roma, 5/7 novembre 2008), in www3.unisi.it, 2008, 43.
[14] Trib. Siracusa, 15 gennaio 2014, Concordato Centro Polidiater s.r.l., ha dichiarato l’estinzione del concordato sul presupposto che, “nonostante l’apertura della procedura e lo svolgimento delle operazioni di voto, la rinuncia intervenuta prima della scadenza del termine di legge per la comunicazione delle dichiarazioni di voto in Cancelleria comport[a] la dichiarazione di estinzione del procedimento, che comunque dovrebbe essere chiuso per il mancato raggiungimento delle maggioranze”.
[15] Norelli, La proposta di concordato, cit., 43-44, rileva che, “se il concordato è omologato dal tribunale, il decreto di primo grado, essendo “provvisoriamente esecutivo”, preclude la revoca da subito (fin dalla data del suo deposito in cancelleria); […] se, invece, il concordato è omologato dalla corte d’appello (a seguito di reclamo avverso il provvedimento di diniego del tribunale: art. 183 l. fall.), allora la proposta è revocabile fino a che non sia emesso il decreto omologatorio di secondo grado (che è anch’esso “provvisoriamente esecutivo”)”.
[16] Nonno-D’Amora, Revoca della proposta, cit., 45.
[17] Galletti, Un riflessione sulla revoca dell’ammissione del concordato: la rinunzia alla proposta con “nuova domanda” dopo l’atto di frode, in IlFallimentarista.it, 2013.
[18] Trib. Parma, 2 ottobre 2012, cit. Il provvedimento è stato confermato da App. Bologna, 25 febbraio 2013, M1H s.r.l., inedita, secondo cui “il principio dell’autonomo “interesse” della parte che recepisce l’altrui rinuncia è la linea/guida generale per risolvere il dilemma – anche fuori dall’ambito tipico dell’art. 306 c.p.c., come “discrimine” per tutti i casi ove occorre verificare se la relativa accettazione sia effettivamente necessaria – in quanto la facoltà di “abbandonare” la domanda non rientra più nella libera disponibilità di chi ha promosso l’azione, una volta che la controparte ne abbia già chiesto l’accertamento negativo (v. Cass. 6450/91), oppure abbia formulato una propria istanza nel merito od altrimenti in via riconvenzionale (cfr. Cass. 4917/79, Cass.1168/95, ecc.). Alla luce delle premesse appena illustrate, pertanto, emerge come la pacifica “autonomia concettuale” fra il C.P. – con la sua eventuale fase di “revoca” – e l’istruttoria prefallimentare non sia incompatibile rispetto al ruolo “condizionante”, qui attribuito dal primo Giudice ai creditori costituitisi per interloquire; poiché, se è vero che il fallimento “presuppone” – almeno di fatto – un esito dell’art. 173 L.F. contrario alla “persistenza” del C.P., allora la concomitante iniziativa ex art. 6 L.F. si risolve in una domanda di previa verifica, riguardo ai requisiti per la “revoca” della procedura alternativa pendente; inoltre, tale specifica attività dei creditori vale ad impedire qualsiasi “incidente di percorso” che precluda l’accertamento così richiesto “in parallelo” dai medesimi, ai quali appartengono dunque legittimazione ed interesse ad evitare soluzioni che si discostino dalla prospettiva – il fallimento del loro debitore – cui hanno scelto di aderire. Insomma, quando la decisione di non “coltivare” più un certo C.P. – che subentri al provvedimento sulla relativa “ammissione”, non importa se positivo o negativo – non equivale però a “rassegnarsi” tout court a fallire, il proponente resta necessariamente sottoposto alla “reazione” dei creditori, cui non può sottrarsi in modo surrettizio, a fronte del riscontro risolutivo già instaurato anche in sede “prefallimentare”: ne deriva […] che lo strumento processuale meglio rispondente a questo schema risulta senza dubbio quello dell’art. 306 c.p.c., idoneo altresì a consentire l’opportuno “contraltare” dell’accettazione spettante ai creditori instanti ai sensi dell’art. 6 L.F.”.
[19] Cass., 24 ottobre 2012, n. 18190, in Foro it., 2013, 5, I, 1534; nello stesso senso, Cass., SS.UU., 23 gennaio 2013, n. 1521, in IlCaso.it, I, 8401; in precedenza, Cass., 8 febbraio 2011, n. 3059, in Fallimento, 2011, 1201. È stato osservato che il coordinamento, “pur indubbiamente ispirato da esigenze di efficienza della macchina giudiziaria (e, dunque, di ragionevole durata del processo), non sarebbe, tuttavia, assistito da alcuna previsione di legge, restando [...] affidato alla discrezionale sensibilità del tribunale, non scrutinabile in sede di gravame” (De Santis, Ancora sui rapporti tra istruttoria prefallimentare e procedura concordata di soluzione della crisi d’impresa, in Fallimento, 2011, 1205; si vedano altresì, fra i contributi più recenti, Ferro, La dichiarazione di fallimento e l’ammissione ai concordati (ordinario e con riserva), ivi, 2013, 1086; Pagni, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell’istruttoria prefallimentare, ivi, 2013, 1075).
[20] Cass., SS.UU., 23 gennaio 2013, n. 1521, cit.
[21] Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2011, 224.
[22] Bonsignori, Concordato preventivo, cit., 98. La conclusione è, come si è detto, analoga a quella cui è giunta la più avvertita dottrina successiva alla riforma, la quale ha affermato che “l’atto di ritiro, o rinuncia, non va accettato dai creditori, né esige particolari formalità processuali, solo essendo sufficiente che provenga in modo certo dal debitore; il suo effetto è quello di procurare una retrocessione della situazione quo ante con ogni conseguenza a carico del solo debitore e salva la riproponibiltà del ricorso, senza apparenti vincoli di novità” (Ferro, sub art. 163, cit., 1229).
[23] App. Milano, 21 febbraio 2013, in IlCaso.it, I, 8814.
[24] Nonno-D’Amora, Revoca della proposta, cit., 43, rilevano che “l’opinione maggioritaria sembra fondarsi sull’idea della sussistenza di una sorta di simmetria fra la decisione di proporre il concordato e quella di non dar più corso ad esso, quale contrarius actus per il quale debbono sussistere i medesimi requisiti di legge dell’atto di iniziativa (ancorché per quello la legge non prescriva espressamente che debba avere i requisiti di questo)”.
[25] App. Bologna, 25 febbraio 2013, cit., ha stabilito che “l’intento “abdicativo” va espresso secondo i medesimi requisiti di forma eventualmente sanciti ad substantiam per l’atto cui si voglia rinunciare (cfr. Cass. 1270/68, Cass. 6464/80, Cass. 5454/90, Cass. 8878/2000, Cass. 15124/2010, ecc.), cui occorre equiparare le relative “modalità legittimanti” tipiche, sancite di volta in volta dalla legge; come noto (attraverso il co. 4° dell’art. 161 L.F., che tuttora richiama l’art. 152 co. ult. L.F.) per le società di capitali, la delibera degli amministratori – la quale fa le veci della decisione approvata dalla maggioranza del capitale sociale, nelle società di persone – volta a stabilire “la proposta e le condizioni del C.P… deve risultare da verbale redatto da notaio ed è depositata ed iscritta nel registro delle imprese a norma dell’art. 2436 c.civ.”: trattasi di un adempimento che deve comunque intervenire almeno prima del provvedimento del Tribunale fallimentare”.
[26] Ambrosini, Profili giuridici della crisi d’impresa alla luce della riforma del 2012, cit., 83; contra, in giurisprudenza, Trib. Pisa, 21 febbraio 2013, in IlCaso.it, I, 8745.
[27] Norelli, La proposta di concordato, cit., 44.
[28] Trib. Ravenna, 22 dicembre 2010, in IlCaso.it, I, 2853, ha affermato che “la disposizione dell’art. 175 c. 2 l.f. […] non riguarda la diversa ipotesi […] in cui non approvata una certa proposta venga formulata una nuova soluzione concordataria, rispetto alla quale i creditori sono pienamente liberi – anche attraverso la funzione di filtro svolta dal Tribunale e dagli organi della procedura – di determinarsi consapevolmente”. Trib. Forlì, 12 marzo 2013, in Fallimento, 2014, 97, con nota di Penta, Il nuovo concordato in bianco: istigazione ad usi strumentali e dilatori, ha aggiunto che “nulla vieta all’imprenditore in crisi che non sia stato capace una prima volta di incontrare l’interesse dei propri creditori di ripresentare una differente proposta che abbia effettivo carattere innovativo, prevedendo ad esempio una diversa formulazione dell’attivo, ove eventualmente siano fatti confluire altri cespiti o finanziamenti ottenuti da terzi, un diverso contenuto satisfattivo del ceto creditorio in termini percentuali, differenti tempistiche di pagamento ovvero nuove forme di garanzia dai pagamenti già prospettati”.
[29] Trib. Forlì, 12 marzo 2013, cit., ha rilevato che “in linea teorica non pare che si possa precludere all’imprenditore in stato di crisi di reiterare la domanda concordataria al fine di sottoporre ai creditori una nuova soluzione della situazione che superi i profili di inammissibilità che viziavano una sua precedente proposta”.
[30] Trib. Asti, 29 marzo 2013, Exergia s.p.a., inedito, ha ammesso alla procedura di concordato otto società facenti parte del medesimo gruppo, dopo che tre di esse avevano rinunciato alla domanda precedentemente presentata, anche sulla scorta “dell’esigenza di dare rilievo all’interesse del gruppo nell’ambito delle soluzioni concordatarie, seguendo una procedura unitaria che consenta di convocare le adunanze dei creditori in un unico contesto, in modo tale che possano essere evidenziate le connessioni di interdipendenza tra le diverse società e possano essere quindi valorizzati gli aspetti sostanziali della proposta concordataria, in base ai quali la regolazione delle crisi secondo un piano unitario possa arrecare vantaggio a tutti i creditori delle varie società coinvolte”.
[31] Un esempio dell’introduzione di un regime più favorevole per le procedure instaurate a partire da una determinata data è rappresentato dall’art. 168, 3° comma, seconda parte, l. fall., che – com’è noto – prescrive l’inefficacia nei confronti dei creditori assoggettati al concorso delle ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni precedenti la pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese. La norma, istituita dall’art. 33 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella l. 7 agosto 2012, n. 134, si applica ai procedimenti concordatari proposti a partire dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione, il che si traduce, per l’appunto, nell’obiettiva differenziazione delle regole applicabili alle procedure sorte prima dell’11 settembre 2012 e a quelle successive.
[32] App. Milano, 21 febbraio 2013, cit.; Trib. Asti, 29 marzo 2013, cit.
[33] Trib. Terni, 8 novembre 2013, in IlCaso.it, I, 9747, ha rilevato che, “a fronte del mancato deposito della proposta, del piano e della documentazione prescritta dall’art. 160, co. 2 e 3, L. Fall. entro il termine fissato, [il tribunale] deve […] convocare il debitore in camera di consiglio e, in mancanza di istanze o richieste di fallimento, dichiarare semplicemente “inammissibile” la procedura di concordato con riserva, come si desume dal combinato disposto degli artt. 161 co. 6 e 162 co. 2 L. Fall., nonché dell’art. 161 co. 9 L. Fall., il quale in tal caso esplicitamente esclude, per i due anni successivi, l’ammissibilità di “altra domanda ai sensi del medesimo sesto comma” (concordato con riserva), ferma restando, dunque, la proponibilità di una vera e propria domanda di concordato preventivo, completa di tutti i suoi elementi, ex art. 161 co. 1, 2 e 3 L.Fall.”.
[34] Trib. Torino, 9 gennaio 2014, Settembrini s.c.r.l., inedito, ha stabilito quanto segue: “La società Settembrini è stata ammessa una prima volta alla procedura di concordato preventivo in data 19.2.13 […]. Il Commissario nominato provvedeva al deposito della relazione ex art 172 l.f. La votazione dei creditori sulla proposta avanzata dalla società si concludeva con esito negativo, in quanto i crediti di cui sono titolari i creditori che hanno votato sfavorevolmente ammontavano complessivamente a euro 1.268.027,71, mentre l’importo corrispondente al 50% dei crediti chirografari era pari a euro 914.502,43. Conseguentemente il Tribunale dichiarava inammissibile il ricorso. Con il presente ricorso la soc. Settembrini ha provveduto a migliorare la propria proposta […]. Il Commissario nella relazione ai sensi dell’art 172 L.F. ha espresso parere favorevole rilevando che in ipotesi di fallimento il Curatore non potrebbe recuperare importi superiori da distribuire ai creditori. […] La votazione dei creditori sulla proposta avanzata dalla società si è conclusa con esito positivo. […] Ritiene il Collegio che alla luce di tali rilievi si debba addivenire all’omologazione del concordato, approvato dal ceto creditorio, essendosi positivamente verificata la conformità alla legge della procedura svolta nonché il regolare formarsi della maggioranza prevista”.
[35] Lamanna, Profili di abuso e limiti nella reiterazione di domande di preconcordato, di concordato e di omologa di accordi, in IlFallimentarista.it, 2013. L’Autore sembra aver di recente adottato una impostazione più severa di quella – già di per sé aliena da forme di favor verso il concordato – propugnata in precedenza, quando aveva affermato: “Può pertanto ricostruirsi il sistema – limitatamente al rapporto tra pre-concordato e concordato […] in questo modo, salvo che nei singoli casi emergano comunque situazioni di abuso, autonomamente sanzionabili: 1) Presentazione di una prima domanda di pre-concordato non andata a buon fine; quindi presentazione di una domanda di concordato preventivo definitiva, anche nei due anni - ammissibilità; 2) Presentazione di una prima domanda di concordato preventivo, non andata a buon fine; quindi presentazione di una nuova domanda di concordato preventivo, anche nei due anni - ammissibilità; 3) Presentazione di una prima domanda di pre-concordato, non andata a buon fine; quindi presentazione di una nuova domanda di pre-concordato nei due anni - inammissibilità; 4) Presentazione di una prima domanda di concordato preventivo, non andata a buon fine; quindi presentazione di una domanda di pre-concordato nei due anni - inammissibilità” (Lamanna, Possibilità di consecutio solo unidirezionale tra pre-concordato e concordato. Profili di abuso del diritto, in IlFallimentarista.it, 2013).
[36] Trib. Milano, 20 febbraio 2014, Cartiera Verde Romanello s.p.a., inedito, ha ammesso al concordato il debitore sulla base di una “domanda [che] segue una precedente iniziativa di concordato preventivo ex art. 161 co. 6 lf che si è conclusa con decreto di improcedibilità in quanto, all’esito dell’udienza fissata ex art. 179 lf, non è stata raggiunta la maggioranza prevista dall’art. 177 lf”, ritenendo il nuovo ricorso meritevole di accoglimento anche in ragione del fatto che la stessa “si pone in termini migliorativi rispetto alla proposta non approvata nella precedente procedura ex art. 161 lf”.
[37] App. Milano, 21 febbraio 2013, cit.
[38] App. Milano, 21 febbraio 2013, cit.
[39] Trib. Forlì, 12 marzo 2013, cit., ha affermato che, “poiché la normativa in vigore non dà spazio né a tentativi del debitore di provocare una nuova votazione sulla stessa proposta concordataria né a ripensamenti da parte dei creditori circa il voto già espresso […], non rimane che constatare come i creditori non abbiano alcun interesse a indugiare su una proposta identica alla precedente che hanno già ritenuto inadatta a meritare la loro approvazione”.
[40] Trib. Milano, 20 febbraio 2014, cit., ha affermato, con riguardo alla designazione dei commissari giudiziali del nuovo concordato (aperto dopo l’estinzione della vecchia procedura) che “possono nominarsi anche per ragioni di evidente economia processuale i medesimi professionisti che sono stati commissari giudiziali nella precedente procedura di concordato preventivo proposta dalla società debitrice”.
[41] Cass., 6 agosto 2010, n. 18437, in Fallimento, 2010, 1136, con nota di Ferro, Consecuzione di procedure tra nuovo concordato preventivo e dichiarazione di fallimento; in Giust. civ., 2010, I, 2453, con nota di Didone, Note minime sulla consecuzione delle procedure concorsuali; in Dir. e giust. online, 2010, con nota di Papagni, Il principio di consecuzione delle procedure concorsuali; in Fallimento, 2011, 33, con nota di Bosticco, La Cassazione conferma il principio della consecuzione tra concordato e fallimento; in Giur. comm., 2011, II, 873, con nota di Ciervo, Quale destino per il principio di consecuzione di procedure concorsuali?; in Riv. dir. proc., 2011, 1564, con nota di Marinucci, Sopravvivenza del principio della consecuzione tra procedure concorsuali; in Banca borsa tit. cred., 2012, II, 709, con nota di Corbello, Osservazioni a Cass., 6 agosto 2010, n. 18437 in tema di consecuzione di procedura concorsuali; cui adde Cass., 14 gennaio 2011, n. 821, in Mass. giust. civ., 2011, 1, 63; Cass., 28 maggio 2012, n. 8439, ivi, 2012, 6, 717.
[42] Con riguardo alla predetta norma interpretativa v., per un’ampia analisi, Vella, L’interpretazione autentica dell’art. 111, co. 2, l. fall. e i nuovi orizzonti della prededuzione pre-concordataria, in IlCaso.it, II, 2014.
[43] Vitiello, La prededuzione nel concordato preventivo dopo la conversione in legge del decreto “Destinazione Italia”, in IlFallimentarista.it, 2014, osserva che “il temporaneo ritorno in bonis seguito (dopo un lasso di tempo apprezzabile e quindi tale da escludere la sostanziale contestualità tra arresto del preconcordato e fallimento) da una nuova procedura concorsuale, fallimento o concordato preventivo che sia, esclude che in quest’ultima sia riconoscibile la prededuzione maturata nella precedente procedura, per la semplice ragione che con la pubblicazione nel registro delle imprese della nuova domanda di concordato (che in tale ipotesi dovrà essere obbligatoriamente accompagnata da tutti i documenti accessori) e con la dichiarazione di fallimento si apre un nuovo concorso dei creditori, donde la necessaria partecipazione allo stesso da parte di tutti i crediti sorti in epoca anteriore, ivi compresi quelli considerabili preceducibili in quanto occasionali o funzionali alla procedura che tuttavia, essendo stata dichiarata inammissibile o improcedibile, va considerata tamquam non esset”.
[44] Vella, L’interpretazione autentica dell’art. 111, co. 2, l. fall. e i nuovi orizzonti della prededuzione pre-concordataria, cit., 14, rileva che la norma d’interpretazione autentica vale “solo per i crediti per sorti in funzione e per i crediti sorti in occasione del concordato con riserva diversi da quelli già dichiarati prededucibili ex lege”, con la conseguenza che “solo la prededuzione atipica, astrattamente riconoscibile ai crediti pre-concordatari sorti “in occasione o in funzione” della procedura, viene subordinata ad una rigorosa consecutio procedurarum (apertura del concordato preventivo senza soluzione di continuità), mentre per quelli ai quali la prededuzione è attribuita ex ante dalla legge […] non sembra necessaria alcuna ulteriore verifica di funzionalità” rispetto alla nuova procedura; nello stesso senso Panzani, Prima interpretazione delle nuove disposizioni sulla prededucibilità dei crediti con riguardo alla disciplina dei finanziamenti, in IlFallimentarista.it, 2014.
[45] Vella, L’interpretazione autentica dell’art. 111, co. 2, l. fall. e i nuovi orizzonti della prededuzione pre-concordataria, cit., 16 ss., cui adde Panzani, Prima interpretazione delle nuove disposizioni sulla prededucibilità dei crediti con riguardo alla disciplina dei finanziamenti, cit., il quale osserva che, per i c.d. “finanziamenti ponte” funzionali alla presentazione della domanda, “l’art 182-quater, comma 2, prevede la parificazione ai finanziamenti di cui al primo comma della norma cui consegue la prededuzione. Si dice però che si tratta di finanziamenti in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, con la conseguenza che potrebbe trarsi la conclusione che pur in presenza di un’espressa disposizione di legge che prevede la prededucibilità, sia questione di un credito sorto in funzione della procedura di concordato preventivo (la distinzione tra credito funzionale alla presentazione della domanda di concordato e credito funzionale alla procedura pare labile). Tuttavia in questo caso il finanziamento è prededucibile a condizione che esso sia previsto dal piano e che il tribunale in sede di ammissione del debitore alla procedura espressamente disponga la prededuzione. Ne deriva che il legislatore ha previsto condizioni più stringenti di quelle stabilite dalla norma d’interpretazione autentica e che comunque non possono essere soddisfatte dalla semplice presentazione della domanda di preconcordato”.
[46] Vella, L’interpretazione autentica dell’art. 111, co. 2, l. fall. e i nuovi orizzonti della prededuzione pre-concordataria, cit., 16 ss.; Panzani, Prima interpretazione delle nuove disposizioni sulla prededucibilità dei crediti con riguardo alla disciplina dei finanziamenti, in IlFallimentarista.it, 2014.
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