CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 25/12/2013 Scarica PDF

La nuova frontiera dell'insolvenza

Paolo Pannella, .


E’ assoggettato al fallimento l’imprenditore commerciale che versi in “stato di insolvenza” che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori che comportano la impossibilità di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni[1].

Da ciò è possibile affermare che anche “i fatti esteriori”, sono l’espressione della incapacità di adempiere dell’imprenditore, onde lo stato di insolvenza può, a ragione, essere identificato come una sorta di ‘inadempimento qualificato’ o, rectius, inadempimento per così dire ‘all’ennesima potenza’.

In particolare, la giurisprudenza ha ormai adottato una definizione di insolvenza, da intendersi quale impotenza - strutturale e non soltanto transitoria - a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie all’attività[2].

Singoli inadempimenti, in sé considerati, non appaiono dunque bastevoli ad affermare il ricorrere dello stato di insolvenza, laddove, al contrario, il reiterarsi degli stessi nel corso del tempo, ben può concorrere ad integrare – considerato unitamente ad altri fattori indicativi, quale ad esempio l’irreversibilità della situazione di dissesto in cui versi l’impresa e il ricorso a mezzi anomali di pagamento – la sussistenza dei presupposti necessari per la configurabilità dello stesso.

Prima di soffermarsi più ampiamente sul concetto di inadempimento, in questa sede pare anzitutto opportuno svolgere una sia pur breve considerazione sul dato testuale dell’art. 5 L.F., giacché la norma appena richiamata chiarisce che presupposto oggettivo per la dichiarazione di fallimento non è la mera “insolvenza”, bensì il ricorrere di uno “stato di insolvenza”.

Una differenza, quest’ultima, di non scarso rilievo, che ha indotto i commentatori della legge fallimentare del ’42 a sostenere che l’incapacità di adempiere con regolarità alle proprie obbligazioni debba essere caratterizzata dalla definitività e dalla irreversibilità, escludendo, per tal via, dal novero della norma le ipotesi di carenza temporanea di liquidità.

Autentico fulcro del paradigma dell’insolvenza è racchiuso, dunque, nel concetto di “regolarità”.

A ben riflettere, quello del regolare adempimento delle obbligazioni è un concetto da intendersi in senso lato, per certi versi finanche prospettico, dal momento che, in ragione dell’interesse che l’ordinamento vanta alla conservazione degli strumenti produttivi[3], la regolarità deve investire la gestione dell’impresa e tutti i rapporti che ne discendono.

In tal senso è stato sostenuto che “debbono considerarsi regolari solo quegli adempimenti ai quali il debitore possa far fronte o con mezzi propri attinti dai redditi dell’impresa, o anche con mezzi altrui, ma reperiti in ragione del credito che l’impresa è in grado di produrre e, pertanto, in ragione della fiducia che i terzi ripongono nelle sue concrete potenzialità economico-produttive”[4].

La giurisprudenza prevalente ha inoltre escluso con fermezza che l’insolvenza possa desumersi da una mera comparazione tra le attività e le passività dell’impresa, in quanto, anche allorquando le seconde superino le prime, potrebbe comunque sussistere per l’impresa la possibilità di continuare proficuamente ad operare sul mercato, svolgendo la propria attività e fronteggiando con mezzi ordinari le obbligazioni assunte” [5].

In tale direzione si è espressa anche parte rilevante della dottrina[6], laddove afferma che “ l’insolvenza appartiene alla dinamica dell’impresa, per cui non può utilizzarsi come criterio obiettivo, in base al quale riconoscere la stessa, l’eccedenza del passivo sull’attivo perché non è questione di bilancio, il bilancio è un fatto statico”. Prima della nuova L.F. che ha introdotto all’art. 1 presupposti quantitativi sul grado di fallibilità, vi era chi[7] precisava al riguardo che “ Il giudizio sullo stato d’insolvenza dell’imprenditore commerciale, non può essere di natura meramente quantitativa: esso è un giudizio qualitativo, che implica necessariamente valutazioni che ineriscono all’efficienza ed alle capacità produttive e reddituali dell’impresa”.

Occorre ad ogni modo in questa sede osservare che gli inadempimenti e “gli altri fatti esteriori” di cui all’art. 5, non sono elementi costitutivi della fattispecie “insolvenza”, bensì gli stessi costituiscono mere prove tangibili della esistenza di una situazione di dissesto[8].

Inoltre, un'attenta riflessione sul concetto di insolvenza, non può non tenere in debito conto che, l’incipit dell'art. 5 L.F. menziona espressamente “L’imprenditore che….” , sottintendendo così, a ben riflettere, un ancoraggio alla vecchia concezione di insolvenza vista come uno stato patologico della situazione finanziaria del debitore, di cui lo stesso debba rispondere nei confronti dei creditori anche con sanzioni di tipo personale, e che rende necessario un procedimento di liquidazione per il loro soddisfacimento. Tuttavia, la novella attuata con d.lgs. n. 5 del 2006 ed il successivo correttivo, hanno cercato di sradicare, sia pure con non poche difficoltà, l'arcaica concezione soggettivistica del fallito, iniziando a considerare il fallimento come patologia dell’impresa, rectius, come " fase fisiologica del mercato che peraltro impone di adottare tutti gli strumenti che possano consentire un riutilizzo totale o parziale delle strutture e dell’organizzazione aziendale"[9].

"Il dinamismo delle moderne relazioni economiche, l’immaterialità preponderante dei valori che compongono la moderna impresa, l’esigenza di un continuo adeguamento della struttura imprenditoriale rendono la “crisi” non più evento eccezionale ma evento probabile che il sistema economico e giuridico deve saper affrontare in termini riallocativi, piuttosto che in termini selettivi"[10].

Il tradizionale quadro concettuale fondato sull’insolvenza come sanzione dell’imprenditore commerciale immeritevole, e considerato dall’opinione pubblica come fraudolento, a tutela di generali interessi del mercato o della corporazione mercantile, avallato anche dall'assenza di una precisa definizione codicistica di impresa[11], è definitivamente al tramonto[12].

Ecco allora che, lentamente, inizia ad affacciarsi nel panorama fallimentare, una nuova e diversa visione del fallimento e delle procedure concorsuali in genere e, per il viatico della dottrina economica di matrice aziendalista, si va affermando il fallimento dell'impresa, in sé considerata, quale entità economica distinta dal soggetto che ne è capo. Ergo: fallimento dell'impresa, e non più dell'imprenditore.

Una volta esaminato il significato letterale dell’art. 5 L.F., pare in questa sede opportuno, al fine di consentire al lettore un quadro chiaro e complessivo del concetto di stato di insolvenza, un sintetico cenno alla disciplina anteriore alla legge del ’42.

Nel codice del commercio del 1882, infatti, ai sensi del disposto di cui all’art. 683, si rinviene un concetto diverso da quello di stato di insolvenza: lo stato di cessazione dei pagamenti[13].

Ebbene, pur se per certi versi anticipando la legge del ’42, va posto in luce che il concetto di “stato di cessazione dei pagamenti” venne inteso dai primi commentatori[14] quale mera sommatoria di inadempimenti. Già al tempo, quindi, e benché a ciò non fosse di ausilio la netta cesura tra codice civile e codice del commercio, si ravvisava nell’insolvenza, rectius nella cessazione dei pagamenti, una sorta di inadempimento esponenziale.

Pare dunque che già in nuce la vetusta norma del codice del commercio, identificasse nell’inadempimento l’autentico fulcro intorno alla cui orbita lasciar gravitare il 'precursore' dello stato di insolvenza.

Se, come affermato in premessa, lo stato di insolvenza è in maniera diffusa ed incontrastata considerato quale inadempimento qualificato o inadempimento all'ennesima potenza[15], da ciò ne discende che anche ai fini della valutazione della ricorrenza dello stato di insolvenza dovrà farsi inevitabilmente richiamo alla disciplina civilistica dell'inadempimento di cui all'art. 1218 c.c.

La norma appena richiamata prevede espressamente, al suo primo comma, che “Il debitore che non esegue correttamente la prestazione dovuta, è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile”.

In maniera speculare all’art. 1218 c.c., l’art. 1256 c.c., stabilisce che l’impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore determina l’estinzione dell’obbligazione.

Va al riguardo evidenziato che, ai fini della configurabilità dell’inadempimento[16], e delle annesse responsabilità in sede risarcitoria, occorre la compresenza di due elementi l’uno a carattere oggettivo, ovvero sia l’ impossibilità della prestazione, e l’altro di carattere soggettivo, che si identifica nella non imputabilità di detta impossibilità a fatto del debitore, di tal che con il concorrere dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo si verificano due differenti effetti: il debitore inadempiente non sarà tenuto al risarcimento del danno e per effetto dell’impossibilità sopravvenuta l’obbligazione si estingue, pertanto il debitore è liberato (art. 1256 c.c.).

La causa non imputabile consiste in un impedimento insuperabile all’adempimento dell’obbligazione (vis cui resisti non potest), non dipendente da dolo o da colpadel debitore. Deve anche trattarsi di un evento imprevedibile in relazione alla naturadel negozio e alle condizioni del mercato.

Ai fini del verificarsi del duplice effetto sopra appena indicato è inoltre necessario l’ulteriore requisito dell’impossibilità della prestazione.

La dottrina tradizionale insegna che l’impossibilità deve riguardare la prestazione nella sua oggettività e non può concernere le vicende soggettive del debitore, quale ad esempio la situazione di difficoltà economica temporanea. Tuttavia, a tal proposito, appare fondamentale operare un richiamo, in un’ottica sistematica, all’art. 1176 c.c. il quale, operando a sua volta un rinvio al concetto di buona fede e correttezza di cui all’art. 1375 c.c., impone al debitore nell’adempimento delle obbligazioni, di utilizzare la diligenza del buon padre di famiglia o quella specifica richiesta dalla natura dell’attività svolta.

Non si comprende dunque, in che maniera, il debitore possa essere qualificato inadempiente, o che dir si voglia insolvente, allor quando provi di aver adottato tutte le cautele idonee al fine di adempiere correttamente alle obbligazioni assunte, provando finanche di aver utilizzato la diligenza specifica richiesta dalla natura dell’attività dedotta in obbligazione.

Si osserva inoltre che la dottrina, tuttavia, è solita richiedere la sussistenza di taluni paramentri affinchè l’impossibilità possa sortire effetto liberatorio, onde in primis si richiede che quest’ultima sia sopravvenuta, ossia intervenga successivamente alla nascita dell’obbligazione; ed infatti l’impossibilità originaria, infatti, implicherebbe la nullità del negozio giuridico.

Va infine precisato, al termine di questa breve digressione civilistica, per certi versi ‘doverosa’, sul concetto di inadempimento per causa non imputabile al debitore, che nella disciplina codicistica previgente, l’art. 1226 del codice abrogato parlava di caso fortuito e forza maggiore per esprimere l’assenza di colpa (o dolo) del debitore in relazione al verificarsi dell’evento che è causa dell’inadempimento (casus = non culpa). La nozione di caso fortuito e forza maggiore coincideva dunque con quella di causa non imputabile. Il caso fortuito e la forza maggiore (vis cui resisti non potest) possono essere o eventi naturali (terremoto, tempesta, etc..), o ancora il factum principis, cioè il fatto del creditore ed il fatto illecito del terzo.

Ai fini dell’esonero da responsabilità per effetto del caso fortuito, secondo i principi sopra espressi, occorrerà analizzare il profilo soggettivo della condotta del debitore di fronte alla causa esterna.

Il fatto del creditore infine può rendere difficoltoso l’adempimento del debitore – cosa che, ebbene sottolinearlo, non è infrequente nella prassi delle relazioni commerciali.

Il nuovo codice, oltre alla nozione tradizionale, conosce anche un’altra nozione di caso fortuito, da intendersi quale fatto positivo estraneo al comportamento del debitore.

In tali ipotesi (che poi sono quelle della c.d. responsabilità ex recepto) il legislatore pare disancorare la nozione di caso fortuito e forza maggiore da quella di causa non imputabile, con la conseguenza che, al fine di andare esente da responsabilità, al debitore non sarà sufficiente provare genericamente che l’inadempimento è dipeso da causa non-imputabile (intesa quale fatto negativo consistente nell’assenza di dolo o di colpa), occorrendo qualcosa di più e cioè la prova che l’inadempimento è dipeso – come effetto da causa – dalla presenza di un fatto positivo (c.d. caso fortuito o forza maggiore in senso stretto) anch’esso a lui non imputabile.[17]

Ritornando quindi all’imprenditore inadempiente, va inoltre osservato che le prestazioni dell'imprenditore vengono considerate "un unicum" e, dunque, non valutate singolarmente, ma, al contrario valutate come tanti atomi dell’unica molecola “impresa”. Da ciò ne discende che l’ impossibilità di fare fronte ad una singola obbligazione contratta, per causa non imputabile all'imprenditore, inevitabilmente ed ineluttabilmente avrà l’effetto di riverberarsi sulle altre prestazioni, innescando, d’emblée, un meccanismo "ad imbuto" in cui l'imprenditore non potrà far altro che cadere a piè pari.

Ed infatti è sufficiente fermarsi un attimo a riflettere per comprendere come nella prassi delle relazioni commerciali molto spesso accada che la prestazione dovuta da un imprenditore sia possibile realizzarla, adempiendo per tal via all’obbligazione contratta, soltanto qualora sussista il corretto adempimento di altrettante obbligazioni da parte di altrettanti terzi soggetti (quali fornitori, produttori, distributori all’ingrosso….. etc…).

Pertanto, qualora il mancato adempimento derivi da altrettanti mancati adempimenti altrui, a ragione, può considerarsi anche tale ipotesi rientrante nel novero dell’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore di cui all’art. 1256 c.c.

Appare, dunque, unica conseguenza logica di tali assunti, specie all'interno della crisi economico-finanziaria che ha colpito il Paese, escludere dal novero degli "insolventi", mediante un'applicazione estensiva del dettato di cui all'art. 1218 c.c. letto in combinato disposto con l'art. 1176 c.c., l'imprenditore che dimostri di aver compiuto, con la necessaria diligenza, tutto quanto era in suo potere al fine di adempiere regolarmente alle obbligazioni assunte nell'esercizio di una corretta gestione dell'impresa, ciò tanto in relazione ai finanziamenti, quanto ai rapporti con i creditori, con i debitori e con il personale dipendente, dando finanche prova di aver posto in essere operazioni pienamente conformi all'oggetto sociale, sia pur sempre avendo in adeguato conto i rischi connessi alla singola attività imprenditoriale.

In tal senso, e riprendendo quanto detto supra, spetterà all’imprenditore inadempiente provare che l’inadempimento sia dipeso da causa a lui non imputabile (intesa quale fatto negativo consistente nell’assenza di dolo o di colpa), ed inoltre provare che l’inadempimento è dipeso – come effetto da causa – dalla presenza di un fatto positivo (nel caso di specie l’inadempimento da parte di terzi soggetti che ha reso impossibile il proprio regolare adempimento) anch’esso a lui non imputabile.

Tutti gli elementi appena elencati dovrebbero formare oggetto di valutazione da parte del Tribunale in sede di istruttoria prefallimentare, ciò specie sulla scia del rilievo che le modifiche apportate dalla novella legislativa, in particolare all’art. 15 L.F., hanno via via trasformato tale fase preliminare in un autentico giudizio “a cognizione piena”, ove vige il diritto di difesa del debitore ed il diritto alla prova, realizzandosi lo stesso nel contraddittorio tra le parti[18].

Inoltre, va evidenziata la circostanza che mentre prima l’iniziativa volta all’accertamento dello stato di insolvenza poteva avvenire, oltre che ad iniziativa del debitore e del P.M., anche ex officio[19], oggi, a seguito della riforma, l’iniziativa spetta al ceto creditorio, con l’inevitabile conseguenza che se sono i creditori a stabilire la ricorrenza dell’insolvenza, allora il debitore dovrà essere messo nella condizione di replicare e difendersi adeguatamente.

In realtà, a ben riflettere, va osservato come il ruolo lasciato dall’art. 6 L.F. nella sua attuale formulazione alla richiesta del Pubblico Ministero, se non opportunamente interpretato ed incanalato, non si discosti poi così tanto, quanto a funzioni e ratio, dall’originario potere d’iniziativa del Tribunale d’ufficio. Occorre infatti precisare che è necessario rinchiudere detto potere del P.M. entro i ristretti margini delle indagini penali, onde consentire la richiesta di fallimento da parte del P. M. laddove lo stesso, nello svolgere la propria attività a seguito di una notizia di reato e ferma l’obbligatorietà della propria azione, venga a conoscenza dell’esistenza dei presupposti per il fallimento di un’impresa in connessione ad ipotesi di reato. Questo giacché, si precisa, essendo come anzidetto il fallimento una scelta del ceto creditorio, ben potrebbe accadere che per ragioni imprecisate o non meglio note, siano gli stessi creditori a non voler veder fallire un imprenditore.

Da quanto appena affermato e dedotto ne discende dunque che ben venga anche la richiesta da parte del P.M., laddove però la stessa avvenga, come anzidetto, all’interno di indagini dallo stesso svolte e sia in posizione di connessione con le fattispecie penali per cui il P.M. procede; infatti, diversamente opinando, si correrebbe il rischio che l’iniziativa del Pubblico Ministero mascheri una sorta di iniziativa “d’ufficio”, mescolandosi così con le antiche radici.

Non può mancarsi, infine, di sottolineare che, proprio nell’ottica di assicurare misure di sostegno in favore delle imprese, vanno lette le recenti misure adottate dall’ABI a causa del perdurare della difficile congiuntura economica in cui versa il Paese[20].

L'adozione di simili provvedimenti dovrebbe far riflettere, e non poco, sulla necessità di innovare, rectius svecchiare, il concetto di "stato d'insolvenza" – sinora considerato meramente quale fatto proprio e non derivato -, mettendo al sicuro dal fallimento così, tutte le imprese che abbiano utilizzato tutti gli strumenti idonei a scongiurare l'inadempimento ma che, nonostante ciò, si siano rese inadempienti.

Quanto appena affermato va letto non solo alla luce delle recenti disposizioni dell' ABI per l'ausilio alle PmI, quanto piuttosto anche tenendo in considerazione le cause che hanno contribuito a determinare l'insolvenza dell'imprenditore.

Ed infatti, proprio alla luce del disposto su richiamato di cui all'art. 1218 c.c. ed anche e soprattutto a seguito delle riforme che hanno interessato la materia negli ultimi anni, l'elemento soggettivo della volontà di adempiere va posto in primo piano, ciò anche in considerazione del fatto che nella nuova disciplina del concordato preventivo è possibile ricorrere a tale procedura concorsuale non solo in caso di “stato di crisi”[21] ma anche allor quando sussista uno stato d'insolvenza[22].

Tuttavia non può mancarsi di osservare l’esistenza di orientamenti piuttosto conservatori sul concetto di stato di insolvenza, che partono dal granitico assunto per cui ai fini della dichiarazione di fallimento, il giudizio prescinde dalle cause che hanno determinato l’insolvenza.

In tal senso si è novellamente espressa la Cassazione di recente, ritenendo irrilevante, ai fini della valutazione condotta dal Tribunale in sede prefallimentare, la circostanza che l’attività di un’impresa fosse stata ridimensionata a seguito di un sequestro, disposto illegittimamente dall’autorità giudiziaria[23].

Ed ancora la stessa Corte ha avuto modo di affermare che “lo stato di insolvenza dell'imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione di impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessaria alla relativa attività, mentre resta, in proposito, irrilevante ogni indagine sull'imputabilità, o non, all'imprenditore medesimo delle cause del dissesto, ovvero sulla loro riferibilità a rapporti estranei all'impresa, così come sull'effettiva esistenza ed entità dei crediti fatti valer nei suoi confronti[24]. Parrebbe, dunque, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, radicata l’opinione secondo cui l’intentio legis del legislatore del ’42 fosse stata quella di dare un mero rilievo oggettivo ai fatti che manifestano esteriormente la situazione di crisi irreversibile dell’impresa, senza considerare in modo alcuno circostanze diverse, qual è appunto l’inadempimento per causa di un terzo soggetto e, dunque, non imputabile al debitore.

Ciò che, al contrario, occorre affermare è che, specie alla luce delle riforme che hanno interessato la legge fallimentare, il concetto di insolvenza non può più essere considerato quale concetto assoluto, statico, quale sicura anticamera dell’inevitabile fallimento, bensì esso si identifica in un concetto relativo che tenga sapientemente conto della capacità dell’impresa, dell’imprenditore e, quindi, anche della recuperabilità dei crediti.

Del resto in una riflessione sul mutamento a cui è pervenuto il concetto di insolvenza, non può non aversi in adeguato conto la circostanza che le riforme dell’ultimo decennio hanno radicalmente inciso non solo – e non tanto – sulle singole disposizioni della vetusta legge, bensì sono intervenute a modificarne i tessuti e la struttura, creando finanche non pochi problemi interpretativi.

Primo tra tutti quello, a cui si accennava poc’anzi, della contraddizione lapalissiana e quasi tangibile che esiste tra il primo comma dell’art. 5 L.F. ed il disposto di cui all’ultimo comma dell’art. 160 L.F., o, per meglio dire tra la perentorietà dell’incisiva affermazione della prima e antecedente disposizione – “L'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza è dichiarato fallito” – e l’elasticità della seconda – “Ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”.

Da quanto appena asserito ne discende che lo stato d’insolvenza, dunque, non è più – o, comunque non solo – presupposto unicamente della dichiarazione di fallimento, ben potendo, come disposto dall’art. 160 succitato, dar luogo anche al concordato preventivo.

Ciò è la riprova più attendibile della relatività di cui si connota e caratterizza il concetto di insolvenza che, lo si rammenta, non può sussistere laddove vi sia la recuperabilità dei crediti.

Pertanto, va in questa sede osservato come a ben riflettere il concetto d’insolvenza possa assumere caratteri diversi a seconda della procedura concorsuale in cui lo stesso si appalesi. Qualcuno[25] ha finanche parlato di una “insolvenza buona”, ovvero caratterizzata da possibilità di reversibilità – com’è nel caso dell’amministrazione straordinaria – e di un’ “insolvenza cattiva”, dunque irreversibile.

Sapientemente poi Autorevole dottrina[26] ha osservato al riguardo che “Le procedure concorsuali di cui lo stato d’insolvenza sia il presupposto, non trovano un limite alla loro operatività in quello stato, che può abbracciare ipotesi tra loro disparate, ma nella reale situazione aziendale e negli strumenti che la legge a ciascuna procedura concorsuale fornisce”.

In considerazione, dunque, della sempre maggior rilevanza che il legislatore delle riforme ha inteso dare ai crediti d’impresa, non si comprende poi la ragione per cui le regole civilistiche non possano trovare applicazione nel caso di inadempimento – poi divenuto insolvenza – per causa non imputabile all’imprenditore – debitore ma discendente a sua volta dall’inadempimento di terzo soggetto.

In conclusione può osservarsi che, alla luce di tutto quanto sin qui dedotto, allor quando l’imprenditore dimostri di avere svolto il proprio operato con diligenza e dunque sia esente da qualsivoglia forma di responsabilità per la gestione dell’impresa - e ciò venga accertato anche in sede di istruttoria prefallimentare -, anche laddove sussistano degli obiettivi inadempimenti a lui non imputabili, non vi sarà insolvenza, ergo non vi sarà fallimento.

L’effetto di tale nuova concezione è dunque un restringimento delle maglie del fallimento ma non solo; infatti un mutamento della nozione di insolvenza in senso maggiormente garantista per l’impresa e per l’imprenditore, renderebbe auspicabile un cambiamento dei sistemi e della struttura della liquidazione volontaria che, anche a seguito della riforma del diritto della crisi dell'impresa, è sempre maggiormente diretta, nel periodo di graffiante crisi dell'economia che stiamo vivendo, ad anticipare le scelte per evitare il fallimento .

Auspicabile resta dunque un intervento legislativo atto ad incidere sulla liquidazione volontaria, così che anche nell’ipotesi in cui la stessa liquidazione volontaria conduca alla sospensione delle esecuzioni coattive, il liquidatore volontario proceda alla liquidazione secundum legem, ovvero sia nel rispetto della par condicio credito rum che dei criteri di riparto.

Interessante segnalare in tema di verificarsi di una causa di scioglimento con conseguente liquidazione della società, l’opinione di chi[27] ha affermato che “lo stato di liquidazione produce effetti anche ai fini dell’accertamento dello stato d’insolvenza”, ciò in quanto “l’impresa in liquidazione ha come unico scopo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori e alla distribuzione dell’eventuale residuo ai soci, previa realizzazione delle attività sociali[28]. Di conseguenza “non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse e, quindi, di liquidità necessari per soddisfare le obbligazioni contratte[29]. Da quanto appena affermato e dedotto ne discende, nel senso avallato dall’interpretazione della Cassazione[30], che dovrebbe dunque escludersi la sussistenza dell’insolvenza di una società in liquidazione allorquando l’attivo patrimoniale, benché illiquido e dunque immobilizzato, sia comunque superiore al passivo della stessa[31] con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di ricorrenza dei presupposti e applicabilità dell’art. 5 L.F.

Va in ogni caso osservato che l'esigenza di trovare una soluzione al dilagante problema sociale del diffondersi di situazioni finanziarie per così dire "patologiche"[32], sembra aver trovato una concreta risposta, almeno parziale, nella L. 3 del 2012 recante "Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonchè di composizione delle crisi da sovraindebitamento", successivamente integrata e parzialmente novellata dal cd. Decreto crescita bis[33].

L'idea di fondo del Legislatore è stata quella di prevedere uno strumento per offrire, ai soggetti non fallibili in quanto espressamente esclusi dall'art. 1 L.F., la possibilità di concordare con i creditori un piano di ristrutturazione dei debiti con conseguente esdebitazione del soggetto in crisi e soddisfazione dei creditori[34].

Per sovraindebitamento, nel testo legislativo come integrato dal decreto crescita bis, si intende quella "situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte ed il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni ovvero la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente"[35].

Ciò che deve far riflettere è l'inciso aggiunto dalla novella apportata con legge di conversione 221 del 2012, " ovvero la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente" , giacché tale carattere di definitività può, piuttosto univocamente, essere ricondotto all'alveo dell'insolvenza fallimentare.

Un’aggiunta, quest’ultima, di non poco conto che va interpretata nel senso di un’apertura del legislatore della riforma verso nuove e più ampie prospettive per il ricorso al sovraindebitamento.

Attraverso il procedimento di sovraindebitamento[36], che si sviluppa sotto l'egida dell'autorità giudiziaria che dovrà omologare l'accordo - esercitando per tal via poteri analoghi a quelli a lei riservati nello strumento concordatario - e con l'ausilio di un organismo di composizione della crisi istituito ad hoc dalla novella, si giunge alla finale esdebitazione del soggetto in crisi[37].

La novella del 2012 ha assimilato ai soggetti esclusi ex art. 1 L.F.[38] finanche il consumatore[39] al quale è riservato un iter di composizione della crisi parzialmente differente rispetto a quello previsto per il debitore - imprenditore, dovendo predisporre un piano - e non un accordo come nel caso dell'imprenditore - che si evolva in un regolamento negoziale dei propri debiti, che andrà sottoposto, in ogni caso, al Tribunale per l'omologazione.

Occorre inoltre evidenziare in questa sede che l'originaria previsione normativa di cui alla l. n. 3/2012 prevedeva che dall’omologazione seguissero effetti sospensivi ed inibitori delle azioni esecutive, dei sequestri e dell’acquisizione di titoli di prelazione efficaci sino ad un anno dalla data di omologazione[40] (art. 12, co. 3, della legge).

Tuttavia, con la successiva novella, è stata introdotta l'obbligatorietà dell’accordo omologato per tutti i creditori anteriori al momento in cui è stata eseguita la pubblicità della proposta e del decreto di fissazione dell’udienza ex art. 10, co. 2. Ai creditori con causa o titolo posteriore, inoltre, è fatto divieto di procedere esecutivamente sui beni oggetto del piano, il che comporta che il piano descriva tali beni con sufficiente precisione.

Tanto basti per comprendere in primis la sensibilizzazione del legislatore - sulla scia dell’esempio di altri paesi europei - per iniziare a colmare il vuoto normativo che affligge l’insolvenza ed in secundis la necessità di ampliare ulteriormente il novero del soggetti "insolventi", rectius, inadempienti, che possono fare ricorso alla procedura di sovraindebitamento, sino, dunque, a ricomprendervi quegli imprenditori inadempienti che, come ampiamente esposto nella narrativa che precede, indipendentemente dalla qualifica rivestita e, dunque a prescindere dalla loro appartenenza ai soggetti indicati dall’art. 1 L.F., si trovino per cause a loro non imputabili, in condizioni di impossibilità ad adempiere con regolarità alle obbligazioni contratte.

Da tutto quanto sin qui esposto ed evidenziato ne deriva l'apertura di una vera e propria "nuova frontiera dell'insolvenza", ovvero l'ampliamento della possibilità di fare ricorso al sovraindebitamento anche agli imprenditori che, com'è sovente negli scambi commerciali, versino in condizioni di difficoltà economica e che, a causa dell'inadempimento - a loro non imputabile - di soggetti terzi con cui intreccino rapporti lavorativi (basti ad esempio in questa sede ricordare le innumerevoli imprese che lavorano con lo Stato o con le Amministrazioni pubbliche e locali, note per il ritardo nei pagamenti), si trovino in difficoltà ad adempiere con regolarità alle obbligazioni contratte.



[1] Cfr. Schiano Di Pepe, Il diritto fallimentare riformato, Cedam, Padova, 2007, pp. 15 e ss.

[2] Ex multis: Cass.13 marzo 2001, n.115; Cass.20 giugno 2000, n.8374.

[3] Sul punto vd. Jorio Alberto, Il nuovo diritto fallimentare, Commento al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, Zanichelli editore, pp. 95 e ss.

[4] Cfr. Vassalli, Diritto fallimentare, I, Torino, 1994, pp.78 e ss.

[5] Cass. 27.02.2001, n. 2830, in Mass. Foro it., 2001 e Cass. 28.04.2001, n. 4455, ibidem.

[6] Vd. SATTA, Diritto fallimentare, II ed., Cedam, Padova, 1990.

[7] Cfr. Vassalli, op.cit., pp. 83 e ss.

[8] Cfr. BONFATTi, op. cit., pp. 25 e ss.

[9] M. Sandulli, La crisi dell'impresa. Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Giappichelli ed., Torino, 2009.

[10] Cfr. S. Fortunato, Crisi dell'impresa o fallimento dell'imprenditore? articolo consultabile al sito http://www.academia.edu/1592166/S. _Fortunato_Fallimento _dellimprenditore_o_crisi_dellimpresa

[11] Ed infatti, il codice civile definisce l'imprenditore e l'azienda ma non l'impresa la cui nozione è da sempre ricavata da quella di imprenditore. Secondo l'art.2082 del codice civile, "è imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi". Laddove, l'art. 2555 del codice civile, definisce espressamente l'azienda come " il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa".

[12] Cfr. op.ult.cit.

[13] La norma testualmente prevedeva: “Il commerciante che cessa di fare i suoi pagamenti per obbligazioni commerciali è in stato di fallimento”.

[14] Cfr. in tal senso BOLAFFIO, Del fallimento, Torino, 1942, pp. 14 e ss. Contra: G. Bonelli, Del fallimento, n Bensa, Bonelli, Brunetti, Commentario al Codice del Commercio, I, Milano, 1936, pp. 61 e ss,

[15] Cfr. quanto detto amplius supra a pag. 1 del presente scritto.

[16] Sull’inadempimento in generale v. VISINTINI, in Enc. Giur. Treccani, voce ‘Inadempimento’; VISINTINI, L’inadempimento delle obbligazioni, in Rescigno, Trattato di diritto civile, IX, Torino, 1984; GIORGIANNI, L’inadempimento, Milano, 1975; CEPPI, Adempimento dell’obbligazione e regole di correttezza, in Rass. Giur. Umbra, 1997, 404; COLLURA, Importanza dell’inadempimento e teoria del contratto, Milano, 1992; SACCO, Concordanze e contraddizioni in tema di inadempimento contrattuale (una veduta d’insieme), in Europa e dir. Priv. 2001, 131.

[17] In particolare in tema di impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore v. MENGONI, Responsabilità contrattuale (dir. Vig.), in Enc. Dir. XXXIX, Milano, 1989, 1072; nonché PERLINGERI, Dei modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento, in Scialoja – Branca, Comm. Cod. Civ., Bologna – Roma, 1975.

[18] Sul punto per maggiori approfondimenti cfr. C. Cass., sez I civ., 12.10.2004, n. 20116.

[19] La soppressione del fallimento d’ufficio rappresenta il punto di arrivo di tutta una serie di ampi dibattiti dottrinari e giurisprudenziali relativi alla sua illegittimità costituzionale, tant’è che arduo compito della Consulta di legittimità è stato proprio quello di risolvere i molteplici contrasti che si rinvenivano tra la previsione della dichiarabilità d’ufficio del fallimento e l’art. 111 Cost. (in tal senso v. ord. Cost. 26.7.2002, n. 411; sent. Cost. 15.07.2003, n. 240; nonché in relazione alle censure d’illegittimità sollevate v. anche Cost. 23.12.2005, n. 460.).

[20] Ed infatti luglio 2013, l'ABI e le Associazioni delle imprese, hanno deciso di rinnovare le misure di sospensione e allungamento dei finanziamenti fino al 30 Settembre 2013. Si tratta di misure che consentono di fatto alle piccole e medie imprese che non hanno già usufruito di precedenti moratorie di sospendere il pagamento delle rate di mutui e leasing, di allungare la durata dei finanziamenti oppure di ottenere prestiti con finalità di aumento dei mezzi propri.

Con l’iniziativa in corso riguardante le "Nuove misure per il credito alle Pmi" di Febbraio 2012, le banche hanno sospeso 95.435 finanziamenti a livello nazionale, pari a 29,5 miliardi di debito residuo (in aggiunta ai 70 miliardi dell'Avviso comune) con una liquidità liberata di 4,1 miliardi (oltre ai 15 miliardi di euro con l’Avviso comune). Dati aggiornati al Maggio 2013. Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2013-07-01/nuovo-accordo-imprese-garantire-181921.shtml?uuid=AbcCdHAI. . In particolare gli interventi previsti dall'accordo sono:

A) OPERAZIONI DI SOSPENSIONE DEI FINANZIAMENTI

- sospensione per 12 mesi della quota capitale delle rate di mutuo e per 12 o 6 mesi della quota capitale prevista nei canoni di leasing "immobiliare" e "mobiliare".

B) OPERAZIONI DI ALLUNGAMENTO DEI FINANZIAMENTI

- allungamento della durata dei mutui e/o finanziamenti fino ad un massimo non superiore della durata residua o comunque di 3 anni per finanziamenti chirografari e 4 anni per quelli ipotecari;

- proroga fino a 270 giorni delle scadenze del credito a breve termine per esigenze di cassa (con riferimento all’anticipazione di crediti certi ed esigibili);

- allungamento per un massimo di 120 giorni delle scadenze del credito agrario di conduzione.

C) AUMENTO DI MEZZI PROPRI REALIZZATI DALL'IMPRESA

Per le imprese che avviano processi di rafforzamento patrimoniale le banche si impegnano a concedere un finanziamento proporzionale all’aumento dei mezzi propri realizzati dall’impresa.

Possono godere di queste agevolazioni le PMI di qualunque settore che:  

- hanno un numero di dipendenti a tempo indeterminato o determinato non superiore a 250 unità e un fatturato annuo minore di 50 milioni di euro (oppure un totale attivo di bilancio fino a 43 milioni di euro); - posseggono adeguate prospettive economiche e di continuità aziendale, nonostante le difficoltà finanziarie temporanee dovute all’attuale congiuntura negativa; - non hanno nei confronti della banca "sofferenze", "partite incagliate", "esposizioni ristrutturate" o "esposizioni scadute/sconfinanti" da oltre 90 giorni.

[21] In merito alla distinzione tra stato di crisi e stato d’insolvenza, inevitabilmente divenuta oggetto di dibattiti dottrinari e giurisprudenziali a seguito dell’ingresso nella legge fallimentare della nuova disciplina del concordato preventivo , di cui all’art. 160, come modificato ed integrato dal cd. Decreto Competitività del 2005, va precisato che tra i vari orientamenti vi è notevole contrasto. Ed infatti, mentre la dottrina ritiene che l’insolvenza sia solo un aspetto della crisi, di cui costituirebbe una delle manifestazioni più gravi; in giurisprudenza si ritiene che la crisi sia condizione diversa e più ampia dell’insolvenza, non esaurendosi in essa.

[22] V. amplius infra p. 14.

[23] Cfr. C. Cass. n. 9253 del 07.06.2012.

[24] Cfr. Cass. civ. , sez. I, sentenza 04.03.2005 n° 4789.

[25] Cfr. Castiello D’Antonio, Coordinamento dell’Amministrazione straordinaria con le altre procedure di crisi, in Bonfatti e Falcone (A cura di), La riforma dell’Amministrazione straordinaria, Roma, 2000, pp. 78 e ss.

[26] Cfr. M. Sandulli, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d'insolvenza, Torino, 2006.

[27] Cfr. Verna G. – Verna S., La liquidazione delle società di capitali, Padova, Cedam, 2009.

[28] Op. ult. Cit. pp. 12 e ss.

[29] Fimmanò – Esposito – Traversa, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, Milano, 2005, pp. 19 e ss.

[30] Cass. 11 maggio 2001, n. 6550, in Rep. Giur. It., 2001.

[31] V. nota 31.

[32] Ci si riferisce alle irregolarità, allo stato di crisi, sino a giungere all'insolvenza.

[33] D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in L. 17 dicembre 2012, n. 221.

[34] Al riguardo v. Terranova, La composizione della crisi da sovraindebitamento: uno sguardo d'insieme, in Composizione della crisi da sovraindebitamento, a cura di Di Marzio, Macario e Terranova, Officina del diritto. Il civilista, Milano, 2012, pp. 7 e ss.

[35] V. art. 2 L. 3 del 2012 recante "Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonchè di composizione delle crisi da sovraindebitamento", come integrato dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in L. 17 dicembre 2012, n. 221.

[36] In relazione al procedimento si v. amplius L. Panzani, Presidente del Tribunale di Torino, "La composizione della crisi da sovraindebitamento dopo il d.l. 179/2012", consultabile al sito http://www.treccani.it/magazine/diritto/approfondimenti/diritto_processuale_civile_e_delle_procedure_concorsuali/2_Panzani_sovraindebitamento_2.html, che con chiarezza espositiva, illustra l'iter procedurale. " La prima fase del procedimento, diretta ad instaurare il contraddittorio con i creditori, è regolata dall’art. 10 della legge. La proposta di accordo deve essere depositata presso il tribunale del luogo in cui si trova la residenza o la sede principale del debitore. Insieme alla proposta debbono essere depositati (art. 9): a) l’elenco di tutti i creditori, con l’indicazione delle somme dovute; b) l’elenco dei beni e degli eventuali atti di disposizione compiuti negli ultimi cinque anni, corredati delle dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni; c) l’attestazione sulla fattibilità del piano; d) l’elenco delle spese correnti necessarie al sostentamento del debitore e della sua famiglia, previa indicazione della composizione del nucleo familiare corredata del certificato dello stato di famiglia. La presentazione della proposta determina l’apertura di un procedimento affidato al giudice monocratico, regolato dagli artt. 737 ss. c.p.c. Contro i provvedimenti del giudice monocratico è ammesso reclamo, di competenza dello stesso tribunale in composizione collegiale, di cui non può far parte il giudice che ha pronunciato il provvedimento. Il giudice, se la proposta soddisfa i requisiti previsti dagli artt. 7, 8 e 9 in ordine ai presupposti di ammissibilità ed ai presupposti soggettivi ed oggettivi, fissa con decreto udienza avanti a sé, disponendo la comunicazione ai creditori del decreto e della proposta.

Con il decreto il giudice dispone idonea forma di pubblicità della proposta e del decreto. Nel caso in cui il proponente svolga attività d’impresa dovrà inoltre essere disposta la pubblicazione su apposita sezione del registro delle imprese. Ancora il giudice ordina, ove il piano preveda la cessione o l’affidamento a terzi di beni immobili o di beni mobili registrati, la trascrizione del decreto, a cura dell’organismo di composizione della crisi, presso gli uffici competenti. Infine dispone che, sino al momento in cui il provvedimento di omologazione diventa definitivo, non possono, sotto pena di nullità, essere iniziate o proseguite azioni esecutive individuali né disposti sequestri conservativi né acquistati diritti di prelazione sul patrimonio del debitore che ha presentato la proposta di accordo, da parte dei creditori aventi titolo o causa anteriore. La sospensione non opera nei confronti dei titolari di crediti impignorabili. È da ritenere che la norma si applichi anche alle azioni promosse in pendenza del divieto. Il legislatore non menziona – con ciò escludendoli dall’ambito della protezione – i sequestri giudiziari e penali e le altre misure cautelari, invece contemplati negli artt. 168 e 182-bis l. fall. L’ambito di protezione è dunque più ristretto. Per tutto il periodo di sospensione le prescrizioni rimangono sospese e le decadenze non si verificano (art. 10, co. 4). Il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive riguarda soltanto quelle individuali, con la conseguenza che è pur sempre possibile proporre istanza di fallimento. Il divieto impedisce anche di richiedere sequestri conservativi e di acquistare diritti di prelazione sul patrimonio del debitore da parte dei creditori aventi titolo o causa anteriore. Il legislatore non ha richiamato l’eccezione al divieto prevista in tema di accordi di ristrutturazione nel caso in cui il titolo di prelazione sia concordato. Il divieto, peraltro, riguarda i crediti per titolo o causa anteriore, sì che sarà legittima la concessione di titoli di prelazione a fronte di futuri finanziamenti destinati a fornire la provvista per l’esecuzione del piano. Va anzi osservato che ai sensi dell’art. 12, co. 5, modificato dalla legge di conversione del d.l. n. 179/2012, a seguito della sentenza che dichiara il fallimento, i crediti derivanti da finanziamenti effettuati in esecuzione o in funzione dell’accordo omologato sono prededucibili a norma dell’articolo 111 l. fall. Va poi osservato che il legislatore, diversamente da quanto previsto dall’art. 182 bis, ha anche opportunamente precisato che il divieto è sancito a pena di nullità. Ne deriva che anche nel caso in cui la proposta non vada a buon fine e non venga omologata, gli atti di esecuzione, i sequestri ed i titoli di prelazione acquisiti nonostante il divieto rimarranno improduttivi di effetti. La sospensione opera una volta sola anche nel caso di successive proposte di accordo. A decorrere dalla data del decreto e sino alla data di omologazione dell’accordo gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti senza l’autorizzazione del giudice sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori al momento in cui è stata eseguita la pubblicità. Il decreto è equiparato all’atto di pignoramento. Va anche osservato a tale proposito che il legislatore non ha disciplinato l’eventualità che il giudice non ritenga soddisfatti i requisiti della proposta, sicché, è incerto se in tale evenienza egli possa concludere il procedimento con un decreto di inammissibilità della proposta stessa. All’udienza il giudice, accertata la presenza di iniziative o atti in frode ai creditori, dispone la revoca del decreto e ordina la cancellazione della trascrizione dello stesso, nonché la cessazione di ogni altra forma di pubblicità disposta (è evidente il richiamo alla fattispecie in tema di concordato preventivo regolata dall’art. 173 l. fall., ma va anche ricordata la disciplina dell’annullamento dell’accordo regolata dall’art. 14, co. 1, della legge). La votazione dei creditori avviene fuori dal tribunale. I creditori dovranno far pervenire le dichiarazioni di consenso all’organismo di composizione della crisi per telegramma, lettera raccomandata con avviso di ricevimento, telefax, posta elettronica certificata. Non sono legittimati a votare i creditori privilegiati di cui è previsto il pagamento integrale, salvo il caso di rinuncia al privilegio. Non hanno diritto di esprimersi sulla proposta e non sono computati ai fini del raggiungimento della maggioranza il coniuge del debitore, i suoi parenti e affini fino al quarto grado, i cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un anno prima della proposta. Il legislatore non dice se hanno diritto di voto i titolari di crediti impignorabili che pure debbono essere soddisfatti integralmente (art. 12, co. 2). La ratio legis porta a ritenere che tali creditori non possano essere ammessi al voto, essendo comunque garantita la loro soddisfazione. L’accordo è approvato se raggiunge la maggioranza del 60% dei crediti. Il d.l. n. 179/2012 ha ridotto la percentuale del 70% prevista dalla l. n. 3/2012 troppo elevata, che rendeva di fatto impossibile il ricorso alla nuova procedura. Va sottolineato che per effetto delle modifiche introdotte dal d.l. n. 179/2012 è ora previsto il meccanismo del silenzio-assenso. L’art. 11, co. 1, prevede che i creditori debbano far pervenire entro il termine di dieci giorni prima dell’udienza le dichiarazioni di consenso. In difetto si ritiene che abbiano prestato consenso alla proposta nei termini in cui è stata loro comunicata ( così testualmente la norma). Nel termine di dieci giorni dovranno pertanto pervenire le dichiarazioni di voto, dovendosi anzi osservare che questa è l’unica sede in cui il creditore può far valere il proprio voto contrario. Il legislatore ha opportunamente precisato che l’accordo non determina la novazione delle obbligazioni, salvo che sia diversamente stabilito (art. 11, co. 4, della legge). Quando l’accordo è raggiunto l’organismo di composizione della crisi trasmette ai creditori una relazione sui consensi espressi e sul raggiungimento della percentuale richiesta per l’approvazione, allegando il testo dell’accordo. Nei dieci giorni dal pervenimento della relazione i creditori possono sollevare contestazioni. Decorso il termine l’organismo di composizione della crisi trasmette al giudice la relazione già inviata ai creditori, allegando le contestazioni ricevute e l’attestazione definitiva sulla fattibilità del piano. Il giudice deve verificare il raggiungimento dell’accordo con la percentuale di legge e l’idoneità’ del piano ad assicurare il pagamento integrale dei crediti impignorabili, nonché dei crediti tributari e deve risolvere ogni altra contestazione mossa dai creditori. In particolare quando uno dei creditori che non ha aderito o che risulta escluso o qualunque altro interessato contesta la convenienza dell’accordo, il giudice lo omologa se ritiene che il credito può essere soddisfatto in misura non inferiore a quanto il creditore riceverebbe nel caso in cui si facesse luogo alla liquidazione. Non è previsto che le parti abbiano diritto a comparire ed ad essere sentite dal giudice né che sia garantito il diritto al contraddittorio (...omissis...).

[37] Cfr. amplius,Diego Manente, Gli strumenti di regolazione delle crisi da sovraindebitamento dei debitori non fallibili, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali,, n. 5, settembre-ottobre, 2013, Cedam, Padova, 2013, pp. 558 e ss.

[38] Per meglio specificare possono accedere alla procedura di sovraindebitamento l' imprenditore commerciale sotto-soglia ovvero l' imprenditore non commerciale o il soggetto che non sia imprenditore. Va in ogni caso opportunamente rammentato che non vi sono ostacoli anche per l’imprenditore non più fallibile per decorso dell’anno ex art. 10. l.fall.

[39] Si evidenzia che per quanto concerne la definizione di consumatore utilizzata dal disposto legislativo in esame si è fatto integralmente richiamo a quella fornita dall'art. 3 del codice del consumo; per "consumatore" si intende, quindi, persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. Va inoltre al riguardo opportunamente rammentato che l’art. 1, co. 2, lett. b), del d.l. 212/2011 forniva una definizione di "sovraindebitamento del consumatore", che era utilizzata al fine di ridurre la percentuale di creditori necessaria per l’omologazione dell’accordo dal 70% dei crediti al 50%. La successiva previsione della l. n. 3/2012, poi, alcun cenno faceva alla figura del consumatore, rivolgendosi a tutti i soggetti non fallibili, indipendentemente dalla loro qualità di consumatori. Il d.l. n. 179/2012 ha poi reintrodotto la specifica procedura del «piano del consumatore» riservata al consumatore persona fisica per i soli crediti sorti per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. In caso di attività mista dovrà dunque farsi ricorso alla procedura di accordo prevista per il debitore non consumatore.

[40] V. art. 12, co. 3 l. 3/2012.


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