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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 01/11/2013 Scarica PDF

Il sequestro e la confisca per equivalente

Gabriella Maria Casella e Corinna Forte, Magistrati


Sommario: 1. Il sequestro e la confisca cd. per equivalente: natura giuridica e casistica. - 2 La confisca cd. per equivalente: elementi di diritto comparato. - 3 Il sequestro e la confisca cd. per equivalente nel sistema delle misure di prevenzione: profili strutturali e sostanziali. - 4. (Segue) In particolare, l’applicabilità della confisca per equivalente nei confronti degli eredi del soggetto proposto deceduto. - 5 (Segue) In particolare, l’applicabilità della confisca per equivalente al di fuori delle ipotesi di elusione dei provvedimenti di sequestro.

 

 

1. La formulazione del previgente articolo 2 ter comma 10 della legge 31 maggio 1975, n.575, come modificato dalla legge n. 125/08 mediante l’introduzione, anche nel sistema delle misure di prevenzione, dell’istituto - già normativamente previsto per taluni reati di parte speciale e poi esteso anche alle ipotesi di confisca cd. allargata di cui all’articolo 12 sexies della legge n. 356/92 - del sequestro e della confisca per equivalente, è pedissequamente riportata nell’articolo 25 del decreto legislativo in analisi.

Detta norma disciplina tale ipotesi ablativa, residuale rispetto al sequestro e alla confisca tradizionali di prevenzione, ammettendola esplicitamente allorché ricorrano due serie specifiche di ipotesi fattuali: qualora, vale a dire, il soggetto nei cui confronti è proposta la misura di prevenzione disperda, distrugga, occulti o svaluti i beni al fine di eludere l’esecuzione dei provvedimenti di sequestro e confisca, ovvero qualora i beni oggetto di sequestro non possano essere confiscati in quanto trasferiti legittimamente, prima dell’esecuzione del sequestro, a terzi in buona fede.

La ratio di questa disposizione sembra essere, quindi, quella di prevenire i comportamenti del proposto volti a impedire od ostacolare la confisca attraverso la minaccia della confisca di altri beni di valore equivalente, oppure comunque quella di garantire che in ogni caso si realizzi la confisca dei cespiti patrimoniali in misura equivalente al patrimonio di accertata origine illecita.

Dunque, presupposti generali sono la pendenza di una proposta per l’applicazione di misure di prevenzione, l’emissione di un provvedimento interinale di sequestro di prevenzione e il raggiungimento - sia pure in via incidentale - di un convincimento del giudice procedente circa la possibilità di formulare un giudizio di pericolosità sociale qualificata nei confronti del soggetto proposto.

Trattandosi di una forma aggiuntiva e, come si è detto, residuale di confisca, affinché la stessa operi risulta indispensabile che ricorrano già i requisiti personali e patrimoniali che la legge individua come funzionali all’emissione del provvedimento ablativo qualificato come paradigmatico e generale dal Legislatore, ovvero quelli già descritti in relazione agli strumenti di intervento patrimoniale ordinario (sequestro e confisca di prevenzione di cui agli articoli 20 e 24 del testo in analisi).

La confisca per equivalente, fin dal momento della sua prima introduzione nel vigente ordinamento penale, avvenuta con la novella attuata dalla legge n. 300 del 29 settembre 2000 mediante l’inserimento dell’articolo 322 ter del codice penale[2] in tema di delitti contro la P.A., è apparsa come istituto connotato, in relazione al profilo della natura giuridica, da differenze significative rispetto al suo archetipo codicistico di cui all’art. 240 c.p.[3]: essa, infatti, proprio in quanto presuppone l’elisione del rapporto di pertinenzialità tra il bene e il reato, nonché il correlativo superamento della nozione di pericolosità intrinseca del bene che ne giustifica l’ablazione statuale, si presenta come espressione di una funzione afflittiva e general-preventiva del tutto dissimile rispetto alle finalità squisitamente special-preventive, connesse alla pericolosità del singolo bene, proprie della tradizionale confisca disciplinata dalla normativa antimafia. Non a caso, infatti, la confisca per equivalente è stata definita in giurisprudenza come una “forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti[4].

Si è anche autorevolmente sostenuto[5] che la confisca per equivalente svolga una funzione residuale, completando il sistema, e assuma al tempo stesso una natura compensativa presso lo Stato dei profitti procurati con i reati.

Tanto ha giustificato l’orientamento ermeneutico[6] volto a riconoscere alla citata confisca natura di sanzione penale, con la conseguente operatività nei suoi confronti della regola codicistica dell’irretroattività; di segno opposto è la tesi secondo la quale la confisca per equivalente andrebbe, al contrario, qualificata come una misura di sicurezza, dal che discenderebbe l’applicabilità alla stessa dei principi di cui all’art. 200 c.p.[7]

Di recente la giurisprudenza di legittimità pare orientata verso il riconoscimento della natura sanzionatoria dell’istituto[8]: in tema di reati tributari, si è, infatti, osservato che la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto di confisca per equivalente, unitamente all’assenza di un “rapporto di pertinenzialità” (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, conferiscono all’indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura “eminentemente sanzionatoria”, che impedisce l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell’articolo 200 c.p., secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione e possono essere, quindi, retroattive[9].

È evidente che tale interpretazione dovrà necessariamente essere coordinata con la tesi ormai prevalente in giurisprudenza[10] secondo la quale, nella specifica materia delle misure di prevenzione, si tende a riconoscere alla confisca natura di misura di sicurezza atipica, strutturandola quale istituto che non possiede né il carattere sanzionatorio di natura penale, né quello dei provvedimenti di prevenzione in senso stretto, essendo, invece, riconducibile a una sanzione amministrativa equiparabile, quanto al contenuto e agli effetti, alla misura di sicurezza di cui all’articolo 240 comma 2 c.p.

Va peraltro chiarito che ancora più recentemente la Suprema Corte in tema di misure di prevenzione patrimoniali ha affermato in maniera netta che la confisca per equivalente assume i tratti distintivi di una vera e propria sanzione, tale da impedire l’applicabilità a essa del principio generale della retroattività delle misure di sicurezza sancito dall’art. 200 c.p.; nel caso in esame, la S.C. ha ritenuto che siffatta natura sanzionatoria discenda dalla confiscabilità di beni che, oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, neppure hanno collegamento dell’attività criminosa, anche di fronte all’impossibilità di aggredire l’oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento[11].

Al contrario, in riferimento alla confisca di cui all’articolo 12 sexies della legge n. 306/92, ipotesi per la quale, come si vedrà, il Legislatore ha introdotto recentemente la possibilità di procedere alla confisca per equivalente, la giurisprudenza di legittimità[12] ha affermato in maniera esplicita che la misura in questione ha natura non già di sanzione penale accessoria, bensì di misura di sicurezza patrimoniale atipica, anche con funzione dissuasiva.

Quanto al sequestro funzionale alla confisca per equivalente, comunemente lo stesso viene inserito nell’ambito del genus del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, previsto dall’articolo 321 comma 2 c.p.p., che costituisce figura specifica e autonoma, nonché rimedio distinto, rispetto al sequestro preventivo cd. tipico, regolato dal primo comma del citato articolo e fondato sulla circostanza che la libera disponibilità della cosa possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati.

La giurisprudenza[13] ha precisato che, ai fini del sequestro funzionale alla confisca, è sufficiente, quanto al presupposto del cd. periculum in mora, che il bene sia confiscabile, non essendo necessario verificare una prognosi di pericolosità connessa alla libera disponibilità delle cose stesse le quali, proprio perché di per sé confiscabili, sono obiettivamente pericolose, indipendentemente dal fatto che si versi in ipotesi di confisca obbligatoria o facoltativa.

Come accennato innanzi, l’area di operatività della confisca per equivalente, introdotta originariamente per taluni delitti contro la P.A., è stata ampliata in seguito anche in riferimento ad altre specifiche ipotesi criminose.

La scelta del Legislatore, operata da ultimo proprio con la legge in commento, non è andata nel senso di volere inserire detta fattispecie quale istituto di carattere generale nella disposizione paradigmatica della confisca penale, vale a dire nell’articolo 240 c.p., bensì prevedendola, di volta in volta, in ordine a singole fattispecie delittuose di parte speciale[14], nonché, come si avrà modo di chiarire innanzi, in riferimento alle particolari ipotesi di confisca “allargata” di cui al citato articolo 12 sexies e di confisca di prevenzione.

Certamente rilevante appare, infatti, l’introduzione a opera dell’articolo 10 bis del d. l. 23 maggio 2008, n.92, convertito con modifiche in l. 24 luglio 2008, n. 125 (il cd. “Primo pacchetto sicurezza”), con il comma 2 ter dell’articolo 12 sexies della legge n. 356/92, della confisca per equivalente anche per tutti i delitti di cui alla citata disposizione, stabilendosi che “quando non è possibile procedere alla confisca in applicazione delle disposizioni sopra richiamate, il giudice ordina la confisca delle somme di denaro, dei beni e delle altre utilità delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona, per un valore equivalente al prodotto, profitto o prezzo del reato”.

L’estensione concerne le sole ipotesi di sequestro previste dal comma 2 dell’articolo 12 sexies e, quindi, quelle fondate su un “delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo”, nonché su “…un delitto in materia di contrabbando nel caso di cui all’articolo 295, secondo comma, del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1943, n.43”.

Dunque, nel vigente ordinamento giuridico, a parte i principali modelli tipici di sequestro previsti dal codice di rito penale, coesistono almeno tre tipologie ablative concorrenti: il sequestro e la confisca di prevenzione disciplinato dall’oggi abrogata legge n. 575/’65, che si caratterizzano per la natura ante causam dell’intervento e si fondano sulla provenienza illecita dei beni; il sequestro e la confisca ex art. 12-sexies della legge n. 356/’92, che si connotano per la natura post delictum dell’intervento e si basano sulla sproporzione tra posizione reddituale del reo e valore dei beni; il sequestro e la confisca “per equivalente”, ex art. 322-ter e 640-quater c.p., anch’essi caratterizzati dalla natura post delictum dell’intervento, ma discendenti dal modello tipico di reato presupposto e dall’inutile previo esperimento dell’aggressione dei beni costituenti il profitto o il prezzo di detto reato.

Il legislatore, con le diverse riforme succedutesi a partire dal 2008 e fino all’attuale decreto legislativo in commento, ha, invece, conservato tutte le predette figure tipiche optando, al contempo, per la singolare via dell’interferenza funzionale tra i differenti moduli ablativi.

Non sfugge il pericolo di possibili duplicazioni dell’intervento ablativo statuale, che, come si è visto, appare rimesso a una pluralità di moduli ancorati, talvolta, a presupposti oggettivi e soggettivi in larga parte sovrapponibili, con conseguente rischio di spreco di risorse e di formazione di giudicati contrastanti in ordine al medesimo bene sottoposto a vincolo.

Sotto altro profilo, non può non rilevarsi come anche la Corte Europea per i diritti dell’uomo, pur tenendo conto delle evidenti peculiarità delle misure prevenzionali, abbia in più occasioni affermato la conformità con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo della confisca antimafia disciplinata dalla legislazione speciale italiana, in quanto e nella misura in cui sia: prevista dalla legge; finalizzata a uno scopo legittimo, quale il contrasto alle organizzazioni criminali come la mafia; proporzionata allo scopo perseguito; imposta secondo un procedimento giurisdizionale[15].

Tutti presupposti la cui integrazione andrà criticamente valutata alla luce dell’entrata in vigore del Codice Antimafia.

 

2. Alla stregua di detta impostazione, nell’esperienza del nostro Paese la tradizionale confisca del profitto illecito, disciplinata come misura di sicurezza dall’art. 240 c.p., ha progressivamente assunto le vesti normative della più invasiva confisca-misura di prevenzione, intendendosi certamente inglobato, sotto tale denominazione, il protocollo operativo disciplinato dal testo di legge in commento, nonché il nuovo strumento penalistico della confisca “allargata”, disciplinato dall’art. 12-sexies del decreto legge n.306/’92 convertito in legge n. 356/’92. Come si è accennato, infatti, si tratta, in entrambi i casi, di interventi ablativi patrimoniali che, pur muovendo da differenti presupposti sostanziali e processuali, rivestono carattere spiccatamente sanzionatorio[16].

Analoghe opzioni normative è possibile, peraltro, rinvenire presso talune esperienze giudiziarie straniere che hanno visto introdurre, a opera dei singoli legislatori nazionali, peculiari modalità di sanzione patrimoniale rivestenti natura prettamente punitiva, in cui viene sacrificato il diritto individuale di proprietà per colpire il profitto derivante dal reato: si pensi, ad esempio, alla sanzione della Vermogensstrafe (pena patrimoniale), inserita nell’ordinamento tedesco nel 1992, accanto all’Erweiterter Verfall o acquisizione pubblica allargata, ovvero al civil forfeiture[17], particolare forma di confisca del bene in quanto contaminato dal reato, prevista nell’ordinamento statunitense, che prescinde sia dalla condanna del proprietario in sede penale che dalla sua eventuale colpevolezza e la cui adozione viene, pertanto, riservata ad autorità amministrative, come forma di contrasto statuale nello specifico settore del traffico delle sostanze stupefacenti.

In Francia è, invece, operativa la confiscation général, per i delitti connessi al traffico di sostanze stupefacenti, introdotta dalla legge 31 dicembre 1987 n. 1157 e recepita nel nuovo codice penale, all’articolo 222-49.

In Gran Bretagna sono in vigore i confiscation orders per il profitto del reato di traffico di stupefacenti (previsto dal Drug Trafficking Offences Act 1986) e per altri delitti, analiticamente individuati dal Criminal Justice Act 1988.

Trattasi, come si vede, pur sempre di modelli di intervento ablativo variegati e disomogenei, a seconda delle singole esperienze nazionali, in cui si oscilla da ipotesi in cui la sanzione patrimoniale non viene concepita come sanzione penale, ma viene irrogata in un procedimento di carattere amministrativo punitivo o civile (è il caso del civil forfeiture nordamericano, che dell’actio in rem costituisce il prototipo), a fattispecie di procedimento di confisca assolutamente autonomo rispetto al processo penale (come nei modelli fioriti nell’esperienza germanica), per giungere sino a ipotesi in cui il giudizio sul patrimonio si connota in termini di accessorietà rispetto al più complesso processo penale presupposto, dal quale si sgancia per ragioni di praticità (come avviene per il confiscation inglese o, secondo taluni autori, per la possibile applicazione della confisca ex art. 12-sexies l. 356/’92 in sede di esecuzione).

Come si vede, quindi, anche in altri ordinamenti - europei e non - è dato cogliere un’analoga linea di tendenza verso misure patrimoniali latu sensu sanzionatorie, che ricollegano alla qualifica di condannati per determinati reati (o anche prescindendo dall’avvenuta affermazione di colpevolezza, come nel diritto nordamericano) una presunzione di illecita accumulazione dei beni, nella consapevolezza che l’azione di contrasto alle grandi organizzazioni criminali non possa essere efficacemente condotta senza l’introduzione di fattispecie “a largo spettro”, che prescindano in tutto o in parte dalla prova del nesso pertinenziale tra profitto illecito e reato presupposto e comportino l’introduzione di agevolazioni o inversioni dell’onere della prova[18].

In sede comunitaria, deve osservarsi che la decisione quadro 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005, riguardante la confisca dei beni, strumenti e proventi di reato, impegna gli stati membri a prevedere i “poteri estesi di confisca” non soltanto con riferimento ai beni costituenti il provento delle medesime o di analoghe attività criminose della persona condannata, commesse durante un ragionevole periodo anteriore alla condanna, ma anche “quando si stabilisce che il valore del bene è sproporzionato al reddito legittimo della persona condannata e un giudice nazionale, sulla base di fatti circostanziati, è pienamente convinto che il bene in questione sia il provento di attività criminose della persona condannata, senza alcuna limitazione di ordine cronologico”.

Per quanto attiene al delineato sistema di contrasto ai patrimoni di illecita provenienza vigente nel nostro paese, peraltro, giova anche osservare che lo stesso non appare in contrasto con i principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 nella parte in cui si afferma testualmente che “i profitti smisurati che le associazioni di tipo mafioso traggono dalle loro attività illecite conferiscono loro un potere la cui esistenza mette in discussione il primato del diritto nello Stato. Così, i mezzi impiegati per combattere tale potere economico, in particolare la confisca in questione, possono risultare indispensabili ai fini di una lotta efficace contro le predette associazioni.

In particolare, il protocollo addizionale della citata Convenzione internazionale prevede, all'art. 1, che "ogni persona … ha diritto al rispetto dei suoi beni", con i limiti derivanti dalla possibilità di privare i cittadini della proprietà "per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale", garantiti dall’applicazione delle misure patrimoniali da un Tribunale, sulla base di disposizioni di legge per motivi assimilabili alla privazione per "pubblica utilità".

La compatibilità del meccanismo tratteggiato dal legislatore nazionale con i principi del diritto internazionale è stata in più occasioni sancita anche dalla Corte Europea[19]: in specie, si è affermato[20] che la confisca in questione è finalizzata a impedire un uso illecito e pericoloso per la società di beni la cui la provenienza legittima non è stata dimostrata; la conseguente ingerenza nel patrimonio del singolo cittadino è, quindi, finalizzata a uno scopo rispondente all' interesse generale[21].

Resta nondimeno da verificare, secondo la Corte, se questa ingerenza sia proporzionata allo scopo legittimo perseguito: al riguardo, si è sottolineato che la misura in esame rientra nel quadro di una politica di prevenzione del crimine e che, nell'attuazione di tale politica, il legislatore deve poter usufruire di un'ampia discrezionalità per pronunciarsi sia sull'esistenza di un problema d'interesse pubblico, richiedente una regolamentazione, sia sulla scelta delle modalità di applicazione di quest'ultima[22].

In queste circostanze, tenuto conto del margine di discrezione che spetta agli Stati quando essi disciplinano "l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale", in particolare nel quadro di una politica anticrimine finalizzata a combattere il fenomeno della grande criminalità, la Corte ha ritenuto che l'ingerenza nel diritto dei singoli al rispetto dei loro beni non sia, in linea generale, sproporzionata rispetto allo scopo legittimamente perseguito, giungendo quindi alla conclusione che la confisca e il precedente sequestro di prevenzione non rappresentino una violazione delle norme comunitarie in materia[23].

La disciplina della confisca per equivalente nel nostro sistema ordinamentale è completata dall’articolo 735 bis c.p.p, aggiunto dall’art. 9 della legge 9 agosto 1993, n.328 (recante ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale sul riciclaggio), che statuisce come, nel caso di esecuzione di un provvedimento straniero di confisca consistente nell’imposizione del pagamento di una somma di denaro di valore corrispondente al valore del prezzo, del prodotto o del profitto di un reato, si applichino le disposizioni sull’esecuzione delle pene pecuniarie, a eccezione di quella concernente il rispetto del limite massino di pena previsto dall’art. 735 comma 2, ossia quello stabilito per il medesimo reato dalla legge italiana.

 

3. Passando ad analizzare in dettaglio i presupposti operativi della confisca per equivalente, si è detto che, sotto il profilo oggettivo, è necessario il ricorso di una specifica condotta del soggetto proposto, il quale deve avere posto in essere un’attività di dispersione, distruzione, occultamento o svalutazione dei beni al fine di eludere l’esecuzione dei provvedimenti di sequestro e confisca, ovvero di trasferimento, secondo modalità legittime e prima dell’esecuzione del sequestro, a terzi in buona fede.

Come si vede, trattasi di due ordini di ipotesi molto diverse tra loro, atteso che la prima mira a stigmatizzare un comportamento fraudolento del soggetto pericoloso, che intende in tal modo aggirare e di fatto violare possibili misure ablative di cui abbia sentore, laddove la seconda appare ricollegata a un’attività lecita, almeno apparentemente, di costui, accompagnata dalla buona fede del terzo che abbia ricevuto il bene oggetto di trasferimento.

Nel primo caso, infatti, oltre alla verifica dei citati presupposti oggettivi la legge richiede, sotto il profilo soggettivo, l’individuazione di una sorta di dolo specifico del proposto, ossia di una direzione finalistica delle condotte di distruzione, occultamento o svalutazione dei beni al precipuo obiettivo della sottrazione dei cespiti al sequestro o alla confisca. Ne consegue che, ad esempio, qualora il bene non sia passibile di devoluzione allo Stato perché distrutto o svalutato a causa di condotte di incuria, colpevole o incolpevole, del proposto, e non già al fine di sottrarre il bene all’ablazione patrimoniale, non sembra ipotizzabile il ricorso a tale strumento di confisca.

È evidente la difficoltà dimostrativa del menzionato elemento psicologico specifico, che dovrà consistere nella ricostruzione della volontà elusiva del proposto, desunta ovviamente, ove possibile, da condotte fattuali; tale difficoltà sarà, tuttavia, alleggerita dalla differente pregnanza degli standards probatori previsti per il giudizio di prevenzione.

Senza dubbio, infatti, non occorrerà che il collegio della prevenzione raggiunga la “prova” piena, in termini processualpenalistici, di tale particolare intento del proposto, così come, di converso, l’ordinamento impone per la dimostrazione dell’elemento soggettivo del dolo specifico ai fini dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato in ordine a un delitto che tale requisito preveda per la sua integrazione.

Altro profilo di interesse è legato al fatto che il Legislatore abbia ammesso la confisca cd. per equivalente anche in relazione a beni “distrutti” prima del sequestro, senza peraltro stabilire un limite temporale: deve dirsi, quindi, teoricamente possibile procedere alla confisca per equivalente di beni distrutti, deteriorati o svalutati anche in epoca remota, di molto antecedente rispetto all’intervento ablativo dello Stato.

Chiaramente, in tali ipotesi si rivelerà ancora più difficile giungere alla necessaria ricostruzione della direzione finalistica dei comportamenti del proposto, al momento della loro commissione, specificamente alla sottrazione di quei beni al futuro, ipotetico, sequestro di prevenzione.

Non sfugge che tale dimostrazione risulterà molto difficoltosa, se non impossibile, rispetto a beni non più presenti nel patrimonio del proposto e distrutti in epoca troppo risalente; parimenti complessa si presenterà, in tali casi, la ricostruzione dei presupposti generali della confisca di prevenzione (che, come si è detto all’inizio, devono comunque ricorrere anche nella fattispecie in analisi), ossia del dato della sproporzione tra il valore dei beni - distrutti, dispersi, occultati o svalutati - i redditi del soggetto proposto e/o l’attività lavorativa da questi svolta all’epoca, ovvero della loro origine illecita.

La suddetta disposizione allarga, quindi la confisca per equivalente a qualunque bene, oggetto di transazione da parte dell’indiziato prima dell’esecuzione del sequestro senza alcuna delimitazione temporale; egli diventa debitore di un valore economico pari all’entità di tutti i beni trasferiti nella sua vita, senza alcuna delimitazione temporale, purché - in conformità ai principi di proporzione e alla presunzione d’innocenza -, si accerti il carattere sproporzionato o illecito di ogni singolo bene oggetto di trasferimento a terzi. Ciò in quanto, come si è osservato, la norma recita «quando i beni non possano essere confiscati in quanto trasferiti legittimamente» e quindi presuppone che i beni trasferiti fossero confiscabili secondo i principi generali della materia di prevenzione.

Un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma impone di delimitarne l’area di operatività solo in relazione a trasferimenti compiuti nel periodo oggetto di indagine o conclusi, comunque, poco prima del sequestro per sottrarre i beni alla confisca, perché difficilmente si potrebbe accertare il carattere sproporzionato o illecito rispetto a beni che non si trovano più nel patrimonio del soggetto e che siano stati trasferiti in epoca ormai remota.

Ciò pur se, in linea teorica, si potrebbe estendere a tutti i trasferimenti compiuti dal proposto, anche prima del momento in cui sussistono indizi della sua partecipazione all’associazione mafiosa o dell’inizio dell’attività criminale, in base all’orientamento secondo cui non è necessario ricostruire un aggancio cronologico tra epoca di acquisto del bene ed epoca in riferimento alla quale è possibile dimostrare l’esistenza di sufficienti indizi di pericolosità[24].

In senso critico rispetto al complesso ordinamentale emergente dalle indicate riforme, si è osservato[25] che si è trasformata la natura della confisca per equivalente da strumento volto a garantire l’applicazione della confisca del profitto accertato del crimine - qualificando la stessa come mera misura di riequilibrio economico - a una sorta di pena patrimoniale dai confini difficilmente controllabili, con tutti i dubbi sul rispetto non solo del principio di proporzione in senso stretto e di ragionevolezza, ma di legalità, colpevolezza e presunzione d’innocenza, in quanto non si deve dimenticare che parliamo di misure di prevenzione che si applicano a soggetti indiziati.

In concreto, si pone un problema preliminare di individuazione dei cespiti da sottoporre al sequestro funzionale alla successiva confisca per equivalente: occorre, infatti, comprendere in primo luogo chi materialmente debba procedere alla loro scelta, nonché alla valutazione di equivalenza tra il loro valore e quello dei beni che il proposto ha scientemente deteriorato, ovvero ceduto in maniera legittima a terzi di buona fede.

La questione della scelta dei beni da sottoporre a sequestro (funzionale alla successiva confisca) per equivalente e quelle, alla prima correlate, della quantificazione del loro valore e dell’individuazione del soggetto cui è demandato tale potere, sono state affrontate dalla giurisprudenza di legittimità in tema di confisca penale per equivalente e, spesso, sono state risolte in maniera contrastante: in talune sentenze, infatti, si è affermato il principio secondo il quale il tribunale non è tenuto a effettuare una stima del valore dei beni, ben potendo limitarsi a disporre globalmente la confisca fino alla concorrenza dell’utile indebitamente percepito e restando rimessi alla fase esecutiva gli adempimenti estimatori[26].

Più di recente e in maniera, a nostro avviso, maggiormente condivisibile, è stato, al contrario, sostenuto[27] che il giudice - nel caso di specie il tribunale del riesame - deve operare un’analisi sul valore dei beni sequestrati, necessaria al fine di verificare il principio di proporzionalità tra il credito garantito e il patrimonio assoggettato a vincolo cautelare, non essendo consentito differire l’adempimento estimatorio alla fase esecutiva della confisca.

Si è stato specificato che il tribunale deve adeguatamente apprezzare il valore dei beni sequestrati in rapporto al credito che giustifica l’adozione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, al fine di evitare che la misura cautelare si riveli eccessiva nei confronti del destinatario.

Nello specifico sistema delle misure di prevenzione, una possibile soluzione concreta discende dall’analisi delle norme sull’amministrazione dei beni già sottoposti a sequestro interinale: com’è noto, in effetti, ai sensi degli articoli 35 e ss. del testo in analisi, l'amministratore giudiziario deve segnalare al giudice delegato l'esistenza di altri beni che potrebbero formare oggetto di sequestro di cui sia venuto a conoscenza nel corso della sua gestione. Egli dovrà a tal fine presentare una relazione particolareggiata dei beni sequestrati, contenente, tra l’altro: a) l'indicazione, lo stato e la consistenza dei singoli beni ovvero delle singole aziende; b) il presumibile valore di mercato dei beni quale stimato dall'amministratore stesso; c) gli eventuali diritti di terzi sui beni sequestrati. La relazione di cui sopra deve indicare anche le eventuali difformità tra quanto oggetto della misura e quanto appreso, nonché l'esistenza di altri beni che potrebbero essere oggetto di sequestro.

La norma che impone all’amministratore la segnalazione di altri beni - dettata in origine al diverso fine di sventare con l’ausilio dell’amministratore giudiziario eventuali condotte elusive del proposto - si presta, quindi, a essere utilizzata anche in siffatta materia per consentire al tribunale della prevenzione di individuare altri beni, in ipotesi non oggetto di sequestro, sui quali possa appuntarsi la confisca per equivalente.

Deve ritenersi indiscutibile - anche attesa la natura pubblicistica degli interessi sottesi alla materia della prevenzione patrimoniale e il carattere latu sensu penalistico del procedimento finalizzato all’applicazione della confisca ex articolo 25 - che il potere-dovere di individuare i cespiti suscettibili di confisca per equivalente sia rimesso al collegio innanzi al quale pende il giudizio di prevenzione che, chiaramente, si servirà dell’ausilio di tecnici (l’amministratore o, se del caso, un perito all’uopo nominato) per provvedere alla stima dei beni rispetto ai quali si dovrà condurre la valutazione di equivalenza e, pertanto, sia di quelli dispersi, distrutti, occultati o ceduti legittimamente a terzi che di quelli che, in loro vece, saranno appresi dallo Stato in forza del meccanismo delineato dalla norma in commento.

Pertanto, in concreto, sarà lo stesso amministratore giudiziario - soggetto che si trova a più stretto contatto con il patrimonio vincolato - a segnalare al collegio sia eventuali comportamenti del proposto rilevanti ai fini della confisca per equivalente (ad esempio costui, analizzando la documentazione relativa ai beni appresi, potrebbe scoprire che l’interessato ne ha distrutto, sottratto, occultato o svalutato taluni con finalità elusive della misura in corso, ovvero ricostruire i passaggi traslativi di altri beni ceduti a terzi di buona fede in maniera legittima) sia l’esistenza di beni ulteriori rispetto a quelli già appresi in prima battuta con il sequestro ordinario, sui quali potrebbe eseguirsi la confisca per equivalente.

Tale indicazione sarà poi seguita da una decisione sul punto spettante al collegio procedente, che, con il decreto di sequestro funzionale alla successiva confisca per equivalente (misure anche suscettibili di emissione contestuale, all’esito del contraddittorio camerale), individuerà analiticamente i cespiti da sottoporre a vincolo patrimoniale. Trattandosi di un provvedimento di sequestro a sorpresa, anche tale decreto non sarà impugnabile autonomamente da parte dei soggetti che se ne ritengano danneggiati, ma il suo contenuto dovrà essere oggetto di trattazione in sede di udienza camerale e, solo qualora fosse trasfuso in un provvedimento di confisca, sarebbe suscettibile di impugnazione secondo le regole ordinarie tratteggiate dal Codice Antimafia.

Pertanto, l’unico spazio di tutela provvisoria che s’intravede per i soggetti che assumano di essere stati lesi in seguito alla scelta dei beni da confiscare per equivalente - esclusa, come si è detto, la via dell’autonoma impugnazione del decreto di sequestro - appare il reclamo, espressamente introdotto dall’articolo 40 del decreto legislativo numero 159/2011, avverso gli atti dell'amministratore giudiziario compiuti in violazione del presente decreto, che è possibile avanzare a opera del pubblico ministero, del proposto e di ogni altro interessato (quindi, anche da parte di soggetti terzi intestatari portatori di uno specifico interesse relativo al bene) nel termine perentorio di dieci giorni dal compimento o dalla conoscenza dell’atto innanzi al giudice delegato che, entro i dieci giorni successivi, provvede ai sensi degli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.

Attraverso tale strumento può, quindi, censurarsi l’individuazione da parte dell’amministratore di taluni beni come suscettibili di confisca per equivalente prima che il collegio emetta su di essi il decreto di sequestro; non sfugge che, tuttavia, il limite di una tale soluzione è nel carattere tendenzialmente non pubblico degli atti dell’amministratore giudiziario, soprattutto qualora siano funzionali all’emissione di un provvedimento inaudita altera parte, di talché difficilmente, in concreto, gli interessati potrebbero avere conoscenza in anticipo dell’atto di scelta da questi operato e della sua trasmissione al collegio.

In ultima analisi, può dirsi che la sede propria in cui possono trovare tutela le lagnanze dei soggetti che si vedano apprendere dei beni con il mezzo del sequestro di prevenzione per equivalente sia quella dell’udienza camerale laddove, in caso di confisca, il decreto sarà passibile degli ordinari strumenti d’impugnazione.

Altra soluzione ipotizzabile è quella che il collegio procedente, chiamato a irrogare la misura del sequestro per equivalente, scelga di delegare all’autorità proponente (che in linea di massima è in possesso di dati utili alla ricostruzione dell’intero patrimonio dell’interessato) l’individuazione in concreto di ulteriori cespiti non oggetto di proposta in prima battuta, sui quali il collegio, in siffatte ipotesi, valuterà se far scattare il meccanismo della confisca per equivalente. Non sfugge che siffatta prospettiva andrebbe tendenzialmente a semplificare anche il giudizio di equivalenza di valore spettante al tribunale, grazie agli strumenti investigativi in materia patrimoniale a disposizione dell’autorità proponente (si pensi, ad esempio, alle proposte di confisca avanzate dal pubblico ministero che si avvalga della collaborazione di P.G. specializzate, quali la Guardia di Finanza, ovvero dalla D.I.A.).

Infine, atteso che la legge richiede che vengano vincolati beni di valore equivalente rispetto a quelli distrutti, dispersi, occultati, svalutati ovvero legittimamente ceduti a terzi di buona fede, sorge il problema di comprendere in base a quali regole si operi siffatta valutazione e a chi sia devoluta.

Anche qui soccorrono, a nostro avviso, le norme sull’amministrazione dei beni: gli articoli 35 e ss. statuiscono, infatti, che l’amministratore giudiziario, tra gli altri compiti, ha anche quello di quantificare il valore dei beni in sequestro indicandolo nella relazione che depositerà al giudice delegato. L’articolo 40 prevede anche - con una disposizione innovativa e di indubbia opportunità pratica - che, in caso di contestazioni sulla stima dei beni, il giudice delegato possa nominare un perito che procede alla stima dei beni in contraddittorio; si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dettate dal codice di procedura penale in materia di perizia.

Può, dunque, sostenersi che debba essere l’amministratore giudiziario, su impulso del collegio, a procedere alla stima del valore dei beni, da lui stesso in ipotesi enucleati come oggetto delle condotte rilevanti ai sensi dell’articolo 25 e non più suscettibili di confisca, nonché alla stima del valore degli altri beni da lui parimenti individuati e passibili di sequestro/confisca per equivalente.

Ovviamente, l’ultima parola spetterà comunque al collegio procedente, come appare indirettamente confermato dal disposto del successivo articolo 46 che, in tema di restituzione per equivalente in caso di vendita o destinazione irreversibile di beni poi successivamente restituiti all’avente diritto, statuisce che il tribunale determina il valore del bene sulla base del quale andrà operato il giudizio di equivalenza ai fini del rimborso.

Anche qui eventuali contestazioni circa il valore dei cespiti appresi per equivalente e, appunto, in merito alla correttezza del giudizio di equivalenza non possono che essere rimesse alla fase dell’udienza camerale salvo trasfondersi, in caso di confisca, nell’atto di impugnazione del decreto che dispone l’ablazione patrimoniale.

Come detto, la disposizione in commento non stabilisce espressamente un termine entro il quale valutare eventuali comportamenti elusivi o distruttivi del proposto e non sfugge l’enorme ampliamento delle possibilità operative di tale istituto che, comunque, andrà applicato in concreto secondo i necessari principi di ragionevolezza e proporzionalità; ad esempio, nel caso citato, occorrerà comunque dimostrare che il soggetto proposto avesse uno specifico intento elusivo della misura patrimoniale, cioè che fosse a conoscenza o almeno potesse ragionevolmente immaginare la pendenza di una proposta di sequestro nei suoi confronti al momento in cui pose in essere la condotta qualificabile come intenzionalmente elusiva della futura misura di prevenzione.

In dottrina[28] si è sostenuto, in senso critico rispetto alla scelta legislativa del 2008 di rendere operativa la confisca per equivalente anche nel sistema della prevenzione (da ultimo, come si è visto, recepita pedissequamente nel decreto in commento), che tale fattispecie di confisca allargata - che può di fatto colpire tutti i beni di valore sproporzionato o che risultino di origine illecita - sembra, in ogni caso, discutibile se calata all’interno di un sistema, come quello delle misure di prevenzione, ove già le possibilità di intervento ablativo appaiono molto penetranti e dove gli standards probatori sono significativamente alleggeriti.

Tale misura si presenta fisiologicamente come uno strumento per combattere i tentativi del reo di frustrare l’applicazione della confisca di specifici beni che rappresentano il profitto o il prodotto di un determinato reato, presupponendo l’accertamento che dal crimine sia derivato un profitto o prodotto ben identificato, legato a questo da un nesso di causalità, e non sia possibile confiscarlo perché disperso, alienato, nascosto; essa, in altre parole, troverebbe la sua ratio precipua e la sua giustificazione operativa quale strumento per superare quel limite delle forme tradizionali di confisca del profitto che richiedono l’accertamento del nesso di causalità tra il crimine e il profitto o il prodotto.

Al contrario, ove tale nesso di pertinenzialità sia affievolito grandemente - ovvero escluso, come nel caso della confisca di prevenzione, che prescinde dalla prova circa la commissione di un reato specifico - e in particolare per quanto attiene alle forme di confisca allargata che non richiedono l’accertamento del nesso di causalità in questione, ma si estendono a tutti i profitti di valore sproporzionato (o di origine sospetta) in base alla presunzione che la sproporzione costituisca un indizio dell’origine illecita, l’applicazione anche della confisca per equivalente appare a tale orientamento ermeneutico come un’esasperazione contrastante con i citati principi di proporzionalità e ragionevolezza.

In effetti, non sfugge che la confisca per equivalente di una forma di confisca già di per sé allargata come quella di prevenzione può risultare ultronea laddove si ritenga che la sproporzione debba essere intesa come elemento indiziario dell’illecita provenienza di tutto il patrimonio del proposto e non invece come criterio delimitante l’oggetto della confisca, trasformando la confisca di prevenzione da mero strumento di sottrazione dei profitti di origine illecita a confisca generale dei beni di tutto il patrimonio[29], ovvero nel caso in cui si sostenga che, soprattutto in relazione al patrimonio di un’impresa, non sia possibile distinguere tra beni di lecita e di illecita provenienza (nel senso che sarebbe possibile confiscare le quote societarie sia quando il capitale investito nell’attività societaria sia di illecita provenienza anche se l’attività svolta è lecita, sia nell’ipotesi in cui il capitale sia di origine lecita ma la stessa attività sia esercitata con metodi penalmente illeciti[30]).

Peraltro, in senso opposto va sottolineato come sia principio consolidato nella giurisprudenza[31] di merito quello secondo cui la confisca non può aggredire indiscriminatamente tutto il patrimonio del proposto, bensì deve riguardare sempre singoli beni rispetto ai quali siano individuabili le ragioni della illegittima provenienza.

La giurisprudenza di legittimità[32] ha sul punto precisato che “nel caso in cui il sequestro colpisca il complesso dei beni del soggetto indiziato, non si tratta di misura che coinvolga l’intero patrimonio, ma di sequestro che coinvolge i singoli beni, per cui l’accertamento dell’illecita provenienza va effettuato con riguardo a ciascuno dei beni che lo compongono”; “non è sufficiente un raffronto globale tra il patrimonio e il reddito formalmente disponibile, ma è necessario accertare l’illecita provenienza di ogni singolo bene inserito nel patrimonio, comparando, al momento dell’acquisizione, il reddito ufficialmente disponibile con l’incremento patrimoniale determinato con l’acquisto del bene”.

La confisca del valore equivalente, quale strumento che consente di superare le manovre fraudolente del proposto volte a sottrarre specifici beni alla confisca, assume particolare significato (e qui si individua il vero fulcro della sua concreta operatività) proprio in attuazione del citato principio di diritto, nel senso di poter intervenire con tale particolare strumento laddove non sia più possibile confiscare (perché distrutto, disperso, occultato o svalutato) lo specifico bene o cespite patrimoniale il cui acquisto è risultato sproporzionato o che comunque “risulti” di origine illecita, consentendo di sequestrare e confiscare altri beni di valore equivalente.

Chiaramente l’applicazione della confisca per equivalente presuppone che sussistano nel patrimonio del soggetto sia beni di valore sproporzionato (al momento dell’acquisto) o di origine illecita, sia altri beni di valore proporzionato o di origine lecita, perché in caso contrario tutti i beni potranno essere sottoposti alla confisca generale di prevenzione.

In sostanza, nei confronti dei beni di lecita origine potrà essere disposta la confisca per equivalente, mentre per la prima tipologia di cespiti lo strumento ablativo non potrà che essere quello della confisca ordinaria di cui all’articolo 2 ter.

Invero non può sottacersi come nella prassi, soprattutto con il sequestro anticipato di prevenzione o con il sequestro d’urgenza, entrambi emessi inaudita altera parte, sovente si sottopongano a vincolo interinale interi patrimoni, per garantire la confisca dei beni di valore sproporzionato o di origine illecita, o comunque di altri beni di valore equivalente.

 

4. Il comma 6-bis dell’art. 2-bis della L. 575/65, introdotto dalla legge 125/08, prevedeva che “Le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente. Le misure patrimoniali possono essere disposte anche in caso di morte del soggetto proposto per la loro applicazione. Nel caso la morte sopraggiunga nel corso del procedimento esso prosegue nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa”.

A seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 94 del 2009, è stato inserito un ulteriore inciso, per cui il testo vigente del primo periodo prevedeva che: “Le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente e, per le misure di prevenzione patrimoniali, indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione”.

Le citate disposizioni sono state recepite e accorpate nell’articolo 18 del decreto in commento, rubricato, tra l’altro, proprio “morte del proposto”.

Tanto premesso e proprio in riferimento alle peculiari ipotesi, ora normativamente disciplinate, di sequestro/confisca in danno degli eredi del deceduto, giova osservare che si è posto in giurisprudenza il problema concreto della praticabilità della confisca per equivalente anche nella duplice ipotesi di comportamenti elusivi posti in essere dall’erede dopo la morte del proposto e di trasferimento legittimamente operato non dal proposto, bensì dal suo erede, prima del sequestro.

Nella giurisprudenza di merito[33] si è talvolta sostenuta la tesi negativa, motivando tale convincimento con il fatto che il citato articolo 25 si riferisce testualmente soltanto alla “persona nei cui confronti e' proposta la misura di prevenzione”, espressione che andrebbe riferita, appunto, solo al proposto per l’applicazione della misura personale o patrimoniale - anche se deceduto - e non anche ai suoi eredi o aventi causa. Corollario dell’adesione a tale prospettiva ermeneutica[34] sarebbe l’auspicio di un’ulteriore riforma legislativa che preveda in maniera esplicita l’applicabilità della disposizione anche nei confronti degli eredi del proposto (nei casi di applicazione disgiunta previsti dall’art. 18), ritenendosi generalmente applicabile la norma, appunto, solo al destinatario della misura personale.

De jure condendo, si è detto chepotrebbeancherappresentare una valida prospettiva di riforma rivisitare la norma consentendo inequivocabilmente la confisca per equivalente (nei confronti del proposto e degli eredi o aventi causa) non solo se il trasferimento del bene è avvenuto al fine di eludere l’esecuzione dei provvedimenti di sequestro o di confisca, ma in ogni caso; vale a dire in tutti i casi in cui il proposto (o gli eredi), a prescindere dalla finalità, avendo trasferito a terzi in buona fede il bene di provenienza illecita, abbia tratto un guadagno (illecito), che deve essere loro sottratto dallo Stato anche attraverso l’ablazione di beni di derivazione lecita in loro possesso.

Rispetto al primo profilo dì indagine, in senso contrario all’orientamento da ora citato deve osservarsi che l’espressione usata dall’articolo 25 nel riferimento alla “persona nei cui confronti è proposta la misura di prevenzione” non può non essere coordinata con il precedente articolo 18 che, nel consentire anche la presentazione di proposte per l’applicazione di misure di prevenzione in epoca successiva alla morte di colui nei cui confronti la misura avrebbe potuto essere disposta (entro il termine dei cinque anni dal decesso) e nei confronti dei suoi successori a titolo universale o particolare, amplia indiscutibilmente la nozione di persona proposta, distinguendo in maniera non casuale tra soggetto nei cui confronti la proposta - chiaramente solo sul versante patrimoniale - può essere avanzata (il successore) e soggetto nei riguardi del quale la misura - sia personale che patrimoniale - avrebbe potuto essere disposta.

La ratio della norma - finalizzata per un verso a garantire l’efficacia dell’ablazione patrimoniale a fronte di condotte elusive del proposto e per altro verso a garantire una qualche tutela dei terzi di buona fede coinvolti nel trasferimento di beni confiscabili - giustifica a nostro avviso questa seconda, e più ampia, interpretazione della disposizione che, peraltro, appare aderente al sistema al di là della mera formulazione testuale dell’articolo 25.

Chiaramente, aderendo a siffatta ultima opzione, non può che porsi il problema di comprendere se le condotte elusive di cui alla prima parte dell’art. 25 siano soltanto quelle attribuibili ante mortem al proposto, ovvero anche quelle ascrivibili ai suoi successori: sono evidenti, sul punto, da un lato l’estrema difficoltà ricostruttiva della dimostrazione - sia pure ai limitati fini del giudizio di prevenzione - circa il dolo specifico sotteso alle attività di distruzione, dispersione, etc… riconducibili al proposto deceduto e sia, per altro verso, la quasi impossibilità dei successori, in ipotesi estranei alle menzionate condotte, a difendersi da una tale prospettazione accusatoria.

D’altro canto, agganciare la confisca per equivalente a comportamenti con finalità elusive individuabili in capo al successore sembrerebbe dilatare eccessivamente l’area di prevedibilità circa l’esecuzione dei provvedimenti di sequestro e confisca.

Di più agevole applicazione alle ipotesi di cui al nuovo articolo 18 è, invece, la seconda fattispecie di confisca per equivalente: in riferimento a essa, infatti, non si ravvisano particolari problemi operativi conseguenti al disporre tale misura anche nei confronti di beni, appartenenti ovviamente al de cuius e pervenuti in via successoria all’erede, che fossero stati trasferiti legittimamente dal successore, in epoca precedente al sequestro, a terzi di buona fede.

Ciò, ovviamente, presupponendo che tale ipotesi si presenti sganciata dalla valutazione dei profili soggettivi dell’autore del trasferimento, e, quindi, praticabile non soltanto nelle ipotesi di elusione dell’ablazione, ma in tutti i casi di trasferimento legittimo a un terzo estraneo.

Il limite operativo di siffatto strumento risiede, comunque, nell’impossibilità di aggredire per equivalente beni propri del successore, dovendosi limitare la confisca a colpire i cespiti e le utilità pervenute all’erede iure hereditatis in quanto legittimamente acquistate o ricevute dal dante causa a suo tempo (si pensi, ad esempio, al caso di un bene immobile trasmesso per via ereditaria prima al deceduto e poi da questi ai suoi successori e non suscettibile di confisca tradizionale perché di legittima provenienza) e poi trasferite dal successore a un terzo incolpevole prima dell’esecuzione del sequestro.

 

5. L’altra ipotesi di confisca per equivalente disciplinata dall’articolo 25 scatta «quando i beni non possano essere confiscati in quanto trasferiti legittimamente, prima dell’esecuzione del sequestro, a terzi in buona fede»; tale figura è finalizzata a garantire che la deminutio patrimoni conseguente alla confisca generale di prevenzione corrisponda al valore del patrimonio di valore sproporzionato o di origine illecita e presuppone che l’atto traslativo del bene sia sostanzialmente lecito e legittimo, nel senso di essere stato realizzato prima dell’esecuzione del sequestro (quindi, non in violazione o elusione del vincolo) e nei confronti di un soggetto terzo individuabile come di buona fede.

La norma ha, in teoria, una vasta portata operativa, potendosi applicare a qualsivoglia trasferimento intervenuto prima dell’esecuzione del sequestro (anche prima della proposta) e indipendentemente dal fine elusivo previsto dal precedente inciso dell’articolo 25; purché, ovviamente, si tratti di un bene illegittimamente acquisito dal proposto e non più confiscabile perché ceduto a terzi in buona fede.

Invero, deve osservarsi che, secondo le regole paradigmatiche della confisca di prevenzione, il denaro o i beni ottenuti in seguito al trasferimento al terzo incolpevole potrebbero, comunque, essere ablati senza ricorrere alla confisca per equivalente in quanto, se derivanti dal trasferimento di un bene avente origine illecita, dovrebbero rientrare nella categoria dei beni confiscabili in qualità di reimpiego; il ricorso alla confisca per equivalente è chiaramente ultroneo e inutile in tali ipotesi, oltre che incompatibile con il principio del ne bis in idem e di proporzione.

Quindi, l’oggetto di questa particolare forma di confisca va individuato in quei beni che non siano, comunque, diretta derivazione dell’alienazione del cespite al terzo di buona fede e che, altrimenti, sarebbero pacificamente confiscabili nelle forme ordinarie dell’ablazione di prevenzione proprio in quanto qualificabili come reimpiego del frutto dell’attività illecita del proposto.

La ratio di tale fattispecie va probabilmente individuata per un verso nella volontà del Legislatore di sottrarre i beni non per la loro pericolosità connessa alla persona pericolosa, ma al fine di impedire l’illecito arricchimento dell’organizzazione criminale e, quindi, l’infiltrazione criminale nell’economia (nonché nella funzione di frustrare qualunque manovra fraudolenta volta a sottrarre il patrimonio illecito) e, per altro verso, nell’intento di non pregiudicare eccessivamente i terzi di buona fede che abbiano ottenuto dal proposto il trasferimento di un bene spostando su di loro il rischio dell’ablazione ma, al contrario, mantenendolo comunque sul proposto che risponderà con altri beni - verosimilmente, come si è detto, di lecita provenienza - delle sue condotte ante sequestro.

Senza dubbio la disposizione mira, più in generale, a salvaguardare la certezza e l’affidabilità delle transazioni e dei rapporti commerciali, impedendo che le stesse vengano revocate o dichiarate nulle (salve le ipotesi normativamente previste) in caso di concorso sullo stesso bene di misure di prevenzione patrimoniali e proteggendo il terzo dall’eventualità di dovere restituire il cespite acquistato in buona fede dal proposto.

E’ evidente che perché si possa garantire al terzo una tale protezione questi debba essere individuato come di buona fede: nel silenzio dell’articolo 25 circa il giudizio volto alla ricostruzione di tale profilo soggettivo e gli elementi di valutazione dello stesso, può comunque farsi applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza sul punto, nel senso di attribuire tale verifica al giudice della prevenzione e di impostarla secondo i parametri tratteggiati in ordine alla figura del “creditore di buona fede” del soggetto proposto.

Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione nella sentenza dell’8 giugno 1999, Bacherotti, prendendo le mosse dalla regola generale dell’art. 240 c.p. secondo cui la cosa confiscata deve appartenere a “persona estranea al reato[35] , hanno chiarito che eventuali diritti di garanzia sul bene, il cui titolo sia costituito da un atto di data certa anteriore al sequestro, non risultano sacrificati dalla confisca non solo quando i loro titolari non abbiano tratto oggettivamente vantaggio dall’altrui attività criminosa ma anche quando, pur sussistendo un simile collegamento tra il diritto del terzo e l’altrui attività criminosa, il terzo possa dimostrare “di trovarsi in una situazione di buona fede e di affidamento incolpevole”. Un affidamento, cioè, provocato da una situazione di apparenza che rendeva scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza.

In sostanza, attribuendo rilevanza anche agli atteggiamenti colposi del terzo, si impone ai cittadini una sorta di obbligo generale di diligenza nello svolgimento degli affari con, in più, un’inversione dell’onere della prova della buona fede che, al contrario del generale principio civilistico di cui all’art. 1147 c.c., non è presunta nel giudizio di prevenzione, ma deve essere provata da colui che la invoca.

Quindi, la buona fede - pur senza essere necessariamente esclusa dalla circostanza che l’atto da cui deriva il credito sia funzionale all’attività illecita o a quella economica che ne costituisce il reimpiego - non ricorre, secondo quanto chiarito dalla Suprema Corte, se si riscontra la presenza di quel nesso funzionale e il creditore non può dimostrare di averlo ignorato senza sua colpa.

Tale accezione così articolata e complessa del concetto di buona fede si rivela utile al fine di contemperare le esigenze di tutela dei terzi con la necessità di evitare che siffatte esigenze possano costituire, in realtà, uno strumento a disposizione della criminalità organizzata per eludere le misure di prevenzione adottate o adottabili nei confronti di soggetti pericolosi.

La disposizione in esame andrà, poi, necessariamente coordinata con il comma 3 del successivo articolo 52, a norma del quale, nella valutazione della buona fede dei terzi creditori del proposto, il tribunale della prevenzione tiene conto delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di attività svolta dal creditore, anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale nonché, in caso di enti, alle dimensioni degli stessi. Di tali parametri di giudizio potrebbe, quindi, farsi applicazione anche nell’ambito del giudizio di cui all’articolo 25 circa l’accertamento della buona fede del terzo, propedeutico all’eventuale confisca per equivalente (e non già del bene ceduto dal proposto al terzo stesso).

L’articolo 25 in esame va, ancora, letto tenendo conto delle disposizioni[36] che prevedono che il giudice, con il provvedimento che dispone la confisca, può dichiarare la nullità degli atti di disposizione quando accerta che taluni beni siano stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi.

Laddove, in altre parole, il collegio procedente riesca a provare il carattere fittizio del trasferimento e la sua simulazione può dichiarare nullo l’atto e confiscare direttamente i beni che il proposto aveva tentato di sottrarre con l’atto di disposizione; in tali ipotesi, peraltro, il terzo in malafede non potrà rivendicare alcun diritto di ripetizione in quanto, in virtù dell’art. 1418 c.c., il suo atto andrebbe qualificato come nullo per esserne la causa contraria a norme imperative al buon costume (la violazione di norme imperative penalmente rilevanti rientra in questo concetto) ai sensi dell’art. 2035 c.c.

La confisca per equivalente trova il suo spazio operativo, pertanto, solo nelle ipotesi in cui il giudice non riesca ad accertare il carattere fittizio del trasferimento oppure quando realmente il soggetto abbia ceduto i beni a terzi in buona fede; con riferimento ai trasferimenti a titolo gratuito (o fiduciario) compiuti nei due anni precedenti si dovrebbe, al contrario, dichiarare la nullità e quindi applicare direttamente la confisca nei confronti dei beni (e non la confisca per equivalente), e lo stesso anche se si tratta di trasferimenti a titolo oneroso nei confronti dei parenti indicati nella norma.

Le presunzioni circa il carattere fittizio confermano, in ogni caso, che, al di fuori di queste ipotesi, la legittimità del trasferimento al terzo in buona fede deve essere accertata dal giudice della prevenzione; non sfugge che proprio attraverso il suddetto meccanismo presuntivo e lo strumento della confisca per equivalente si dilati eccessivamente l’ambito di applicazione della confisca antimafia e si indeboliscano i diritti dei terzi, “con una sorta di chiamata di corresponsabilità morale o sociale per coloro che hanno avuto la ventura di immettersi nel traffico giuridico con l’imprenditore di sospetta appartenenza alla mafia»[37].



[1] Lo scritto costituisce una parte del Volume “Diritto delle Imprese in crisi e tutela cautelare” a cura di F. Fimmanò, Ricerche di law & Economics dell’Università Telematica Pegaso, Milano, Giuffrè, 2012, 547 s.

[2] La disposizione, rubricata genericamente “confisca”, prevede che nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320, anche se commessi dai soggetti indicati nell’articolo 322 bis, primo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto, o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo. Nel caso di condanna o di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per il delitto di cui all’articolo 321, anche se commesso ai sensi dell’articolo 322 bis, secondo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati nell’articolo 322 bis, secondo comma. Nei casi di cui ai commi primo e secondo, il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato, ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato.

[3] Cfr. ALESSANDRI, Criminalità economica, 2107 e ss. ID., voce Confisca nel diritto penale, in Dig. d. pen., vol. III, Utet, 1993, 53. MAIELLO, La confisca per equivalente non si applica al profitto del peculato, in Dir. Pen. Proc., 2010, 440 e ss.; FONDAROLI, Artt. 322 ter e 335 bis – Confisca, in Trattato di Diritto penale – Parte speciale, a cura di MANNA-CADOPPI:CANESTRARI-PAPA, Torino, 2008, 280 ess.; MAZZACUVA, Un “hard case” davanti alla Corte Europea, in Dir. Pen. Proc., 2009, 1540 e ss.;

[4] Cass. Pen. sez. un., 25 ottobre 2005, n.41936, Muci, in Cass. Pen., 2006, 1382.

[5] LAUDATI, Nasce la confisca per equivalente, in Guida al diritto, n. 17/2006.

[6] Cass. Pen., sez. un., 25 ottobre 2005, n. 41936, cit., ma anche Cass. Pen., sez. II, 8 maggio 2008, n.21566, in CED rv. 240910; Cass. Pen. Sez. III, 24 settembre 2008, n. 39173, CED. Rv. 241034.

[7] Con riferimento alla confisca di valore prevista per il reato di usura (art. 644 c.p., ultimo comma, come modificato dall’art. 1 della legge 108/1996) cfr. Cass. Pen. Sez. II, 5 aprile 2002, n.18157, Stangolini, in Riv. Pen., 2002, 912, che ha qualificato il provvedimento ablativo quale mera ipotesi speciale di misura di sicurezza, con conseguente applicabilità dell’art. 200 c.p.

[8] Cass. Pen. Sez. II, 14 giugno 2006, Chetta, in Giur. It., 2007, 966, con nota di SANTORIELLO e FURFARO; Sez. II, 21 maggio 2008, in CED rv. 240623; Cass. Pen. Sez. II, 21 dicembre 2006, n. 316, in CED rv. 235363, Spera; Cass. Pen. Sez. II, 18 dicembre 2007, n. 3102, Luciano, in Guida dir. 8/2008, 47.

[9] In favore della natura sanzionatoria della confisca per equivalente si sono espresse sia la Corte di Cassazione (cfr. Cass. Pen. Sez. VI, 18 giugno 2007, n. 30543, in Foro it., 2008, III, c. 173; Cass. Sez. II, 8 maggio 2008, n.21566, in CED rv. 240910; Cass. Sez. III, 24 settembre 2008, n. 39173, CED rv. 241034; Cass. Sez.,VI, 18 febbraio 2009, n.13098, in CED Rv. 23451) che la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 97/2009, emessa il 22 aprile 2009.

[10] Il principio è stato statuito con chiarezza da Cass. Pen. Sez. Un. 3 luglio 1996, n. 18, Simonelli.

[11] Cass. Pen. Sez. I, n. 11768 del 28 febbraio 2012, Barilari.

[12] Cfr. Cass. Pen. Sz. Un., 30 maggio 2001, n.16, Derouach; in senso contrario, in dottrina, per la natura di sanzione patrimoniale a carattere punitivo, MAUGERI, Le moderne sanzioni, Milano, 2001, p. 517-525.

[13] Cass. Sez. III, 8 luglio 1992, Cocchi, in CED rv. 191819; Cass. Sez. VI, 19 gennaio 1994, in Cass. Pen., 1995, n. 1980, p. 3459, con nota di MENDOZA, Sequestro preventivo tipico e sequestro funzionale alla confisca.

[14] Vale la pena di ricordare ai presenti fini che detto istituto opera, alla stregua dell’articolo 600 septies c.p. - inserito dall’articolo 7 della legge 3 agosto 1998, n.269 e poi modificato dall’articolo 15, comma 5, della legge 11 agosto 2003, n.n. 228 - anche in caso di condanna o di applicazione di pena su richiesta delle parti per uno dei delitti di cui agli artt. 600- 600 quinquies c.p. (delitti contro la personalità individuale) allorché non sia possibile la confisca di beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, e riguarda specificamente i beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto.

Ancora, l’articolo 640 quater c.p., introdotto dall’articolo 3, comma 2, della legge 29 settembre 2000, n.300, consente l’applicazione dell’articolo 322 ter c.p. e delle relative ipotesi di confisca nei casi di condanna o cd. patteggiamento per i delitti di cui agli artt. 640, secondo comma, numero 1 c.p. (truffa in danno dello Stato o di un altro ente pubblico), 640 bis c.p. (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) e 640 ter secondo comma c.p. (frode informatica), con esclusione dell’ipotesi in cui il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema.

Il nuovo testo dell’articolo 644 c.p. in tema di usura, come ridisegnato dall’articolo, 1 comma 1, della legge 7 marzo 1996, n. 108, all’ultimo comma consente, inoltre, la confisca per equivalente, in caso di condanna o applicazione di pena su richiesta delle parti, dei beni, delle utilità o delle somme di denaro di cui il reo abbia la disponibilità, anche per interposta persona, per un importo pari al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari.

Anche l’articolo 2641 del codice civile, così sostituito dall’articolo 1 del D.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, consente la confisca per equivalente, nell’ipotesi di condanna o di applicazione di pena su richiesta delle parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p., per taluno dei delitti di cui al Titolo XI del Libro V del codice civile (reati in materia di società e consorzi), di denaro o beni di valore, appunto, equivalente al prodotto, al profitto o ai beni utilizzati per commettere i citati reati, qualora non sia possibile l’individuazione o l’apprensione dei menzionati beni.

Ancora, per completezza vanno menzionate le fattispecie di cui all’articolo 187 del Testo Unico sull’intermediazione finanziaria (approvato con Decreto legislativo 24 febbraio 1998, n.58), che prevede la confiscabilità di denaro o beni di valore equivalente al prodotto, al profitto ovvero ai beni usati per commettere i reati di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione dei mercati, e di cui all’articolo 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007 n. 244 (la cd. “Finanziaria 2008”), secondo cui “nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4,5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’articolo 322 ter del codice penale”. Trattasi, in specie, di tutti i reati tributari, fatta eccezione per quello di occultamento o distruzione di documenti contabili, di cui all’articolo 10 del testo citato.

Rilevante appare osservare come un ulteriore elemento di avvicinamento della confisca per equivalente penale a quella operante nella materia delle misure di prevenzione è desumibile dal principio affermato recentemente dalla Suprema Corte che, nella sentenza n. 3637 del 19 dicembre 2011, I Sezione Penale, ha sostenuto che in analogia a quanto accade nel procedimento di prevenzione patrimoniale, spetta sempre al giudice che ha disposto il sequestro preventivo ex art. 12 sexies adottare i provvedimenti in tema di gestione e di amministrazione dei beni sequestrati e confiscati. La regola di diritto è stata statuita all’esito della risoluzione di un conflitto negativo di competenza fra il giudice delle indagini preliminari che aveva emesso il sequestro e la Corte di Appello dinanzi alla quale era in corso il giudizio di impugnazione avverso la sentenza che aveva, tra l’altro, disposto la confisca dei beni.

[15] Cfr., al riguardo, ex plurimis, Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza Raimondo c. Italia, 22.2.1994; Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza Prisco c. Italia, 15.6.1999, cit.; Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza Riela c. Italia, 4.9.2001.

[16] In termini A. GIALANELLA, Su di un diritto penale dei patrimoni tra classicità e modernità, in Pol. Del diritto, 2000, 1, 123 ss.; ID., La Corte di Cassazione e l’Incompiuta della prevenzione patrimoniale antimafia, tra razionalità garantista e relativismi funzionalistici, in Atti dell’incontro di studio organizzato dal C.S.M. in Roma, 24-26 settembre 2008, sul tema “Dalla tutela del patrimonio alla tutela dai patrimoni illeciti”.

Sull’argomento significativi appaiono i contributi di D. PULITANO’, La dottrina penalistica italiana alle soglie del 2000, in AA.VV., La dottrina giuridica italiana alla fine del XX secolo, Milano, 1998; A.M. MAUGERI, Le moderne sanzioni patrimoniali fra funzionalità e garantismo, Milano, 2001.

[17] Il civil forfeiture, introdotto in ambito federale dal Congresso statunitense nel 1970, (CDAPCA), 21 U.S. §881 colpisce con la confisca la proprietà “contaminata” dall’illecito, anche senza previa condanna del proprietario, nel quadro delle azioni di contrasto delle locali Autorità allo smercio di sostanze stupefacenti. Tale modulo ablativo si distingue dal criminal forfeiture, risalente all’esperienza dei Paesi di common law e poi importato negli Stati Uniti, che comporta la confisca dell’intero patrimonio quale conseguenza della condanna.

[18] Sul punto, cfr. MAUGERI, op. cit. pp. 104-316.

[19] Cfr. Sentenza del 22.2.94, sul caso Raimondo, del 5.7.01, sul caso Arcuri e del 7.6.2005.

[20] (sentenza Raimondo c. Italia del, serie A n. 281- A, p.17, § 30; decisione della Commissione nella causa M. c. Italia, già citata, pp. 59 e 79).

[22] Nella citata sentenza Raimondo c. Italia, p. 17, par. 30, si afferma testualmente che: “I profitti smisurati che le associazioni di tipo mafioso traggono dalle loro attività illecite conferiscono loro un potere la cui esistenza mette in discussione il primato del diritto nello Stato. Così, i mezzi impiegati per combattere tale potere economico, in particolare la confisca in questione, possono risultare indispensabili ai fini di una lotta efficace contro le predette associazioni. Di conseguenza, la Corte non può non tener conto delle circostanze specifiche che hanno guidato l'azione del legislatore italiano. Essa ha comunque il compito di verificare che i diritti garantiti dalla Convenzione siano, in ogni caso, rispettati. La Corte constata che nel caso di specie l'articolo 2 ter della legge del 1965 sancisce che, in presenza di "indizi sufficienti", si debba presumere che i beni della persona sospettata di appartenere a un'associazione per delinquere rappresentino il profitto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”.

[23] Sulla stessa linea la sentenza 6 gennaio 2010 sul caso Bongiorno.

[24] Com’è noto, sul punto si è verificato uno stridente contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla possibilità non solo di prescindere dalla prova dell’esistenza di un nesso di pertinenzialità tra acquisto del bene e condotta illecita (recte indizi di pericolosità), ma anche di prescindere dalla correlazione cronologica tra l’epoca in cui si è formato il patrimonio e il momento in cui si è formata la prova circa l’appartenenza del prevenuto alla criminalità organizzata.

La sentenza n. 3413 del 22 gennaio 2008, Di Meo-Giammanco, ha infatti sostenuto che, per poter disporre la confisca di prevenzione, non è sufficiente la sussistenza di indizi di carattere personale sull’appartenenza del soggetto a un’associazione di tipo mafioso - implicante una latente e persistente pericolosità sociale - ma occorre che vi sia correlazione temporale fra tale pericolosità e l’acquisto dei beni e cioè occorre verificare se i beni da confiscare siano entrati nella disponibilità del proposto, non già anteriormente, ma successivamente o almeno contestualmente al suo inserimento nel sodalizio criminoso. Ne conseguiva, secondo la Corte, l’assoluta rilevanza della necessità di verificare la necessaria relazione di connessione temporale tra la pericolosità del proposto e l’acquisizione dei beni oggetto del provvedimento ablativo, non potendosi ritenere legittima la confisca dei beni entrati nel patrimonio del soggetto indiziato di appartenenza ad associazione mafiosa in epoca non riconducibile a quella dell’accertata pericolosità dello stesso.

Di segno completamente opposto è, invece, la decisione cui è addivenuta la Suprema Corte, Sezione Seconda, con la sentenza n. 21717 del 29 maggio 2008: il giudice di legittimità ha, infatti, evidenziato che nella legge n. 575/65 art. 2 ter non si rinviene alcun elemento che possa far ritenere che i beni sequestrabili e poi confiscabili debbano essere stati acquisiti nel periodo al quale l’accertata pericolosità del soggetto è riferita. D’altronde - prosegue la Corte - se vi fosse stata una tale previsione si sarebbero verificate arbitrarie individuazioni del giorno dal quale far partire l’accertata pericolosità del soggetto; infatti, il concetto di pericolosità viene ricavato dal giudice da un insieme di fatti e situazioni (che non devono necessariamente costituire reato) che si svolgono nel tempo e si manifestano nei più svariati modi.

[25] Così A. MANGIONE, La “contiguità” alla mafia fra “prevenzione” e “repressione, tecniche normative e categorie dommatiche, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1996, 705.

[26] Cass. Pen. sez. I, n. 30790 del 30 maggio 2006, Pedercini.

[27]cfr. Cass. Pen. sez. III, n.41731 del 7 ottobre 2010, Giordano; più recentemente anche Cass. Pen. Sez. III, n. 17465 del 22 marzo 2012, Crisci.

[28] Le argomentazioni del presente paragrafo sono tratte da MAUGERI, La riforma delle sanzioni patrimoniali, verso un’actio in rem?, reperibile su http://appinter.csm.it/incontri/vis_relaz_inc. p. 25 con nota di richiamo a MAUGERI, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Milano, 2001.

[29] Cass., 26 marzo 1998, Bosetti, in Cass. pen., 1999, p. 3551.

[30] In relazione alla confisca ex art. 3 –quinquies, Corte d'Appello di Catania, 21 novembre 1997, Spampinato, in Cass. pen., 1998, n. 1558, p. 2726 – 2731; Corte di Appello Palermo, decreto 1° ottobre 1996, Tre Noci s.r.l. e altri, in Cass. pen., 1997, p. 2257, Corte di Appello di Palermo (16 luglio 2004) e Tribunale di Palermo nel procedimento in danno diBontate (decr. 14- 28 novembre 2006, inedito, Centralgas S.p.a., Vigorgas serbatoi S.r.l., Ital metano S.r.l. e Gas sudS.r.l..).

[31] Trib. Palermo, decreto 3 giugno 1999, Soc. Sicilconcrete S.r.l.

[32] Cass., 28 marzo 2002, Ferrara e altri, in Cass. pen., 2003, p. 605; Cass., 23 giugno 2004, Palumbo, ivi, 2005, p. 2704.

[33] Cfr. decreto del Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione di misure di prevenzione, del 15 luglio 2011.

[34] In tal senso, F. Menditto, Commento organico, articolo per articolo, al D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, Simone, 2011, pag. 97.

[35] In proposito la Suprema Corte ha affermato: “il concetto di estraneità è stato variamente inteso nella giurisprudenza di legittimità, essendo stato interpretato, talora, nel senso della mancanza di qualsiasi collegamento, diretto o indiretto, con la consumazione del fatto-reato, ossia nell’assenza di ogni contributo di partecipazione o di concorso, ancorché non punibile, e altre volte nel senso che non può considerarsi estraneo al reato il soggetto che da esso abbia tratto vantaggi e utilità”.

Le Sezioni Unite condividono quest’ultima posizione in quanto sorretta da univoci e convincenti dati interpretativi che concorrono a confermare la portata della nozione di estraneità al resto in termini maggiormente aderenti alla precisa connotazione funzionale della confisca, non potendo privilegiarsi la tutela del diritto del terzo allorquando costui abbia tratto vantaggio dall’altrui attività illecita e dovendo, anzi, riconoscersi la sussistenza, in una simile evenienza, di un collegamento tra la posizione del terzo e la commissione del fatto-reato … (omissis) … non può reputarsi estranea al reato la persona che abbia ricavato un utile dalla condotta illecita del reo, come si verifica, appunto, qualora sulle cose che rappresentano il “provento” del reato sia stato costituito il diritto di pegno a garanzia del proprio credito. Deve sottolinearsi, inoltre, che il concetto di estraneità al reato è individuabile anche in presenza dell’elemento di carattere oggettivo integrato dalla derivazione di un vantaggio dall’altrui attività criminosa, purché sussista la connotazione soggettiva identificabile nella buona fede del terzo, ossia nella non conoscibilità - con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta - del predetto rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato. Lungo la stessa linea interpretativa si muove la pronuncia intervenuta in materia di confisca antimafia, ai sensi dell’art. 3 quinquies della legge n. 575/65, nella quale è stato affermato che non possono considerarsi “terzi”, né ricorre la condizione di estraneità rispetto alle persone che svolgono attività economiche agevolative del fenomeno mafioso, mancando una situazione soggettiva di “sostanziale incolpevolezza” (Corte Cost. 20 novembre 1995, n.487). Nella nozione di estraneità al reato non può mancare, dunque, un’impronta di carattere soggettivo, identificabile nella buona fede del terzo” . Cfr. anche Cass. 9-3-2005, in Cass. pen. 2006, 634; Cass. 227585/2003; 29-10-2003, Gius 2004, 1004; Cass. 19 novembre 2003, n. 47887, San Paolo IMI e altri, in Cass. pen. 2005, n. 870; Cass., 11 febbraio 2005, in Cass. pen. 2006, p. 641; Cass. civ. 29 ottobre 2003, 2004, Dir. fall. soc. comm. 2004, 16; Cass. civ., 29 ottobre 2003, in Dir. fall. soc. comm., 2004, p. 16.

[36] Il previgente articolo 10 della legge 24 luglio 2008, n.125, modificativo in parte qua della legge n. 575/65, e l’attuale articolo 26 del testo in analisi, a norma del quale “quando accerta che taluni beni sono stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi, con il decreto che dispone la confisca il giudice dichiara la nullità dei relativi atti di disposizione”. Inoltre, ai fini del citato vaglio, “si presumono fittizi fino a prova contraria: a) i trasferimenti e le intestazioni, anche a titolo oneroso, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione nei confronti dell’ascendente, del discendente, del coniuge o della persona stabilmente convivente, nonché dei parenti entro il sesto grado e degli affini entro il quarto grado; b) i trasferimenti e le intestazioni, a titolo gratuito o fiduciario, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione”.

[37] Così A. MANGIONE, La “contiguità” alla mafia fra “prevenzione” e “repressione, cit., 707.


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