Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 07/10/2024 Scarica PDF
Azione di arricchimento senza causa e regola della sussidiarietà
Maristella Mariano, Avvocato in AvellinoSommario: 1. Il caso e la rimessione alle Sezioni Unite. – 2. L’azione di arricchimento senza causa. – 3. Gli orientamenti. La sussidiarietà in astratto e la sussidiarietà in concreto. – 4. La posizione assunta dalle Sezioni Unite con sentenza n. 33954 del 5 dicembre 2023: la sussidiarietà rispetto all’azione contrattuale; la sussidiarietà rispetto all’azione extracontrattuale.
1. Il caso e la rimessione alle Sezioni Unite.
Con ordinanza interlocutoria numero 5222 del 20 febbraio 2023, la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione: “Va rimessa alle Sezioni Unite la soluzione del contrasto giurisprudenziale sull’azione di arricchimento, ovverosia se tale azione non sia ammessa solo ove quella svolta in via principale abbia titolo in un contratto o nella legge, oppure se la regola della residualità valga sempre, quale che sia l’azione che si fa valere in via principale”[1].
La vicenda prendeva le mosse dall’alienazione di un terreno edificabile operata da un comune in favore di una società finanziaria. Detto terreno diveniva agricolo a seguito della variazione del Piano di fabbricazione e del regolamento edilizio comunale, con conseguente riduzione del valore di mercato. Atteso il pregiudizio arrecato alla società finanziaria, il comune si impegnava a riattribuire al terreno qualità edificatoria purché la società assumesse l’impegno di realizzare opere di interramento di cavi ad alta tensione per un valore pari ad euro 150 mila.
Nonostante l’esecuzione dei lavori, il terreno non subiva il mutamento di destinazione pattuito, sicché la società agiva in giudizio in via principale con domanda di risarcimento del danno precontrattuale e in via subordinata con domanda di arricchimento sine causa (art. 2041 c.c.). Il Tribunale rigettava la domanda di risarcimento e accoglieva, invece, quella di indebito arricchimento.
La Corte di Appello territoriale accoglieva l’appello proposto dal comune ritenendo la domanda di indebito arricchimento priva della caratteristica della residualità di cui all’art. 2042 c.c. e, dunque, inammissibile.
La sentenza di secondo grado veniva impugnata con ricorso in Cassazione nella parte in cui avrebbe errato nell’interpretazione del criterio della residualità di cui all’art. 2042 c.c., il quale troverebbe applicazione nei soli casi in cui l’azione proposta in via principale sia fondata su un contratto o sulla legge e non quando, invece, la stessa tragga origine da una clausola generale.
L’ordinanza di rimessione, nel sottoporre la questione alle Sezioni Unite, prospettava l’esistenza di due diversi orientamenti in merito all’interpretazione della regola di cui all’art. 2042 c.c. Secondo una prima interpretazione l’azione di arricchimento non è ammessa solo ove quella svolta in via principale abbia titolo in un contratto o nella legge. Secondo una diversa soluzione, contrariamente, la residualità opererebbe sempre.
2. L’azione di arricchimento senza causa.
Al fine di comprendere i termini della decisione in commento è necessaria una breve disamina dell’azione di indebito arricchimento e dell’evoluzione interpretativa subita dalla norma di cui all’art. 2041 c.c.
L’azione di arricchimento ingiustificato (o indebito o senza causa) si fonda su uno scarno sostrato positivo costituito da sole due norme. L’art. 2041 c.c., il quale recita: “Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale. Qualora l’arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata, colui che l’ha ricevuta è tenuto a restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda” e l’art. 2042 c.c. che introduce la citata regola della sussidiarietà, in forza della quale: “L’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può usare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito”.
La ratio della norma è da rinvenire nell’esigenza dell’ordinamento giuridico di controllare, tramite un giudizio di meritevolezza, le motivazioni che sottendono gli spostamenti patrimoniali[2], ragione giustificativa che trova applicazione anche nella disciplina, collocata negli articoli immediatamente precedenti del codice, dell’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo e soggettivo ex latere accipientis ex artt. 2033 e ss. c.c.
Invero, la medesima ratio sottende la disciplina contrattuale della causa, quale elemento essenziale del contratto previsto a pena di nullità (arg. ex artt. 1325, 1343 e 1418, co. 2, c.c.). In altri termini, ogni spostamento patrimoniale deve essere sostenuto da un’idonea motivazione, che sia solvendi, vendendi, donandi, cavendi, ovvero che risponda a un precedente fatto illecito in applicazione dell’art. 2043 c.c.
Chiarito il fondamento giustificativo della norma, i requisiti richiesti dalla stessa ai fini dell’esperimento dell’azione in commento sono cinque: l’esistenza di un arricchimento, ossia uno spostamento patrimoniale; il depauperamento; l’unicità del fatto generatore del contestuale arricchimento e depauperamento e dunque il nesso di causalità tra i due termini della relazione; l’inesistenza di una giusta causa, come sopra chiarito; la generalità e la sussidiarietà dell’azione che può essere esperita solo in assenza di un rimedio previsto dalla legge o dall’ordinamento.
Orbene, pur se le interpretazioni giurisprudenziali relative all’arricchimento sine causa non hanno spostato l’equilibrio dell’istituto dai suoi cinque tratti caratteristici, appaiono opportune alcune notazioni.
Di indubbio interesse è la deroga al principio dell’unicità del fatto. La giurisprudenza è pervenuta, infatti, al riconoscimento di ipotesi di arricchimento indiretto in due principali casi: l’arricchimento indiretto della Pubblica Amministrazione e l’arricchimento indiretto derivante da una prestazione a titolo gratuito[3].
Nel primo caso, l’ammissibilità dell’arricchimento non derivante da un medesimo fatto trova giustificazione nel principio di fungibilità soggettiva degli enti pubblici. Nel secondo caso, il fondamento normativo dell’eccezione alla regola della necessaria correlazione è rinvenuto nell’art. 2038 c.c., norma in materia di indebito oggettivo, rubricata “Alienazione della cosa ricevuta indebitamente”. Siffatta disposizione prevede che nel caso in cui il terzo abbia ricevuto il bene a titolo gratuito, quest’ultimo è tenuto a restituire lo stesso al solvens nei limiti dell’arricchimento. Dal principio enucleato da tale norma emergerebbe la regula iuris ad applicazione generalizzata in forza della quale il depauperato può, anche in sede di azione di arricchimento ingiustificato, agire nei confronti del terzo che si sia arricchito in via indiretta[4].
Fatte salve queste due ipotesi, la giurisprudenza è ferma nel ritenere essenziali tutti i requisiti enunciati ai fini dell’esperibilità dell’azione di indebito arricchimento, tra i quali rileva, per quanto di interesse, la regola della sussidiarietà.
3. Gli orientamenti. La sussidiarietà in astratto e la sussidiarietà in concreto.
Gli orientamenti che emergono dall’ordinanza di rimessione e che le Sezioni Unite riprendono nel dare una soluzione al quesito sottoposto sono principalmente due.
Secondo una prima tesi, sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria e dalla dottrina minoritaria, la regola della sussidiarietà risponderebbe al principio di certezza del diritto. Pertanto, l’esperimento dell’azione di arricchimento nell’ipotesi in cui l’attore sia titolare, anche solo potenzialmente, di azioni alternative, tipiche o atipiche che siano, porrebbe in pericolo la tenuta del sistema. Si istituirebbe, in altri termini, uno strumento generale volto ad eludere la disciplina dei rimedi specifici previsti per le singole ipotesi poste all’attenzione dell’autorità giudiziaria. La sussidiarietà dovrebbe, quindi, essere valutata in astratto, con conseguente esclusione dell’ammissibilità dell’azione di arricchimento sine causa in tutti i casi in cui l’ordinamento preveda altri e diversi rimedi.
Un secondo e più moderato orientamento rinviene la ratio della sussidiarietà nel divieto di garantire all’impoverito la duplice ristorazione di un medesimo pregiudizio, sicché la regola di cui all’art. 2042 c.c. dovrebbe essere interpretata come sussidiarietà in concreto, nel senso di ritenere esperibile l’azione allorquando, seppure un rimedio alternativo fosse esistente, lo stesso non potrebbe, per contingenze collegate al caso di specie, essere impiegato. Siffatta soluzione garantirebbe un’idonea tutela al depauperato assicurando, al contempo, il rispetto del divieto di duplicazioni risarcitorie.
Orbene, la questione sottoposta alle Sezioni Unite trae origine dal concetto di rimedio previsto dall’ordinamento: ossia se, per rimedio, debba intendersi la sola azione tipica (id est azione contrattuale o di ripetizione dell’indebito[5]) o anche quella atipica fondata su clausole generali (artt. 1337 e 2043 c.c.).
4. La posizione assunta dalle Sezioni Unite con sentenza n. 33954 del 5 dicembre 2023: la sussidiarietà rispetto all’azione contrattuale; la sussidiarietà rispetto all’azione ex art. 2043 c.c.
Tanto premesso, la Suprema Corte, dato atto dell’esistenza dei due chiariti orientamenti in materia, adotta, solo apparentemente una soluzione mediana.
In via preliminare, la Corte afferma che l’opinione tradizionale è ferma nel ritenere che la sussidiarietà debba essere intesa in astratto, nel senso che l’azione ex art. 2041 c.c. sarebbe esperibile da parte del depauperato solo quando l’ordinamento giuridico non appresti alcun altro rimedio per ottenere l’indennizzo del pregiudizio subito. La mera esistenza di un’altra azione precluderebbe l’esperibilità del rimedio in commento, in ottemperanza alla ratio della sussidiarietà costituita dalla certezza dei rimedi giurisdizionali.
Siffatta soluzione, tuttavia, va temperata con il riferimento alla fondatezza nel merito della domanda principale, ossia dell’azione prevista dall’ordinamento a tutela di quella specifica posizione giuridica. Il Supremo Consesso, infatti, ribadisce come la giurisprudenza di legittimità abbia da alcuni decenni alleggerito la portata del principio di sussidiarietà in astratto ammettendo la successiva esperibilità dell’azione di arricchimento sine causa nelle ipotesi in cui l’azione principale risulti infruttuosa perché a priori insussistente, cosicché la regola della sussidiarietà troverebbe piena applicazione allorché il rigetto consegua all’accertamento della relativa infondatezza nel merito per carenza ab origine del titolo[6] .
Conferma di ciò si rinviene anche nella sentenza a Sezioni Unite n. 22404/2018, con cui i giudici di legittimità hanno affermato l’ammissibilità della domanda ex art. 2041 c.c. anche se proposta nella prima memoria di cui all’art. 183, co. 6, c.p.c., trattandosi di domanda connessa per incompatibilità con quella principale.
Attese le acquisizioni sul punto, le Sezioni Unite enucleano la soluzione al quesito sottoposto operando una netta distinzione tra sussidiarietà rispetto alle azioni contrattuali e sussidiarietà rispetto all’azione ex art. 2043 c.c.
La Corte affronta dapprima l’ipotesi in cui l’azione principale sia andata perduta per causa imputabile all’impoverito. In tal senso viene nuovamente richiamato il disposto di cui all’art. 2042 c.c. che, nell’interpretazione del Supremo Consesso costituisce il dato positivo che preclude l’accesso alla teoria della sussidiarietà in concreto. Per cui, nel caso in cui l’azione alternativa astrattamente sussistente non possa più essere esercitata, determinando il venir meno dell’alternatività nel momento in cui si agisce in giudizio, la sussidiarietà dovrà egualmente operare nella misura in cui la perdita dell’azione sia da imputare al comportamento negligente dell’attore. Si pensi alle più frequenti ipotesi di decorrenza del termine di prescrizione e di decadenza.
In secondo luogo, chiarito che l’azione ex art. 2041 c.c. è astrattamente esperibile in ipotesi di nullità contrattuale proprio a causa dell’inesistenza ab origine del titolo e, dunque, di azioni tipiche che dallo stesso traggono origine, il rimedio risulta precluso in ipotesi di accertata nullità derivante da illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico. Siffatta soluzione sembra richiamare il principio della “in pari causa turpitudinis” di cui all’art. 2035 c.c. che preclude la ripetibilità delle prestazioni eseguite per uno scopo, comune alle parti, contrario al buon costume. La critica, tuttavia, attiene all’estensione dell’irripetibilità alle prestazioni che risultino contrarie anche alle norme imperative e all’ordine pubblico, in difformità rispetto alla voluntas legis che limita la deroga all’art. 2033 c.c. alle sole prestazioni contrarie al buon costume.
Infine, sul versante probatorio, la sussidiarietà opera qualora l’azione contrattuale non sia andata a buon fine a causa del mancato adempimento dell’onere della prova. Anche tale osservazione può essere fatta oggetto di critiche, nella misura in cui la carenza di prova non sempre è imputabile alla parte che agisce in giudizio, la quale potrebbe essersi trovata nell’impossibilità di fornire adeguata prova, come nel caso, certamente più evidente nelle ipotesi di responsabilità extracontrattuale, di inesistenza del danno-conseguenza.
Quanto all’operatività della regola della sussidiarietà rispetto all’azione di risarcimento del danno extracontrattuale, la Corte supera l’orientamento volto a sostenere l’applicabilità dell’art. 2042 c.c. alle sole ipotesi di azioni alternative tipiche. Le Sezioni Unite, infatti, chiariscono che anche allorquando l’azione principale tragga fondamento da clausole generali, come quella di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. o quella del neminem laedere ex art. 2043 c.c., debba trovare applicazione la regola della sussidiarietà in astratto al fine di scongiurare il rischio di elusione della norma e di violazione del principio di certezza del diritto che ne è alla base.
Sèguita la Corte enucleando le distinzioni che sottendono le azioni risarcitorie extracontrattuali dall’ipotesi di arricchimento sine causa.
Un primo elemento distintivo sarebbe da rinvenire nella rilevanza, nelle azioni di cui alla prima categoria, dell’elemento soggettivo. Tuttavia, si è osservato in senso critico che l’esistenza dell’elemento soggettivo non costituisce più l’unico criterio di imputazione della responsabilità extracontrattuale, come è dimostrato dalle plurime ipotesi di responsabilità oggettiva di cui agli artt. 2051, 2052, 2053 e 2054, co. 4, c.c., in cui la responsabilità si fonda sulla sola esistenza del nesso di causalità, essendo irrilevante la prova del dolo o della colpa.
Ulteriore differenza risiede nella circostanza per cui nell’azione di arricchimento ingiustificato, a differenza della diversa azione di risarcimento del danno, mancherebbe la lesione di una posizione giuridica soggettiva riconosciuta e tutelata da una norma, sicché il danno sarebbe certamente ingiustificato, ma mai ingiusto. Anche tale conclusiva affermazione è stata oggetto di opinioni dissenzienti. Infatti, la Suprema Corte, ancora una volta, non tiene conto delle ipotesi di illeciti appropriativi[7] in cui non figura un vero e proprio danno-conseguenza in termini di perdita patrimoniale, ma di mancato guadagno e che, aderendo alla regola di sussidiarietà in astratto indicata dalla Corte, determinerebbe la totale irrisarcibilità di tali categorie di danni che oltre ad essere ingiustificati sono certamente anche ingiusti.
In definitiva la Corte enuncia il seguente principio di diritto:
“Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo. Viceversa, resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico”.
[1] Cass. civ., sez. III, ordinanza interlocutoria del 20 febbraio 2023, n. 5222.
[2] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, XIX edizione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2019, p. 711.
[3] SS.UU., sentenza dell’8 ottobre 2008, n. 24772.
[4] La Suprema Corte con sentenza n. 24772/2008 ha precisato che la nozione di medesimo fatto che sottende l’esperibilità dell’actio de in rem verso non viene superata dalla dottrina e dalla giurisprudenza inclini a riconoscere l’arricchimento indiretto. Trattasi, infatti, di mere interpretazioni eccezionali che, attese le ragioni giustificative, si sono rese necessarie al fine di assicurare la funzione che tale azione assolve, ossia quella equitativa di evitare spostamenti patrimoniali privi di causa giustificatrice. Tanto premesso, le Sezioni Unite affermano che: “Di recente, si è (condivisibilmente) osservato, in proposito, come l'aspetto più appagante di questa dottrina sia rappresentato dal fatto che l'ancoraggio all'art. 2038 c.c., per un verso, fornisce il necessario fondamento normativo al riconoscimento di una (sia pur circoscritta) fattispecie arricchimento mediante intermediario, per l'altro, induce ad una interpretazione più elastica dell'art. 2042 c.c.”. Pertanto, già emergeva, seppure in termini di mera possibilità, l’orientamento del quale si darà conto, volto a moderare la portata preclusiva del requisito della sussidiarietà.
[5] Il rapporto tra azione di ripetizione dell’indebito oggettivo e azione di indebito arricchimento lambisce, invero, la differenza che intercorre tra prestazione avente ad oggetto un obbligo di dare e prestazione avente ad oggetto un facere. Infatti, in tutti i casi in cui il titolo contrattuale venga meno a causa di nullità successivamente all’adempimento della prestazione da parte di uno dei contraenti, la soluzione obbligata, al fine di assicurare le opportune restituzioni, sarebbe quella di ricorrere all’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo. Tuttavia, nel caso di prestazioni di facere la dottrina maggioritaria ritiene non esperibile la relativa azione a causa dell’impossibilità di provvedere all’esatta restituzione di quanto prestato sine causa, pertanto, l’unica azione esperibile sarebbe quella di arricchimento ingiustificato.
[6] Cass. civ., sentenze nn. 4398/1979, 3228/1995, 29988/2018.
[7] Fermo il costante e prevalente, se non totalitario, orientamento giurisprudenziale propenso ad escludere la qualificazione dell’art. 2041 c.c. alla stregua di regola risarcitoria alternativa o integrativa rispetto a quella di cui all’art. 2043, è possibile rinvenire un’ipotesi normativamente codificata di tale avversata tecnica risarcitoria nel disposto dell’art. 125 del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale), in forza del quale: “1. Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del codice civile, tenuto conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall'autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione. 2. La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano. In questo caso il lucro cessante è comunque determinato in un importo non inferiore a quello dei canoni che l'autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso. 3. In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall'autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento”. Come ictu oculi evidente, il comma terzo ricorre alla tecnica della retroversione del profitto, ossia della restituzione dell’arricchimento anche in assenza di illecito distruttivo e di danno conseguenza, in aggiunta o in sostituzione rispetto al lucro cessante.
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