Civile


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 14/08/2024 Scarica PDF

Appalto con bonus fiscali tra sopravvenienze e rimedi civilistici

Giuseppe Vertucci, Professore a contratto di diritto privato nell’Università degli Studi di Torino


Sommario: 1. I bonus fiscali del Decreto Rilancio e la successiva decretazione d’urgenza. - 1.1 segue: Il mercato dei crediti d’imposta ed il fenomeno dei c.d. «crediti incagliati». - 2. Un possibile inquadramento del rapporto tra committente ed impresa esecutrice dei lavori in regime di bonus fiscali. - 3. La mancata esecuzione delle opere appaltate: i rimedi a disposizione del committente. - 4. I rimedi a disposizione dell’impresa appaltatrice inadempiente a causa dei c.d. «crediti incagliati». - 4.1 segue: Il rimedio risolutorio ex art. 1467 c.c. - 4.2 segue: Il rimedio risolutorio ex art. 1463 c.c. - 4.3 segue: I rimedi manutentivi - 5. La posizione dei subappaltatori e dei fornitori dell’impresa appaltatrice inadempiente a causa dei c.d. «crediti incagliati». - 6. L’incidenza della sopravvenienza normativa sul contratto di transazione. - 7. Brevi riflessioni conclusive.



 

1. I bonus fiscali del Decreto rilancio e la successiva decretazione d’urgenza

Il legislatore della ripartenza a maggio del 2020 ha introdotto una misura, denominata superbonus 110%, al dichiarato fine di aiutare la ripresa economica dell’Italia nella fase post pandemica, attraverso cui sono stati incentivati interventi di manutenzione edilizia straordinaria, con particolare riferimento all’efficientamento energetico ed antisismico degli immobili esistenti sul territorio nazionale[1].

Senza pretesa di esaustività, in questa sede si ripercorreranno sinteticamente i provvedimenti normativi principali e più significativi ai fini della trattazione del tema inerente ai possibili rimedi di diritto civile esperibili dall’impresa esecutrice dei lavori per reagire al fenomeno dei c.d. «crediti incagliati».

Il d.l. n. 34/2020, convertito nella l. n. 77/2020[2], muoveva dalla necessità di aiutare la ripresa economica dell’Italia dopo la pandemia e per tale ragione è stato denominato Decreto Rilancio; tra le misure approntate, è stato previsto l’incentivo fiscale del superbonus 110% delle spese sostenute tra il 1° luglio 2020 e il 31 dicembre 2021 (termine finale successivamente prorogato)  per specifici interventi volti ad incrementare l’efficienza energetica degli edifici (ecobonus), la riduzione del rischio sismico (sismabonus) e per interventi ad essi connessi relativi all’installazione di impianti fotovoltaici e colonnine per la ricarica di veicoli elettrici.

Al fine di promuovere ancor più l’incentivo fiscale e, per tale via, assicurare la massima spinta possibile alla fase della ripartenza post pandemica, l’art. 121 del Decreto Rilancio ha previsto per il committente dei lavori ricadenti nell’agevolazione fiscale, in luogo dell’utilizzo diretto della detrazione fiscale, due possibilità alternative: (i) l’opzione per un credito d’imposta mediante sconto in fattura, di importo pari alla detrazione spettante, con facoltà di successiva cessione del credito ad altri soggetti, compresi gli istituti di credito e gli altri intermediari finanziari (art. 121, co. 1, lett. a) del Decreto Rilancio); (ii) oppure, l’opzione per la cessione del credito di imposta, di importo pari alla detrazione spettante, con facoltà di successiva cessione ad altri soggetti, compresi gli istituti di credito e gli altri intermediari finanziari nonché compresa l’impresa appaltatrice (art. 121, co. 1, lett. b) del Decreto Rilancio).

Lo sconto in fattura e la cessione del credito di imposta presentavano un indubbio vantaggio, sia per il committente sia per l’impresa appaltatrice. Per il primo, lo sconto in fattura non esponeva ad un anticipo in denaro del corrispettivo di appalto, rendendo i lavori non solo eseguibili gratuitamente ma addirittura senza previo esborso di denaro; la cessione, invece, apriva ad un mercato del trasferimento del credito di imposta che consentiva di monetizzarlo per (ri)avere liquidità o di cederlo ad intermediari finanziari, a banche ed anche all’impresa appaltatrice. Per l’impresa appaltatrice detti incentivi presentavano un duplice vantaggio, ovverosia quello di una maggior competitività con la possibilità di acquisire un maggior numero di commesse (e quindi di conseguire un maggior utile d’impresa) rispetto al passato e quello di poter ottenere pronta liquidità nel mercato delle cessioni dei crediti di imposta anche al fine di ulteriormente finanziare i piani industriali proprio nel settore incentivato.  

Tra le finalità del legislatore della ripartenza post pandemica vi erano senz’altro quella di favorire la ristrutturazione, l’efficientamento energetico e la messa in sicurezza di tutto il patrimonio edilizio, nonché la ripresa dell’economia del comparto edilizio che da molti anni registrava una situazione di stallo con conseguenti criticità pure per i livelli occupazionali in tale settore.

La pressocché assenza di vacatio legis del Decreto Rilancio e della sua legge di conversione dimostra l’urgenza avvertita dal legislatore della ripartenza di arginare una crisi dilagante acuita oltremodo dalla tragica esperienza pandemica.

Sennonché, del tutto inaspettatamente e repentinamente, tale assetto normativo è stato profondamente modificato dal d.l. n. 4/2022, denominato Decreto Sostegni-ter,[3] convertito nella l. n. 25/2022, che , al fine di contrastare alcune frodi originatesi all’indomani dell’entrata a regime degli incentivi fiscali, ha modificato il Decreto Rilancio[4], inibendo, in particolare, ai cessionari dei crediti di cui agli artt. 121 e 122 cit. di cedere a loro volta i medesimi crediti, allo scopo di scongiurare una catena di cessioni che – come riscontrato nell’esperienza applicativa dall’Amministrazione finanziaria – mirava a dissimulare l’origine effettiva dei crediti, invero esistenti, con l’intento di monetizzarli e di distrarre la successiva provvista finanziaria ottenuta.

Alla luce della novella, da gennaio 2022 è stato consentito esclusivamente: (i) in caso di opzione per lo sconto in fattura ex art. 121, co. 1, lettera a), del Decreto Rilancio, all’impresa di cedere il credito, ma il cessionario non ha più potuto a sua volta cederlo; (ii) in caso di cessione del credito ex art. 121, co. 1, lettera b), del Decreto Rilancio, nonché ai sensi del co. 1 dell’art. 122 del decreto medesimo, da parte del beneficiario originario, è stato previsto il divieto di successive cessioni da parte del primo cessionario.

La situazione, già fortemente critica ed inaspettata, è ulteriormente peggiorata in conseguenza dell’adozione del d.l. n. 11/2023[5], convertito nella l. n. 38/2023, che dal 17 febbraio 2023, allo scopo di adottare misure per la tutela della finanza pubblica nel settore delle agevolazioni fiscali ed economiche in materia edilizia, ha posto due ulteriori divieti: (i) il divieto alle pubbliche amministrazioni di acquistare i crediti di imposta derivanti dall’esercizio delle opzioni per la cessione del credito e dello sconto in fattura; (ii) il divieto di optare, in luogo della fruizione diretta della detrazione, per lo sconto in fattura e per la cessione del credito di imposta. Le norme in esame – pur riconoscendo una serie di condizioni in presenza delle quali, ad alcuni interventi già in corso, non si è applicato il divieto – hanno decretato il tramonto dei predetti bonus fiscali (e non solo delle cessioni successive).

La stretta definitiva agli incentivi suddetti è stata attuata, sempre al proclamato fine di prevedere ulteriori e più incisive misure per la tutela della finanza pubblica nel settore delle agevolazioni fiscali in materia edilizia e di efficienza energetica, con l’adozione del d.l. n. 39/2024[6], cosiddetto Decreto Cessioni o Salva Spese o Decreto Superbonus 2024, convertito nella l. n. 67/2024, che ha eliminato ulteriori facoltà legate allo sconto in fattura e alla cessione del credito ed ha limitato finanche l’utilizzo diretto dell’agevolazione fiscale da parte del titolare[7].

 

1.1 segue: Il mercato dei crediti d’imposta ed il fenomeno dei c.d. «crediti incagliati»

Nell’ottica della massima incentivazione degli interventi indicati (riqualificazione energetica degli edifici e loro adeguamento antisismico), il legislatore della ripartenza, come visto, ha aggiunto, all’utilizzo diretto della detrazione fiscale spettante al committente (ipotesi ordinaria), due modalità di fruizione del beneficio fiscale, richiedenti l’accordo delle parti, ed innescanti un sistema di circolazione del credito d’imposta e, pertanto, un mercato delle cessioni.

La prima opzione è stata lo sconto in fattura, ovverosia la previsione di un contributo – sotto forma di sconto sul corrispettivo dovuto per i lavori, di ammontare massimo pari al corrispettivo medesimo – anticipato dalle imprese che hanno effettuato gli interventi e da questi ultimi recuperato sotto forma di credito d’imposta,di importo pari alla detrazione spettante, a sua volta suscettibile di cessione ai sensi del co. 1, lett. a) del Decreto Rilancio. Oppure, in alternativa, la seconda opzione è stata la cessione di un credito d’imposta di pari ammontare ad altri soggetti, comprese le imprese appaltatrici, gli istituti di credito e gli altri intermediari finanziari, a sua volta suscettibile di cessione, nei termini più volte modificati del co. 1, lett. b) del Decreto Rilancio, o di essere portato in compensazione con debiti erariali.

Senza pretesa di completezza, si crede di poter osservare che, dal punto di vista civilistico, gli strumenti fiscali previsti dal legislatore della ripartenza siano riconducibili a due schemi. Più semplice appare qualificare la cessione del credito di imposta, dal momento che il diritto alla detrazione (verso lo Stato), una volta trasformato per legge in credito di imposta suscettibile di vicende circolatorie, diviene un bene giuridico a sé stante soggetto alla normativa impostata dagli artt. 1260 e ss. c.c. ed eterodeterminata in parte dalla normativa dei bonus fiscali. Più complesso, invece, si presenta il tentativo di qualificazione dello sconto in fattura: in tale fattispecie il diritto alla detrazione viene trasferito sulla base della volontà delle parti in quanto tale trasferimento è consentito dalla legge; tale trasferimento in capo all’impresa e il pagamento da parte di questa delle somme necessarie ad eseguire i lavori determina l’insorgenza in capo all’impresa del credito di imposta corrispondente; si tratta, pertanto, di una fattispecie a formazione progressiva che, grazie all’attività sostitutiva dell’impresa che paga i lavori (in luogo del committente), genera una sostituzione del soggetto che beneficia della detrazione fiscale (l’impresa in luogo del committente) sotto forma di credito di imposta, destinato a circolare secondo quanto sopra detto.  

Il mercato dei crediti d’imposta è stato però bruscamente ed inaspettatamente interrotto a partire dall’entrata in vigore del Decreto Sostegni-ter che, eliminando la possibilità della ulteriore cessione, ha provocato come conseguenza immediata il fatto che gli istituti bancari e gli altri intermediari finanziari hanno cessato all’improvviso di rendersi cessionari dei crediti fiscali contribuendo a creare il fenomeno dei c.d. «crediti incagliati».

L’esperienza applicativa della cessione tra soggetti privati ha conosciuto la prassi dell’acquisto dei crediti di imposta ad un prezzo inferiore rispetto al loro valore nominale; il delta differenziale ha avuto la funzione di remunerare la monetizzazione immediata del vantaggio fiscale che, altrimenti, secondo la logica dell’utilizzo diretto, avrebbe comportato l’attesa pluriennale per la detrazione da parte del beneficiario; un medesimo fenomeno ha riguardato le ulteriori cessioni. In altri termini, il credito d’imposta – quale bene giuridico autonomo e come tale suscettibile di vicende circolatorie – è stato negoziato nel suo mercato dedicato normalmente a titolo oneroso e sulla scorta di tale carattere si sono giustificati i trasferimenti ad un valore inferiore rispetto a quello nominale (il delta differenziale ha costituito, appunto, il corrispettivo della cessione). Il fenomeno dei c.d. «crediti incagliati» è stato, altresì, acuito  dall’aumento dei tassi di interesse attivi, nonché probabilmente dalla saturazione della capacità di acquisto dei crediti di imposta da parte delle banche e degli altri intermediari finanziari, fattori, questi, che hanno determinato via via l’aumento dei corrispettivi di cessione nel momento in cui tali soggetti rivestivano la qualità di cessionario, innescandosi, di conseguenza, una rilevante inflazione nel mercato delle cessioni (aumento dei corrispettivi delle cessioni che, intanto, aveva già eroso l’utile di impresa).

Tale situazione ha, pertanto, originato una imponente ed incolpevole crisi di liquidità per le imprese appaltatrici, che si sono all’improvviso ritrovate titolari di crediti fiscali per importi talvolta esorbitanti in luogo della liquidità che sarebbe loro derivata dalla monetizzazione degli stessi sul mercato delle cessioni; in assenza di liquidità esse da un lato non sono riuscite a completare i lavori appaltati o li hanno completati in ritardo e dall’altro lato non hanno avuto la possibilità di investire in altri progetti imprenditoriali[8].

 

2. Un possibile inquadramento del rapporto tra committente ed impresa esecutrice dei lavori in regime di bonus fiscali

Prima di addentraci nel delicato tema delle conseguenze derivanti dalla mancata esecuzione dei lavori assunti in regime di bonus fiscali ex Decreto Rilancio, pare utile soffermarsi sulla natura del rapporto contrattuale intercorrente tra il committente interessato a fruire dell’agevolazione fiscale e l’impresa interessata ad eseguire i lavori con lo sconto in fattura o la cessione del credito di imposta.

Invero, nulla quaestio con riguardo all’ipotesi dell’utilizzo diretto dell’agevolazione fiscale da parte del committente dal momento che, essendo in questo caso il corrispettivo pagato in denaro, non vi è dubbio che ricorre la fattispecie del contratto di appalto di cui all’art 1655 c.c.

Nell’ipotesi in cui il committente, invece, opti, in luogo della detrazione diretta dell’agevolazione fiscale, per lo sconto in fattura oppure per la cessione del credito di imposta, occorre procedere ad un distinguo: il primo caso, almeno di primo acchito, sembrerebbe allontanarsi dalla fattispecie dell’appalto dal momento che il corrispettivo viene pagato, anziché in denaro, mediante una successione nel credito di imposta a favore dell’impresa appaltatrice; nel secondo caso, invece, si resta nella fattispecie del contratto di appalto atteso che il corrispettivo viene comunque pagato in denaro e la cessione del credito di imposta maturato sarà vicenda circolatoria successiva che permetterà al committente di trasferire, attraverso distinto e autonomo contratto di cessione, anche all’impresa appaltatrice, il credito medesimo e quindi di monetizzarlo.

Analizzando, allora, l’ipotesi dello sconto in fattura, la natura di contratto di appalto del rapporto negoziale in parola non pare mutare al punto da integrare l’ipotesi del contratto misto che, come tale, dovrebbe presentare una causa mista ovvero la compresenza di due o più cause di contratti tipici: nell’ipotesi in esame, oltre agli elementi sinallagmatici del contratto d’appalto, infatti, non si rintracciano altri e diversi elementi appartenenti a diversi contratti nominati.

È ben vero che il contratto di appalto, ex latere committente, da oneroso parrebbe divenire gratuito in conseguenza dell’opzione dello sconto in fattura (e, quindi, della successione a favore dell’impresa appaltatrice nel credito di imposta), ma la gratuità del contratto è solo apparente in quanto il corrispettivo non viene pagato in denaro, bensì con l’agevolazione fiscale (e, pertanto, mediante l’attribuzione al committente di un credito d’imposta da parte dello Stato, che rinuncia ad esercitare la pretesa fiscale); di contro, poi, ex latere impresa appaltatrice, neppure si pone il dubbio circa la gratuità della fattispecie. Si può concludere, pertanto, che il contratto anche nell’ipotesi dello sconto in fattura conserva carattere oneroso (la gratuità dell’opera per il committente derivante dal concesso beneficio fiscale, quindi, non deve essere confusa con la gratuità del contratto); e tale carattere depone certamente per la sua riconducibilità all’art. 1655 c.c.

Concentrando l’attenzione, ancora, sulla anomalia della prestazione del committente che paga non in denaro, secondo lo schema tipico, bensì con la successione nel credito di imposta a seguito della scelta dello sconto in fattura, la tipicità, a ben vedere, non viene scalfita tenuto conto che la disciplina del tipo prevalente si deve applicare, non solo al caso dei contratti misti (ipotesi che abbiamo escluso), ma anche a quei contratti che, pur non essendo tali, presentino prestazioni aventi un contenuto anomalo o anfibiologico rispetto alla fattispecie legale tipica[9]. 

Orbene, pare potersi affermare che l’appalto con bonus fiscale sia riconducibile a due distinte ipotesi: nel caso di utilizzo diretto del credito d’imposta da parte del committente, ricorre certamente la fattispecie dell’appalto, dal momento che il corrispettivo viene pagato in denaro, e alla stessa conclusione deve pervenirsi per l’opzione della cessione del credito di imposta atteso che anche in tale ipotesi il corrispettivo viene pagato in denaro ed il credito di imposta potrà essere oggetto di successiva cessione; nel caso, invece, della scelta dello sconto in fattura, ricorre la fattispecie tipica dell’appalto e il pagamento del corrispettivo (non in denaro, ma) mediante la successione nel credito d’imposta – che si realizza mediante l’accordo delle parti sulla diversa modalità di adempimento – costituisce, pertanto, un’ipotesi di datio in solutum legalmente tipizzata.

Le parti nell’ambito della loro autonomia contrattuale possono prevedere che il pagamento del corrispettivo avvenga in denaro o con sconto in fattura.

Nel caso di opzione per lo sconto in fattura non sembra potersi vietare alle parti di prevedere che, in caso di mancata maturazione del credito d’imposta, il corrispettivo sia comunque dovuto in denaro. Vietata pare essere, invece, una clausola che stabilisca, in caso di mancata maturazione del credito d’imposta, il mancato pagamento del corrispettivo ostandovi il generale divieto di donazione futura (cfr. art. 771 c.c.)[10].

Neppure vietata sembra essere la possibilità di stabilire che il pagamento del corrispettivo debba avvenire in denaro o con altre modalità esattamente individuate, quale, per quanto interessa nella presente indagine, lo sconto in fattura, integrandosi un’ipotesi di obbligazione con facoltà alternativa di adempimento ex art. 1285 c.c.

 

3. La mancata esecuzione delle opere appaltate: i rimedi a disposizione del committente

La mancata esecuzione dei lavori in regime di bonus fiscali o la loro esecuzione tardiva genera la responsabilità contrattuale dell’appaltatore nel caso in cui l’inadempimento non sia stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, secondo il principio di cui all’art. 1218 c.c.

L’inadempimento nei contratti a prestazioni corrispettive, tra cui deve annoverarsi il contratto di appalto, offre al committente la possibilità di domandare l’adempimento, ove permanga l’interesse per la prestazione, oppure la risoluzione per inadempimento, laddove tale interesse sia venuto meno, sempre salvo il risarcimento del danno, secondo le norme di cui agli artt. 1453 e ss. c.c.

L’inadempimento legittimante la risoluzione è quello che non è di scarsa importanza avuto riguardo all’interesse del committente secondo l’art. 1455 c.c.

In argomento, laddove le parti di un contratto di appalto pattuiscano un termine di fine lavori e questo venga violato, occorre una indagine circa la non scarsa importanza di tale inadempimento, tranne il caso di pattuizione di clausola di risoluzione ipso iure del contratto (quale, principalmente, il termine essenziale ex art. 1457 c.c.), che limita l’indagine giudiziale all’accertamento dell’inadempimento essendo già stata fissata pattiziamente la rilevanza di quest’ultimo. 

Nel caso in cui, invece, le parti abbiano stipulato un contratto di appalto esteriorizzando l’interesse a conseguire il bonus fiscale, è indubbio che, anche a prescindere dalla pattuizione di un termine per l’adempimento ed anche in assenza di clausole di risoluzione di diritto del contratto, la mancata esecuzione entro il termine previsto per fruire del credito d’imposta costituisce inadempimento di non scarsa importanza avuto riguardo all’interesse del committente con la possibilità di invocare i rimedi anzi detti.

Giova in ultimo rilevare che se le parti, senza esteriorizzare la volontà di avvalersi del bonus fiscale, si sono tuttavia determinate a concludere il contratto di appalto sulla base del presupposto, anche tacito, della possibilità di fruire dello sconto in fattura o della cessione del credito d’imposta e poi tale possibilità sfuma per lo sforamento dei termini di esecuzione dei lavori rispetto ai termini imposti per fruire delle agevolazioni fiscali, ove la causa dell’inadempimento sia imputabile all’appaltatore, è possibile invocare l’adempimento o la risoluzione del contratto, oltre che la richiesta di risarcimento del danno coincidente con la perdita di chance.

A proposito del danno per perdita di chance,la giurisprudenza di merito affacciatasi in argomento ha identificato il pregiudizio patito dal committente nella differenza tra il vantaggio ottenibile mediante accesso al superbonus e il vantaggio solo parziale ottenibile mediante altri bonus minori (scelti in sostituzione del primo per mancata esecuzione tempestiva delle opere con riferimento alle finestre temporali previste dalla normativa sugli incentivi fiscali)[11].

È stato precisato che in tema di risarcimento del danno, la chance consiste nella seria e consistente possibilità di ottenere il risultato sperato, la cui perdita, distinta dal risultato perduto, è risarcibile, trattandosi di una situazione giuridica a sé stante e suscettibile di autonoma valutazione patrimoniale, a condizione che di essa sia provata la sussistenza, tenendo, peraltro, conto che l’accertamento del nesso di causa avente ad oggetto la perdita di chance di conseguire un risultato utile non richiede anche l’accertamento della concreta probabilità di conseguirlo[12].

Tuttavia, è stato affermato che la mera scadenza del termine utile ad accedere al beneficio fiscale non determina in automatico il danno, essendo onerato il committente della prova circa l’impossibilit à di reperire altre imprese cui conferire l’incarico dei lavori al fine di fruire delle agevolazioni fiscali nel rispetto dei termini via via prorogati per legge, nonché il nesso di causalità tra l’inadempimento dell’impresa appaltatrice e la definitiva impossibilit à di reperire in tempo utile altre imprese in grado di ultimare i lavori[13].

Ancora in tema di onere della prova in un’altra occasione la giurisprudenza ha correttamente ritenuto che, in assenza di elementi sulla particolare situazione reddituale del ricorrente, che consentano di escludere la possibilità di accesso ad una agevolazione minore, non è possibile accogliere la richiesta di risarcimento con riguardo alla perdita di chance dell’intera agevolazione maggiore[14].

Amplia la dimensione del pregiudizio risarcibile una opinione[15] secondo cui il danno, nel senso di mancato guadagno, consiste non solo ma anche nell’accrescimento di valore dell’immobile dopo la realizzazione delle opere di efficientamento energetico.

 

4. I rimedi a disposizione dell’impresa appaltatrice inadempiente a causa dei c.d. «crediti incagliati»

Le imprese appaltatrici dei lavori all’indomani dell’entrata in vigore del Decreto Rilancio hanno investito liquidità per dotarsi dell’organizzazione necessaria ad affrontare le lavorazioni di numerosi cantieri, talvolta anche decisamente impegnativi per il volume delle opere da realizzare; tale ingente investimento hanno sopportato sull’affidamento incolpevole e ragionevole che avrebbero ricevuto, quale corrispettivo dell’opera, la sicura monetizzabilità del credito d’imposta e, quindi, il recupero della liquidità investita e l’utile di impresa. Con il blocco delle cessioni, avvenuta ad opera del Decreto Sostegni-ter e della successiva decretazione d’urgenza, il diffuso e irremovibile rifiuto delle banche e degli altri intermediari finanziari a rendersi cessionari dei crediti di imposta ormai acquisiti dalle imprese determinava il fenomeno dei c.d. «crediti incagliati» e in taluni casi una diffusa e strutturata crisi di liquidità.

Secondo i principi generali in materia di inadempimento, l’impresa appaltatrice, laddove non abbia eseguito i lavori o li abbia eseguiti non in tempo utile a consentire l’accesso al beneficio fiscale per causa alla stessa non imputabile, non deve risarcire il danno al committente ricorrendo l’esimente ex art. 1218 c.c.

 

4.1 segue: Il rimedio risolutorio ex art. 1467 c.c.

La decretazione d’urgenza successiva al Decreto Rilancio, per contenuti e rapidità di adozione dei provvedimenti, in assenza di strumenti normativi di gestione dei c.d. «crediti incagliati» e della conseguente crisi di liquidità, quale fatto in alcun modo ascrivibile alle imprese appaltatrici, costituisce evento straordinario ed imprevedibile ovvero sopravvenienza normativa (pregiudizievole)[16].

Nei contratti di appalto prevedenti quale corrispettivo lo sconto in fattura si è verificato improvvisamente ed inevitabilmente uno squilibrio sinallagmatico a sfavore delle imprese, le quali in taluni casi si sono determinate a concludere l’appalto espressamente pattuendo tale modalità di pagamento del corrispettivo ed in altri presupponendola, avendo interesse a monetizzare i crediti fiscali per mezzo della seconda cessione prima consentita dalla legge e poi vietata.

Non pare, quindi, peregrino ipotizzare che le imprese appaltatrici possano invocare la risoluzione del contratto di appalto per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione ex art. 1467 c.c., nei casi in cui, sulla scorta degli accordi espressi oppure dell’istituto della presupposizione[17], laddove difetti l’esteriorizzazione negoziale dell’interesse alla monetizzabilità del credito di imposta, il bonus fiscale abbia costituito modalità di adempimento del corrispettivo di appalto.

In questa ottica è utile domandarsi allora se di fronte al sopraggiungere di una norma imperativa – tale essendo l’art. 121 del Decreto Rilancio nella nuova formulazione conseguente alla modifica apportata dal Decreto Sostegni-ter che ha vietato l’ulteriore cessione del credito di imposta inaugurando un trend normativo sempre più restrittivo –, possa essere azionato il rimedio in parola.

La norma inderogabile citata, a ben vedere, però non incide sul contratto di appalto vietando direttamente la prestazione ivi dedotta (nel qual caso la prestazione non sarebbe maggiormente dispendiosa per l’obbligato, ma diverrebbe impossibile giuridicamente, con conseguente risoluzione ex art. 1463 c.c. o 1464 c.c., qualora l’impossibilit à fosse solo parziale), ma lo influenza in via secondaria, in quanto vieta una determinata modalità di esecuzione della prestazione (lo sconto in fattura).

Autorevole dottrina, pur ritenendo che esulino dal campo di applicazione degli articoli 1467 e ss. c.c. tutte le ipotesi in cui le prestazioni siano conformate da norme imperative, precisa, tuttavia, che ciò non significa escludere l’applicabilità del rimedio in ogni caso in cui la norma imperativa incida sul contratto, essendo la risoluzione preclusa solamente allorquando l’onerosità leda proprio l’interesse tutelato dalla norma inderogabile e non qualora lo squilibrio inerisca interessi diversi[18].

Nel caso di appalto stipulato sul presupposto tacito dello sconto in fattura in pagamento del corrispettivo, il sopravvenuto mutamento normativo, ovvero il divieto di ulteriore cessione (e l’estrema difficoltà per le imprese di liquidare il credito d’imposta), non colpisce il contratto in quanto necessariamente strumento attraverso cui si perpetrano frodi – il contrasto di queste costituisce la ratio legis della normativa d’urgenza sopravvenuta –, bensì una modalità di adempimento del corrispettivo di appalto rendendo eccessivamente oneroso l’adempimento per le imprese appaltatrici.

Di particolare interesse in argomento si mostra una recente pronuncia del tribunale capitolino[19] che ha osservato, sebbene in obiter dictum, come la modalità di pagamento mediante cessione di un credito d’imposta, anche laddove non condizionata all’effettiva monetizzabilità dei crediti, avvenga  sul presupposto tacito della loro liquidabilità, e che, con il venir meno della cessione ad opera delle banche, l’utilizzo diretto del credito d’imposta da parte dell’impresa appaltatrice si risolve in una modalità di pagamento notevolmente difficoltosa e la cui accettazione potrebbe risultare sconveniente per un imprenditore operante nel settore.

L’obiter dictum si spinge in ulteriori considerazioni di notevole momento, rilevando come sia innegabile che, a seguito delle modifiche apportate dal Decreto Sostegni-ter all’art. 121 del Decreto Rilancio, tutti gli istituti bancari, a causa della disciplina sopravvenuta, adottata per disincentivare alcune prassi illecite, hanno cessato di acquistare i crediti di imposta rendendo problematica l’utilizzazione da parte degli appaltatori edili dei crediti ceduti quale corrispettivo, facendo venire meno anche l’utilizzabilità degli acconti sui lavori appaltati sui quali le imprese edili solitamente contano per poter avviare l’esecuzione delle opere, e rendendo inutilizzabili gli altri crediti che tali imprese avevano in precedenza accettato in pagamento avendo fatto  affidamento non irragionevolmente sulla previgente disciplina.

Il pronunciato romano pare cogliere nel segno anche laddove osserva, con argomentazione condivisibile, che il contratto di appalto concluso sulla scorta del presupposto tacito della cessione del credito di imposta è suscettibile di essere risolto per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione rintracciando nel mutamento imprevedibile e radicale del sistema normativo che ha vietato la seconda cessione elemento della fattispecie di cui all’art. 1467 c.c.

Merita, infine, dar conto dell’esistenza di un autorevole orientamento di dottrina e giurisprudenza[20] che ancora la fondatezza dell’istituto della presupposizione al principio generale di bona fides ed in particolare all’obbligo delle parti di interpretare il contratto secondo buona fede, sicché il mancato verificarsi dell’evento presupposto per cause svincolate dal volere delle parti conduce alla possibilità di adottare rimedi che eliminano l’obbligazione.

 

4.2 segue: Il rimedio risolutorio ex art. 1463 c.c.

Da altro angolo visuale, tenuto conto che nel caso oggetto d’indagine lo scopo pratico del contratto di appalto si risolve – e non può che risolversi –  nell’interesse di ricevere l’opera verso il pagamento del corrispettivo mediante sconto in fattura, non pare fuori luogo rivolgere lo sguardo alla causa concreta[21] di detto contratto di appalto e, in conseguenza del mutamento sopravvenuto di normativa, alla inutilizzabilità sopravvenuta della prestazione del committente (lo sconto in fattura). 

L’interesse del committente è, intuibilmente, quello di poter ricevere l’opera essenzialmente in via gratuita.

L’impresa che conclude il contratto di appalto secondo il regime del Decreto Rilancio intende soddisfare l’interesse economico-imprenditoriale di poter fruire del credito di imposta allo scopo non solo di acquisire maggiore competitività rispetto agli imprenditori concorrenti, ma di poter prontamente negoziare tale credito nel mercato delle cessioni ottenendo liquidità (eventualmente da reinvestire nello stesso progetto imprenditoriale).

Tali finalità, richiamando il concetto ormai superato di causa quale funzione economico-sociale del contratto, resterebbero relegate nell’ambito dei motivi (tendenzialmente) irrilevanti e, invece, invocando la teoria della causa concreta, si attribuisce loro rilievo in quanto penetrano nel congegno causale del contratto di appalto condizionando, pertanto, l’interdipendenza tra le prestazioni. Di conseguenza, il sopraggiungere di eventi oggettivi ed imprevedibili tali da frustrare le predette finalità, rendendole non più di interesse, si riverbera inevitabilmente sul sinallagma del contratto di appalto rendendo la prestazione, sebbene astrattamente possibile, non più utile ed aprendo al rimedio ex art. 1463 c.c.

In tema la giurisprudenza[22] afferma da tempo che la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione ex art. 1463 c.c., con attivazione dei relativi rimedi restitutori, può essere invocata da entrambe le parti del contratto sinallagmatico, ovverosia dalla parte la cui prestazione sia divenuta impossibile e da quella la cui prestazione sia rimasta possibile.Tornando alla teoria della causa concreta del contratto, tale orientamento afferma che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si verifica non solo nel caso in cui diventi impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche allorquando divenga impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, sempre che tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno; in tal caso si verifica la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione.

Data la sopraggiunta irrealizzabilità della liquidazione del credito di imposta, la prestazione dello sconto in fattura assegna all’impresa un bene, un valore, inutile sul piano imprenditoriale.

 

4.3 segue: I rimedi manutentivi di cui agli artt. 1664 c.c. e 1374 c.c.

Muovendo dalla disciplina codicistica del contratto di appalto, non può tacersi come una certa apertura al rimedio manutentivo sia stata operata dall’art. 1664, co. 1, c.c. – che costituisce applicazione dell’art. 1467 c.c. –, prevedendo la revisione del corrispettivo di appalto quando, per effetto di circostanze (solo) sopravvenute (e non anche straordinarie) ed imprevedibili, si sia verificato un sensibile squilibrio nelle rispettive posizioni contrattuali, sempre che tale squilibrio abbia superato l’alea normale del contratto di appalto normativamente stabilita nella misura superiore al decimo del corrispettivo pattuito. Tenuto conto che la ratio del principio della revisione del corrispettivo, ospitato dall’art. 1664 cit., come può leggersi nella Relazione al codice civile[23], si fonda su ragioni di giustizia sostanziale e di solidarietà sociale (mantenere immutato il margine di guadagno che l’appaltatore si riprometteva al momento della conclusione del contratto, posto che il valore dell’opera compiuta è normalmente in funzione del valore dei materiali e della mano d’opera), non pare arduo sostenere l’applicazione analogica di tale norma per manutenere i contratti di appalto inadempiuti a causa della sopravvenienza normativa che ha condotto ai c.d. «crediti incagliati» ed attuare una congrua redistribuzione della crisi di liquidità[24].

Nel caso di specie potrebbe immaginarsi, in luogo della risoluzione contrattuale, una revisione del corrispettivo nel senso, non tanto e non solo del quantum debeatur, quanto piuttosto del quomodo dell’adempimento dell’obbligazione di pagamento del corrispettivo di appalto. Alle stesse conclusioni potrebbe giungersi anche argomentando dall’art. 1664, co. 2, c.c. che, facendo applicazione del principio della revisione del corrispettivo, prevede come rimedio manutentivo il pagamento di un equo compenso.

Orbene, per il caso l’impresa appaltatrice sia stata inadempiente in conseguenza del fenomeno dei c.d. «crediti incagliati», il rimedio manutentivo potrebbe consistere, in applicazione analogica dell’art. 1664 c.c., nella condanna del committente al pagamento in denaro del corrispettivo o quantomeno di un equo corrispettivo in denaro, in guisa da non frustrare totalmente quanto ragionevolmente l’impresa appaltatrice si riprometteva di ottenere in termini di utile di impresa.   

Per il vero l’esigenza manutentiva del contratto e di connessa rinegoziazione del suo contenuto ha trovato in dottrina sostenitori che l’hanno argomentata sulla scorta del principio di solidarietà sociale, rappresentato nel suo portato codicistico della buona fede; la clausola generale de qua costituisce, da questo punto di osservazione, presidio di un comportamento corretto nella fase di attuazione delle pattuizioni contrattuali[25].

Riguardando il precetto pacta sunt servanda alla luce del criterio della bona fides e dei connessi obblighi di cooperazione fra le parti nella fase esecutiva del contratto, l’adeguamento del contenuto contrattuale – scopo dell’obbligo di rinegoziare – non contraddice il precetto suddetto e quindi  l’autonomia privata, atteso che assolve alla funzione di realizzare il risultato negoziale prefigurato ab initio dalle parti, e quindi il concreto interesse perseguito da esse, uniformando il regolamento contrattuale alle circostanze sopravvenute attraverso la modificazione (che pur sempre rientra nella definizione di autonomia privata: cfr. art. 1321 c.c. che, infatti, contempla il contratto anche in chiave di regolazione).

A ben vedere, l’obbligo di rinegoziare, lungi dal porsi in posizione antinomica rispetto alla libertà di contrarre, realizza la volontà delle parti, quella volontà scevra dalle sopravvenienze. In altri termini, l’obbligo di rinegoziazione risponde alla esigenza di riequilibrare il sinallagma, poiché se le parti, sin al momento delle trattative, avessero avuto presente la situazione sopraggiunta non avrebbero contrattato o l’avrebbero fatto a condizioni diverse.

È chiaro che la controparte la quale, rifiutando la rinegoziazione richiesta, si arrocchi sulla propria pretesa – nonostante la sopravvenienza – pone in essere un comportamento contrario alla buona fede esecutiva e realizzante un abuso del diritto. Tale conclusione trova, peraltro, un considerevole incoraggiamento ad opera dei Principles of European Contract Law (art. 6:111) nonché del Codice europeo dei contratti (art. 157, co. 5)[26].

Nonostante talune resistenze dottrinali, non può negarsi che la teoria dell’obbligo legale di rinegoziazione ha trovato sempre più consensi nella giurisprudenza di merito chiamata a pronunciarsi su casi di mancata rinegoziazione del contratto di locazione, ed in particolare del canone, nel periodo delle restrizioni imposte dalla normativa anticovid-19[27] e, pertanto, in ipotesi di sopravvenienza normativa.

Calando tali principi nella casistica che occupa la presente indagine, occorre tenere presente che verosimilmente sarà l’impresa appaltatrice a domandare al committente di rinegoziare in ragione della sopravvenienza normativa il contenuto del contratto di appalto al fine di riequilibrarlo; in tema, il perimetro normativo idoneo a perfezionare una rideterminazione pattizia del contenuto contrattuale potrebbe essere quello tracciato dagli artt. 1175, 1375 c.c. in combinato con l’art. 1664 c.c. (laddove a quest’ultima norma non voglia assegnarsi un ambito di operatività autonomo in funzione analogica, secondo quanto sopra osservato). Laddove l’obbligo di rinegoziazione non fosse adempiuto dalla parte cui è richiesto, non sembra che possa ottenersi una pronuncia che tenga luogo dell’obbligo inadempiuto atteso che l’obbligazione de qua è di mezzi e non di risultato, in quanto le parti sono tenute a negoziare e giammai a raggiungere un accordo modificativo[28], residuando l’eventuale risarcimento dei danni[29]. Nel caso di inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione oppure in via autonoma, quale alternativa ai rimedi demolitori del vincolo obbligatorio, a modesto parere di chi scrive, residuerebbe un margine di intervento giudiziale di rideterminazione equitativa del regolamento contrattuale in funzione conservativa[30]: come ha osservato autorevole dottrina[31], l’equità di cui all’art. 1374 c.c. si identifica esclusivamente con il «giudizio di equità», in quanto attiene alla funzione giurisdizionale, e con essa il legislatore ha voluto ricollegare il giudizio alla persona del giudice direttamente e non già attraverso lo schermo di «mediate specificazioni legislative»; si tratta, quindi, di un potere – quello del giudizio equitativo – che già appartiene alla funzione giurisdizionale, che è esercitabile su domanda di parte e di cui costituisce applicazione l’art. 10 del d.l. n. 118 del 24 agosto 2021 laddove, nell’introdurre la rinegoziazione dei contratti dell’imprenditore in crisi, prevede che al mancato esito della rinegoziazione il giudice possa rimediare con l’equità[32]. È stato osservato che la decisione equa, capace di produrre il riequilibrio del sinallagma, si risolve nella ragionevolezza della decisione[33]; a sommessa opinione di chi scrive, la complessità della realtà, con cui l’interprete deve misurarsi al fine di giungere alla decisione equa, comprende il comune sentire, il sociale senso del giusto ed equo, che caratterizza un dato momento storico, ed i giuristi interverranno inevitabilmente anche sulla spinta di uno stato d’animo, inconscio, spesso innato, di un’adesione ad un certo valore, di una condanna per un dato comportamento, valori tutti, non verbalizzati, cui l’uomo si assoggetta da sempre in modo inconsapevole, che un autorevole autore ha definito «diritto muto»[34].

     

5. La posizione dei subappaltatori e dei fornitori dell’impresa appaltatrice inadempiente a causa dei c.d. «crediti incagliati»

È indubitabile che grazie alla spinta del Decreto Rilancio l’Italia abbia assistito ad una rapidissima escalation di stipulazioni di contratti di appalto per lavori di efficientamento energetico, antisismico, e di ristrutturazione di numerosissimi immobili anche condominiali. La ripartenza del settore edilizio ha determinato la ripartenza di tutta la filiera produttiva inevitabilmente legata alle imprese subappaltatrici e alla fornitura di prodotti necessari all’esecuzione dei lavori appaltati. È altrettanto noto come la radicale modificazione del sistema normativo intervenuta col Decreto Sostegni-ter abbia improvvisamente stravolto i piani industriali delle imprese appaltatrici le quali, a causa del divieto di ulteriore cessione e dello sconto in fattura (c.d. «crediti incagliati»), si sono trovate in una situazione di forte crisi di liquidità. L’impossibilità di monetizzare i crediti d’imposta da parte delle imprese appaltatrici, infatti, le ha rese inadempienti rispetto ai contratti di appalto e di subappalto conclusi sul presupposto che avrebbero monetizzato il credito fiscale ricevuto in pagamento dal committente e inevitabilmente le ha rese inadempienti anche rispetto ai fornitori con i quali avevano nel frattempo concluso contratti di vendita dei materiali necessari ad eseguire i lavori.

In tale stato di cose, certamente singolare, ad una prima fugace riflessione tali soggetti che hanno interagito con l’impresa appaltatrice dei lavori potrebbero risultare estranei alle vicende contrattuali tra questa ed il committente. Tuttavia, se ciò pare sia in prima battuta più verosimile con riguardo al rapporto con i fornitori del materiale funzionale all’esecuzione dei lavori, meno convincente appare sin da subito l’estraneità del subappaltatore alle vicende contrattuali anzidette.

Nel caso di subappalto di tutta o di parte dell’opera da eseguirsi in regime di agevolazioni fiscali ex Decreto Rilancio l’impresa subappaltatrice, come l’impresa appaltatrice (c.d. general contractor), è infatti partecipe della volontà comune di ottenere quale corrispettivo lo sconto in fattura e le sopravvenienze normative non possono che interessare anche l’impresa subappaltatrice nel rapporto con l’impresa appaltatrice.

Il sopraggiunto divieto dello sconto in fattura e della seconda cessione derivanti dal Decreto Sostegni-ter e il mancato acquisto ad opera delle banche dei crediti d’imposta ha posto le imprese subappaltatrici nella medesima situazione di crisi di liquidità delle imprese general contractor, e ciò per le ragioni già esplicitate al precedente paragrafo: laddove il contratto di subappalto sia stato concluso sul presupposto tacito della liquidabilità del credito di imposta derivante dallo sconto in fattura, ne consegue che paiono percorribili verso il contratto di subappalto sia i rimedi risolutori sia quelli manutentivi. Anche ragionando in termini di causa concreta del contratto di subappalto, le conseguenze in termini di inutilità dello sconto in fattura in pagamento del corrispettivo apre al rimedio della risoluzione per inutilità sopravvenuta della prestazione; in argomento estensibili sembrano, altresì, le considerazioni fatte circa l’obbligo di rinegoziazione e relative alla possibilità che il contratto di subappalto sia ricondotto ad equità ex art. 1374 c.c.

Con riferimento al rapporto tra impresa appaltatrice e fornitori occorre indagare il livello di coinvolgimento di questi nella vicenda contrattuale riguardante l’impresa medesima e il committente, per valutare se la sopravvenienza normativa, che ha portato ai c.d. «crediti incagliati», abbia qualche effetto anche su detto rapporto contrattuale.

Nel caso in cui l’impresa appaltatrice concluda il contratto di vendita di materiale per l’esecuzione dei lavori sul presupposto della liquidabilità del credito d’imposta, sia ragionando in termini di presupposizione sia di causa in concreto, risulta difficile escludere che la sopravvenienza normativa impeditiva della ulteriore cessione non impatti sul contratto di vendita citato. Paiono, quindi, estendibili al rapporto di vendita dei materiali per l’esecuzione dei lavori le riflessioni svolte a proposito della presupposizione e della causa concreta e dei conseguenti rimedi risolutori, nonché quelle sull’obbligo di rinegoziazione e sul conseguente rimedio equitativo. 

Riguardo alla presupposizione occorre rilevare che dottrina e  giurisprudenza tendono a richiedere che il presupposto tacito sia anche comune alle parti[35]; in tema, allora, la possibilità che l’impresa appaltatrice possa invocare la risoluzione del contratto di vendita per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione – conseguente al fenomeno dei c.d. «crediti incagliati» – si riduce alle ipotesi di comunanza dell’interesse ad ottenere la liquidazione del credito di imposta quale corrispettivo d’appalto: in tali ipotesi, ovverosia laddove l’impresa fornitrice dei materiali per l’esecuzione dei lavori abbia concluso la vendita sulla base del presupposto che il prezzo sarebbe stato pagato dopo la liquidazione dei crediti fiscali (magari concedendo una dilazione funzionale a consentire detta monetizzazione), non pare che l’impresa fornitrice possa andare esente dal rimedio risolutorio di cui all’art. 1467 c.c.

Con riferimento alla causa in concreto si evidenzia che pare ancor più agevole il rimedio risolutorio ex art. 1463 c.c. nel caso di vendita di materiale edile all’impresa esecutrice dei lavori in regime di agevolazione fiscale: invero, quest’ultima si determina a concludere l’acquisto dei materiali in quanto tale negozio è funzionale all’adempimento del contratto di appalto, sicché il motivo che penetra la causa (concreta) del contratto di appalto (la monetizzabilità del credito d’imposta del committente) è lo stesso motivo – e non potrebbe essere altrimenti – che entra nel congegno causale del contratto di vendita di materiali. In argomento, si deve tenere presente che, stando ai consolidati approdi giurisprudenziali[36], affinché il motivo, che assume valore determinante nell’economia del negozio, penetri la causa non occorre che esso sia comune alle parti, ben potendo essere riferibile ad una sola di esse purché, però, in questo caso, sia quantomeno conoscibile dall’altra parte.

Orbene, se il contratto di vendita dei materiali sia stato concluso dall’impresa appaltatrice con l’interesse concreto di pagare il prezzo a seguito della monetizzazione dei crediti d’imposta e tale finalità viene meno in conseguenza della sopravvenienza normativa (che ha determinato il fenomeno dei c.d. «crediti incagliati»), sembra invocabile da parte dell’impresa appaltatrice il rimedio di cui all’art. 1463 c.c., dal momento che tale finalità non può certo dirsi non conoscibile dal fornitore che ha condiviso l’esperienza dei bonus fiscali ex Decreto Rilancio.

 

6. L’incidenza della sopravvenienza normativa sul contratto di transazione

Pare interessante ancora domandarsi se la sopravvenienza normativa, inaugurata dal Decreto Sostegni-ter, possa incidere sugli accordi transattivi raggiunti tra le imprese appaltatrici ed i committenti nonché tra le prime ed i fornitori con riferimento alla lite rispettivamente relativa alla mancata o tardiva esecuzione dei lavori oppure al mancato pagamento del prezzo dei materiali acquistati in funzione dell’esecuzione degli appalti.

Invero, sovente è accaduto che gli attori delle vicende contrattuali avvinte dall’interesse al bonus fiscale abbiano stipulato contratti di transazione per definire liti o prevenirne sul presupposto noto e tacito che l’impresa appaltatrice avrebbe reperito pronta liquidità dalla cessione dei crediti di imposta.  

Il fenomeno sopraggiunto dei c.d. «crediti incagliati», derivato dal divieto di operare la ulteriore cessione, si è riverberato inevitabilmente anche sulle transazioni ad esecuzione continuata o differita; in altri termini, la mancanza di liquidità ha reso l’impresa appaltatrice il più delle volte inadempiente alla transazione che ha previsto il pagamento del quantum transattivo sulla base di più rate periodiche o di un’unica rata posticipata.

La giurisprudenza è concorde nell’ammettere la risoluzione ex art. 1467 c.c. della transazione non novativa ad esecuzione differita[37].

Tradizionalmente si afferma che l’art. 1976 c.c. contiene una norma ad hoc di irresolubilità per inadempimento della transazione novativa, che si spiega in ragione della peculiarità di tale tipo transattivo col quale le parti intendono superare il vecchio rapporto litigioso, e giammai un principio generale di irresolubilità della transazione[38].

Cosicché da tale previsione codicistica si ricava che deve ammettersi la risoluzione della transazione non novativa[39], mentre è vietato alle parti di invocare la risoluzione della transazione se questa ha sostituito un precedente rapporto.

Pertanto, la dottrina[40] rileva come, coerentemente con la specifica e rara giurisprudenza di legittimità, deve essere riaffermato che la disposizione dell’art. 1976 c.c., costituendo un’eccezione ai principi generali della risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive, e dovendo quindi essere interpretata restrittivamente, non può essere estesa ai casi di risoluzione per impossibilit à sopravvenuta, per eccessiva onerosità sopravvenuta o per l’accertata inesistenza della condizione presupposta.

In applicazione di tali principi, si ritiene che la transazione (non novativa) ad esecuzione differita o periodica su lite relativa alla mancata esecuzione di lavori in regime di bonus fiscali oppure relativa al mancato pagamento del prezzo dei materiali nell’ambito di una vendita funzionale all’esecuzione dei lavori medesimi, in conseguenza della sopravvenienza normativa che ha prodotto i c.d. «crediti incagliati», è suscettibile di essere risolta attraverso l’invocazione dei rimedi della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta e della inutilità sopravvenuta della prestazione, proposti al precedente § 4.

Ammessa la risolubilità del contratto di transazione non novativa, a fortiori dovrebbe potersi ammettere la rinegoziazione, prevista al precedente § 4, delle condizioni transattive allorquando queste, in conseguenza di sopravvenienze, appaiano sbilanciate rispetto al momento della conclusione, sia invocando il principio di buona fede, sia ricorrendo al rimedio equitativo di cui all’art. 1374 c.c.

   

7. Brevi riflessioni conclusive

Le opzioni dello sconto in fattura e della cessione del credito di imposta, strumenti con cui il legislatore della ripartenza aveva deciso di dare nuovo impulso al comparto dell’edilizia, e per questa via assicurare nuova linfa al Paese nella fase post pandemica, hanno registrato un successo probabilmente inatteso per lo stesso legislatore. 

La sottovalutazione delle criticità illecite che un tale sistema avrebbe potuto generare, unita a quella dell’elevatissimo numero di contratti conclusi che pare abbia impattato in termini di rilevante indebitamento dell’erario, hanno indotto il legislatore ad un repentino ed inaspettato revirement via via più restrittivo, che è giunto finanche ad abrogare i bonus fiscali medesimi proprio quando erano a pieno regime.

Il fenomeno dei c.d. «crediti incagliati» ha determinato una rilevante crisi di liquidità a danno delle imprese, portando il comparto edile in una situazione probabilmente addirittura deteriore rispetto a quella precedente.

Gli effetti di tale contraddittoria scelta legislativa non pare possano, però, scaricarsi unicamente sulle imprese appaltatrici, sia in quanto ciò striderebbe col dovere costituzionale di solidarietà sociale sia per la considerazione che i committenti sono gli unici soggetti che – fatta eccezione per i casi di inadempimenti che, allo stesso tempo, integrano anche ipotesi di reato – da tale stato di cose hanno tratto benefici, avendo comunque ottenuto tutta o parte dell’opera a titolo gratuito.

Ed allora le riflessioni svolte attorno al tema della sopravvenienza normativa – che ha prodotto l’effetto indesiderato dei c.d. «crediti incagliati», fattore che ha sbilanciato il sinallagma dell’appalto con bonus fiscale oppure che ha disintegrato l’interesse penetrato nella causa concreta dell’appalto medesimo – muovono dal desiderio di iniziare a porre le basi per la ricerca di soluzioni giuridiche che non riversino solo sulle imprese appaltatrici tutte le conseguenze negative delle citate novelle abrogative, anche per le intuibili ripercussioni che ciò avrebbe sull’intero sistema economico.

Nella consapevolezza della complessità del tema trattato, che involge questioni da sempre al centro di un vivace dibattito da parte della dottrina civilistica, si è inteso dar conto di emergenti orientamenti – sempre maggiormente accolti dalla giurisprudenza – che condividono lo sforzo di proporre una risposta rimediale alle sopravvenienze, la quale, nel rispetto dei principi civilistici, sia in grado di attuare il principio costituzionale di  solidarietà sociale.

Agli operatori del diritto è, pertanto, assegnato l’arduo compito di gestire tale situazione, ricercando soluzioni congrue, e che quindi siano in grado di redistribuire i costi della crisi di liquidità indotta dalla sopravvenienza normativa, nell’auspicio che de iure condendo si intervenga con misure idonee a risolvere il problema dei c.d. «crediti incagliati» per restituire liquidità alle imprese, così assicurando giustizia sostanziale, con indubbio beneficio per tutto il sistema economico.



[1] Gli interventi ricompresi nelle agevolazioni fiscali (sconto in fattura e cessione del credito di imposta) sono stati quelli relativi al recupero del patrimonio edilizio, di efficientamento energetico, strutturali e antisismici, di installazione delle colonnine di ricarica dei veicoli elettrici, di eliminazione delle barriere architettoniche, di recupero o restauro della facciata degli edifici esistenti. Per una completa rassegna dei provvedimenti normativi adottati in materia, v. Amendolagine, Superbonus e responsabilità contrattuale, in I Contratti, 3, Milano, 2024.

[2] Il decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 recante «Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19», pubblicato in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 128 del 19 maggio 2020 - Suppl. Ordinario n. 21, è stato convertito nella legge 17 luglio 2020, n. 77, pubblicata in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 180 del 18 luglio 2020 - Suppl. Ordinario n. 25 (il testo coordinato è stato ripubblicato nella Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 189 del 29 luglio 2020 - Suppl. Ordinario n. 26).

[3] Il decreto-legge 27 gennaio 2022, n. 4, recante «Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da COVID-19, nonché per il contenimento degli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico», pubblicato in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 21 del 27 gennaio 2022, è stato convertito nella legge 28 marzo 2022, n. 25, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 73 del 28 marzo 2022 - Suppl. Ordinario n. 13.

[4] La modifica prevista dal Decreto Sostegni-ter si inserisce nel solco delle misure adottate al fine di contrastare le frodi, che si aggiunge a quelle già adottate con il d.l. n. 157/2021 (c.d. Decreto Antifrode) e dalla Circolare dell’Agenzia delle entrate 29 novembre 2021, n. 16/E.

[5] Il decreto-legge 16 febbraio 2023, n. 11, recante «Misure urgenti in materia di cessione dei crediti di cui all’articolo 121 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77», pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 16 febbraio 2023, n. 40, è stato convertito nella legge 11 aprile 2023, n. 38, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale serie generale n. 85 dell’11 aprile 2023.

[6] Il decreto-legge 29 marzo 2024, n. 39, recante «Misure urgenti in materia di agevolazioni fiscali di cui agli articoli 119 e 119-ter del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, altre misure urgenti in materia fiscale e connesse a eventi eccezionali, nonché relative all’amministrazione finanziaria», pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 75 del 29 marzo 2024, è stato convertito nella legge 23 maggio 2024, n. 67, pubblicata in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 123 del 28 maggio 2024.

[7] Tra le misure maggiormente rilevanti nell’economia della presente trattazione si segnalano: (i) la restrizione dell’ambito di applicazione dell’esenzione dal generale divieto di esercizio dell’opzione per la cessione o per lo sconto in luogo delle detrazioni fiscali, riconosciuto dal d.l. n. 11/2023 ad alcune specifiche categorie di contribuenti, salvo eccezionali deroghe per i comuni dei territori colpiti da eventi sismici; (ii) la sospensione dell’utilizzo in compensazione dei crediti di imposta per interventi edilizi agevolati in presenza di iscrizioni a ruolo per importi complessivamente superiori a € 10.000, per i quali sia già decorso il trentesimo giorno dalla scadenza dei termini di pagamento e non siano in essere provvedimenti di sospensione o sia intervenuta decadenza dalla rateazione disciplinandone il regime (anche con riferimento ai contribuenti con iscrizioni d’importo superiore a € 100.000) ed i termini di applicazione della norma; (iii) l’introduzione di modifiche alla disciplina di alcune agevolazioni fiscali in materia edilizia: è previsto il divieto per alcuni soggetti qualificati di compensare i propri crediti d’imposta derivanti da cessione del credito con contributi previdenziali, assistenziali e premi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

Anche l’aliquota del superbonus è stata a più riprese modificata, passando dal 110%, rimasta invariata sino al 2022, al 90% nel 2023 e al 70% nel 2024 (far à seguito un ulteriore abbassamento al 65% nel 2025).

[8] Secondo le stime diffuse dall’Associazione Nazionale Costruttori Edili, i «crediti incagliati» del superbonus ammontavano nel 2023 ad oltre € 30 miliardi, con circa 180.000 cantieri bloccati sul territorio italiano, tra villette unifamiliari e condomini, e con un danno enorme sia per le imprese sia per i livelli occupazionali: cfr. articolo consultabile sul sito internet www.ilsole24ore.com, 1° giugno 2023.

[9] In giurisprudenza v. Cass. civ., 13 ottobre 1975, n. 3301, in Mass. Giur. It., 1975 secondo cui: «La qualificazione giuridica di un contratto, che per inserzione di alcune clausole particolari presenti contenuto complessivo comunque difforme dalla causa di una o più specifiche tipologie negoziali previste dalla legge, va individuata avendo riguardo al criterio della prevalenza, vale a dire applicando la normativa corrispondente al contenuto negoziale tipico e di maggior rilievo nelle finalità pratiche delle parti. Questo criterio va seguito non solo nell’ipotesi di contratti misti, ma anche in quei casi in cui, nell’ambito di un unitario rapporto, il contenuto delle prestazioni assuma un carattere anomalo o anfibiologico rispetto alle fattispecie legali tipiche.». Per una approfondita trattazione del contratto misto e della teoria della prevalenza o dell’assorbimento, secondo cui al contratto misto si applica la disciplina del contratto la cui causa sia prevalente avuto riguardo agli interessi concreti delle parti, v. Sacco, Il contratto, in Tratt. Rescigno, 10, Torino, 1998, 554.

[10] Sul generale divieto di donazione futura, che costituisce principio generale dell’ordinamento giuridico, il cui fondamento riposa nello sfavore per le attribuzioni a titolo gratuito, anche al fine di arginare le liberalità compiute con avventatezza, v. Torrente, La donazione, Carnevali-Mora (a cura di), in Tratt. Cicu, Messineo, II ed., Milano, 2006, 407); in giurisprudenza, cfr. Tribunale Palermo, Sez. II, 27 marzo 2012, n. 1343, in Leggi d’Italia, 2012.

[11] Trib. Frosinone, 2 novembre 2023, n. 1080, in www.biblus.it; conforme Trib. Pordenone, 26 ottobre 2023, n. 655, in www.dirittopratico.it.

[12] Trib. Pordenone, 26 ottobre 2023, n. 655, cit. che in argomento cita Cass. civ., Sez. III, n. 24050.

[13] Trib. Padova, 15 novembre 2023, n. 2266, in www.condominioweb.com.

[14] Trib. Frosinone, 2 novembre 2023, n. 1080, cit.

[15] Sangiovanni, Mancata realizzazione di opere col superbonus e risarcimento del danno per perdita di chance, in Immobili & proprietà, 3/2024, Milano, 2024, 137 e ss.

[16] In dottrina si osserva che i due termini (straordinari e imprevedibili) non costituiscano un’endiadi, avendo gli stessi un significato distinto o comunque solo parzialmente coincidente, cosicché è straordinario ogni avvenimento il cui rischio non possa ritenersi assunto nel contratto per la sua improbabilità, secondo la valutazione che può essere compiuta al momento della conclusione del contratto, ed è imprevedibile l’evento che sfugge da una valutazione prognostica del rapporto: cfr. Mirabelli, Dei contratti in generale, in Comm. cod. civ., IV, 2, Torino, 1980. In giurisprudenza, v. Cass. civ., Sez. II, Sentenza, 22 settembre 2023, n. 27152, in Ced Cassazione, 2023, per cui: «L’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per potere determinare, ai sensi dell'art.1467 c.c., la risoluzione del contratto, richiede l’incidenza sul sinallagma contrattuale di eventi che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale e che si caratterizzano per la loro straordinarietà, connotato di natura oggettiva che qualifica un evento in base all’apprezzamento di elementi, quali la frequenza, le dimensioni, l’intensità, suscettibili di misurazioni (e quindi, tali da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quanto meno di carattere statistico); e per la loro imprevedibilità, che ha fondamento soggettivo, in quanto fa riferimento alla fenomenologia della conoscenza.».

[17] La presupposizione è un istituto di matrice dottrinale, che ha ricevuto altresì riconoscimento giurisprudenziale, consistente in un evento certo e non dichiarato, passato, presente o futuro, comune alle parti, ma risultante dalle circostanze e senza il quale il contratto non sarebbe stato concluso, ed inoltre il presupposto deve essere obiettivo nel senso che il suo verificarsi non deve dipendere dalla volontà delle parti, né deve essere oggetto di specifica obbligazione. Si differenzia dalla condizione in quanto l’evento può essere anche passato o presente e poiché l’evento stesso non è incerto, essendo, al contrario, certo nella sua verificazione. In dottrina v., per tutti, Messineo, Il contratto in genere, Milano, 1968, 204 e ss.; in giurisprudenza, cfr., ex multis, Cass. 24 marzo 1998, n. 3083, in Giust. civ., 1998, I, 3161, la quale osserva che: «la “presupposizione” ricorre quando una determinata situazione, di fatto o di diritto, passata, presente o futura, di carattere obiettivo - la cui esistenza, cessazione e verificazione sia del tutto indipendente dall'attività o dalla volontà dei contraenti e non costituisca oggetto di una loro specifica obbligazione possa, pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali, ritenersi tenuta presente dai contraenti medesimi nella formazione del loro consenso, come presupposto avente valore determinante ai fini dell’esistenza e del permanere del vincolo contrattuale.».

[18] Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, Iudica-Zatti (a cura di), Milano, 2011, 962.

[19] Trib. Roma, Sez. X, 13 febbraio 2024, n. 21607, in Quotidiano Giuridico, 2024: nella motivazione il giudice capitolino precisa che, in considerazione della non rilevabilità d’ufficio della presupposizione e della possibile risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, il mutamento della situazione normativa viene valutato unicamente nell’ambito dell’accertamento della colpevolezza dell’inadempimento dell’impresa appaltatrice. La prevalente giurisprudenza rintraccia il fondamento positivo della presupposizione nell’art. 1467 c.c., norma, questa, che avrebbe introdotto nel nostro ordinamento giuridico, espressamente ed in via generale, il principio della implicita soggezione dei negozi corrispettivi alla clausola rebus sic stantibus: in argomento, cfr., per tutte, Cass. 31 ottobre 1989, n. 4554, in Mass. Giust. civ., 1989, 1033.

[20] In dottrina, del resto, esiste un filone interpretativo che fonda l’istituto della presupposizione (non già sull’art. 1467 c.c., ma invece) sul principio generale di buona fede, individuando il riferimento normativo nell’art. 1366 c.c. secondo cui l’interpretazione del contratto deve essere condotta secondo buona fede: v., tra i molti, Girino, voce Presupposizione, in Noviss. Dig. It., Torino, 1966, XIII, 776; segue tale impostazione la giurisprudenza e, per tutte, cfr. Cass. 13 maggio 1993, n. 5460, in Giust. civ., 1994, I, 1981, secondo cui: «la rilevanza della presupposizione postula che una situazione di fatto considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del contratto, venga successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti stesse; per cui, nel caso che il mutamento della situazione presupposta sia ascrivibile alle pari, l’eliminazione del vincolo non può trovare giustificazione, né prospettando un conflitto con la volontà negoziale né adducendo il rispetto dei principi di correttezza e buona fede che presiedono all’interpretazione dei negozi giuridici.».

[21] La dottrina più risalente, ritenendo che la causa consistesse nella funzione economico-sociale del negozio, era solita osservare che, per i contratti tipici, il giudizio sulla loro liceità era già risolto a monte dal legislatore mediante la determinazione dei connotati caratterizzanti il tipo contrattuale: cfr., per tutti, Betti, Teoria generale del negozio giuridico, II ed. (1960), Napoli, 2002, 170; di conseguenza, la valutazione di liceità della causa avrebbe dovuto riguardare soltanto i contratti atipici secondo Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1966, 187. La teoria della causa come funzione economico-individuale, superando la ricostruzione più risalente, si fonda sull’osservazione secondo cui una figura contrattuale tipizzata esprime solo un modello, per schemi astratti, un’ipotesi di coordinamento di interessi cui le parti possono dare vita e non una concreta regolamentazione di tali interessi, con il conseguente corollario per cui il giudizio di liceità della causa deve svolgersi anche per i contratti tipici: v., per tutti, Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, 345. In giurisprudenza, si inserisce in un orientamento consolidato che ammette la causa in concreto, Cass. civ., Sez. I, 16 maggio 2017, n. 12069, in Ced Cassazione, 2017, secondo cui: «La causa in concreto - intesa quale scopo pratico del contratto, in quanto sintesi degli interessi che il singolo negozio è concretamente diretto a realizzare, al di là del modello negoziale utilizzato - conferisce rilevanza ai motivi, sempre che questi abbiano assunto un valore determinante nell’economia del negozio, assurgendo a presupposti causali, e siano comuni alle parti o, se riferibili ad una sola di esse, siano comunque conoscibili dall’altra.».

[22] Cass. civ., Sez. III, 10 luglio 2018, n. 18047, in www.ilcaso.it, 2018, la quale afferma che «La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, con la conseguente possibilità di attivare i rimedi restitutori, ai sensi dell’art. 1463 cod. civ., può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico, e cioè sia dalla parte la cui prestazione sia divenuta impossibile, sia da quella la cui prestazione sia rimasta possibile. In particolare, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione. In particolare, si deve escludere che l’impossibilità sopravvenuta debba essere necessariamente ricollegata al fatto di un terzo: la non imputabilità al debitore (v. art. 1256 c.c.) non restringe il campo delle ipotesi ma consente di allargare l’applicazione della norma a tutti i casi, meritevoli di tutela, in cui sia impossibile, per eventi imprevedibili e sopravvenuti, utilizzare la prestazione oggetto del contratto.».

[23] Cfr. Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942 che osserva, non solo come l’art. 1664 c.c. costituisca una decisa applicazione dell’art. 1467 c.c., ma anche che il principio di rivedibilità del corrispettivo si spiega con evidenti ragioni di giustizia concreta e sulla base del principio di solidarietà, che deve prevalere sull’esclusiva considerazione degli interessi singoli, nonché considerato che il valore dell’opera compiuta è normalmente in funzione del valore dei materiali e della mano d’opera, dacché è giusto variare il corrispettivo d’appalto al fine di lasciare immutato il margine di guadagno che l’appaltatore si riprometteva al momento della conclusione del contratto.

[24] La riconducibilità del procedimento analogico alla funzione interpretativa, con il superamento delle precedenti impostazioni che lo riconducevano alla teoria delle fonti del diritto, costituisce ormai, da tempo, una acquisizione acclarata nell’attuale teoria generale del diritto: in argomento, cfr. Ferrajoli, Introduzione, in Bobbio, L’analogia nella logica del diritto, Di Lucia (a cura di), Milano, 2006, 11 e ss.  

[25] Galgano, Libertà contrattuale e giustizia del contratto, in Contr. e impr./Europa, 2005, 509 e ss.; Roppo, Giustizia contrattuale e libertà economiche: verso una revisione della teoria del contratto?in Politica dir., 2007, 451 e ss.

[26] Principles of European Contract Law, art. 6:111, rubricato «Mutamento delle circostanze», che prevede infatti «Se però la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per il mutamento delle circostanze, le parti sono tenute a intavolare trattative per modificare o sciogliere il contratto […] Se le parti non riescono a raggiungere un accordo in un tempo ragionevole, il giudice può (a) sciogliere il contratto a far data da un termine e alle condizioni che il giudice stesso stabilirà o (b) modificare il contratto in modo da distribuire tra le parti in maniera giusta ed equa le perdite e i vantaggi derivanti dal mutamento di circostanze. […] Nell’un caso e nell’altro il giudice può condannare al risarcimento dei danni per la perdita cagionata dal rifiuto di una parte di intavolare trattative o dalla rottura di esse in maniera contraria alla buona fede e alla correttezza.». Il Codice europeo dei contratti, art. 157, co. 5, rubricato «Rinegoziazione del contratto», il quale stabilisce «Il giudice, valutate le circostanze e tenuto conto degli interessi e delle richieste delle parti, può, ricorrendo eventualmente ad una consulenza tecnica, modificare o risolvere il contratto nel suo complesso o nella parte ineseguita, e, se del caso e ciò gli venga richiesto, ordinare le restituzioni dovute e condannare al risarcimento del danno.».

[27] Cfr., tra le altre, Trib. Milano, sez. XIII, 21 ottobre 2020, in Imm. e propr., 2021, 2, 127, secondo cui: «Il conduttore non può mai astenersi dal versamento del canone di locazione, ovvero non può mai ridurlo unilateralmente. La sospensione totale o parziale dell’adempimento delle obbligazioni contrattuali è legittima solo nel caso in cui venga completamente a mancare la controprestazione del locatore. Tuttavia, l’insorgere della morosità per “impossibilità parziale e temporanea della prestazione” dovuta da parte locatrice, legittimerebbe tale sospensione ed imporrebbe alle parti contraenti di rinegoziare le condizioni contrattuali, con lo scopo di ripristinare l’equilibrio sinallagmatico del contratto, consentendo al Giudice, nella fase sommaria di convalida di sfratto, di non emettere ordinanza ex art.665 c.p.c. e rinviare la causa per verificare che sia stata data attuazione alla rinegoziazione ed alla composizione della controversia.» e Trib. Roma, Sez. VI, 27 agosto 2020, in Leggi d’Italia, 2020, che afferma: «[…] qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale, quale quella determinata dalla pandemia del Covid-19, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi dell’esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto. La buona fede, infatti, può essere utilizzata anche con funzione integrativa cogente nei casi in cui si verifichino dei fattori sopravvenuti ed imprevedibili non presi in considerazione dalle parti al momento della stipulazione del rapporto, che sospingano lo squilibrio negoziale oltre l'alea normale del contratto.».

[28] Sicchiero, voce “La rinegoziazione”, in Digesto Civ., Appendice di aggiornamento (II), Torino, 2003, 1200 e ss.

[29] Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, cit., 973, secondo cui in caso di inadempimento all’obbligazione di rinegoziare, la sentenza potrebbe condannare al risarcimento del danno parametrato in punto quantum debeatur all’assetto di interessi adeguato alle sopravvenienze e rifiutato dalla controparte. Si tenga, però, presente che secondo Trib. Roma, Sez. VI, 27 agosto 2020, cit., la buona fede esecutiva consente al giudice di adottare decisioni manutentive del contratto, potendo essere «utilizzata anche con funzione integrativa cogente nei casi in cui si verifichino dei fattori sopravvenuti ed imprevedibili non presi in considerazione dalle parti al momento della stipulazione del rapporto, che sospingano lo squilibrio negoziale oltre l’alea normale del contratto».

[30] In tema ci si permette di rinviare a Vertucci, L’inadempimento delle obbligazioni al tempo del coronavirus: prime riflessioni, in www.ilcaso.it, 23 aprile 2020, 7 e ss., ove si è osservato che secondo il procedimento di equità al giudice compete l’importante funzione di amministrare la giustizia caso per caso, stabilendo, a seconda del concreto assetto di interessi divisato dalle parti, se conservare l’efficacia del rapporto contrattuale ed a quali condizioni, se accordare un risarcimento del danno (determinandone se del caso la misura), e finanche se risolverlo o dichiararlo in tutto o in parte nullo. In argomento, cfr. anche Sicchiero, L’equità correttiva, in Contratto e Impresa, 2021, 1194 e ss., secondo cui il giudice sarebbe già dotato del potere, se richiesto, di ricondurre il sinallagma ad equità per tutto il tempo in cui la sopravvenienza manifesti i propri effetti.

[31] Gazzoni, Equità e autonomia privata, Milano, 2019, 132 e ss. 

[32] Sicchiero, Recenti interventi e proposte in tema di rinegoziazione, in Giur. It., 2023, 215, il quale osserva inoltre che, essendo il processo civile caratterizzato dal principio dispositivo, non vi è ragione di impedire alla parte minacciata di risoluzione di aderire a qualsiasi indicazione che il giudice, in quanto richiesto, offra per evitare lo scioglimento del contratto; in altri termini, secondo l’autore, il potere di intervento equitativo, essendo demandato al giudice dalla legge, è nella disponibilità della parte in tutti i casi ove ne ricorrano i presupposti di invocazione.

[33] Sicchiero, Recenti interventi e proposte in tema di rinegoziazione, cit., 216, nt. 71, che richiama Cass. civ., 4 novembre 2020, n. 24601, secondo cui: «La giusta causa di licenziamento è una nozione di legge che si viene ad inscrivere in un ambito di disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi normativi e di clausole generali - correttezza, obbligo di fedeltà, lealtà, buona fede, giusta causa - il cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede, nel momento giudiziale, di essere integrato, colmato, sia sul piano di fatto che di diritto, attraverso il contributo dell’interprete, mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal costume o dall’ordinamento giuridico o da regole proprie di determinate cerchie sociali o di particolari discipline o arti o professioni, in modo tale da consentire al giudice di pervenire, sulla sorta di questa complessa realtà, alla soluzione più conforme al diritto, oltre che più ragionevole e consona.».

[34] Vertucci, op. cit., 12, ove si richiama il pensiero di Sacco, Il diritto muto. Neuroscienze, conoscenza tacita, valori condivisi, Bologna, 2015, 150.

[35] Serio, Presupposizione, in Digesto civ., XIV, Torino, 1996, 297. Cass. civ., Sez. I, 21 novembre 2001, n. 14629, in Mass. Giur. It., 2001.

[36] Cass. civ., Sez. I, 16 maggio 2017, n. 12069, cit.

[37] Cass. civ., Sez. II, 20 febbraio 2020, n. 4451, in Corriere Giur., 2020, 10, 1223, con nota di Carrato, secondo cui: «La transazione ad esecuzione differita è suscettibile di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, in base al principio generale emergente dall'art.1467 c.c., in quanto l’irresolubilità della transazione novativa stabilita in via eccezionale dall’art.1976 c.c. è limitata alla risoluzione per inadempimento, e l’irrescindibilità della transazione per causa di lesione, sancita dall’art.1970 c.c., esaurisce la sua "ratio" sul piano del sinallagma genetico.».

[38] Carrato, Il regime della risoluzione del contratto di transazione, in Corriere Giur., 2020, 10, 1223 e ss.

[39] La transazione non novativa si caratterizza per il fatto che le parti non sostituiscono al vecchio rapporto giuridico oggetto di lite uno nuovo, ma si limitando a regolare il primo facendosi reciproche concessioni. Nella transazione novativa, invece, le parti, facendosi reciproche concessioni, sostituiscono al primo rapporto giuridico oggetto di lite un nuovo rapporto. In giurisprudenza è costante l’affermazione secondo cui l’efficacia novativa della transazione discende dalla situazione di oggettiva incompatibilità che si viene a creare tra il rapporto preesistente e il rapporto costituito dalla transazione: cfr. ex multis Cass. civ., Sez. II, 09 dicembre 1996, n. 10937, in Giur. It., 1998, 932, nota di Scardigno, che infatti afferma: «La transazione, pur modificando la fonte del rapporto giuridico preesistente, non ne determina necessariamente l’estinzione in quanto, fuori dell’ipotesi di un’espressa manifestazione di volontà delle parti in tal senso, l’eventuale efficacia novativa della transazione dipende da una situazione di oggettiva incompatibilità nella quale i due rapporti - quello preesistente e quello nuovo - vengono a trovarsi; pertanto, per determinare il carattere novativo o conservativo della transazione, occorre accertare se le parti, nel comporre l’originario rapporto litigioso, abbiano inteso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto diretto a costituire, in sostituzione di quello precedente, nuove ed autonome situazioni giuridiche.».

[40] Carrato, op. cit., 1229, nt. 22, che richiama Cass. civ., 28 agosto 1993, n. 9125, in Foro it., 1995, I, 1601 ss., con nota di Cosentino, Presupposizione e sopravvenuta inedificabilità dei suoli, e Cass. civ. 15 novembre 1997, n. 11330, in Mass. Giur. It., 1997.


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