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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 26/10/2022 Scarica PDF

I provvedimenti de potestate tra alienazione parentale e ascolto del minore: il punto della Cassazione. Nota a Cass. Civ. 9691/2022

Linda Canuto, .


Genovese, pres.; Caiazzo, est.; Ceroni, P.M.

Sindrome da alienazione parentale - Decadenza dalla responsabilità genitoriale - Art. 333 c.c. - Interesse del minore - Art. 337-ter c.c. - ascolto del minore - Art. 315-bis c.c. - Art. 336-bis c.c. - Art. 337-octies c.c.

     

Sommario: 1. Il fatto. - 2. Punti controversi della questione. - 3. La Sindrome da Alienazione Parentale (PAS). - 4. Il criterio del preminente interesse del minore. - 5. L’ascolto del minore. - 6. Considerazioni finali.

   

1. Il fatto

La vicenda riguarda l’affidamento e il collocamento del figlio minore d’età del ricorrente, nato da una relazione con la convenuta al termine della quale il Tribunale dei Minori ha collocato il minore presso la madre. Il padre ha proposto ricorso al Tribunale sulla base degli artt. 330, 333 e 336 c.c. al fine di poter esercitare una frequentazione continuativa con il figlio, asserendo che questa frequentazione gli è stata negata dal genitore collocatario. Il Tribunale dei minori, quindi, ha ordinato la proficua instaurazione di significativi rapporti tra il minore e il padre non collocatario ma tale progetto non è stato rispettato in quanto la madre non ha ottemperato alle previsioni del Tribunale e ha ostacolato l’instaurarsi del rapporto padre - figlio.

Per questo motivo, il Tribunale dei minori ha disposto la decadenza dalla madre dalla responsabilità genitoriale e ha stabilito che il minore debba essere collocato in una casa famiglia e affidato ai servizi sociali al fine di consentirgli di instaurare rapporti significativi con la figura paterna all’interno di un contesto “neutro” rispetto all’influenza materna sul minore. Infatti, il Tribunale ha ritenuto che l’ostruzionismo della madre impedisca lo svolgersi del rapporto padre-figlio a causa di un “patto di lealtà” del figlio nei confronti della madre, in quanto i c.t.u. intervenuti nel corso del giudizio hanno rinvenuto i sintomi di una Sindrome da alienazione parentale (Parental Alienation Syndrome, conosciuta comunemente come PAS) tale da indurre il minore a rifiutare l’instaurarsi di un legame con la figura paterna.

La madre ha quindi proposto ricorso per Cassazione chiedendo ex art. 376 comma 2 c.p.c. l’assegnazione alle Sezioni Unite, censurando un numero di motivi, tra cui il mancato ascolto del minore, l’automatismo nell’applicare la decadenza dalla responsabilità genitoriale in presenza della sindrome da alienazione parentale e l’errata valutazione del best interest del minore, il quale sarebbe pregiudicato dalla brusca soluzione di continuità dello stile di vita e dei rapporti familiari.

Con ordinanza n. 9691 del 24 marzo 2022, la Suprema Corte accoglie il ricorso argomentando circa la scorretta applicazione della disciplina del preminente interesse del minore, in quanto il solo richiamo alla sindrome da alienazione parentale non è sufficiente per giustificare provvedimenti che abbiano una tale incidenza sulla responsabilità genitoriale, censurando la mancanza di una corretta valutazione in capo al giudice di merito. Il Tribunale, infatti, avrebbe dovuto procedere a un attento bilanciamento tra il diritto del genitore a frequentare il figlio e il preminente interesse del minore, ricavabile agevolmente mediante ascolto diretto del minore da parte del giudice.

 

2. Punti controversi della questione

Come anticipato, il Supremo Collegio censura il giudizio del Tribunale dei minori e della Corte d’appello poiché non vi è stata la corretta applicazione della normativa in materia di procedimenti che riguardano minori d’età.

Anzitutto, è stata rilevata una forma di automatismo qualora sia rinvenuta traccia di una possibile sindrome da alienazione parentale in forza della quale il genitore collocatario che sia ritenuto “reo” di comportamenti suscettibili di far insorgere la sindrome in parola nel minore, decade dalla responsabilità genitoriale e il minore viene affidato esclusivamente all’altro genitore, che diviene sia collocatario che unico esercente la responsabilità genitoriale. Tutto ciò, senza procedere a ulteriori valutazioni circa gli effetti sul minore di un’operazione così drastica e senza una corretta motivazione circa i provvedimenti assunti.

In secondo luogo, le Sezioni Unite mettono in evidenza che tutte le decisioni che riguardano i minori d’età devono essere ispirate in via primaria al preminente interesse del minore. Questa valutazione, come accade nella vicenda in parola e ogniqualvolta operi il suddetto automatismo legato alla PAS, viene meno o comunque l’interesse del minore viene relegato a una formula linguistica meramente formale. Infatti, gli altri diritti che evidentemente entrano in gioco, tra cui il diritto del genitore ad avere rapporti significativi con il figlio e il diritto dello stesso alla bigenitorialità, si presentano come recessivi rispetto all’interesse del minore, il quale deve essere assunto come criterio principale nelle valutazioni.

Infine, l’ulteriore aspetto su cui si concentra la Corte di Cassazione riguarda l’ascolto del minore. Questo adempimento, difatti, non può difettare nel corso di procedimenti che coinvolgono minori, tranne che in presenza di determinate circostanze esimenti, che devono essere oggetto di specifica motivazione. Inoltre, si mette in evidenza come l’esperimento dell’ascolto debba essere svolto nel corso del processo, poiché la sola sede processuale consente l’ingresso diretto dell’interesse del minore nel giudizio. Ascolto che è mancato nel caso di specie.

 

3. Sindrome da Alienazione Parentale (PAS)

Il primo passaggio dell’ordinanza che merita attenzione riguarda il ragionamento circa la Sindrome da Alienazione Parentale, comunemente conosciuta con l’acronimo PAS oppure semplicemente come alienazione parentale. Nel caso di specie, il provvedimento del Tribunale dei minori, ablativo della responsabilità genitoriale in capo alla madre e per mezzo del quale si è disposto l’allontanamento del minore dalla stessa, trova il suo fondamento nel riscontro della sindrome in parola nel minore da parte dei consulenti tecnici d’ufficio, c.t.u., chiamati a valutare l’idoneità genitoriale materna[1]. In questo caso il Tribunale di merito si è limitato a recepire le determinazioni dei consulenti, i quali hanno ritenuto che il rifiuto del minore di intrattenere rapporti con il padre fosse determinato esclusivamente da un c.d. “patto di lealtà” con la madre che attraverso un’opera di pressione psicologica avrebbe coartato il volere del minore in tal senso. Su questa sola base, viene disposta la decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre, il collocamento del minore in una casa famiglia e l’interruzione di ogni contratto tra madre e minore.

Gli Ermellini censurano l’utilizzo della PAS come sola base per decidere in merito a provvedimenti sull’affidamento del minore poiché tale sindrome, la cui scientificità è discussa, da sola non è sufficiente per giustificare provvedimenti così pregnanti come la decadenza dalla responsabilità genitoriale. A questo proposito la Suprema Corte ha ribadito il principio, sotteso a precedenti pronunce, in forza del quale, ogni qual volta che vi è un sospetto di PAS, ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice del merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, e a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità[2].  È necessaria, quindi, una più ampia indagine riguardo all’idoneità o meno del genitore alla funzione educativa, non essendo sufficiente un mero richiamo alla sindrome da alienazione parentale. In effetti, la stessa PAS è genericamente considerata una forma di abuso psicologico tale da essere idonea a causare un pregiudizio al minore. Il concetto di abuso psicologico, tuttavia, è piuttosto generico e l’adozione di provvedimenti ex art. 333 c.c. per far fronte a tale fenomeno attraverso l’allontanamento del minore abbisogna di una motivazione specifica che fondi le sue basi nella scienza medica, al pari dell’accertamento delle altre forme di violenza. Serve, quindi, una prova specifica del pregiudizio derivante dal rapporto con la madre, non essendo sufficiente il mero rinvio a un concetto generale[3]. A maggior ragione, in assenza della prova di ulteriori profili di pregiudizio ai danni del fanciullo, non risulta adeguato l’automatismo in base al quale il riscontro della PAS da parte dei c.t.u. costituisce l’unico motivo che giustifica l’allontanamento del minore dalla madre.

A ben vedere, la stessa sindrome in parola è stata più volte messa in discussione dalla Corte di Cassazione. La Sindrome da Alienazione Parentale (PAS) è stata introdotta dal dott. Richard Gardner nel 1985 negli Stati Uniti come un disturbo in cui “un genitore (alienante) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (alienato). […] Tuttavia, questa non è una semplice questione di “lavaggio del cervello” o “programmazione”, poiché il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione. È proprio questa combinazione di fattori che legittima una diagnosi di PAS[4]. In sintesi, la PAS può essere definita come il disturbo che insorge nel minore quando viene esposto alla continua attività denigratoria operata da un genitore a danno dell’altro. Tale sindrome conduce il minore a sviluppare ed elaborare sentimenti di avversità, rifiuto e persino narrazioni fantasiose nei confronti del genitore alienato, indipendentemente dal riscontro in concreto di tali caratteristiche negative nel genitore “vittima” del processo di alienazione. Il legame tra genitore alienante e il minore viene spesso definito come “patto di lealtà” e costituisce, secondo tale narrativa, il fondamento del rifiuto dell’altra figura genitoriale.

Nonostante non sia mai stata riconosciuta come patologia nel DSM (Manuale Diagnostico e Statistico), la PAS è stata spesse volte posta a fondamento di provvedimenti ablativi della capacità genitoriale in capo al genitore alienante e giustificativi della collocazione esclusiva del minore presso il genitore alienato. Tra i molti si ricorda il Tribunale di Bergamo sentenza n. 3490 del 2004, Tribunale di Brescia sentenza n. 26 del 2009 e Corte d’Appello di Firenze sentenza del 13.2.2009[5].

La sindrome in parola, tuttavia, è stata oggetto di critiche in dottrina poiché non solo è discusso il suo fondamento scientifico, dal momento che non trova consacrazione in nessun testo univocamente riconosciuto dalla comunità medico-scientifica[6], ma talvolta si è ipotizzata la pericolosità di un richiamo indiscriminato alla PAS, in quanto tale operazione può avere la funzione di disattendere sistematicamente ogni denunzia del minore in ordine a maltrattamenti e violenze perpetrati dal genitore presunto alienato. Infatti, qualora vengano riscontrati gli estremi dell’alienazione parentale si ritiene automaticamente non veritiera ogni accusa mossa dal minore nei confronti del genitore alienato[7]. Tutto questo con l’ulteriore rischio di collocare il minore presso il genitore presunto alienato che in realtà, in alcuni casi, può aver davvero posto in essere comportamenti pregiudizievoli nei confronti del minore, con i rischi e pregiudizi che si possono facilmente immaginare[8].

La Suprema Corte già in precedenza aveva limitato la sfera di operatività della PAS, frenandone l’avanzata come principale discrimen in materia di provvedimenti circa l’affidamento dei figli. Infatti, nella paradigmatica sentenza n. 7041 del 20 marzo 2013 la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha stabilito che “Nei giudizi in cui sia stata esperita c.t.u. medico-psichiatrica […] il giudice di merito, nell'aderire alle conclusioni dell'accertamento peritale, non può, […] limitarsi al mero richiamo alle conclusioni del consulente, ma è tenuto - sulla base delle proprie cognizioni scientifiche, ovvero avvalendosi di idonei esperti e ricorrendo anche alla comparazione statistica per casi clinici - a verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale.” In sunto, la Corte già in precedenza aveva dimostrato di recepire in parte le doglianze della dottrina e ha riconosciuto alla PAS un mero valore pseudo-scientifico, cosicché per emettere provvedimenti de potestate è necessaria, comunque, una valutazione del pregiudizio subito dal minore ad opera del genitore, dato che il richiamo alla PAS non è sufficiente. A distanza di otto anni gli Ermellini hanno sentito la necessità di ribadire il concetto nell’ordinanza n. 13217 del 23 maggio 2021, in quanto il principio di diritto in precedenza enunciato era sistematicamente disatteso dalla giurisprudenza di merito[9]. Non dissimile è la pronuncia in commento.

La Prima Sezione della Cassazione ha ancora una volta dovuto pronunciarsi sul punto per invitare il giudice di merito a valutare più accuratamente l’utilizzo della PAS. Infatti, ancora una volta viene messo in evidenza che il solo generico riferimento alla sindrome da alienazione parentale non basta di per sé a giustificare il venir meno della responsabilità genitoriale del genitore che si adduce come alienante così come non è sufficiente per disporre l’interruzione di ogni rapporto tra il minore e il genitore alienante. Il giudice deve quindi verificare in concreto l’idoneità o meno a svolgere le funzioni genitoriali del genitore presunto alienante e deve darne conto nel provvedimento che limita la responsabilità genitoriale, dimostrando che la propria decisione trova fondamento in adeguati mezzi prova.

A ben vedere, l’inidoneità della PAS a determinare i provvedimenti circa i figli minori non è relativa solo al suo carattere non pienamente scientifico. Infatti, il diritto alla non ingerenza di terzi nella propria vita familiare e privata trova fondamento anche nell’art. 8 della CEDU che tutela, appunto, la vita privata del minore e della sua famiglia[10]. Sul punto, la Corte EDU, ha più volte ribadito che i provvedimenti giudiziali relativi al collocamento dei minori e alla responsabilità genitoriale sono idonei a configurarsi come indebite ingerenze nella vita familiare del minore ogni qual volta che tali provvedimenti non siano precipuamente motivati e non costituiscano l’extrema ratio per preservare l’interesse del minore[11].

La Cassazione recepisce questa giurisprudenza europea e ribadisce l’insufficienza del generico richiamo alla PAS per adottare un provvedimento così pregnante nella vita del minore, quale l’allontanamento definitivo della madre e la decadenza di questa dalla responsabilità genitoriale. La Corte fa l’ulteriore passo di suggerire delle soluzioni alternative, suscettibili di trovare applicazione ogni qualvolta si rinvenga un comportamento pregiudizievole del genitore ma non tale da giustificare l’interruzione dei rapporti con il minore. Si suggerisce, a questo proposito l’uso degli strumenti di coercizione indiretta degli obblighi di facere degli artt. 614-bis e 709-ter c.p.c. al fine di dissuadere il genitore dal perpetrare comportamenti scorretti nei confronti dell’altro genitore o del minore, data la minor pregnanza di questo tipo di strumenti sul vissuto del minore. Infatti, gli artt. 614-bis e 709-ter c.c.prevedono la possibilità per il giudice di comminare una sanzione pecuniaria per ogni violazione di un obbligo di non facere o per ogni giorno di ritardo nell’adempimento di un obbligo di facere, salvo il risarcimento del danno[12]. I provvedimenti di questo tipo risultano particolarmente utili allo scopo dato che impongono una “pena privata” al genitore che si renda autore dei comportamenti censurati dal giudice senza però intaccare la stabilità e le abitudini di vita del minore poiché non vi è ablazione del rapporto genitore-figlio o modificazione dei rispettivi regolamenti in tema di affidamento e responsabilità genitoriale.

 

4. Il criterio del preminente interesse del minore

Il Supremo Collegio nel cassare la decisione del giudice di merito opera un richiamo ad un ulteriore principio cardine in materia di provvedimenti che riguardano i minori: il preminente interesse del minore o best interest of the child. I Giudici fanno presente che l’adozione di provvedimenti relativi ai minori d’età è subordinata alla positiva valutazione dell’idoneità degli stessi a realizzare il migliore interesse del minore, il quale costituisce il principio portante e ineludibile del sistema dei provvedimenti minorili.

Il principio del preminente interesse del minore trova riconoscimento tanto nel diritto interno, all’art. 337-ter c.c. nonché nelle altre norme che regolano l’esercizio della responsabilità genitoriale[13], quanto nel diritto internazionale in forza dell’art. 8 CEDU e della Convenzione sui diritti dell’infanzia, firmata il 20 novembre 1989 a New York e ratificata dall’Italia con la legge 176 del 1991[14]. Il principio in parola impone, nel caso di provvedimenti o decisioni che riguardano il minore, di privilegiare la soluzione che meglio realizza l’interesse del minore e cioè che risulta più conforme al suo benessere, alla sua salute, alle sue attitudini e alle sue aspirazioni e che, quindi, realizza più compiutamente la sua personalità. Anziché elencare tutti i profili che attengono alla vita del minore si è scelto di utilizzare il parametro flessibile dell’interesse del minore, il quale ingloba tutte le sfaccettature della vita e della personalità del fanciullo.

Nella pronuncia de qua, si ribadisce che ogni provvedimento adottato deve mirare a realizzare e proteggere l’interesse del minore a una soddisfacente vita familiare e che eventuali diritti confliggenti, che pure vengono legittimamente in gioco, come il diritto del genitore ad intrattenere rapporti con il figlio, sono recessivi di fronte all’interesse del minore. In particolare, l’interesse del minore si declina, nel corso di un giudizio, in tre profili. Il primo profilo attiene all’obbligo per il giudice di considerare primariamente l’interesse del minore nell’adozione di provvedimenti che lo riguardano. Il secondo attiene all’interpretazione delle norme di modo che il giudice, quando è chiamato ad interpretare una norma in vista della sua applicazione, debba scegliere tra più possibili interpretazioni proprio l’interpretazione che si presenta come maggiormente garantista per il minore. Infine, il terzo profilo impone che nella scelta della procedura da applicarsi al caso concreto, il procedimento che porta a tale decisione includa una valutazione circa l’impatto che la decisione adottata avrà sul minore.

Nel caso di specie il rispetto di tale dettame comporta, anzitutto, che il diritto del genitore, precisamente del padre, ad esercitare la propria funzione educativa di genitore mediante la frequentazione del minore debba essere contemperata con l’interesse del figlio, che si presenta come preminente rispetto al diritto del padre. Questo significa che il diritto di frequentazione verrà attuato nei limiti e nelle forme più idonee a garantire il miglior perseguimento dell’interesse del figlio a crescere in modo tranquillo e non traumatico. Inoltre, privilegiare l’interesse del minore impone che lo stesso diritto alla bigenitorialità non debba essere guardato nell’ottica del diritto del genitore ad intraprendere un proficuo rapporto con il figlio ma nell’ottica del diritto del minore a intrattenere rapporti con entrambi i genitori, nei modi più consoni per il fanciullo stesso. In caso di conflitto, il diritto del genitore è recessivo rispetto all’interesse minorile. Nel caso di specie tale valutazione non è correttamente avvenuta, poiché i provvedimenti del giudice di merito si sono concentrati principalmente sul diritto del padre a frequentare il figlio, relegando quest’ultimo in uno spazio limitato nel processo dal momento che il minore non è stato ascoltato dal giudice nel corso del procedimento, come si analizzerà nel prosieguo, così da non permettere l’emersione diretta del suo preminente interesse.

In aggiunta a questo, si censura come nel caso de quo non si sia operata un’attenta valutazione circa gli effetti che il provvedimento di allontanamento del minore dalla madre avrebbe sortito sul minore. A questo riguardo, è importante ricordare che il Tribunale dei minori ha disposto la decadenza della madre dalla responsabilità genitoriale e ha collocato il minore presso una casa-famiglia imponendo l’interruzione di ogni rapporto tra il minore e la genitrice. La motivazione fornita riguardava il presunto patto di lealtà che legava il fanciullo alla madre e che impediva ogni rapporto col padre; così da rendere necessario, secondo i Giudici di merito, la collocazione del minore in un ambiente neutro per sottrarlo dall’influenza materna e reinserire il padre nella sua vita. Orbene, il Tribunale ha omesso di valutare le importanti conseguenze che tale provvedimento potrebbe facilmente sortire su un minore d’età il quale vede reciso il rapporto con il genitore con cui ha sempre convissuto e che viene sottratto ex abrupto dal suo ambiente familiare e amicale. Dagli atti di causa appare pacifico che, al di là di ogni riferimento alla PAS, il minore ha convissuto felicemente per anni con la madre e ha tranquillamente svolto le sue attività scolastiche e sociali di bambino, senza che il rapporto con la madre avesse alcuna influenza negativa sulle stesse. Anzi, la madre si è presa cura dei problemi di salute del figlio, la cui malattia ha creato talvolta delle difficoltà nella frequentazione con il padre[15]. Ecco che tale allontanamento sicuramente è foriero di conseguenze negative per il minore, il quale si vede privato del suo rapporto familiare principale senza possibilità di opposizione. A tacer del fatto che è stato disposto l’allontanamento coattivo del minore anche con la forza e il divieto assoluto di ogni contatto con la madre, al punto che nell’ordinanza si discorre perfino di lesione del principio di dignità nell’eseguire il provvedimento, date le modalità aggressive di esecuzione che non possono avere altro effetto se non influenzare il minore negativamente.

Pare abbastanza evidente che un provvedimento di tale portata si può giustificare solo qualora il rapporto con il genitore che viene allontanato sia fonte di grave pregiudizio per il figlio, cosa che non si può certo rilevare sulla sola base di una diagnosi dell’ascientifica sindrome di alienazione parentale.

 

5. L’ascolto del minore

L’ultimo passaggio della decisione che merita precipua analisi è costituito dal rilievo circa il mancato ascolto del minore nel procedimento. Infatti, il giudice di merito, nonostante la pregnanza dei provvedimenti da assumere, non ha proceduto all’ascolto diretto del minore ma si è interamente basato sulle risultanze dei c.t.u. che hanno ascoltato il minore in due occasioni e cioè in data 5.10.2017 e nel 2018, nonché sulle relazioni degli operatori dei servizi sociali, senza mai sentire personalmente il minore.

Gli Ermellini censurano il mancato ascolto diretto del minore, il quale nel frattempo ha maturato un’età vicina ai dodici anni – età soglia oltre la quale si presume che il minore sia dotato di discernimento – e ha dimostrato comunque una maturità ed intelligenza precoci rispetto all’età anagrafica, tali da far ipotizzare l’acquisito discernimento. Vista la capacità di discernimento del minore sarebbe stato opportuno procedere al suo ascolto da parte del giudice di merito, in particolare allo scopo di valutare se la volontà del minore fosse stata coartata da un “patto di lealtà” nei confronti della madre oppure se il rifiuto di intrattenere rapporti con il padre trovasse giustificazione in sentimenti spontaneamente insorti nel minore. Più in generale, sarebbe stato necessario procedere all’ascolto del minore nel procedimento al fine di fornire al giudice uno strumento per valutare gli effetti che determinati provvedimenti potrebbero sortire sul minore. Il minore non ha, infatti, strumenti diretti per intervenire nel processo e perciò in assenza di audizione, l’espressione delle sue necessità è affidata alle allegazioni dei genitori, i quali si sono proclamati portatori del migliore interesse del minore pur prospettando per esso l’accoglimento di provvedimenti opposti e incompatibili tra loro.

La Cassazione rammenda che l’audizione diretta del minore d’età da parte del giudice costituisce espressione di un principio generale in forza del quale il fanciullo ha diritto a concorrere alle decisioni che lo riguardano, quando dotato di capacità di discernimento. In precedenti sentenze la stessa Corte Suprema aveva ribadito che “l’ascolto del minore infradodicenne dotato di discernimento costituisce un adempimento previsto a pena di nullità, atteso che è espressamente destinato a raccogliere le sue opinioni e a valutare i suoi bisogni[16].

Con portata generale, l’art. 315-bis c.c., nel trattare dei diritti e degli obblighi del figlio, sancisce il diritto di quest’ultimo ad essere ascoltato in tutte le decisioni e le procedure che lo riguardano, stabilendo così sia la valenza sostanziale del diritto all’ascolto sia la portata processuale dello stesso diritto[17].  Il diritto all’ascolto è lo strumento prediletto dal legislatore per dare voce alle esigenze e alla personalità del minore, superando così il tradizionale binomio capacità-incapacità che pone il minore in una situazione di impossibilità ad autodeterminarsi. Infatti, il riconoscimento del diritto ad essere ascoltato nelle decisioni e nei procedimenti che lo riguardano conferisce al fanciullo la possibilità di intervenire direttamente nelle questioni che lo coinvolgono esprimendo i suoi desideri, le sue esigenze e quindi la sua personalità. Questo diritto a concorrere nelle decisioni e nei procedimenti che lo riguardano è tendenzialmente limitato al minore capace di discernimento, cioè dotato della competenza specifica a valutare cosa sia utile per sé, ovvero dell’abilità a capire quali sono i propri bisogni e a formulare strategie per soddisfarli, indipendentemente da eventuali influenze esterne[18]. Il legislatore ha fissato a 12 anni l’età in cui si presume l’acquisto della capacità di discernimento; tuttavia, nei casi dubbi oppure al di sotto di tale soglia d’età è opportuna la valutazione caso per caso della concreta attitudine del minore, considerando la competenza necessaria in relazione alla decisione specifica da assumersi.

Il diritto all’ascolto è entrato definitivamente nel nostro ordinamento nell’ultimo decennio sebbene la sua origine sia più antica poiché la sua fonte è da ritrovarsi nel diritto internazionale e più specificamente nella Convenzione O.N.U. di New York sui diritti del fanciullo e nella Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei minori, adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo nel 1996[19]. In seguito alla riforma del diritto di famiglia del 2012, tale diritto trova collocazione anche nel Codice civile, all’art. 315- bis c.c. per gli aspetti sostanziali e agli artt. 336-bis e 337-octies c.c.per i profili processuali che attengono alle controversie che coinvolgono, anche indirettamente, minori.

In forza degli artt. 336-bis e 337-octies c.c. il giudice deve procedere all’ascolto del minore che abbia compiuto i dodici anni o anche infradodicenne se dotato della capacità di discernimento, a pena di nullità, tutte quelle volte in cui il minore sia portatore di interessi nel processo, come avviene nei procedimenti di separazione e divorzio nonché nei giudizi de potestate.

Invero, la dottrina si è a lungo interrogata sulla sanzione da comminare in caso di mancato espletamento di tale incombente, arrivando ad ipotizzare l’obbligatorietà dell’ascolto solo nei procedimenti non conflittuali e, invece, la facoltatività dello stesso nel caso di procedimenti connotati da conflittualità[20], stante la diversa formulazione letterale degli artt. 336-bis e 337-octies c.c.[21] In realtà, la Cassazione ha diverse volte chiarito che l’incombente dell’ascolto del minore è previsto a pena di nullità, tanto nei procedimenti ex art. 336-bis c.c. quanto in quelli ex art. 337-octies c.c., trattandosi invero di un principio generale che impone l’estensione del dettato del primo articolo anche agli altri casi in cui il Codice impone il diritto all’ascolto, sebbene non sia riportata l’esatta formulazione letterale dell’art. 336-bis c.c.

È prevista la possibilità, per il giudice, di omettere l’ascolto del minore capace di discernimento qualora tale ascolto risulti pregiudizievole per il minore oppure manifestamente inutile, così come nel caso in cui il minore si rifiuti di essere ascoltato, ma tale omissione deve essere precisamente motivata dal giudice, pena la nullità del provvedimento emanando[22]. Ma vi è di più.

La Cassazione con l’ordinanza n. 9691 del 2022 ribadisce che il minore deve essere ascoltato personalmente dal giudice o al più da un delegato specificamente istruito dal giudice stesso e, in ogni caso, nel corso del processo, non essendo sufficiente il riferimento all’audizione del minore effettuata da parte di un c.t.u. oppure l’audizione avvenuta nel corso di un diverso o precedente procedimento. Anzitutto, nel caso di audizione effettuata da un delegato del giudice deve essere esattamente delimitata l’area delle questioni su cui viene sentito il minore, di modo che il collaboratore del giudicante senta il minore su questioni che ricadono nel perimetro delineato dalla Corte. In mancanza della determinazione di tali questioni, la sanzione è costituita dall’impugnabilità del provvedimento. Pare, quindi, che l’eventualità della deroga a un ausiliario abbia carattere eccezionale, dovendo il giudice prediligere l’ascolto diretto del minore.

In secondo luogo, secondo gli Ermellini, l’audizione del minore ad opera di consulenti tecnici, quali i c.t.u. e i c.t.p., non è idonea a sostituire l’audizione diretta del minore da parte del giudice poiché i due incombenti hanno finalità diverse: l’ascolto da parte del giudice serve a far entrare il punto di vista e quindi l’interesse del minore nel processo; per contro, le consulenze tecniche hanno la funzione di fornire una valutazione circa altri elementi, quali il contesto di vita del minore e le attitudini all’esercizio della responsabilità genitoriale dei genitori[23]. L’audizione da parte del c.t.u. si presenta, quindi, quale strumento inidoneo a dar voce all’interesse del minore in sede processuale[24].

Per quanto attiene alle modalità dell’ascolto e alla sua obbligatorietà, la legge 206/2021 sembra foriera di maggiori certezze, in quanto stabilisce l’obbligatorietà dell’ascolto del minore a meno che non sia presente una delle clausole di esclusione, rispetto alle quali il giudice deve fornire precisa motivazione. Inoltre, la norma disciplina più accuratamente le modalità di acquisizione dell’ascolto, per esempio prevedendo la video registrazione dell’audizione[25].

Il legislatore, quindi, sembra conformarsi alle istanze della giurisprudenza che, come conferma il caso di specie, ritiene l’ascolto del minore un incombente da svolgersi a pena di nullità nella forma dell’audizione diretta del minore da parte del giudice. È fondamentale, infatti, ribadire che solo attraverso l’ascolto del minore si realizza l’entrata nel processo dell’interesse del minore, che diversamente troverebbe spazio solo in via mediata attraverso le doglianze dei genitori[26]. Per questo motivo, se pure non vi è l’obbligo del giudice di conformarsi a quanto espresso dal minore in sede di audizione, la giurisprudenza riconosce il dovere del giudice di motivare le ragioni per cui ha deciso di discostarsi da quanto emerso nel corso dell’audizione del minore, qualora non ritenga opportuno recepire quanto richiesto dal fanciullo[27]. Ciò a ribadire la portata sostanziale del diritto all’ascolto del minore, anche nelle more di un procedimento giudiziale.

 

6. Considerazioni finali

Mediante l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione ha colto l’occasione di ribadire la solidità di taluni orientamenti del Supremo Collegio che vengono sistematicamente disattesi dai Giudici di merito.

In particolare, si è ribadita l’insufficienza del mero richiamo alla sindrome da alienazione parentale per giustificare la decadenza dalla responsabilità genitoriale, dal momento che un provvedimento di tale portata deve trovare fondamento in elementi di prova e in valutazioni precisissime e puntuali, quale non può ritenersi il generico richiamo a una sindrome dalla dubbia portata scientifica, né tanto meno può legittimarsi un automatismo in tema di decadenza dalla responsabilità genitoriale. I Giudici del Supremo Collegio richiamano, inoltre, l’attenzione sulla corretta prospettiva in cui bisogna porsi per adottare provvedimenti de potestate e cioè nell’ottica del preminente interesse del minore, dato che tale interesse ha un valore sovra ordinato rispetto agli altri, pur legittimi, diritti contrastanti. Infine, l’interesse minorile non può trovare adeguato ingresso nel processo se non per mezzo dell’ascolto del minore da parte del giudice, ponendosi, quindi, l’audizione come unico baluardo per valutare la concreta posizione del minore rispetto al giudizio, nonché per determinare i provvedimenti più adatti da emanare.

Data la solidità degli orientamenti affermati nella decisione de qua è facile prevedere che la Corte di Cassazione replicherà tali posizioni in futuro ogni qualvolta che i Giudici di merito si discosteranno dalle dette prospettive senza fornire adeguata motivazione. Sarebbe opportuno il recepimento da parte della giurisprudenza di merito degli orientamenti del Supremo Collegio in materia di provvedimenti de potestate così da applicare in modo uniforme il diritto, con beneficio in termini di omogeneità e prevedibilità del diritto.  Questo perlomeno, finché l’attuazione della riforma ex l. 206/2021 renderà vincolante una determinata applicazione degli istituti in parola, almeno per quanto attiene ai profili di cui la norma si occupa.



[1] Sono state espletate in tutto tre consulenze tecniche nel corso del procedimento.

[2] Così era stato affermato dalla stessa Corte in Cass. Civ., sez. I, 8 aprile 2016 n. 6919 e Cass. Civ., sez. I, 20 marzo 2013 n. 7041.

[3] C.f.r. G. Di Rosa, artt. 231- 455 in Della Famiglia, a cura di G. Di Rosa, Torino, 2018, 882.

[4] C.f.r. P. Cendon, Uccisione del congiunto. Responsabilitàfamiliare, affido, adozione, in Trattato dei nuovi danni, a cura di P. Cendon, Padova, 2011, 587.

[5] C.f.r. P. Cendon, Uccisione del congiunto. Responsabilitàfamiliare, affido, adozione, in Trattato dei nuovi danni, a cura di P. Cendon, Padova, 2011, 587.

[7] C.f.r. R. Ferri, Per una effettività della corrispondenza tra legittime richieste di diritto e corretta pratica della giurisdizione, Padova, 2020, 51.

[8] C.f.r. G. Cassano, I. Grimaldi, L'alienazione parentale nelle aule giudiziarie: ragioni dei minori e decisioni irragionevoli tra giurisprudenza e normativa sovranazionale, Corriere giuridico, 2020, II, 159.

[9] Cass. Civ., sez. I, ord. 21 gennaio 2021 n. 13217.

[10] C.f.r. G. Di Rosa, artt. 231- 455 in Della Famiglia, a cura di G. Di Rosa, Torino, 2018, 882.

[11] Corte EDU, 4 maggio 2017, Improta c/ Italia, Corte EDU, 23 marzo 2017, Endirizzi c/Italia, Corte EDU, 23 febbraio 2017, D’alconzo c/Italia; Corte EDU, 9 febbraio 2017, Solarino c/ Italia.

[12] Come dispone lo stesso art. 709-ter c.c. il giudice può utilizzare tali strumenti per sanzionare il comportamento del genitore che non si attenga a quanto disposto dal giudicante, come nel caso del genitore che ostacoli ripetutamente i rapporti del figlio con l’altro genitore, nonostante gli inviti del giudice a cessare tale comportamento.

[13] Tra gli altri si segnalano gli artt. 250, 251, 252, 316, 336 c.c.

[14] C.f.r. R. Senigaglia, I principi e le categorie del diritto civile minorile, in Diritto civile minorile, a cura di A. Cordiano e R. Senigaglia, Napoli, 2022, 33.

[15] A questo proposito nell’ordinanza 9691 si fa notare come, pur dovendo censurare i comportamenti ostili all’altro genitore, il giudice di merito ha omesso di considerare che la frequentazione tra il minore e il padre è stata ostacolata anche da altre cause – quali la malattia del minore e l’incapacità dei servizi sociali di portare avanti il piano di incontri – che non sono imputabili alla madre.

[16] Cass. Civ., sez. I, 6 settembre 2021 n. 23804; Cass. Civ., sez. I, 25 gennaio 2021 n. 1474.

[17] C.f.r. G. Di Rosa, artt. 231- 455 in Della Famiglia, a cura di G. Di Rosa, Torino, 2018, 566.

[18]  C.f.r. G. Di Rosa, artt. 231- 455 in Della Famiglia, a cura di G. Di Rosa, Torino, 2018, 566; A. Gorgoni, Filiazione e responsabilità genitoriale, Padova, 2017, 451.

[19] C.f.r. G. Di Rosa, artt. 231- 455 in Della Famiglia, a cura di G. Di Rosa, Torino, 2018, 566.

[20] A. Gorgoni, Filiazione e responsabilità genitoriale, Padova, 2017, 451.

[21] È stato notato che mentre l’art. 336-bis c.c. prevede un precipuo l’obbligo di motivare il mancato ascolto del minore, di tale motivazione non vi è menzione nell’art. 337-octies c.c. Questa differenza ha indotto alcuni interpreti ad ipotizzare una diversa regola nei due casi poiché nei procedimenti che rientrano sotto l’egida dell’art. 336-bis l’ascolto del minore sarebbe obbligatorio mentre nei procedimenti conflittuali dell’art. 337-octies il giudice potrebbe omettere l’ascolto del minore senza obbligo di motivazione, trattandosi quindi di un potere del giudice, non di un obbligo.

[22] C.f.r. A. Gorgoni, Filiazione e responsabilità genitoriale, Padova, 2017, 451; R. Russo, La partecipazione del minore al processo nella riforma del diritto civile, Diritto e famiglia, 2022, VI, 643.

[23] Ribadito anche in Cass. Civ. Sez. I, Ordinanzan. 23804 del 02 settembre 2021.

[24] Sul punto concorda anche la dottrina c.f.r. R. Russo, La partecipazione del minore al processo nella riforma del diritto civile, Diritto e famiglia, 2022, VI, 643.

[25]C.f.r. A. Arceri, Il minore nel nuovo processo familiare: le regole sull’ascolto e la rappresentanza, 2022, IV, 206; R. Russo, La partecipazione del minore al processo nella riforma del diritto civile, Diritto e famiglia, 2022, VI, 643.

[26] Cass. Civ., Sez. I, Ordinanza n. 16410 del 30 luglio 2020.

[27] Cass. Civ., Sez. I, Sentenza n. 13241 del 16 giugno 2011; in dottrina si segnala G. Di Rosa, artt. 231- 455 in Della Famiglia, a cura di G. Di Rosa, Torino, 2018, 566.


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