Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 27/09/2023 Scarica PDF
La formazione del consenso alla prova dei valori costituzionali, tra vecchi e nuovi paradigmi interpretativi
Ulderico Moscetta, .Abstract
La formazione del consenso nell’età contemporanea tra vecchi e nuovi paradigmi.
Le emergenze dell’età contemporanea impongono di abbandonare rigide schematizzazioni, ontologicamente incompatibili con la crescente complessità dei rapporti sociali ed economici. Ne deriva la necessità di adottare, nell’ottica di una piena attualizzazione dei valori e principi costituzionali, una differente prospettiva metodologica che, partendo dal basso, ossia dall’analisi dei predetti rapporti, si focalizzi, poi, sull’intero assetto normativo, in un incessante confronto dialettico, onde giungere ad un’efficace soluzione giuridica dei casi concreti e dei conflitti di interessi che li connotano.
Tale cambiamento in senso sostanziale coinvolge innanzitutto la formazione del consenso, imprescindibile punto di partenza di un contratto equilibrato. Protagonisti di questo mutamento sono i doveri precontrattuali e, in particolare, quello di buona fede oggettiva, estrinsecazione del dovere costituzionale di solidarietà sociale (art. 2 Cost.). Il radicamento sovralegislativo di detto parametro conduce, in punto di patologia, alla possibilità di applicare non solo il rimedio risarcitorio ma anche quello della nullità per violazione di norma imperativa (art. 1418, 1° c., c.c.), in antitesi con la tradizionale e formalistica bipartizione tra regole di validità e regole di comportamento.
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The emergencies of the contemporary age require us to abandon rigid schematizations, ontologically incompatible with the growing complexity of social and economic relations. Hence the need to adopt, with a view to a full actualization of constitutional values and principles, a different methodological perspective that, starting from the bottom, that is, from the analysis of the aforementioned relationships, then focuses on the entire regulatory framework, in an incessant dialectical confrontation, in order to reach an effective legal solution of concrete cases and conflicts of interest that characterize them.
First of all this change in a substantial sense involves the formation of consensus, which is an essential starting point for a balanced contract. The protagonists of this change are the pre-contractual obligations and, in particular, that of objective fairness, expression of the constitutional obligation of social solidarity (art. 2 Cost.). The supra-legislative rooting of this parameter leads, in terms of pathology, to the possibility of applying not only the compensatory remedy but also that of nullity for violation of mandatory rule (art. 1418, 1° c., c.c.), in contrast with the traditional and formalistic bipartition between rules of validity and rules of conduct.
Sommario: 1. I valori della Carta fondamentale quali cardini dell’attività giuridica nell’attuale panorama socio-economico. - 2. Necessità di un approccio esegetico teso a ristabilire un corretto rapporto gerarchico tra le fonti. - 3. La formazione del consenso quale fondamento di un contratto equilibrato. - 4. Il ruolo della buona fede precontrattuale: l’art. 1337 c.c. - 5. Conseguenze della violazione dei doveri precontrattuali: il risarcimento del danno. - 6. Segue: la nullità per violazione delle regole di comportamento.
1. I valori della Carta fondamentale quali cardini dell’attività giuridica nell’attuale panorama socio-economico
La situazione di urgenza derivata dall’esplosione dell’epidemia da COVID-19 e del conflitto russo-ucraino ha notevolmente accresciuto i già sussistenti problemi socio-economici, generando nuovi quesiti per gli operatori del diritto. Dispute, che in passato erano state oggetto di complessi dibattiti teorici, hanno rapidamente acquisito rilievo concreto, essendo divenute centrali per fronteggiare le gravi difficoltà che hanno colpito soprattutto le fasce più deboli della popolazione.
Nell’orizzonte di eccezionalità dell’attuale panorama, nonché dinanzi all’inadeguatezza - e spesso manifesta illogicità – della produzione legislativa, un indubitabile riferimento sono i valori della Costituzione[1]; direttive comportamentali ontologicamente vaghe, la cui attuazione richiede un’incisiva opera di mediazione, sovente diretta, ove non sia la stessa Carta fondamentale a fissare criteri di maggiore rilevanza[2], a risolverne i rapporti di tensione, animati dal confronto dialettico di opposti fattori culturali[3].
D’altra parte, la cedevolezza della normativa costituzionale, che discende dalla semplicità della sua formulazione, è senza dubbio un prezioso mezzo che consente l’inquadramento di soluzioni più adeguate alle mutevoli esigenze. Di qui la necessità che l’interprete, e in primo luogo il giudice, svolga la propria attività nell’orizzonte di detto tracciato[4], in vista dell’attenta considerazione sostanziale dei fenomeni giuridici. Ciò pur se dovesse giungersi a risultati divergenti dal diritto vivente, le cui soluzioni si sono spesso rivelate non confacenti alle coordinate della legalità costituzionale. Un aspetto critico, questo, espressione del conflitto – mai risolto - tra Corti di cassazione e costituzionale in ordine all’espletamento della funzione nomofilattica[5], che non può non riverberarsi negativamente sul sistema economico.
2. Necessità di un approccio esegetico teso a ristabilire un corretto rapporto gerarchico tra le fonti
L’orizzonte pluralistico del sistema delle fonti, tracciato dagli artt. 117, 1° comma, Cost.[6] e 1 disp. prel. c.c.[7], nonché le inedite esigenze sociali ed economiche radicate nella complessità dei rapporti umani dell’età contemporanea hanno reso ancor più manifesta l’insufficienza di un approccio ermeneutico frammentario, in cui l’individuazione della regola del caso concreto sia basata su enunciati legislativi isolatamente considerati, senza indagarne connessioni sistematiche e collocazione nel panorama dei principi e dei valori posti dalla Carta fondamentale e dal diritto sovranazionale. Di qui l’opportunità di restituire centralità nel metodo esegetico all’interpretazione sistematica[8], strumento che consente di desumere il significato di una data disposizione dalla sua collocazione nel sistema complessivo, ovvero relativo ad una specifica materia o ad un dato istituto. Segnatamente, precipuo rilievo deve essere riconosciuto all’ “interpretazione adeguatrice”[9], la quale, consentendo di conformare il significato di una disposizione a quello (previamente o contestualmente) stabilito per altre disposizioni materialmente, strutturalmente o assiologicamente superiori[10], si dimostra imprescindibile per ristabilire un corretto ed ordinato rapporto tra le fonti dell’ordinamento e, dunque, per forgiare la norma della fattispecie concreta, destinata ad essere plasmata dalla legge ordinaria nel tracciato delle coordinate poste dai canoni costituzionali[11].
Tutto ciò nella triplice prospettiva del “«metodo esegetico-sperimentale», che cerca l’interpretazione corretta per tentativi e verifiche critiche (collaudando le interpretazioni coi risultati pratici, scartando le assurde, le insufficienti, le incoerenti, e accogliendo le congrue): in un continuo trascorrere dalla formula legislativa all’oggetto e alla ratio della tutela e viceversa, essendo il «circolo ermeneutico» connaturato all’interpretazione e ineliminabile”[12], onde evitare di costruire una disciplina inidonea ad “abbracciare la complessità fenomenica in tutte le sue sfaccettature né tanto meno di ponderare con esattezza gli interessi connessi ad una certa pretesa, così da mettere a repentaglio il conseguimento del bene anelato per effetto di strumenti spesso inadeguati o inefficaci”[13]; della valorizzazione dell’aspetto sostanziale della giustizia e, dunque, del concetto di interesse quale “requisito strutturale di ogni posizione soggettiva fatta valere in giudizio al fine di superare le contraddizioni di un sistema troppo attento ai dettami normativi”[14]; infine, della costante tensione ermeneutica di adeguamento del significato dei principi costituzionali, e del rapporto gerarchico tra di essi, alle prerogative emergenti dall’attualità, sempre mutevole, sociale ed economica[15].
3. La formazione del consenso quale fondamento di un contratto equilibrato
Le drammatiche contingenze della contemporaneità, spesso incidenti in misura rilevante sulla conclusione di nuovi contratti e sullo svolgimento di rapporti già in essere, hanno conferito primario rilievo al tema dell’equilibrio.
Una riflessione sul punto deve necessariamente prendere le mosse dalla radice del fenomeno contrattuale, ossia dalla formazione del consenso e specialmente dalla sfera dei comportamenti precontrattuali, con particolare riguardo al ruolo propulsivo che, in tale ambito, svolgono la normativa euro-unitaria e, soprattutto, costituzionale.
La prima ha condotto all’introduzione nell’ordinamento nazionale di legislazioni speciali che assicurano a categorie di ‘contraenti deboli’ (come quella del ‘consumatore’, cui è dedicato il d.lgs. n. 206/2005) una tutela penetrante, imperniata su strumenti più incisivi di quelli contemplati dal Codice civile (artt. 1341, 1342), spesso inadeguati.
La seconda illumina l’opera degli interpreti che, in una costante tensione verso la piena concretizzazione dei suoi valori fondamentali (personalismo, solidarismo, eguaglianza), hanno riconsiderato gli istituti civilistici dalla prospettiva costituzionale, giungendo ad ampliare il panorama dei rimedi esperibili in caso di contrattazioni squilibrate e sostanzialmente ingiuste.
Protagonista di questa evoluzione è stata la buona fede oggettiva che, evocata a più riprese nel Libro IV del Codice civile (artt. 1175, 1337, 1366 e 1375), è considerata uno dei mezzi privilegiati di accesso nelle pattuizioni negoziali, e nei rapporti tra privati in generale, dei canoni posti dalla Carta fondamentale e, in particolare, del dovere di solidarietà sociale imposto dall’art. 2[16].
La centralità della materia discende anche da considerazioni di carattere empirico. La proteiforme esperienza contrattuale mostra, infatti, che ad una disfunzionale formazione del consenso può conseguire uno sproporzionato regolamento di interessi, sul quale l’interprete, e in primo luogo il giudice, è chiamato ad intervenire.
La considerazione della costruzione dell’accordo quale ineliminabile tappa del percorso che conduce ad un contratto equilibrato discende, poi, dalla considerazione della centralità che il medesimo, e più in generale le volontà delle parti che ad esso danno vita, riveste nella dogmatica negoziale. Tale affermazione è nitidamente corroborata da alcuni frammenti testuali del Codice civile dedicati alla materia contrattuale e, segnatamente, dagli articoli: 1321 che, nel definire il ‘contratto’, la principale tipologia di ‘negozio giuridico’, stabilisce un’identità tra il primo e l’accordo delle parti (“Il contratto è l’accordo...”); 1325 ove l’accordo compare tra gli elementi essenziali del contratto; 1322, base di elaborazione del concetto di autonomia privata quale potere dei consociati di regolare da sé i propri interessi, secondo cui le parti possono “determinare” liberamente il contenuto del contratto (1° comma), e finanche concludere contratti non appartenenti ai tipi previsti dalla legge (2° comma); 1326-1341 dedicati alla puntuale regolazione della formazione del consenso; 1362 per cui nell’interpretare il contratto si deve innanzitutto indagare quale sia stata la “comune intenzione delle parti” e non limitarsi al senso comune delle parole; 1376 che, sulla scorta della codificazione napoleonica ed in contrapposizione alla tradizione tedesca, imperniata - come quella romanistica - su una netta scissione tra titulus e modus adquirendi, ricollega la produzione di effetti reali al “consenso delle parti legittimamente manifestato”; 1372, 1° comma il quale, stabilito enfaticamente che il contratto ha “forza di legge tra le parti”, prevede che il medesimo non possa essere sciolto che per “mutuo consenso” (o, con formula ossimorica invalsa nella prassi, “mutuo dissenso”) e rafforza l’idea dell’accordo, e dunque della volontà, quale pilastro della fenomenologia contrattuale; 1418, 2° comma e 1325 per cui la mancanza dell’accordo è causa di nullità del contratto, la più grave delle sanzioni contemplate dall’ordinamento civilistico; 1427 ss. dedicati alla disciplina dei vizi della volontà (errore, dolo e violenza) che, assieme all’incapacità legale di una delle parti (art. 1425), causano l’annullabilità del contratto.
L’assioma trova, però, molteplici contemperamenti con funzione di garanzia della certezza dei traffici giuridici, come emerge nitidamente dalla disciplina dell’errore ostativo (art. 1433), o conformativa, come nel caso dell’inserzione automatica di clausole (art. 1339), ovvero, ancora, integrativo-conformativa, là dove il sistema delle fonti del contratto (art. 1374), affiancando alla volontà delle parti, trasfusa nel documento negoziale, la legge, gli usi e l’equità, anch’essa - come la buona fede oggettiva - reputata veicolo di ingresso nella pattuizione dei canoni costituzionali, apre le porte alla eteronomia del rapporto contrattuale e pertanto forgia un più contenuto legame tra accordo ed effetti negoziali[17].
Per altro verso, la volontà incontra delle limitazioni concernenti le libertà di concludere o meno il contratto(sono le ipotesi, ad esempio, dell’obbligo ex art. 2597 a contrarre posto a carico di chi esercita un’impresa in condizioni di monopolio legale, posto che, in tale eventualità, l’imprenditore dovrà stipulare con chiunque richieda le prestazioni tipiche dell’impresa, osservando la parità di trattamento, ovvero dell’obbligo posto dagli artt. 122 ss., D.Lgs. 209/2005 a carico dei proprietari di autoveicoli e natanti a motore di stipulare un contratto di assicurazione contro i danni arrecati a terzi in seguito alla circolazione), di scegliere la persona del contraente (a titolo esemplificativo si considerino i casi di prelazione legale, prevista a tutela di talune posizioni ritenute dall’ordinamento meritevoli di protezione e di preferenza rispetto a quella dei terzi, come nell’ipotesi in cui il coerede voglia alienare ad un estraneo la sua quota di eredità o parte di essa, ovvero della prelazione dell’affittuario e del confinante che siano coltivatori diretti, o ancora infine dall’art. 38 L. 78/392)[18], di determinare il contenuto del contratto entro i confini tracciati dalla legge (art. 1322, 1° comma), di stipulare contratti atipici, i quali devono essere diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322, 2° comma).
Il dogma volontaristico esce, poi, ulteriormente, e definitivamente, ridimensionato alla luce di quell’orientamento che, mostrando attenzione sempre maggiore verso i valori della persona contemplati nella Carta costituzionale, ha contribuito a determinare il riconoscimento di una più ampia iniziativa adeguatrice del giudice sugli atti di autonomia, per il tramite della clausola generale di buona fede oggettiva, onde ai consociati non rimarrebbe altro che dare impulso alle vicende giuridiche, predisponendo un assetto provvisorio dei propri interessi, destinato ad essere filtrato da un controllo esterno[19]. Tale impostazione fonda sul pensiero secondo cui i canoni espressi dalla Carta fondamentale, e segnatamente quello di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., nella cui specificazione si fanno rientrare proprio i criteri della correttezza e della buona fede[20], pervadano l’intero campo del diritto privato e dei rapporti intersoggettivi.
4. Il ruolo della buona fede precontrattuale: l’art. 1337 c.c.
Primo postulato di un incontro di volontà divergenti, fonte effettiva del regolamento negoziale, e, in definitiva, reale matrice di un equilibrato assetto di interessi, è la “parità delle armi” tra i contraenti.
Tale affermazione è imposta, in primo luogo, proprio dai principi costituzionali e, in particolare, dagli artt. 2, 3 e 41 Cost. In secondo luogo, dallo stesso Codice civile, là dove colloca, in apertura della Sezione dedicata all’accordo delle parti, il precipuo schema di formazione dialogica del consenso (art. 1326)[21], nonché, nell’ambito della medesima Sezione, il fondamentale art. 1337.
Tale ultima disposizione contiene un richiamo alla buona fede oggettiva[22], imponendo alle parti, coinvolte nello svolgimento di una trattativa, di improntare a detto canone la propria condotta.
Sotto un profilo generale, la norma deve essere ricondotta all’interno del sistema di enunciati imperniati sulla clausola generale di buona fede oggettiva, impianto del quale sono elementi costitutivi gli artt.: 1358, dedicato al comportamento delle parti nello stato di pendenza della condizione; 1366 il quale, contenuto entro la disciplina dell’interpretazione del contratto, indica all’interprete quale criterio ermeneutico del dettato negoziale proprio il canone di buona fede oggettiva; 1375, che prescrive ai contraenti di improntare l’esecuzione del contratto a reciproca correttezza; 1460, 2° comma per cui il rifiuto opposto dalla parte di eseguire la propria prestazione non deve essere contrario, avuto riguardo alle circostanze, alla buona fede; 1175 che, in materia di obbligazioni, stabilisce, in via generale, che debitore e creditore devono comportarsi secondo buona fede e correttezza.
Una delle principali finalità dell’art. 1337 c.c. è quella di assicurare una trasparente ed adeguata informazione, onde garantire, in una prospettiva di conformazione delle norme civilistiche ai canoni costituzionali, la protezione della libertà negoziale, nonché, in ultima analisi, la concretizzazione di un assetto di interessi effettivo e improntato al principio di solidarietà (art. 2 Cost.).
L’elemento teleologico emerge nitidamente dalla legislazione speciale. I decreti legislativi n. 206/2005 (Codice del consumo), n. 79/2011 (Codice del turismo), nonché l’art. 124 d.lgs. n. 385/1993 (Testo Unico Bancario) hanno introdotto specifici obblighi informativi allo scopo di riequilibrare i rapporti di forza contrattuale, in alcuni settori inevitabilmente connotati da uno sbilanciamento in favore di quei soggetti che possiedono una posizione privilegiata nel mercato.
Tali previsioni speciali hanno influenzato la riflessione sull’ambito di operatività dell’art. 1337 c.c., non più limitato ai soli casi descritti dall’art. 1338 c.c. ma comprensivo del recesso ingiustificato dalle trattative e dell’ipotesi di conclusione di un contratto valido ma svantaggioso.
5. Conseguenze della violazione dei doveri precontrattuali: il risarcimento del danno
In materia di responsabilità ex art. 1337 c.c., il danno risarcibile è tradizionalmente quello derivante dalla lesione dell’interesse negativo[23]. Nella responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.), invece, viene in rilievo l’interesse positivo, onde la parte non inadempiente ha diritto di chiedere, ai sensi dell’art. 1223 c.c., il risarcimento della perdita che avrebbe evitato e del vantaggio economico che avrebbe conseguito, se il contratto fosse stato adempiuto.
Dalla lesione dell’interesse negativo sorge l’obbligo della parte infedele di rifondere all’altra le spese inutilmente sostenute per lo svolgimento delle trattative infruttuose - o per la stipulazione del contratto invalido -, nonché la perdita di occasioni contrattuali favorevoli[24]. Lo scopo è quello di garantire al danneggiato la rimozione delle conseguenze pregiudizievoli patite tramite il ripristino della situazione patrimoniale che si sarebbe concretizzata ove le trattative non fossero state iniziate.
Con riferimento al quantum debeatur, parte della dottrina ritiene che il medesimo non possa mai essere superiore all’interesse positivo, ossia all’ammontare delle utilità che il contraente avrebbe tratto in caso di conclusione e successivo inadempimento[25]. A fondamento si rileva che sarebbe incongruo attribuire, per la mancata – o invalida – stipulazione del contratto, un risarcimento maggiore di quello che si sarebbe potuto ricavare dall’(ipotetico) inadempimento del medesimo, onde l’aporia circa la stessa sussistenza di un “danno”[26].
L’orientamento maggioritario ritiene, invece, che la parte lesa abbia diritto ad un risarcimento integrale del danno sofferto, anche maggiore di quello per ipotesi derivante dalla lesione dell’interesse positivo[27].
Sotto altro profilo, la quantificazione del risarcimento ex art. 1337 c.c. è peculiarmente connotato nei casi di trattative che, per effetto dell’altrui comportamento scorretto, sfocino in contratti validi ma dannosi.
Il problema è stato tradizionalmente esaminato con riguardo al dolo incidente (art. 1440 c.c.), ma le conclusioni a tale riguardo elaborate dagli interpreti sono suscettibili di applicazione generalizzata a tutti i vizi non invalidanti, nonché alle violazioni di obblighi di correttezza seguite dalla stipula di un contratto svantaggioso[28]. In questi casi, la commisurazione del risarcimento non può fondare né sull’interesse positivo, né su quello – negativo - a non essere coinvolto in trattative inutili. Ed infatti, nel caso di dolo incidente – così come nelle altre ipotesi di vizi non invalidanti -, un contratto è stato comunque concluso, anche se a condizioni differenti da quelle alle quali sarebbe stato stipulato in assenza della violazione precontrattuale. Alla luce di ciò, per le suddette ipotesi, gli interpreti[29] poggiano la quantificazione sull’interesse positivo differenziale, onde il risarcimento è rapportato al minor vantaggio, o al maggior aggravio economico, subito da un contraente per effetto del comportamento della controparte contrario al canone di buona fede oggettiva[30].
6. Segue: la nullità per violazione delle regole di comportamento
Come noto, la nullità è la forma più radicale d’invalidità[31], derivandone l’inefficacia assoluta ed originaria del contratto[32]. Ad essa è dedicato l’art. 1418 c.c. Tale disposizione, rubricata “Cause di nullità del contratto”, consta di tre commi, per i quali è nullo il contratto “contrario a norme imperative” (c. 1), affetto da problemi relativi ai suoi elementi costitutivi (c. 2)[33], e, infine, “negli altri casi stabiliti dalla legge” (c. 3)[34].
Alle nullità testuali dell’ultimo comma dell’art. 1418 c.c. si contrappongono quelle virtuali, “fattispecie in cui l’interprete ricava che il contratto è nullo, pur in assenza di una norma che lo dichiari espressamente tale, applicando taluno dei criteri di cui ai primi due commi dell’art. 1418. Per il giudicante esse comportano maggiori autonomia, responsabilità e fatica”[35].
Alla categoria delle nullità virtuali sono riconducibili due grandi famigliedi nullità contrattuali: la famiglia delle nullità strutturali, cui si riconducono i contratti nulli perché insensati o incompleti; e la famiglia delle nullità politiche, cui si riconducono i contratti nulli perché disapprovati.
Le nullità strutturali sono tali poiché consistono in difetti relativi agli elementi che compongono – appunto - la struttura del contratto. Sono difetti, dunque, che rendono il contratto insensato, foriero di un’operazione giuridicamente ed economicamente assurda, incomprensibile, irrealizzabile[36].
Sono politiche, invece, quelle nullità che colpiscono i contratti sensati e completi, ma disapprovati dall’ordinamento perché contrastanti con valori o scelte politiche dell’ordinamento stesso[37].
Ciò premesso, occorre, a questo punto, occuparsi della questione relativa alla possibilità di ricollegare la sanzione della nullità alla violazione dell’art. 1337 c.c.
Un primo orientamento, attualmente prevalente, è nettamente contrario[38] e ritiene che l’unica sanzione applicabile in detta ipotesi sia il risarcimento del danno[39].
Questa conclusione fonda sulla scissione tra regole di validità, cui appartiene la disciplina sulla nullità del contratto, e regole di comportamento, alle quali deve riferirsi, invece, l’obbligo precontrattuale di buona fede oggettiva.
Ed infatti, nell’orizzonte dogmatico di questa dicotomia si osserva che:
i) l’art. 1418 c.c. si riferisce alla violazione di norme imperative inerenti alla struttura o al contenuto della fattispecie negoziale, oppure, ancora, alla legittimazione delle parti a stipulare il contratto, e non, invece, alla violazione di quelle norme che impongono alle parti obblighi comportamentali;
ii) dal dovere che grava sui contraenti di comportarsi secondo buona fede, intimamente connesso al dovere costituzionale di solidarietà (art. 2), e dunque avente natura imperativa, il Codice civile fa discendere conseguenze che, in presenza di determinate condizioni, da un lato, comportano responsabilità risarcitoria (contrattuale o precontrattuale), e, dall’altro lato, si riflettono sulla sopravvivenza del contratto, con particolare riferimento alla rescissione per lesione[40], senza essere mai considerate, però, tali da determinarne una nullità radicale[41];
iii) le previsioni normative speciali, di matrice euro-unitaria e connotate da una commistione tra profili comportamentali e nullità, sono state introdotte sull’assunto che non avrebbe potuto operare la nullità virtuale (art. 1418, 1° e 2° comma, c.c.), e devono essere correttamente ricondotte al terzo comma dell’art. 1418 c.c., ossia nell’alveo delle nullità testuali;
iv) detti interventi normativi hanno carattere settoriale e la loro frammentarietà non è in grado di incidere il sistema tracciato, in materia di nullità contrattuale, dal Codice civile.
Un secondo indirizzo esegetico[42] reputa, al contrario, che la nullità possa trovare applicazione quale sanzione per l’inosservanza degli obblighi precontrattuali. A tale riguardo, occorre sottolineare che gli argomenti, posti a fondamento della contraria opinione, non paiono insuperabili.
Sotto tale profilo, particolarmente critica, se non addirittura contraddittoria, è l’affermazione, prodromica a tutte le altre, secondo cui la clausola generale di buona fede, e segnatamente quella contenuta nell’art. 1337 c.c. - per quanto qui di interesse -, avrebbe sì natura di norma imperativa, essendo la medesima legata al dovere costituzionale di solidarietà (art. 2)[43], ma la sua inosservanza sarebbe sottoposta ad una sanzione diversa dalla nullità. In senso contrario a detta conclusione milita nitidamente la lettera dell’art. 1418 c.c., per cui il contratto contrario a norme imperative, o la cui causa sia illecita per contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (artt. 1418, 2° comma e 1343 c.c.), è invariabilmente nullo.
Sembra, poi, inappropriato il confronto sistematico con la disciplina della rescissione del contratto. Ed infatti, mentre con riferimento a tale ultimo rimedio[44] lo squilibrio contrattuale fonda sull’approfittamento del contingente stato – di bisogno o di necessità – in cui versa uno dei contraenti, la violazione degli obblighi precontrattuali – e specialmente di quello di informazione –, che pure può condurre alla conclusione di un contratto iniquo, attecchisce spesso nell’ambito di una ontologica e non occasionale posizione di asimmetria tra categorie di soggetti, onde l’osservanza della buona fede sarebbe posta a presidio non solo - e non tanto - di un interesse individuale del contraente leso, quanto di un interesse generale al corretto funzionamento del mercato e ad un’efficiente allocazione delle risorse. Finalità questa che, sulla scorta della centralità assunta dalla Carta fondamentale e dalla legislazione euro-unitaria nel sistema di gerarchia delle fonti dell’ordinamento e dei canoni dalle medesime posti, non può più considerarsi prerogativa esclusiva delle legislazioni speciali, le quali devono pertanto essere reputate sorgenti di principi generali, e non espressive di frammentate e sporadiche eccezioni ai canoni ricavabili dalle norme del Codice civile. Da qui anche l’opportunità di superare la tradizionale dicotomia tra regole di validità e regole di responsabilità[45], aprioristica categorizzazione non più compatibile - così come tutte le preconcette applicazioni di modelli normativi - con la poliedricità della vita associata e potenziale causa di obliterazione delle note distintive di ciascuna relazione concreta. Nè possono, per altro verso, dette leggi settoriali ritenersi idonee, alla luce di quanto appena asserito, a garantire adeguata tutela nei riguardi di tutte le ipotetiche situazioni di squilibrio, di talché la necessità di rivolgersi a strumenti di carattere universale come le clausole generali contenute nel Codice civile.
In un’ottica più generale, la soluzione da ultimo prospettata si impone come metodologicamente preferibile. La complessità dei rapporti umani e le sfide della contemporaneità guidano l’interprete verso una lettura sostanziale dei fenomeni giuridici, lontano da facili tentazioni formalistiche, foriere di inaccettabili fratture tra la realtà normativa e quella sociale, e di composizioni forzate, spesso aberranti – secondo l’adagio degli antichi “summum ius summa iniuria” -, dei conflitti tra interessi , nel solco di un’esegesi ragionevole del Codice civile[46], collocata nell’orizzonte dei canoni posti dalla legislazione comunitaria e costituzionale.
[1] Cfr. P. PERLINGIERI, L’ordinamento vigente e i suoi valori. Problemi del diritto civile, ESI, 2006.
[2] Cfr. G. VILLANACCI, L’equilibrio contrattuale nella rinnovata interpretazione dinamica evolutiva, in JUS CIVILE, 6, 2021, p. 1642 ss. ove, con specifico riguardo alla pandemia da Covid-19, si afferma che: <<ad esempio la limitazione alla circolazione per motivi sanitari (art. 16 Cost.) implica che la tutela della salute della popolazione o anche la sua incolumità, prevalgano sulla libera circolazione in quanto non possono essere compromessi da persone portatrici di malattie contagiose. Nondimeno la libertà di circolare, attenendo al rapporto della persona con il territorio, è assistita da una riserva rinforzata di legge in caso di una sua contrazione conseguente all’esercizio della sovranità statale, cosicché le restrizioni possono essere imposte soltanto in via generale e imprescindibilmente giustificate da ragioni di sanità e di sicurezza>>.
[3] P. PERLINGIERI, Appunti di “teoria dell’interpretazione”, Lezioni raccolte a cura di P. Perlingieri, 1970.
[4] G. VILLANACCI, L’equilibrio contrattuale cit. in cui si precisa che: <<In linea di massima vi è la propensione per una interpretazione evolutiva nei casi in cui, come per l’ambiente, si tratti di materie ancora in fase di costruzione funzionale, così da consentire una tutela anche ai diritti nascenti, mentre per le tematiche oggetto di conflitto inerente le modifiche legislative che le sorreggono, si preferisce un’interpretazione attinente al dato letterale>>.
[5] Cfr P. GROSSI, Introduzione ad uno studio sui diritti inviolabili nella Costituzione italiana, CEDAM, 1972. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Giuffrè, 1971; S. ROMANO, Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffrè, 1953; R. ROMBOLI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2002-2004), 2005, il quale sostiene che il ricorso a tale pratica può comportare l’affermarsi di nuovi approdi giurisprudenziali che tuttavia corrono il rischio di essere poi censurati ovvero riformati nelle successive istanze di giudizio in quanto ritenuti in palese difformità con l’orientamento giurisprudenziale consolidato. Nondimeno in tal modo il Giudice delle Leggi dà luogo a decisioni che esulano dalla sua funzione preminente, vale a dire pronunciarsi sulla conformità costituzionale della norma adita al fine di scongiurare danni a beni costituzionalmente garantiti.
[6] Tale disposizione, a seguito della riforma costituzionale apportata con l. cost. n. 3/2001, statuisce che: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
[7] Secondo cui: “Sono fonti del diritto: 1) le leggi; 2) i regolamenti; 3) le norme corporative [n.d.r. numero da considerarsi abrogato a seguito della soppressione dell’ordinamento corporativo]; 4) gli usi”.
[8] Può definirsi sistematica “ogni interpretazione che mostri di desumere il significato di una data disposizione dalla sua collocazione nel “sistema” del diritto: talvolta, nel sistema giuridico nel suo complesso; più frequentemente, in un sotto-sistema giuridico complessivo, cioè nell’insieme delle disposizioni che disciplinano una determinata materia, o che sono riferibili a un determinato “istituto”: così R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, in Trattato di diritto civile e commerciale Cicu-Messineo, Giuffrè, Milano, 2011, p. 296. Secondo l’A., questo modo di argomentare può mascherare operazioni interpretative anche molto diverse. Ne sono esempi caratteristici:
- il “combinato disposto”: è il tipo più semplice di interpretazione sistematica e consiste nel combinare tra loro diversi frammenti di disposizione, così da ricavarne una norma completa. La norma completa così ricavata è detta “combinato disposto”. Il combinato disposto è una tecnica interpretativa in qualche modo “obbligata” ogniqualvolta: (a) una norma sia soggetta ad eccezioni disposte in altri enunciati normativi; (b) un enunciato normativo contenga un rinvio espresso ad altri enunciati normativi; (c) quando l’antecedente di una norma faccia riferimento non a “nudi” fatti, ma a fatti qualificati da altre norme, il che equivale ad un rinvio implicito;
- l’argomento della “sedes materiae” o argomento topografico: si usa questo argomento ogni qualvolta si adduce che una certa disposizione deve essere intesa in un dato modo (e non altrimenti)in virtù della sua collocazione nel continuum del discorso legislativo;
- l’argomento della
costanza terminologica: si tratta di argomento tipico dell’interpretazione
sistematica e consiste nel fare appello alla presunzione che nel linguaggio
legislativo vi sia “costanza terminologica”. Si tratta di quel modo di vedere
secondo cui: il legislatore impiega ciascun termine o sintagma sempre con lo stesso
significato (quanto meno all’interno di ciascun documento normativo); e,
reciprocamente, quando il legislatore impiega termini o sintagmi diversi,
questi non possono avere un medesimo significato (almeno: non nell’ambito del
medesimo documento normativo);
- l’argomento della incostanza terminologica: è la presunzione opposta alla
precedente, onde ogni espressione del linguaggio legislativo riceve significato
dal peculiare contesto in cui è collocata. Sicché non è detto che una medesima
espressione conservi lo stesso significato al mutare del contesto.
Sul punto, più diffusamente R. GUASTINI, Interpretare e argomentare cit., pp. 297-299.
[9] “Si fa interpretazione adeguatrice ogniqualvolta si adatta – si adegua, appunto – il significato di una disposizione al significato (previamente o contestualmente stabilito) di altre disposizioni”: così R. GUASTINI Interpretare e argomentare cit., p. 302. Secondo l’A. - poi - la superiorità può essere: materiale (come quella che intercorre tra legge ordinaria e Costituzione); strutturale (come quella che intercorre tra legge di delegazione e decreto legislativo delegato); assiologica (come quella che intercorre tra i principi generali o fondamentali dell’ordinamento o di una data materia e le rimanenti norme). Numerosi esempi di interpretazioni adeguatrici si rinvengono nelle sentenze “interpretative” - di accoglimento, in cui la Corte evita di dichiarare costituzionalmente illegittima una disposizione nella sua interezza, e si limita a dichiarare illegittima una delle sue possibili interpretazioni, o di rigetto, con cui la Corte evita di dichiarare costituzionalmente illegittima una disposizione interpretandola in modo tale che sia conforme a Costituzione - della Corte costituzionale, ovvero nelle ordinanze con cui i giudizi comuni respingono un’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata da una parte, adducendo che la questione è manifestazione infondata dal momento che la disposizione tacciata di incostituzionalità è suscettibile di una interpretazione conforme a Costituzione.
Da un punto di vista di teoria generale, “le diverse forme di interpretazione adeguatrice rispondono allo scopo di evitare l’insorgere di antinomie – tra norme di diverso grado gerarchico, ma anche tra norme particolari e principi generali – e generalmente producono un effetto di “conservazione dei documenti normativi”. Per questa ragione, l’interpretazione adeguatrice può sempre essere – e abitualmente è – ulteriormente argomentata facendo appello al (duplice) dogma della coerenza logica e della coesione assiologica dell’ordinamento”. Sul punto, si v. sempre R. GUASTINI, Interpretare e argomentare cit., p. 301-305.
[10] Numerosi esempi di interpretazioni adeguatrici si rinvengono nelle sentenze della Corte costituzionale “interpretative” di accoglimento, con le quali si evita di dichiarare costituzionalmente illegittima una disposizione nella sua interezza e ci si limita a dichiarare illegittima una delle sue possibili interpretazioni, ovvero di rigetto, con cui la Corte evita di dichiarare costituzionalmente illegittima una disposizione interpretandola in modo tale che sia conforme a Costituzione, o ancora nelle ordinanze con cui i giudizi comuni respingono un’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata da una parte, adducendo che la questione è manifestazione infondata dal momento che la disposizione tacciata di incostituzionalità è suscettibile di una interpretazione conforme a Costituzione. L’interpretazione adeguatrice risponde alla finalità di evitare l’insorgere di antinomie tra norme di diverso grado gerarchico, ma anche tra norme particolari e principi generali e generalmente producono un effetto di conservazione dei documenti normativi, fondando sul (duplice) dogma della coerenza logica e della coesione assiologica dell’ordinamento.
[11] Il riferimento è alla Costituzione e al diritto sovranazionale così come si evince dal citato art. 117, 1° comma, Cost.
[12] Spunto tratto da F. MANTOVANI, Diritto penale – parte generale, decima ed., CEDAM, 2017, Milano, p. 200.
[13] Si v. G. VILLANACCI, Al tempo del neoformalismo giuridico, Giappichelli, Torino, 2016, p. 9 ove si aggiunge:
“Si pensi, a titolo puramente esemplificativo e non esaustivo alle ipotesi di nullità per difetto di forma scritta nei contratti di subfornitura o di locazioni abitative che nella loro versione originaria comportavano la caducazione del contratto, in gravissimo pregiudizio del contraente che si vedeva privato degli effetti del negozio del quale avrebbe senz’altro preferito la prosecuzione; alla mancanza di un’espressa previsione normativa che legittimi l’individuo al risarcimento del danno ambientale in tema di pregiudizio arrecato all’ecosistema; ad una prestazione ancora possibile sul piano oggettivo ma del tutto inutile per chi la riceve a seguito di circostanze imprevedibili che compromettano in modo irreparabile lo scopo alla stipula o, ancora, a tutte quelle sopravvenienze non espressamente contemplate dalla legge, inidonee in omaggio al principio di intangibilità del contratto a pregiudicare l’assetto pattuito e che tuttavia meritano di essere prese in considerazione allorquando determinino uno stravolgimento delle condizioni originariamente previste sulle quali si è formato l’originario consenso”.
[14] G. VILLANACCI, op. ult. cit., p. 10.
[15] Così G. VILLANACCI, L’equilibrio contrattuale nella rinnovata interpretazione dinamica evolutiva, in Jus civile, 6, 2021, p. 1642.
[16] Sul punto si vedano G. VILLANACCI, La buona fede oggettiva, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2013, p. 29; S. RODOTA’, Il tempo delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1987, pp. 709-733, il quale specifica che <<in questo senso, le clausole generali [n.d.r. come quella di buona fede oggettiva] non sono principi, anzi sono destinate ad operare nell’ambito segnato dai principi. Se, ad esempio, si riconosce nel nostro sistema la presenza di principi come quelli di solidarietà e di eguaglianza, la clausola generale di buona fede può essere legittimamente concretizzata solo adeguandola alle indicazioni in essi contenute>>. In senso contrario A. D’ANGELO, La buona fede, in Il contratto in generale, t. IV, in Tratt. dir. priv. Bessone, XII, 2004 per il quale <<enunciare i valori di solidarietà, utilità, finalità sociali, senza svolgerne le concrete implicazioni in definitivi precetti proibitivi o impositivi, conformativi, rispetto a fattispecie determinate, talché non se ne traggono disposizioni imperative, le direttive cogenti che possono desumersene non potranno che operare con le stesse modalità ed effetti che sono propri dell’ordine pubblico>>. Da tali premesse l’Autore conclude che <<appare inappropriato, e non utile allo scopo, affidare l’attuazione cogente in ambito contrattuale di valori costituzionali al veicolo della buona fede>>. In giurisprudenza, riconoscono alla buona fede un ruolo rilevante nella disciplina dei rapporti privatistici, assumendola a <<norma fondamentale di comportamento nella fase di esecuzione di tutti i rapporti giuridici>>: Cass., 21.05.1975, n. 2014, in Giust. Civ., 1975, I, p. 170 ss.; Cass., 5.1.1966, n. 89, in Foro pad., 1966, I, p. 524 ss.; Cass., 21.5.1973, n. 1460, in Giust. civ., Rep., 1973, le quali riconoscono nella buona fede un <<cardine della disciplina delle obbligazioni>>.
[17] Quanto specificamente all’equità, in un’ottica di valorizzazione del senso dell’enunciato, l’art. 1374 consente di avvalersi del dispositivo dell’equità anche fuori dei casi in cui esso sia richiamato in via tipica (artt. 1226, 1349, 1526, 1657, 1733, 1755, 1934 c.c.): in tal senso, si. v. A. D’ADDA,voce Integrazione del contratto, in Enciclopedia del diritto, collana I tematici vol. I, Giuffrè, Milano, 2021, p. 619 ed ivi, in nota,S. RODOTA’, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, Giuffrè, 1969, pp. 219 ss.; F. MACARIO, in Commentario del codice civile diretto da E. GABRIELLI, sub art. 1374, cit., 717; M. FRANZONI, Degli effetti del contratto, II, Integrazione del contratto. Suoi effetti reali e obbligatori, in Il Codice civile. Commentario fondato da P. SCHLESINGER e diretto da F.D. BUSNELLI, Artt. 1374-1381, Milano, Giuffrè, 2013, 136.
[18] Si v. più diffusamente F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2022, p. 788-792.
[19] A tale riguardo si consideri che << (…) Gli orientamenti giurisprudenziali più recenti interpretano la regola della correttezza quale parametro per una valutazione comparativa degli interessi delle parti con gli adeguati correttivi, aprendo in tal modo la strada al sindacato giudiziale sull’equilibrio contrattuale, orientato dalla clausola generale di buona fede ma insinuando, al contempo, dubbi relativi ai limiti entro cui lo stesso possa incidere sull’autonomia dei privati.>> in G. VILLANACCI, o.u.c., p. 35 ed ivi, per ulteriori indicazioni bibliografiche, note 35 e 36. Sul tema dell’eterodeterminazione contrattuale connessa ad una dimensione costituzionale dell’autonomia privata si v. M. SPINOZZI, Equilibrio contrattuale eterodeterminato, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2013.
[20] Sul legame tra la clausola di buona fede e la normativa costituzionale S. RODOTA’, Le fonti di integrazione, Giuffrè, 2004, p. 175; G. VETTORI, Contratto e rimedi, CEDAM, 2021, pp. 857 ss. secondo cui: “Per comprendere il contenuto della buona fede, occorre fare riferimento ad importanti sentenze della Corte di cassazione intercorse negli ultimi trent’anni. In esse, infatti, si delinea bene il contenuto della regola e il suo rapporto con le norme costituzionali. a) La prima decisione è legata al c.d. caso Fiuggi. In essa la Corte di Cassazione considera la clausola di buona fede come <<un limite interno di ogni situazione soggettiva>> che <<concorre alla relativa conformazione>> <<per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà, ormai costituzionalizzato>>. Dovere che applicato <<ai contratti ne determina, integrandolo, il contenuto e gli effetti (art. 1374 c.c.) e deve ad un tempo orientarne l’interpretazione (1366 c.c.) e l’esecuzione (1375 c.c.)>>. b) Il collegamento fra buona fede e normativa costituzionale è chiaramente delineato nelle sentenze in tema di riducibilità d’ufficio della penale, ove si dà atto del pieno riconoscimento della costituzionalizzazione dei rapporti di diritto privato per effetto dell’art. 2 della Carta costituzionale e della regola di buona fede, obbligo quest’ultimo da cui l’assetto pattizio non può ritenersi svincolato. In quelle decisioni si afferma bene che la regola di buona fede ha immediata valenza anche in forza della previsione dell’obbligo di solidarietà contenuto nell’art. 2 della Costituzione italiana. Sicché <<buona fede e correttezza consentono al giudice di operare, nel caso concreto, l’indispensabile collegamento delle disposizioni particolari di legge con i fondamenti e le direttive etico-sociali di tutto l’ordinamento>>. Non solo. Il principio di solidarietà non è un obbligo morale ma <<la base sulla quale devono fondarsi le soluzioni di tutti quei conflitti in cui si debba decidere a chi accollare le conseguenze negative di un comportamento dannoso>>. Infatti, rispetto a un contesto in cui in assenza di una norma espressa che valuti tale contegno il danno resterebbe a carico di chi lo subisce <<la buona fede e il principio di solidarietà consentono di imputare il danno a chi non ha osservato la regola di correttezza, in presenza di un nesso di causalità>>”. Sulla scorta di quanto osservato in merito al punto b), si veda G. VILLANACCI, L’equilibrio contrattuale nella rinnovata interpretazione dinamica evolutiva, in juscivile, 6, 2021.
[21] Sul punto si rinvia a G. VETTORI, Contratto e rimedi, Cedam, 2021, pp. 308 ss. La centralità dell’accordo nella dogmatica del contratto, pur con le limitazioni che si sono sottolineate nel testo, rende “ (…) eccessiva la critica dottrinale al requisito dell’accordo condotta da chi rilevato che, anche alla luce della diffusione dei più moderni strumenti telematici, la formazione del contratto sembrerebbe affidata sempre più a meri atti di struttura unilaterale, il cui scambio permetterebbe il pieno soddisfacimento degli interessi posti a fondamento della regolamentazione del mercato”, G. VETTORI, op. ult. cit., p. 302.
[22] L’art. 1337 - così come le disposizioni ad esso legate, e poco sopra riferite - rinvia alla buona fede intesa in senso oggettivo. Da esso devono, pertanto, essere tenute nettamente distinte tutte quelle disposizioni che accolgono la diversa accezione soggettiva della buona fede, per la quale occorre avere riguardo allo stato soggettivo in cui versa colui che ignora di ledere con la propria condotta l’altrui diritto. Norme di riferimento in punto di buona fede soggettiva sono gli artt. 1147, 1152, 1153, 1155, 1157, 1159-1162, in materia di possesso; dall’art. 1445 in materia di annullamento; dagli artt. 1415-1416 in materia di simulazione; infine, dall’art. 2033 relativo all’indebito oggettivo.
[23] Tale è l’interesse di ciascun soggetto a non subire pregiudizio nell’esercizio della propria libertà contrattuale che viene pregiudicato in caso di partecipazione a trattative ingiustificatamente interrotte o culminate nella stipula di un contratto invalido.
[24] Secondo G.
AFFERNI, Il <<quantum>> del danno nella responsabilità
precontrattuale, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 93 ss., in caso di recesso
ingiustificato dalle trattative, sarebbero risarcibili le sole spese sostenute
e le perdite subite a partire dal momento
in cui si sia concretizzato l’affidamento nella futura conclusione del
contratto, non invece le spese sostenute e le perdite subite precedentemente
(arg. ex art. 1328 c.c.). Queste ultime sarebbero risarcibili solamente quando
la mancata conclusione del contratto sia imputabile ad una condotta dolosa o
colposa del convenuto (ad es., qualora costui abbia iniziato la trattativa non
avendo intenzione di concludere il contratto, oppure abbia omesso colpevolmente
di informare la controparte della sua intenzione di recedere dalla trattativa),
e a condizione che sussista un nesso di causalità tra la condotta illecita, da
una parte, e spesa o perdita di cui si richiede il risarcimento, dall’altra.
Per ottenere il risarcimento del lucro cessante – consistente, come detto,
nella perdita di occasioni contrattuali favorevoli -, la parte attrice dovrà
addurre prove concrete, non potendo limitarsi ad allegare la propria qualità di
imprenditore commerciale.
[25] In tal senso,
R. SACCO, Il contratto, in Trattato di diritto privato diretto da
Pietro Rescigno, 3° ed., UTET, Torino, 2016, p. 639 secondo cui: “È aperta
e viva, in dottrina, la questione concernente l’ammontare massimo del danno
risarcibile. Normalmente s’insegna che esso può anche raggiungere, ma non può
mai superare, la misura dell’interesse positivo.
La ragione di questo limite sta nella carenza di un nesso immediato e diretto
fra la fattispecie di responsabilità e il danno eccedente il limite
stesso”.
Con riferimento ad un profilo affine si v., con la consueta
chiarezza di analisi, V. ROPPO, Il contratto cit., p. 180 il quale
afferma: “Quando il danno deriva dalla mancata conclusione del contratto, non
vanno risarciti i profitti che quel contratto avrebbe dato, perché quel
contratto non è stato concluso. Vanno risarcite le spese fatte per una
trattativa rivelatasi inutile (spese per viaggi, progetti, consulenze, test di
fattibilità, ecc.); va risarcito il tempo sprecato; va risarcita la perdita di
occasioni alternative d’affari, che non si cono coltivate per l’affidamento
riposto nella conclusione di quel contratto. Tutto questo va provato
dall’attore in responsabilità. Ma se l’attore prova di avere trascurato una
specifica occasione alternativa, e che questa avrebbe dato al contratto, e che
questo avrebbe dato certi profitti, non si vede perché dovrebbero essergli
negati – a titolo di risarcimento – i profitti del contratto perduto. Tali
profitti potranno essere inferiori a quelli del contratto abortito per la
scorrettezza precontrattuale, ma potranno anche pareggiarli (potrebbero anche
essere superiori: ma in tal caso è ragionevole che l’eccedenza non venga
riconosciuta, per il principio che impedisce di collocare il danneggiato in una
posizione migliore di quella in cui si sarebbe trovato senza l’illecito).
Quando il danno deriva dalla conclusione di un contratto invalido o inefficace,
vale tendenzialmente lo stesso ragionamento (ma alle spese della trattativa
inutile si aggiungeranno le spese inutilmente sostenute in vista
dell’esecuzione)”.
[26] Ed infatti, in questa prospettiva, alla parte sarebbe risultata, per assurdo, più conveniente la mancata stipula del contratto piuttosto che la sua positiva esecuzione.
[27] C.M. BIANCA, Il
contratto cit., p. 150 nota 38 ove si legge: “Il Benatti rileva come
l’affermazione dello Jhering circa la possibilità che l’interesse negativo sia
superiore a quello positivo abbia avuto un riscontro contrario nel BGB (par.
122, 179, 2° c.) e sia stata generalmente disattesa da dottrina e
giurisprudenza. Il limite fissato in tal modo all’interesse negativo
risarcibile non appare tuttavia giustificato, poiché si tratta di un danno che
va comunque determinato in base agli artt. 1223 ss., senza preclusioni
arbitrarie”.
Differente posizione è assunta da F. GAZZONI, Manuale di diritto privato cit.,
p. 883 che, rispetto alla quantificazione del risarcimento, afferma: “Il
risarcimento secondo la tesi tradizionale riguarderebbe il c.d. interesse
negativo (a non iniziare, cioè, le trattative) e incontrerebbe il limite
costituito dall’interesse positivo, nel senso che il quantum debeatur
non potrebbe mai essere superiore a quello che sarebbe stato corrisposto in
caso di conclusione del contratto e successivo inadempimento, ma la soluzione
del problema dipende sia dai vari possibili tipi di violazione della buona
fede, sia da un corretto inquadramento degli interessi delle parti in gioco”.
[28] Analoghe questioni sorgono, peraltro, quando la parte che subisce gli effetti dell’altrui condotta illecita si limiti ad esperire l’azione risarcitoria, pur sussistendo i presupposti per chiedere l’annullamento, o la rescissione, del contratto.
[29] In
giurisprudenza, si v. Cass., S.U. n. 26724/2007 dove, in motivazione, si
afferma che, in caso di conclusione di un contratto valido ed efficace, “il
risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio, ovvero al
maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione
dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori
danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto
rigorosamente consequenziale e diretto”. Nel medesimo senso: Cass. civ., n.
19024/2005.
In dottrina (si v., in particolare, G. AFFERNI, Il <<quantum>>
del danno nella responsabilità precontrattuale cit., pp. 195 ss.; C.M.
BIANCA, Il contratto cit., p. 150), l’affermazione secondo cui, qualora
sia stato concluso un contratto valido ed efficace, la valutazione del danno
dovrebbe essere riferita alle migliori condizioni che il contraente avrebbe
ottenuto senza l’illecita ingerenza della controparte o del terzo è stata
precisata rilevandosi che, nel caso in questione, la valutazione del danno
dovrebbe in realtà variare a seconda che la parte lesa abbia sostenuto in
giudizio che in assenza della condotta sleale non avrebbe concluso il contratto
a condizioni diverse. Nel primo caso, che si riferisce alle ipotesi in cui il
danneggiato non possa o non voglia annullare il contratto, il danno risarcibile
dovrebbe essere pari alla differenza tra il valore della propria prestazione
(ad es. il prezzo) ed il valore della prestazione della controparte (ad es. il
valore del bene venduto). In questo modo, la parte lesa verrebbe messa, per
effetto del risarcimento, in una posizione equivalente a quella in cui si
sarebbe trovata se non avesse concluso il contratto. Nel secondo caso, il danno
risarcibile dovrebbe essere pari alla differenza tra le condizioni contrattuali
effettivamente convenute e quelle che sarebbero state convenute in assenza
della condotta sleale.
[30] L’interprete procede alla quantificazione del danno, ricostruendo virtualmente quale sarebbe stato il contenuto del contratto in assenza della condotta scorretta posta in essere nel corso delle trattative.
[31] In tal senso V. ROPPO, Il contratto cit., p. 693.
[32] L’ “inefficacia originaria” si ha “quando il fattore che la determina è già esistente al tempo della conclusione del contratto, onde questo nasce inefficace fin dall’inizio”: così V. ROPPO, Il contratto cit., p. 690. È, invece, assoluta l’inefficacia “che può generalmente farsi valere sia fra le parti, sia dai terzi, sia contro i terzi”: idem p. 691. Da un punto di vista di interconnessioni tra rami dell’ordinamento, è opportuno ricordare chel’art. 14, l. 11 febbraio 2005, n. 15 ha inserito nella l. 241/1990 l’art. 21-septies che disciplina la nullità del provvedimento amministrativo. A differenza del sistema delle invalidità disegnato dal Codice civile, nel diritto amministrativo la nullità ricopre un ruolo ancillare rispetto all’annullabilità (di cui al successivo art. 21-octies L. 241/1990).
[33] “Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325, l’illiceità della causa, la illiceità dei motivi nel caso indicato dall’art. 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’art. 1346”.
[34] Le nullità in parola sono le cosiddette “nullità testuali” <<che ricorrono quando un contratto o una singola regola contrattuale sono testualmente dichiarati nulli da una norma. Talora l’espressa qualificazione legislativa può apparire superflua, alla luce dei criteri di nullità posti dai primi due commi dell’art. 1418: ciò accade tutte le volte che, se anche nessuna norma l’esplicitasse, la nullità del contratto o della clausola risulterebbe con evidenza dal difetto di una elemento essenziale ex art. 1418, comma 2, o dalla contrarietà a una norma imperativa ex art. 1418, 1° comma. Ad es., l’art. 1895 proclama la nullità dell’assicurazione per inesistenza del rischio assicurato: ma anche senza l’art. 1895, l’interprete non farebbe fatica a concludere che il contratto è nullo ex art. 1418, 2° comma, per mancanza di oggetto o di causa. Ancora. L’art. 2 della legge antitrust (l. 287/1990) al c. 2 dichiara <<vietate le intese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza>>, e al c. 3 precisa che <<Le intese vietate sono nulle>>: ma anche senza il c. 3 la conclusione della nullità scaturirebbe pacificamente dalla natura senza dubbio imperativa della norma di cui al. c. 2, violata dall’intesa. La previsione testuale di nullità acquista un reale valore operativo in casi diversi da questi (…). In un primo senso, la previsione testuale serve a rendere nulli contratti o regole contrattuali che, in sua assenza, verosimilmente non lo sarebbero: perché lega la nullità a contenuti contrattuali molto specifici e circostanziati, che riflettono specifiche scelte <<politiche>> del legislatore tanto puntuali quanto discrezionali, e perciò non surrogabili per via interpretativa. (…). In un secondo senso, la previsione testuale serve a rendere certa una nullità, che diversamente sarebbe dubbia e controversa. (…)In un terzo caso, la previsione testuale serve non tanto o non solo a determinare o chiarire una nullità, bensì a introdurre un trattamento del contratto nullo, divergente dalla disciplina comune. È quanto si verifica laddove la norma recante la qualifica di nullità precisi ad es. che questa può farsi valere solo da una delle parti>>: V. ROPPO, Il contratto cit., pp. 694-696.
[35] Così V. ROPPO, Il contratto cit., p. 696.
[36] La norma cui il riferimento è diretto è l’art. 1418, 2° comma, c.c. per cui producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325 (accordo, causa, oggetto, forma), l’illiceità dei motivi nel caso indagato dall’art. 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’art. 1346. Quanto alla mancanza di forma, V. ROPPO, Il contratto cit., p. 697 rileva che: “Qui, più che di contratto insensato conviene parlare di incompletezza della fattispecie contrattuale: la mancanza di forma vincolata non toglie senso al contratto; semplicemente lo rende privo di un elemento che la legge richiede per la completezza della fattispecie. Si noti come questa nullità finisca per sovrapporsi alla nullità testuale dell’art. 1418, 3° c.: la forma è requisito del contratto solo se <<prescritta dalla legge sotto pena di nullità>>; dunque solo se una norma stabilisce – secondo il modello, appunto, della nullità testuale – che il contratto che non l’osserva è nullo”. E ancora che: “Alla ratio delle nullità strutturali sembrano riconducibili altre due fattispecie: quella del contratto con condizione sospensiva impossibile; e quella del contratto subordinato a condizione meramente potestativa. In entrambi i casi si profila un contratto insensato, perché risultante da una manifestazione di volontà contrattuale irrealizzabile o non seria”.
[37] V. ROPPO, Il
contratto cit., p. 699. “Appartengono a questa famiglia quasi tutte le
nullità testuali ex art. 1418, 3° comma. Infatti esse colpiscono per lo più
contratti che disattendono vincoli (soprattutto di contenuto) prescritti per
specifiche finalità di politica legislativa. Vi appartengono poi tutte le
fattispecie di contratto illecito. Sia quelle richiamate dall’art. 1418, 2°
comma: contratto con causa illecita, o con motivo comune illecito, o con
oggetto illecito. Sia quelle non direttamente richiamate dalla norma: ad es. il
contratto con condizione illecita”. All’area delle nullità politiche è
riconducibile altresì l’ipotesi della nullità per contrasto del contratto con
norme imperative ex art. 1418, 1° comma, c.c. V. ROPPO, Il contratto cit.,
p. 701 parla di “contratto illegale”: “Il contratto è illecito, quando il
contrasto con la norma imperativa (o l’ordine pubblico o il buon costume)
investe la causa o l’oggetto o il motivo comune o la condizione. È
semplicemente illegale, quando viola la norma imperativa sotto profili diversi
da quelli appena richiamati. La distinzione serve, sul piano teorico, a dare un
senso autonomo all’art. 1418, 1° comma; sul piano prativo, è alquanto sottile
ed evanescente”. Particolarmente significativo è il passaggio successivo:
“L’identificazione dei contratti illegali, nulli per contrasto con norme
imperative, passa attraverso due livelli di giudizio. Il primo livello riguarda
la natura della norma violata dal contratto: si tratta di valutare se sia
imperativa (inderogabile) o dispositiva (derogabile). In quest’ultimo caso non
c’è nullità (…). Un problema di nullità si pone solo quando la norma è
imperativa, e cioè definisce posizioni o tutela interessi non disponibili dai
privati. Ma anche in questo caso la nullità non è automatica e inevitabile: di
regola il contratto contrario a norma imperativa è nullo; ma può esserlo, ove
<<la legge disponga diversamente>>.
Questa riserva di esclusione legale della nullità definisce un secondo livello
di giudizio, che si affida a due criteri. La nullità può essere esclusa in base
ad un criterio testuale (…). La nullità può escludersi anche in base a criteri
extratestuali, legati alla ratio della norma imperativa violata, e più
precisamente al modo in cui il contratto incide sugli interessi protetti dalla
norma; oppure in ragione della disponibilità di un altro rimedio, capace di
fronteggiare il contrasto con la norma imperativa in modo più adeguato di
quanto farebbe la nullità”.
[38] La posizione di chiusura è stata ribadita dalla Cass. S.U. 19 dicembre 2007, n. 26724 relativa alla questione della inosservanza degli obblighi informativi dell’intermediario finanziario.
[39] In materia di responsabilità ex art. 1337 c.c., il danno risarcibile è tradizionalmente quello derivante dalla lesione dell’interesse negativo. Tale è l’interesse di ciascun soggetto a non subire pregiudizio nell’esercizio della propria libertà contrattuale che viene pregiudicato in caso di partecipazione a trattative ingiustificatamente interrotte o culminate nella stipula di un contratto invalido. Dalla lesione dell’interesse negativo sorge l’obbligo della parte infedele di rifondere all’altra le spese inutilmente sostenute per lo svolgimento delle trattative infruttuose - o per la stipulazione del contratto invalido -, nonché la perdita di occasioni contrattuali favorevoli. Secondo G. AFFERNI, Il <<quantum>> del danno nella responsabilità precontrattuale, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 93 ss., in caso di recesso ingiustificato dalle trattative, sarebbero risarcibili le sole spese sostenute e le perdite subite a partire dal momento in cui si sia concretizzato l’affidamento nella futura conclusione del contratto, non invece le spese sostenute e le perdite subite precedentemente (arg. ex art. 1328 c.c.). Queste ultime sarebbero risarcibili solamente quando la mancata conclusione del contratto sia imputabile ad una condotta dolosa o colposa del convenuto (ad es., qualora costui abbia iniziato la trattativa non avendo intenzione di concludere il contratto, oppure abbia omesso colpevolmente di informare la controparte della sua intenzione di recedere dalla trattativa), e a condizione che sussista un nesso di causalità tra la condotta illecita, da una parte, e spesa o perdita di cui si richiede il risarcimento, dall’altra.
Per ottenere il risarcimento del lucro cessante – consistente, come detto, nella perdita di occasioni contrattuali favorevoli -, la parte attrice dovrà addurre prove concrete, non potendo limitarsi ad allegare la propria qualità di imprenditore commerciale.
Lo scopo è quello di garantire al danneggiato la
rimozione delle conseguenze pregiudizievoli patite tramite il ripristino della
situazione patrimoniale che si sarebbe concretizzata ove le trattative non
fossero state iniziate.
Con riferimento al quantum debeatur, parte della dottrina ritiene che il
medesimo non possa mai essere superiore all’interesse positivo, ossia
all’ammontare delle utilità che il contraente avrebbe tratto in caso di
conclusione e successivo inadempimento: in tal senso, R. SACCO, Il contratto,
in Trattato di diritto privato diretto da Pietro Rescigno, 3° ed., UTET,
Torino, 2016, p. 639 secondo cui: “È aperta e viva, in dottrina, la questione
concernente l’ammontare massimo del danno risarcibile. Normalmente s’insegna
che esso può anche raggiungere, ma non può mai superare, la misura
dell’interesse positivo. La ragione di questo limite sta nella carenza di un
nesso immediato e diretto fra la fattispecie di responsabilità e il danno
eccedente il limite stesso”.
Con riferimento ad un profilo affine si v. V. ROPPO, Il contratto cit., p. 180 il quale afferma: “Quando il danno deriva dalla mancata conclusione del contratto, non vanno risarciti i profitti che quel contratto avrebbe dato, perché quel contratto non è stato concluso. Vanno risarcite le spese fatte per una trattativa rivelatasi inutile (spese per viaggi, progetti, consulenze, test di fattibilità, ecc.); va risarcito il tempo sprecato; va risarcita la perdita di occasioni alternative d’affari, che non si cono coltivate per l’affidamento riposto nella conclusione di quel contratto. Tutto questo va provato dall’attore in responsabilità. Ma se l’attore prova di avere trascurato una specifica occasione alternativa, e che questa avrebbe dato al contratto, e che questo avrebbe dato certi profitti, non si vede perché dovrebbero essergli negati – a titolo di risarcimento – i profitti del contratto perduto. Tali profitti potranno essere inferiori a quelli del contratto abortito per la scorrettezza precontrattuale, ma potranno anche pareggiarli (potrebbero anche essere superiori: ma in tal caso è ragionevole che l’eccedenza non venga riconosciuta, per il principio che impedisce di collocare il danneggiato in una posizione migliore di quella in cui si sarebbe trovato senza l’illecito).
Quando il danno deriva dalla conclusione di un
contratto invalido o inefficace, vale tendenzialmente lo stesso ragionamento
(ma alle spese della trattativa inutile si aggiungeranno le spese inutilmente
sostenute in vista dell’esecuzione)”.
L’orientamento maggioritario ritiene, invece, che la parte lesa abbia diritto
ad un risarcimento integrale del danno sofferto, anche maggiore di quello per
ipotesi derivante dalla lesione dell’interesse positivo. Si v. C.M. BIANCA, Diritto
civile, 3 - il contratto, 3° ed., Giuffrè, Milano, 2019,p. 150 nota
38 ove si legge: “Il Benatti rileva come l’affermazione dello Jhering circa la
possibilità che l’interesse negativo sia superiore a quello positivo abbia
avuto un riscontro contrario nel BGB (par. 122, 179, 2° c.) e sia stata
generalmente disattesa da dottrina e giurisprudenza. Il limite fissato in tal
modo all’interesse negativo risarcibile non appare tuttavia giustificato,
poiché si tratta di un danno che va comunque determinato in base agli artt.
1223 ss., senza preclusioni arbitrarie”. Differente posizione è assunta da F.
GAZZONI, Manuale di diritto privato cit., p. 883 che, rispetto alla
quantificazione del risarcimento, afferma: “Il risarcimento secondo la tesi
tradizionale riguarderebbe il c.d. interesse negativo (a non iniziare, cioè, le
trattative) e incontrerebbe il limite costituito dall’interesse positivo, nel
senso che il quantum debeatur non potrebbe mai essere superiore a quello
che sarebbe stato corrisposto in caso di conclusione del contratto e successivo
inadempimento, ma la soluzione del problema dipende sia dai vari possibili tipi
di violazione della buona fede, sia da un corretto inquadramento degli
interessi delle parti in gioco”.
[40] Il riferimento è diretto altresì alla disciplina dell’annullamento per dolo o violenza, nonché della risoluzione per inadempimento.
[41] Il contratto è eventualmente annullabile, rescindibile o risolubile.
[42] Questa impostazione ermeneutica incontra crescenti consensi in giurisprudenza. A tale riguardo, si v. Cass. civ., sez. I, 29 settembre 2020, n. 20625, che riprende quanto affermato da Cass. civ., sez. I, 12 dicembre 2005, n. 27387 le quali, in merito all’abuso della regola di maggioranza (che consente al socio di esercitare liberamente e legittimamente il voto per il perseguimento di un proprio interesse fino al limite dell’altrui potenziale danno), hanno affermato: “quando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società – per essere ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale – oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza “uti singuli” ”. In questi casi, il rimedio per la violazione della regola di buona fede è costituito dalla invalidità della delibera societaria, superando, in tale i, la distinzione tra regole di validità e regole di condotta. Anche parte della giurisprudenza di merito “ha accolto la tesi della nullità virtuale con riguardo ai contratti di acquisto di titoli di borsa conclusi, in esecuzione di un accordo quadro, da parte di intermediari finanziari, senza aver preventivamente fornito ai clienti informazioni sulle caratteristiche dei titoli e sui rischi connessi all’operazione di investimento. L’assunto è particolarmente rilevante nel caso di violazione degli obblighi di informazione che il legislatore, sulla base dell’art. 23 del d.lgs. n. 58/1998 (Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria) e degli articoli collegati del regolamento diattuazione Consob, impone all’intermediario finanziario nei confronti del cliente”, cosi G. VILLANACCI, La buona fede cit., pp. 182-183 ed ivi nota 331 ove si richiamano alcune dirimenti pronunciamenti in materia: Trib. Venezia 22 novembre 2004; Trib. Brindisi 21 luglio 2006, n. 710; Trib. Trani 30 maggio 2006; Trib. Milano 20 marzo 2006; Trib. Venezia 22 ottobre 2007.
[43] E – si potrebbe aggiungere – anche a quello di eguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.): in tal senso, G. VILLANACCI, La buona fede cit., p. 180 per cui: “Per quanto attiene al rapporto tra regole di responsabilità e di validità, i principi hanno segnato un punto di arrivo fondamentale: dalla disciplina di derivazione comunitaria dei contratti tra consumatore e professionista, dai principi costituzionali di solidarietà sociale (art. 2 Cost.) e di eguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) e dalla clausola codicistica di buona fede, è ricavabile una generale norma imperativa che vieta ai contraenti di approfittare dello stato di debolezza altrui mediante l’imposizione di assetti normativi ed economici squilibrati, pena la nullità ex art. 1418, comma 1, c.c., del contratto iniquo”.
[44] Analoghe considerazioni valgono per il dolo incidente ex art. 1440 c.c.
[45] In tal senso, G. VILLANACCI, La buona fede cit., p. 182 per cui: “Con la diffusione sempre maggiore di leggi speciali, diventa sfumata la distinzione tra regole di validità e regole di responsabilità e ci si chiede se tale commistione rappresenti ancora un’eccezione o debba considerarsi, piuttosto, una regola di carattere generale”.
[46] L’attività esegetica, che coinvolge il fatto concreto e le fonti del diritto, postula la centralità del metodo di comparazione dialettica e dunque dell’argomentazione, onde scongiurare deprecabili forme di arbitrio e di costrizione. A tale ultimo riguardo si v. N. BOBBIO secondo cui: “La teoria dell’argomentazione rifiuta le antitesi troppo nette: mostra che tra la verità assoluta e la non-verità c’è posto per le verità da sottoporsi a continua revisione mercé la tecnica dell’addurre ragioni pro e contro. Sa che quando gli uomini cessano di credere alle buone ragioni, comincia la violenza” in prefazione al Trattato dell’argomentazione – la nuova retorica, di C. Perelman- L. Olbrechts-Tyteca, Einaudi, Torino, 2013.
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