CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 06/06/2018 Scarica PDF
Le nuove regole societarie per la crisi
Carlo Bruno Vanetti, Professore a contratto (già associato) - Studio Legale Colombo-Rigano* Relazione destinata al Convegno “Impresa in crisi e debitore sovraindebitato”, Vigevano, 15 giugno 2018
Sommario: I) alcuni effetti “anticipatòri” del Progetto di Riforma; II) un diritto societario per le crisi d’impresa; III) la ricerca di nuovi equilibri nella disciplina delle società in crisi; IV) le procedure di gruppo; V) le operazioni straordinarie e le future prospettive.
I – ALCUNI EFFETTI “ANTICIPATORI” DEL PROGETTO DI RIFORMA
Quale che sia la futura sorte della Legge Delega n.155/2017 e della Riforma Rordorf-Orlando, non può negarsi l’importanza del lavoro svolto dalla Commissione Rordorf e da quelle che hanno sviluppato il progetto, e la risonanza delle scelte operate dalla legge delega e dalla conseguente bozza di “codice della crisi e dell’insolvenza”.
La battuta di arresto della riforma non significa che il fermento sorto in questi anni in funzione dell’iniziativa, non abbia già evidenziato e favorito alcune modificazioni nel nostro sistema e tracciato dei percorsi sui quali indirizzarsi.
Gli effetti già prodotti dal progetto di riforma riguardano sia
1) gli scopi e la portata oggettiva e soggettiva da assegnare alla normativa concorsuale; che
2) la emanazione di norme estrapolate dai testi elaborati nel corso dei lavori; che
3) gli effetti interpretativi in favore di taluni aspetti della attuale Legge Fallimentare;
che, più in generale, un contributo alla elaborazione di nuove regole di diritto societario.
In sostanza tali effetti riguardano l’ulteriore sviluppo e adeguamento di principi che stavano maturando da tempo: restano invece fuori, ovviamente, le vere e proprie innovazioni della Riforma, quali le procedure di allerta, la specializzazione dei tribunali, la procedura unica di osservazione e di accertamento della crisi o dell’insolvenza.
[1] I lavori della Riforma hanno creato o rafforzato il consenso verso la centralità della nozione di crisi e autonomia rispetto all’insolvenza; la necessità di una sua emersione precoce; il rilievo della continuità aziendale; l’estensione dell’area di applicazione delle procedure e la loro armonizzazione con quelle relative al sovraindebitamento; la integrazione di soluzioni giuridiche ed aziendalistiche; la posizione residuale da assegnare al fallimento dell’imprenditore (destinato a divenire “liquidazione giudiziale”); il maggior utilizzo, nelle stesse procedure liquidatorie, dell’affitto e vendita d’azienda e del concordato fallimentare.
Ma vi sono state anche dirette conseguenze sulla stessa realtà operativa.
[2] Ricordo, tra i risultati “normativi” già ottenuti, talune disposizioni che sono state formalmente inserite nella legge fallimentare recependo indicazioni emerse nel corso dei lavori della Commissione Rordorf (le più significative: le proposte di concordato preventivo dei creditori, concorrenti con quella del debitore e imposte alle società ed ai loro soci: art.163 L.F.; la sospensione della causa di scioglimento delle società per la perdita del capitale sociale);
[3] Per gli effetti pratici, “anticipatòri”, dei lavori di riforma, segnalo l ’incidenza di fatto che talune disposizioni presenti nella legge delega hanno già operato sul diritto applicato (si è parlato infatti di “interpretazione anticipatoria”).
Le scelte del legislatore delegante spesso hanno infatti evidenziato una tendenza o interpretazioni già presenti, così da rafforzarne il peso e in sostanza legittimare soluzioni che apparivano controverse o che parevano applicabili solo alle procedure sulle grandi imprese insolventi (leggi Prodi-bis e Marzano): penso in questo caso al concordato di gruppo, con procedura unica e accentrata attorno ad un piano unitario, cui dedicheremo qualche cenno più oltre.
Ma penso anche alla rilevanza che si è andata attribuendo ad alcune norme, sinora trascurate, sugli obblighi degli amministratori: mi riferisco principalmente a quelle indicazioni degli articoli 2381 e 2392 del codice civile, dai quali si tendono a dedurre (Montalenti) obblighi di monitoraggio dei segnali di crisi, con l’utilizzo anche di indici aziendalistici; di predisporre misure adeguate per rimediarvi; una valorizzazione della funzione di controllo preventivo, che anticipa quella di vigilanza.
Con l’effetto della riduzione dell’area di insindacabilità delle scelte gestionali degli amministratori (la cosiddetta business judgement rule).
Al punto che il Testo Unico sulle Società a Partecipazione Pubblica, quale risulta dopo il D.Lgs. 100/2017, prevede espressamente (art.14) l’obbligo degli amministratori di elaborare appositi indicatori di crisi e di tenerne conto per adottare ”senza indugio i provvedimenti necessari al fine di prevenire l’aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause”.
Come non vedere un collegamento con le procedure di allerta previste dalla legge delega sulla riforma fallimentare?
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Ma vorrei ora parlare più in generale delle “nuove regole societarie per la crisi”, ossia della progressiva maturazione, di
II - UN DIRITTO SOCIETARIO PER LE CRISI D’IMPRESA,
che rappresenta in realtà un tema intermedio tra il diritto societario e quello concorsuale, e non immediatamente correlato al progetto di riforma, il quale si limita ad aggiungervi nuovi elementi, senza tentare ancora una sistematizzazione complessiva.
Le recenti novità accennate (proposte concorrenti, concordato di gruppo, doveri di monitoraggio dei rischi da parte degli amministratori) in realtà si inseriscono in un cammino iniziato da tempo: con la legge Prodi del 1979 per le grandi imprese, e poi la Prodi-bis e la Marzano, e con la riforma societaria del 2003 e le successive mini-riforme o novellazioni in campo fallimentare, dal 2005 in avanti.
Un percorso che ha fatto emergere, appunto, delle regole, degli adattamenti, che hanno spesso inciso su principi fondamentali del comune diritto delle società, quali la nozione di capitale o i diritti individuali degli azionisti.
Sino agli inizi degli anni 2000, il comune diritto fallimentare, così come il codice civile, non dettavano regole specifiche per le società, specie di capitali (quelle di persone erano trattate, ma solo per l’estensione degli effetti ai soci, visti come imprenditori indiretti): e ciò, malgrado ormai da decenni le società fossero i veri attori dell’economia.
Le scarse norme che legavano la disciplina fallimentare a quella societaria si limitavano a
- considerare il fallimento come causa di scioglimento, ad
- estendere agli amministratori i reati di bancarotta, a
- disporre che al curatore spettassero le azioni di responsabilità contro gli amministratori (anche quelle di normale competenza dell’assemblea dei soci).
Quest’ultima. In fondo, era l’unica vera deroga al diritto comune: i soci erano espropriati del voto assembleare sulla responsabilità degli organi di gestione.
Integravano il quadro le regole secondo cui
- la perdita del capitale impediva la prosecuzione della normale attività aziendale e
- nel corso di una qualsiasi procedura concorsuale non si potevano effettuare operazioni straordinarie.
Nella prassi, quindi,
- in corso di fallimento non si redigevano più i normali bilanci d’esercizio e
- si dubitava che gli organi assembleari e di controllo rimanessero in carica (si tendeva ad applicare estensivamente la regola di cui all’art.200 L.F. in tema di liquidazione coatta, secondo cui “cessano le funzioni delle assemblee e degli organi di amministrazione e di controllo”, salvo che per la richiesta di concordato finale) e
- si dubitava, infine, della possibilità di deliberare modificazioni dello statuto.
Quanto precede, come dicevo, valeva sino ai primi anni 2000.
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Solo con la riforma societaria del 2003 e, dal 2005, con le successive, ripetute, novelle in campo fallimentare, si è iniziata a considerare la società di capitali come tipico attore delle comuni procedure concorsuali.
Il processo si è evoluto in parallelo con la percezione dell’importanza della continuità aziendale come valore da salvaguardare anche in ipotesi di crisi dell’impresa.
Mi spiego.
Se si vuole salvare l’avviamento attuale o potenziale, ma la fattispecie di riferimento non è più l’imprenditore persona fisica, non basta dichiararne lo spossessamento - pieno (nel fallimento) o attenuato (nel concordato) - per poter determinare le sorti dell’azienda e riorganizzarla rimettendone le parti sane sul mercato.
Si deve tener conto del fatto che l’imprenditore collettivo ha una struttura complessa, ed ha delle componenti che non sono né fallite né in concordato: mi riferisco ai soci, che nelle società di capitali non sono soggetti agli effetti giuridici della procedura, e che continuano di fatto a condizionare la auspicata continuità aziendale (sino a profittarne e rilevare spesso, direttamente o indirettamente, le parti sane dell’azienda decotta).
Il primo passo è stato quello di
- valorizzare la possibilità che, malgrado il fallimento, la società potesse rimanere operativa, almeno ai fini di un miglior realizzo.
Si è iniziato, sotto il profilo civilistico (riforma del 2003), ad
- eliminare il fallimento come causa di scioglimento, ed a
- consentire, anche in corso di liquidazione (tipicamente, per perdita del capitale) l’esercizio provvisorio di rami dell’impresa.
E poi (dal 2006)
- facilitare l’esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento e
- regolamentare analiticamente l’affitto e la vendita dell’azienda nel fallimento.
Nel frattempo, si è
- consentito di deliberare e realizzare fusioni, scissioni, trasformazioni, e con ciò operazioni straordinarie in genere, durante concordati o fallimenti, rimuovendo dal codice (2003) i relativi divieti ed inserendo (2005-6) esplicite previsioni al riguardo nella normativa fallimentare (art.160,c.1, lett.a; art.124,c.2, lett. c;art.105, c.8 LF).
Si riconosceva con ciò la
- possibilità, nell’ambito delle procedure concorsuali, di modificare la struttura organizzativa e finanziaria della società, e quindi la perdurante
- operatività degli organi societari (ancorchè “spossessati” - in modo attenuato nel concordato preventivo o in modo completo nel fallimento - ).
Oltre a ciò,
- si favoriva la partecipazione esplicita dei soci stessi ai tentativi di risanamento o comunque di sistemazione dell’indebitamento (sino a concedere - nel 2012 - la prededucibilità all’ 80% ai loro nuovi finanziamenti, che prima della procedura sarebbero stati, all’opposto, postergati).
Infine, due misure cui si è già accennato:
- si è addirittura (sempre nel 2012) sospesa, in presenza di un semplice ricorso prenotativo di concordato o di 182-bis , la applicazione degli articoli 2446-7 e 2482bis e ter del codice civile e della regola “ricapitalizza o liquida”, consentendo così alla società di mantenere la piena continuità aziendale, senza porsi in liquidazione, pur con il capitale nominale azzerato ed un capitale economico negativo e (nel 2015)
- si è data ai creditori (che rappresentino il 10% dei crediti) la possibilità di proporre un autonomo piano di concordato, inclusivo di operazioni societarie (ricapitalizzazioni, conferimenti, fusioni, scissioni) e
- al tribunale, qualora i soci non deliberino conseguentemente, di nominare un commissario che sostituisca la stessa assemblea e l’organo di gestione.
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III - LA RICERCA DI NUOVI EQUILIBRI NELLA DISCIPLINA DELLE SOCIETA’ IN CRISI
Le disposizioni citate (ed altre ancora, di minor rilievo) hanno come primo denominatore la concezione, di origine nordamericana (v.Stanghellini ), secondo cui quando una società è insolvente i soci non escono di scena, ma vengono degradati a meri creditori residuali o postergati, mentre il controllo sull’attivo residuo e le decisioni sul suo destino passano ai creditori ed agli organi (tribunale, commissari o curatori) che ne devono curare gli interessi.
Al contempo, tuttavia, come abbiamo accennato ed hanno forse già riferito precedenti relatori, presuppongono un
- dovere dei soci della società di capitali (come tali non toccati dalla procedura) e degli amministratori di collaborare in buona fede per consentire la emersione tempestiva e la sistemazione della crisi, e, con ciò, il
- diritto dei soci, dedicando le proprie risorse all’opera di risanamento, di mantenere un ruolo attivo e una futura partecipazione nell’ azienda risanata.
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In sintesi, si potrebbe affermare che il diritto concorsuale societario nasce quando ci si rende conto che la società in crisi può venire spossessata dell’azienda, ma i soci non possono venire spossessati delle loro partecipazioni, ed anzi possono divenire preziosi alleati nei tentativi di risanamento.
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Ovviamente, l’asservimento delle regole societarie, nate per consentire un’attività lucrativa dei soci, a quelle concorsuali, tese al miglior soddisfacimento dei creditori, crea punti di attrito e necessità di adattamenti.
E si crea al contempo una disarmonia tra le norme relative alla gestione della struttura societaria (i cui referenti sono i soci e gli amministratori) e quelle relative alla realtà aziendale, all’impresa (in cui più incisivi sono i poteri degli organi concorsuali, tanto nel concordato, quanto – e specialmente – nel fallimento).
Ed è questo il campo in cui sta maturando il “diritto societario concorsuale” o il “diritto concorsuale societario”, della cui natura si sta discutendo (sistema autonomo o regole speciali da integrare - per taluni - con quelle societarie, ovvero - per altri - con quelle concorsuali?).
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I temi del diritto “concorsual-societario”, dei quali ancora non è certa la soluzione, riempiono un lungo elenco (vedi Tombari, Benazzo, Calandra Bonaura, Cagnasso, Strampelli ed altri), e tra questi mi limito a citare
- i doveri degli amministratori in presenza di crisi (devono portare i libri in tribunale? possono limitarsi ad una gestione conservativa?)
- quale è il ruolo del capitale sociale in situazione di crisi (va forse sostituito da indici di solvibilità di natura economico-finanziaria?)
- come gestire le operazioni straordinarie (come coordinare le procedure societarie con quelle concorsuali? come e da parte di chi creare bilanci straordinari in corso di fallimento o deliberare fusioni o scissioni o conferimenti malgrado la presenza di capitale economico negativo? In che tempi consentire le opposizioni dei creditori ?)
- quali i doveri della capogruppo in caso di crisi del gruppo o di una delle sue unità: vi è forse il dovere di mantenere l’equilibrio del gruppo, quindi in sostanza di coprire le perdite delle controllate, come sostenuto da emergenti teorie in campo internazionale (caso Rozenblum della Cassazione francese e Progetto Uncitral)?
- quando vi è la possibilità di configurare una società di fatto tra società di capitali (cui tendono alcune sentenze della nostra Cassazione)
- quali sono, in generale, le competenze degli organi sociali nelle procedure concorsuali (ovvero che rilievo hanno i controlli, le autorizzazioni e i poteri degli organi delle procedure?)
- in generale, come va strutturata la “bankruptcy governance”, ossia il governo dell’impresa in crisi.
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La mia impressione è che tendano a prevalere le norme fallimentari per quanto riguarda la protezione dei terzi, e quelle societarie per i soli aspetti interni, strettamente relativi ai rapporti tra i soci: con la precisazione che i soci della società di capitali, per definizione non toccati da responsabilità personali in caso di insolvenza, tendono ad acquistare - come si è già accennato - un ruolo significativo nelle procedure concorsuali, in quanto
- componenti dell’organo assembleare ed arbitri della scelta degli organi di gestione e di controllo interno;
- possibili finanziatori;
- creditori, ancorchè residuali, per i conferimenti fatti;
- elementi di collegamento tra la società “monade” ed altre società (tra l’altro, sia nelle amministrazioni straordinarie, che nella riforma Rordorf-Orlando, si ammette ora espressamente che al vertice del gruppo possa collocarsi una persona fisica).
IV - LE PROCEDURE DI GRUPPO
Per quanto riguarda il GRUPPO, chi ha seguito i convegni organizzati nel 2016 e nel 2017 a Pavia dal nostro Dipartimento sul progetto di riforma Rordorf-Orlando ne ha già sentito parlare diffusamente.
Come sapete, il nostro diritto, agli articoli 2497 e seguenti del codice civile, detta un embrione di diritto dei gruppi: oltre ad alcuni adempimenti pubblicitari, prevede che la direzione unitaria di un gruppo di società debba sempre rispettare l’autonomia “societaria ed imprenditoriale” delle società controllate, e consente agli amministratori delle società controllate di subire le scelte fatte dalla capogruppo solo se eventuali pregiudizi loro causati vengano contestualmente indennizzati con “vantaggi compensativi”.
E con ciò, riterrei, indica la necessità di attuare una gestione decentrata, in cui sia possibile individuare e tutelare (e indennizzare, se leso) l’interesse della società figlia.
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Quando un gruppo di società entra in crisi, tuttavia, questa gestione decentrata tende a impedire la elaborazione e la adozione di un piano di risanamento e di ristrutturazione unitario, spesso essenziale per rimettere in piedi la situazione.
Per agevolare il risanamento o la miglior liquidazione dei gruppi la legge di riforma prende anzitutto atto dell’esigenza, manifestata dalla prassi, di concentrare la procedura concorsuale presso un’unica sede, così da facilitare l’elaborazione di piani di risanamento, ristrutturazione, od anche liquidazione unitari.
E tale soluzione, ancorchè per ora non divenuta legge, ha di fatto favorito ulteriormente le scelte (cfr.Vitiello) od anche gli espedienti, che, in contrasto con quanto ha invece sempre predicato la Cassazione, consentono di considerare sede di fatto delle società del gruppo quella della holding e di unificare il piano di risanamento e gli organi della procedura (tribunale, giudice delegato, curatori o commissari).
Segnalo solo che il testo del progetto di riforma e le bozze del “codice della crisi”, da un lato
- fanno emergere la tendenza ad adottare una nozione di “interesse di gruppo” che si avvicina alle istanze già accennate (caso Rozenblum e altri): ossia lo scopo di dare stabilità al gruppo (cosa diversa dal rafforzare la holding) prevale sull’interesse sociale delle singole società raggruppate (e dei suoi soci esterni). La bozza di decreto delegato dispone infatti che i piani concordatari possono prevedere “trasferimenti di risorse infragruppo” se essenziali alla continuità aziendale delle singole società: trasferimenti che il tribunale dovrà confermare, in caso di opposizione, se nel complesso (in termini “compensativi”) il piano di gruppo avvantaggi le diverse società rispetto al loro fallimento (liquidazione giudiziale) - e non semplicemente ad un loro concordato separato-.
Più precisamente, la bozza di decreto delegato (articolo 289) prevede che i “piani di gruppo” nei concordati, al fine di garantire la continuità aziendale delle società del gruppo, possano disporre “trasferimenti di risorse infragruppo”, alla sola condizione che “i creditori [delle società depauperate]possano essere soddisfatti in misura non inferiore a quanto ricaverebbero dalla liquidazione giudiziale [cioè dal fallimento] della singola società” loro debitrice diretta.
Al contempo, tuttavia, la bozza di decreto delegato non fornisce risposte certe a due temi fondamentali:
- sarà lecito, in vista (cioè prima) di una procedura concorsuale, attuare un consolidamento degli attivi e dei passivi tramite fusioni, conferimenti delle aziende in società di persone, od altre operazioni straordinarie?
- la continuità aziendale del gruppo, integrata in un piano unitario, non può creare una cosiddetta (Cassazione) “super-società di fatto” (società di fatto tra società di capitali), od almeno - come riterrei - una solidarietà per i debiti prededucibili sorti nel corso delle procedure?
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V - LE OPERAZIONI STRAORDINARIE E LE FUTURE PROSPETTIVE
Sul tema delle operazioni straordinarie mi limiterò ad un breve cenno (ne riparleremo a settembre, per chi fosse interessato, nel convegno organizzato a Pavia col supporto anche di due studi professionali milanesi (Kpmg e Colombo-Rigano).
Per le operazioni straordinarie (cessioni di aziende o rami, aumenti di capitale, conferimenti, scissioni, fusioni) voglio solo ricordare ancora che sino al 2003 era principio generale che, intervenuta una causa di scioglimento od una procedura concorsuale, la società entrasse in una fase di sospensione del normale funzionamento corporativo: per il fallimento, l’attività del curatore si sostituiva all’imprenditore spossessato, agli amministratori e agli organi di controllo, che neppur più approvavano il bilancio d’esercizio.
Con la riforma societaria del 2003 si son rese compatibili le procedure concorsuali con le operazioni di fusione, scissione, trasformazione, e con le novelle del 2005-2007 e degli anni seguenti si sono espressamente previste soluzioni concordatarie (preventive o fallimentari) in cui la società insolvente ricorre ad operazioni societarie straordinarie per recuperare la solvibilità o migliore le condizioni di liquidazione.
Per favorire ciò, non solo, come s’è ricordato, si è sospesa l’operatività della regola “ricapitalizza o liquida”, ossia della causa di scioglimento dovuta alla perdita del capitale; ma si sono anche consentite di fatto cessioni o scorpori di elementi la cui somma era di valore negativo; si è arrivati, infine, a disporre un obbligo degli stessi soci di adeguare le delibere assembleari alle esigenze della procedura, con un possibile “commissariamento” dell’assemblea, qualora non deliberasse quanto previsto dal piano concorrente presentato dai creditori.
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La riforma avrebbe dovuto accentuare anche queste possibilità, consentendo addirittura ai terzi di anticipare le scelte del debitore, presentando una proposta al posto del debitore stesso (come nel concordato fallimentare), escludendo sistematicamente il diritto di recesso, di opzione e di prelazione dei soci per le operazioni straordinarie, e abolendo in caso di concordato la possibilità dei creditori di opporsi alle delibere assembleari, rinviando ogni contestazione al ricorso contro il decreto di omologa del concordato stesso.
Avrebbe anche generalizzato l’obbligo dei soci, nella fase di esecuzione del concordato, di adottare le delibere previste dal piano (includendo così espressamente i piani presentati dallo stesso debitore e i nuovi soci eventualmente aggregatisi tramite operazioni straordinarie).
Tuttavia la strada del nuovo diritto societario della crisi pare tracciata, e, direi, nel senso che, pur introducendosi degli incentivi al coinvolgimento dei soci, sinchè una procedura sta producendo i suoi effetti, il diritto concorsuale prevale su quello societario, adeguandosi alla classica visione d’origine nordamericana, già ricordata, secondo cui in caso di insolvenza i soci diventano dei creditori residuali, ed i creditori diventano i veri titolari non solo dei valori aziendali residui, ma anche della stessa impresa e dell’organizzazione societaria .
Con la precisazione che, sempre sulla scia di esperienze estere (questa volta, anche inglesi e francesi) il ruolo di organismi pubblicistici (quali i comitati di composizione della crisi) e, in ultima analisi, del Tribunale e dei suoi controlli, tendono ad acquistare sempre maggior rilievo, in piena controtendenza rispetto alla privatizzazione delle procedure che aveva ispirato la mini-riforma fallimentare del 2005-2007.
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