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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 24/10/2020 Scarica PDF
Nuovi profili in materia di crisi del rapporto matrimoniale
Silvia Martina, DottoressaSOMMARIO: 1. L’affectio matrimonialis ed il diritto alla separazione. – 2. L’assetto normativo e l’orientamento giurisprudenziale. – 3. Il principio della bigenitorialità e la “shared residence”. – 4. L’utilizzo del modello secondo la Suprema Corte di Cassazione e la Sentenza n. 14160/2020 del Tribunale del Lecce.
1. “L’amore è eterno finché dura” non è solo il titolo di un eccellente film diretto da Carlo Verdone nel 2004 ma rappresenta -per l’appunto- la parafrasi popolare del più complicato concetto di “rottura dell’“affectio coniugalis”, alla base degli istituti giuridici della separazione, art. 150 c.c., e del divorzio art.149 c.c. e L. 898/1970, previsti nel nostro ordinamento, per porre rimedio alla crisi del rapporto matrimoniale.
L’art. 151, I comma, c.c. definisce che la sentenza di separazione giudiziale può essere pronunciata quando sussistano “fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole”.
Il perimetro del concetto stesso di tollerabilità, nella prosecuzione del rapporto coniugale, è stato delineato, nel corso del tempo, dalla giurisprudenza. Infatti, si è ritenuto che la domanda di separazione giudiziale potesse essere presentata ogniqualvolta “anche uno solo dei due coniugi si ritenesse disaffezionato o distaccato spiritualmente dall’altro”. (Cass. 7148 del 1992).
L’intollerabilità va intesa in senso soggettivo, anziché oggettivo, non essendo necessario far riferimento a standard qualitativi o valutativi ma rendendo sufficiente il prodotto del proprio “self talk” nonché il risultato del proprio dialogo interiore che porti alla soggettiva consapevolezza di non voler proseguire la propria vita al fianco del proprio coniuge.
Il diritto alla separazione è -fuor di ogni dubbio- funzionale alla tutela del diritto alla libertà personale ed individuale sancito dall’art. 13 della Costituzione. È per tale ragione che in capo ad ogni coniuge è ravvisabile un vero e proprio diritto potestativo a chiedere la separazione. Tale diritto si configura come imprescrittibile ed intrasmissibile.
2. Di certo, il momento della separazione risulta essere un momento doloroso per tutti i componenti del nucleo familiare e consta di momenti critici circa il collocamento, l’affidamento ed il mantenimento della prole. L’art. 151, II comma, c.c. individua come “Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio.”
L’addebito della separazione ad uno dei coniugi, implica la straordinaria rilevanza della colpa ed è da considerarsi come un retaggio antecedente la c.d. “Riforma della famiglia” del 1975 con effetti, tuttavia, concreti.
Infatti, il coniuge a cui sia addebitabile la separazione vedrà perdere il proprio diritto al mantenimento e i diritti successori ai sensi dell’art. 585, comma I, c.c. Nulla esclude l’addebito reciproco.
La separazione, sia essa giudiziale o consensuale, genera la “sospensione” degli effetti del matrimonio nonché degli obblighi reciproci di convivenza e fedeltà. Tale periodo di “pausa” non è fine a sé stesso ma è imposto dalla legge per far comprendere a pieno ai coniugi gli effetti civili e giuridici derivanti dallo scioglimento del vincolo matrimoniale. Dunque, la legge, con il fine del ricongiungimento matrimoniale, riconosce un periodo di separazione che precede il divorzio, in cui i coniugi possano valutare pienamente la propria scelta.
La riforma in vigore dal 2015 con la Legge n. 55, c.d. “Divorzio breve” ha inciso notevolmente sul periodo intercorrente tra la separazione ed il divorzio. Tale periodo è stato notevolmente ridotto introducendo il termine di 6 mesi nel caso di separazione consensuale e di 1 anno quando la separazione è giudiziale.
Vi è da puntualizzare che la riforma non ha toccato le ipotesi in cui si possa divorziare dal coniuge senza aspettare il periodo di separazione. Tali ipotesi risultano eccezionali e di particolare gravità.
L’art. 156 c.c. dimostra come l’obbligo di assistenza tra coniugi si tramuti in obbligo del mantenimento sorretto dal criterio dell’adeguatezza dei redditi.
Ecco che il Tribunale riconoscerà al coniuge, a cui non sia addebitabile la separazione, l’assegno di mantenimento quando costui non disponga di adeguati redditi propri necessari in combinato al tenore di vita goduto durante la convivenza ed in ottemperanza alla clausola legale “rebus sic stantibus” descritta nell’art. 156, ultimo comma, c.c.
Il Giudice, al fine di valutare la congruità dell’assegno di mantenimento sarà chiamato a valutare non solo la capacità reddituale delle parti ma anche le attitudini al lavoro delle stesse che dovranno essere valutate in concreto, tenendo conto dell’età, dell’esperienza, delle condizioni del mercato del lavoro ecc. Inoltre, dovrà prendere in considerazione il contesto sociale nel quale i coniugi hanno vissuto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e quantità dei bisogni emergenti del coniuge istante.
Il bisogno del coniuge potrà essere sia totale che parziale, cioè dato dalla differenza tra il reddito di lavoro o patrimoniale del coniuge che deve essere mantenuto e quello di colui che è tenuto al mantenimento (Cass. 28 aprile 2006 n. 9876, 12 giugno 2006, n. 13592, 19 giugno 2003, n. 9806). Le condizioni dell'istante, vengono espressamente esaminate con l’attenzione posta sugli elementi che rappresentano un'utilità economicamente valutabile: 1) l'ottenuto godimento della casa coniugale (Cass. 30.1.1992, n. 961); 2) la disponibilità del prezzo dell'alienazione di un immobile (Cass. 2.7.1994, n. 6774); 3) i redditi di qualsiasi natura ed i cespiti in godimento diretto (Cass. 13.1.1987, n. 170). Il limite è posto dalla costituzione di un nuovo rapporto di convivenza caratterizzata dalla stabilità. In questo caso, è corretto attribuire rilievo, ai fini della quantificazione del suo diritto al mantenimento da parte dell'altro coniuge, alle prestazioni di assistenza che gli vengano corrisposte da parte del convivente more uxorio, quando esse escludano o riducano lo stato di bisogno, a condizione che abbiano carattere di stabilità ed affidabilità (Cass. 12 luglio 2007 n. 15611, 28 febbraio 2007 ).
Un punto ampiamente controbattuto risulta essere la considerazione da parte del giudice delle attitudini personali del coniuge economicamente debole.
Secondo parte della dottrina, la sopradescritta modalità di determinazione dell’assegno di mantenimento genera una pregiudiziale contraria alla dissolubilità del matrimonio, implicando l’ultrattività di un vincolo che si vuole disfare.
Il riferimento alle “altre circostanze” ex art. 156, II co., cod. civ. implica che la norma contempli quelle situazioni in cui, pur in presenza di una possibilità di lavoro per il coniuge beneficiario, questi, cui non è addebitabile la separazione, non può essere costretto a ridimensionare e a trasformare un sistema di vita, soprattutto quando, vista l'età in genere matura, non gli è possibile dare inizio o riprendere una attività lavorativa.
La I sez. civ. della Cassazione, con la sentenza n. 24858 del 2008 ha riconosciuto, nell’assegno divorzile, i sacrifici affrontati dal coniuge più debole per consentire, in regime matrimoniale, l’accrescimento professionale dell’altro coniuge. Identica la ratio della sentenza della Cassazione 12 aprile 2001, n. 5492, laddove spiega che l'assegno di mantenimento deve essere concesso al coniuge per assicurargli il pregresso tenore di vita senza costringerlo a tal fine ad alienare il proprio patrimonio immobiliare. La Cassazione ha anche spiegato che se prima della separazione i coniugi avevano concordato o anche solo tacitamente accettato che uno dei due non lavorasse, l'accordo può conservare efficacia anche durante la separazione, tendendo la disciplina della separazione ad assicurare il più possibile gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza (Cass. 18.8.1994, n. 7437). Si è, infatti, affermato che l'attitudine al lavoro del coniuge separato acquista rilievo non in senso astratto, quale generica possibilità di reperire e svolgere una qualunque attività lavorativa, ma soltanto se si traduca in una effettiva possibilità di svolgere un lavoro retribuito, valutati tutti gli elementi oggettivi e soggettivi (cfr. Cass. 17.10.1989).
Con l’ordinanza n. 24934 del 7 ottobre 2019, la Corte di Cassazione ha
ribadito la natura assistenziale dell’assegno divorzile di cui all’articolo 5
della L. 1° dicembre 1970, n 898, escludendone la funzione riequilibrante dei
redditi dei coniugi, in quanto collegata al principio, ormai superato, del
tenore di vita goduto, così dichiarando: “Lo squilibrio economico tra le parti e
l’alto livello reddituale del coniuge destinatario della domanda non
costituiscono elementi decisivi per l’attribuzione e la quantificazione
dell’assegno divorzile.
I parametri su cui fondare l’accertamento del diritto all’assegno di
divorzio sono la non autosufficienza economica e/o necessità di compensazione
del particolare contributo dato da un coniuge durante la vita matrimoniale”.
Sulla base degli ultimi orientamenti giurisprudenziali, è di notevole interesse in materia, l’ipotesi di una profonda riforma in materia di rapporti coniugali, in cui l’assegno di mantenimento non assuma i connotati di una “rendita passiva” ma di un contributo dovuto solo in caso di meritevolezza e di incolpevole difficoltà economica del coniuge. Verrebbe superato il criterio del “tenore di vita” in ragione del “principio di autoresponsabilità” del coniuge e delle condizioni personali ed economiche in cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito della fine del matrimonio.
I nuovi criteri circa l’assegnazione di un assegno di mantenimento verterebbero sull’impegno e la cura personale di figli minori, disabili o maggiorenni ma non autosufficienti, l’incapacità di reddito per ragioni oggettive, la mancanza di adeguata formazione professionale causata dall’essersi dedicato alla cura della famiglia e dei figli.
In materia di collocamento ed affidamento dei figli, il parametro chiave che viene utilizzato è il c.d. “interesse della prole”. Il godimento della casa familiare è attribuito valutando prioritariamente l’affidamento e l’interesse dei figli. Lo ius vivens, anche alla luce dell’eventuale titolo di proprietà, esclude il beneficio della casa familiare al coniuge che sia privo di qualsiasi preesistente diritto reale dell’immobile.
L’affidamento dei figli minorenni segue le modalità previste dal Dlgs. n. 154 introdotto nel 2013. Viene valutato, oltre che sulla base del principio cardine costituito dall’interesse dei figli a garanzia del loro benessere psico-fisico, mediante l’utilizzo di altri criteri come la durata di permanenza presso ciascun genitore, le possibilità economiche di ciascun genitore, le quantità di mansioni domestiche e di compiti dei figli svolti da ciascun genitore riconoscendo che, laddove non si dimostri contrario al all’interesse e/o benessere dei figli, viene sempre prediletto l’affidamento condiviso.
In ogni caso, spetterà al Giudice determinare la misura ed il modo con cui ciascun genitore dovrà esperire agli obblighi previsti all’art. 337- ter c.c.: contribuzione al mantenimento, alla cura, all’istruzione ed all’educazione della prole.
Il genitore non collocatario dovrebbe essere tenuto a contribuire al mantenimento dei figli mediante la corresponsione di un assegno di mantenimento mensile in favore del genitore collocatario.
Tale assegno dovrebbe comprendere tutte le spese ordinarie mentre spetterà al genitore non collocatario rimborsare le spese straordinarie in misura del 50%.
Gli obblighi previsti dall’art. 337 del c.c., apertis verbis, non si esauriscono con il sopraggiungere della maggiore età dei figli. Si estendono oltre questa soglia sino al raggiungimento di un’autosufficienza nonché indipendenza dal punto di vista economico.
L’indipendenza viene intesa come il percepimento di un reddito che corrisponda ad una professionalità acquisita del figlio maggiorenne, secondo le normali fluttuazioni di mercato.
La Corte di Cassazione ha stabilito che la condizione essenziale per poter eliminare l’assegno di mantenimento sia che i figli maggiorenni debbano svolgere un lavoro adeguatoalle loro attitudini e aspirazioni non precario o inadeguato. Diverso sarà il caso in cui i figli rifiutino dei posti di lavoro idonei per loro senza fornire adeguate motivazioni.
3. Di recente, il Tribunale di Brindisi ha intrapreso un percorso atto a riformare le “Linee guida per la Sezione Famiglia” orientandosi verso una nuova lettura delle norme in materia che privilegi un modello paritetico di affidamento ed una effettiva bigenitorialità.
Il principio della bigenitorialità costituisce uno dei principi portanti della riforma introdotta con la L. n. 154 del 2006 che sancisce il diritto del minore di mantenere un rapporto stabile con entrambi i genitori anche se questi siano separati o divorziati. Tale diritto si basa, in questa impostazione, sul fatto che essere genitori è un impegno che si prende nei confronti dei figli e non dell'altro genitore, per cui esso non può e non deveessere influenzato da un'eventuale separazione. Né sul minore si può far ricadere la responsabilità di scelte separative dei genitori.
La ratio della norma è da individuarsi nelle novità introdotte con la Convenzione dei diritti del bambino, redatta a New York nel 1989, mediante cui si è diffusa un’autorevole e copiosa dottrina internazionale che ha ampliato l’applicazione del principio della bigenitorialità -in precedenza usato in prevalenza in riferimento alle famiglie unite- anche alle famiglie separate.
Tale dottrina ha dimostrato l’esistenza di effetti pregiudizievoli sui bambini derivanti dalla “…frequentazione di uno dei genitori per un tempo inferiore a un terzo del tempo totale”, come abitudinariamente avviene nei casi di affidamento condiviso con collocamento prevalente presso un genitore, in cui al genitore non collocatario viene di solito concesso un diritto di visita da esercitarsi per 1 o 2 pomeriggi alla settimana e nei fine settimana alternati.
Il Governo italiano, nel 2015, è stato firmatario, in Consiglio d’Europa, della risoluzione n. 2079, contenente espresso invito agli Stati membri ad assicurare l’effettiva eguaglianza tra genitori anche attraverso la promozione della c.d. “shared residence”, definita quale “…forma di affidamento in cui i figli dopo la separazione della coppia genitoriale trascorrono tempi più o meno uguali presso il padre e la madre”.
Riconosciuta la validità della nuova forma di affidamento c.d. “alternato”, gli effetti concreti hanno coinvolto tutte le norme in ambito di collocamento, affidamento e mantenimento dei figli.
In primo luogo vi è la soppressione della figura del “genitore collocatario” con conseguente venir meno delle statuizioni in ordine all’assegnazione della casa familiare. La casa familiare, pertanto, ritornerà nella disponibilità del suo proprietario esclusivo, ovvero, qualora sia in comproprietà, “…si valuterà quale sia il costo della locazione di un appartamento di caratteristiche simili e al genitore che ne esce verrà scontato il 50% di tale cifra nel calcolo del mantenimento”.
Inoltre, la residenza dei figli, avrà valenza meramente anagrafica, con conseguente domiciliazione degli stessi presso ambedue i genitori. La scelta invece della c.d. “residenza abituale” sarà definita unicamente con riferimento alla regione o stato, al solo fine di definire la competenza giurisdizionale in caso di allontanamento unilaterale di uno dei genitori insieme ai figli.
Le novità si sono rivolte anche alla frequentazione dei figli da parte dei genitori che avrebbe dovuto ispirarsi “…al principio che ciascun genitore dovrà partecipare alla quotidianità dei figli”. I genitori pertanto dovrebbero trascorrere tempi tendenzialmente paritetici con i figli, ferma la possibilità che casuali esigenze dei figli e/o oggettive e dimostrate condizioni di impossibilità materiale possano determinare una maggiore presenza di un genitore rispetto all’altro. Di fatti, salvo casi di evidenti disparità economiche tra i genitori (come nel caso di famiglie monoreddito), dovrebbe essere sempre da preferire il c.d. mantenimento diretto al posto della forma indiretta, consistente nel tradizionale assegno da versare al coniuge collocatario.
Infine, sulla base del criterio individuato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 16664 del 2012, da spese straordinarie e non si è prediletta la distinzione tra spese prevedibili e non assegnando “…in partenza le spese prevedibili all’uno o all’altro genitore per intero in funzione del reddito e stabilire che le imprevedibili verranno divise a momento in proporzione delle risorse”.
4. Nonostante le ottime premesse, La Suprema Corte è di recente intervenuta sulla questione, con l’ordinanza n. 4060 del 15 febbraio del 2017 dando atto del limitato utilizzo in Italia dell’affidamento alternato, riconoscendo che lo stesso “…tradizionalmente previsto come possibile dal diritto di famiglia italiano, è rimasto una soluzione di limitate applicazioni, essendo stato ripetutamente affermato che esso assicura buoni risultati quando non vi è un accordo tra i genitori e tutti i soggetti coinvolti, anche il figlio, condividono la soluzione”. Ad avviso della Corte, inoltre, l’affidamento alternato, comportando una modifica continua della propria casa di abitazione, potrebbe avere “…un effetto destabilizzante per molti minori”.
Con tale ordinanza, la Suprema Corte di Cassazione ha voluto limitare l’affidamento alternativo ai soli casi in cui vi sia un accordo tra i genitori ed una manifestata volontà favorevole del minore, manifestando un notevole pregiudizio nell’utilizzo di tale strumento in tutti gli altri casi.
Nel tentativo di invertire nuovamente la rotta, sono diverse le pronunce dei Tribunali in Italia e gli interventi dei magistrati che, anche grazie all’input dato con la pubblicazione delle linee guida in materia di famiglia del Tribunale di Brindisi, mirano a dare più ampio respiro all’utilizzo dell’affidamento alternato e paritetico dei genitori.
Sullo stesso presupposto appare fondata la recente pronuncia del Tribunale di Lecce n. 14160 del 15 settembre 2020.
Con tale decreto, si omologa la separazione di due coniugi secondo le condizioni riportate nel ricorso introduttivo del giudizio.
La penna redigente è quella dell’Avv. Sergio Losavio, del foro di Brindisi, e dell’Avv. Luigi Micheli, del foro di Lecce, i quali, ripercorrendo gli orientamenti in materia, hanno propeso per un collocamento ed affidamento alternato e paritario dei figli minori della coppia ed un mantenimento diretto della prole con una divisione al 50% delle spese non prevedibili nell’interesse dei figli.
Di notevole interesse appare anche l’esclusiva disponibilità dell’abitazione di proprietà del padre a quest’ultimo e l’assunzione di una rilevanza meramente anagrafica della residenza dei figli.
Le soluzioni suggerite dagli avvocati sono state sposate in toto dal Collegio del Tribunale di Lecce, composto dal Presidente Dott.ssa Cinzia Mondatore e dai giudici Dott.ssa Annafrancesca Capone e Dott.ssa Agnese di Battista. Infatti, sulla base di un ricorso congiunto e di un clima disteso tra i coniugi, a parere del Tribunale di Lecce, le condizioni sono apparse conformi all’interesse delle parti e dei minori.
Il Tribunale ha infatti accertato che da diversi mesi i figli vivevano con la madre e con il padre secondo una scansione temporale quasi paritaria, essendo che le due abitazioni distano pochi chilometri e che, già dal tempo della convivenza matrimoniale, erano entrambe frequentate dalle parti e dai figli. Inoltre, la disparità reddituale tra i due coniugi aveva già determinato, nella regolamentazione concordata tra i coniugi, differenti esborsi fissi.
Il provvedimento in esame, dunque, mira a garantire ai figli il diritto alla bigenitorialità che si persegue soprattutto con lo strumento dell’affido condiviso ed alternato (l. 8 febbraio 2006 n. 54).
Suddetto strumento appare l’unico idoneo e conforme a garantire la parità tra i coniugi come indicato dall’art. 29 della Costituzione ed il diritto di ogni genitore di mantenere, istruire ed educare la prole come previsto dall’art. 30 della Costituzione.
Come riportato in un articolo del Coordinatore della I^ sez. civile del Tribunale Salernitano, dott. Jachia, pubblicata su Ilcaso.it ed intitolato “Dall’affido condiviso alla residenza privilegiata alla partecipazione dei genitori alla quotidianità dei figli” : “Ciò non di meno, ai sensi degli artt. 337 bis e ter c.c. l’affido condiviso è inequivocabilmente funzionalizzato alla realizzazione dell’interesse morale e materiale della prole e per questa ragione, dopo e nonostante la crisi della coppia, i provvedimenti giudiziari dovrebbero mirare alla conservazione del rapporto dei minori con entrambi i genitori, alla concessione ai medesimi di pari opportunità quando abbiano capacità genitoriali omogenee o, viceversa, all’attribuzione loro di compiti di cura differenti. Penso quindi che oggi (dopo così tanti anni dalla sua introduzione) si dovrebbe quantomeno auspicare che il principio della responsabilità genitoriale affidata ad entrambi i genitori si esplichi con il mantenimento diretto (integrato dall'erogazione eventuale di un assegno perequativo) e con l'attribuzione ad entrambi i genitori di momenti (quand’anche differenti) di partecipazione alla quotidianità dei figli, perché altrimenti non si potrebbe realizzare una concreta bigenitorialità. Proprio perché, tanto per sal- vaguardare l’interesse della prole ad una relativa stabilità logistica quanto per attribuire significativi ruoli ad entrambi i genitori, nessuno pensa più di attuare l’affido condiviso mediante la fiscale pariteticità tra i genitori dei tempi di fruizione della prole si debbono predisporre e proporre schemi (da adeguare al crescere ed al divenire della prole), fondati sulle pari opportunità per i figli di rapportarsi con ciascun genitore in funzione dei propri desideri e delle proprie esigenze e sulle concrete capacità dei genitori. La partecipazione, del resto, di ognuno dei due genitori ad aspetti variabili della vita quotidiana comporta che entrambi possano godere realmente di pari opportunità anche nel loro lavoro e nella loro nuova vita privata. Parimenti il coinvolgimento effettivo del padre e della madre nella vita della prole evita il veder sbiadire e pian piano scomparire la figura di uno dei genitori per effetto di una separazione che è e dovrebbe restare interna alla coppia.”
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