CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 10/03/2022 Scarica PDF
I requisiti di forma degli accordi di ristrutturazione dei debiti: controversa questione della necessità dell'autentica notarile
Maurizio Zonca e Cristina Ubertis Albano, Maurizio Zonca, Avvocato in Busto Arsizio. Cristina Ubertis Albano, Avvocato in MilanoSommario: 1. Gli accordi di ristrutturazione: breve inquadramento giuridico. – 2. L'assenza di specifici requisiti formali: la discussa necessità dell'autentica notarile. – 3. Le posizioni della giurisprudenza. – 4. Conclusioni.
1. Gli accordi di ristrutturazione: breve inquadramento giuridico.
L'accordo di ristrutturazione dei debiti rappresenta uno dei principali strumenti di risanamento cui l'imprenditore in crisi può accedere per ridurre l'esposizione debitoria ed assicurare il riequilibrio della propria situazione finanziaria. Più in particolare, ai sensi dell'articolo 182-bis L.F., è riconosciuta al debitore in stato di crisi la possibilità di domandare l'omologazione di un accordo stragiudiziale finalizzato alla ristrutturazione dei propri debiti, precedentemente raggiunto con una maggioranza qualificata di creditori (pari almeno al 60% dei crediti negli accordi "ordinari"; la percentuale è invece dimezzata al 30% negli accordi "agevolati", ovverosia in assenza di moratorie e automatic stay, come previsto dal nuovo art. 182-novies L.F.) e pubblicato nel Registro delle Imprese, presentando un apposito ricorso avanti il Tribunale competente, unitamente alla documentazione di cui all'art. 161 L.F. e ad una relazione redatta da un professionista, designato dal debitore, in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, comma 3, lett. d), L.F. sulla veridicità dei dati aziendali e sull'attuabilità dell'accordo stesso, con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare l'integrale pagamento dei creditori estranei nel rispetto del termine di centoventi giorni dall'omologazione dell'accordo, ovvero, in caso di crediti non ancora scaduti a tale data, dalla scadenza degli stessi.
L’introduzione dell’istituto dell’accordo di ristrutturazione dei debiti nel nostro ordinamento testimonia chiaramente il favor espresso dal legislatore per la regolazione della crisi d’impresa mediante accordi negoziali, dando sempre maggior riconoscimento all’autonomia privata nella gestione e composizione della crisi e nel superamento dell’insolvenza[1].
In questo senso, l'accordo di ristrutturazione dei debiti appare uno strumento "misto", in quanto è, da un lato, una procedura concorsuale a tutti gli effetti[2]; dall'altro lato, ancora prima, quanto meno nel suo iniziale percorso formativo, un negozio di diritto privato, disciplinato in quanto tale dalle regole dei contratti e dei negozi giuridici in genere.
L'istituto, quindi, condivide la natura pubblicistica e giudiziale delle altre procedure concorsuali, in quanto dotato dei requisiti minimi che ne denotano appunto la concorsualità, tra cui in primo luogo la subordinazione dei suoi pieni effetti all'omologa da parte dell'autorità giudiziaria, pur trattandosi nella sostanza di un accordo privatistico. Del resto, a differenza delle altre procedure "minori" (quale il concordato preventivo), la procedura per l'omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti è "sostanzialmente snella, priva di termini perentori e non caratterizzata da preclusioni rigide, tanto che non sono previsti un procedimento o un provvedimento di apertura, né la nomina di alcun organo della procedura (quali Commissario Giudiziale, Amministratore giudiziale, Giudice Delegato o Comitato dei Creditori) ed il Tribunale assume la decisione con un provvedimento de plano sull’istanza di omologazione, senza previa necessità di instaurazione di contraddittorio"[3].
Ed infatti, nel rispetto della natura intrinsecamente negoziale degli accordi di ristrutturazione, il sindacato giudiziale relativo alle condizioni di omologabilità si limita a verificare il rispetto dei requisiti di forma, tra cui il raggiungimento della percentuale dei creditori aderenti, e la conformità alle disposizioni di legge e, nel merito, a valutare la concreta attuabilità del piano; valutazione questa che, in mancanza di opposizioni da parte di creditori estranei o di terzi interessati, si deve limitare a quella già contenuta nella relazione del professionista attestatore, ove ritenuta dal Giudice adeguata e ragionevole. Resta quindi precluso al Tribunale – quanto meno, in assenza di opposizioni – lo svolgimento di un controllo che investa la convenienza economica dell’accordo per i creditori, in quanto gli aderenti, nell’ambito dell’autonomina privata che l’ordinamento gli riconosce, hanno già valutato tale soluzione come per loro preferibile; mentre per i creditori rimasti estranei l’accordo resta sostanzialmente una invariante, in quanto per essi è sufficiente che garantisca il loro integrale soddisfacimento nei termini di legge[4].
2. L'assenza di specifici requisiti formali: la discussa necessità dell'autentica notarile.
L'accordo di ristrutturazione dei debiti è dunque uno strumento molto flessibile e versatile, in grado di adattarsi e modellarsi alle concrete esigenze del debitore, ancor più dopo le recenti modifiche apportate alla legge fallimentare dall'art. 3 del D.L. 7 ottobre 2020, n. 125[5], convertito con modificazioni dalla L. 27 novembre 2020, n. 248, ove si è previsto che il Tribunale debba omologare l'accordo di ristrutturazione dei debiti anche in mancanza di adesione da parte dell'amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l'adesione è decisiva ai fini del raggiungimento della percentuale di legge e quando la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti è conveniente rispetto all'alternativa liquidatoria.
Dal punto di vista della struttura, il debitore può stipulare con i propri creditori – ivi compresi, come si è detto, l'amministrazione finanziaria e gli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie, ricorrendo alla proposta di trattamento dei crediti tributari e contributivi ex art. 182-ter L.F. – sia un unico accordo sottoscritto da tutte le parti, sia una pluralità di negozi tra loro collegati.
Quanto alla forma, sebbene per il perfezionamento dell'accordo si ritiene quantomeno necessaria la forma scritta – atteso che lo stesso deve essere depositato in Tribunale per l'omologazione e presso il Registro delle Imprese per la pubblicazione[6] – la legge non prevede una determinata e specifica forma ad substantiam per la sua validità: non è richiesta la forma dell’atto pubblico, né l’apposizione della data certa, dal momento che, da un lato, tali requisiti non sono necessari ai fini della pubblicazione nel Registro delle Imprese e, dall’altro lato, la stessa pubblicazione è idonea ad attribuire data certa all’accordo.
La questione più complessa che, tuttavia, ha interessato gli interpreti che si sono occupati del problema della forma degli accordi di ristrutturazione è indubbiamente quella della necessità, o meno, che la loro sottoscrizione avvenga tramite autenticata notarile.
Il problema può sembrare di poco conto, in quanto nella prassi gli accordi di ristrutturazione dei debiti vengono prevalentemente utilizzati quando la composizione e il numero dei creditori riflette un indebitamento di natura marcatamente finanziaria, essendo gli istituti di credito i principali destinatari delle proposte del debitore, talvolta unitamente – oltre che all'amministrazione finanziaria e agli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie – ad alcuni fornitori di particolare peso: dunque un numero comunque contenuto di creditori, molto spesso fortemente strutturati, già orientati verso formalizzazioni che transitano dall'autentica notatile; ma il problema viene in luce nel momento in cui il debitore dovesse allargare la platea dei soggetti coinvolti e dovesse, quindi, formalizzare l'accordo con un numero particolarmente elevato di fornitori, grandi e piccoli, nazionali ed internazionali, che non è sempre facile convogliare davanti ad un notaio per l'autentica delle sottoscrizioni, soprattutto quando il tempo a disposizione è limitato.
Secondo alcuni autori l'esigenza di garantire l'autenticità e la provenienza delle sottoscrizioni, al fine di assicurare l'effettivo raggiungimento delle maggioranze previste dalla legge per l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, giustificherebbe la necessità dell'intervento notarile[7].
Diversamente, ben si può ritenere che la natura privatistica dell’accordo – l’accordo di ristrutturazione resta un contratto consensuale che si perfeziona per effetto del consenso, con le modalità previste dall’art. 1326 c.c., sostanzialmente riconducibili alla conoscenza dell’accettazione da parte di chi ha fatto la proposta – e l’intento semplificatorio della procedura si pongano in netto conflitto con la richiesta di specifici requisiti formali, che appunto la legge non prevede[8].
Del resto, l’art. 182-bis L.F. non fa alcun riferimento alla necessità che la sottoscrizione degli aderenti all’accordo debba essere oggetto di autenticata notarile; né vi è alcun obbligo specifico in tal senso nella Legge Notarile, che determina esattamente gli atti che necessitano tale certificazione. Né, infine, sarebbe ragionevole richiamare le disposizioni dettate in materia di pubblicità nel Registro delle Imprese, atteso che l’autenticazione è richiesta con esclusivo riferimento al documento ove confluiscono i separati accordi, e non già con riferimento ad essi[9].
Tuttalpiù, la veridicità e autenticità della sottoscrizione dovrebbe risolversi in specifico motivo di contestazione in presenza di elementi concreti tali da far dubitare che l'accordo non autenticato, poi versato in atti notarili al fine di consentire la sua pubblicazione nel Registro delle Imprese, non sia genuino o sia diverso da quello effettivamente firmato, ovvero sia stato firmato da chi non ne aveva i poteri[10].
3. Le posizioni della giurisprudenza.
Non meno controversa è apparsa la questione agli occhi della giurisprudenza.
Poco dopo l'entrata in vigore dell'istituto si è pronunciato il Tribunale di Bari, il quale ha ritenuto necessaria l'autenticazione delle sottoscrizioni sulla base della "necessità insopprimibile di valorizzare la genuinità della manifestazione della volontà dei creditori al momento della successiva pubblicazione"[11]. Sulla stessa linea, si sono poi pronunciati il Tribunale di Udine, che ha espressamente imposto ai fini dell'omologazione "dichiarazioni autenticate notarili […] con la conseguenza che [in mancanza di tale adempimento, ndr] non può neanche ritenersi raggiunto il requisito del 60% minimo dei consensi necessari per la validità dell'accordo"[12] e il Tribunale di Roma, secondo cui "L'oggetto dell'indagine del collegio deve riguardare in primo luogo il profilo dell'ammissibilità del ricorso, e pertanto la verifica giudiziale dovrà riguardare […] f) le autenticazioni delle sottoscrizioni degli accordi. Ai sensi dell'art. 11 del d.p.r. 7 dicembre 1995, n. 582 (Regolamento di attuazione dell'art. 8 l. n. 580/93, in materia di istituzione del registro delle imprese previsto dall'art. 2188 del codice civile) nell'ambito del procedimento di iscrizione su domanda è previsto che l'atto da iscrivere debba essere depositato in originale, con scrittura autenticata ove trattasi di scrittura privata non depositata presso un notaio, e che negli altri casi l'atto vada depositato in copia autentica e che l'estratto debba essere depositato in forma autentica, secondo quanto previsto dall'art. 2718 c.c."[13].
Uno dei primi Tribunali che, soffermandosi con maggiore attenzione sul tema dell’autentica delle firme, ha tuttavia concluso in senso diametralmente opposto, è stato il Tribunale di Ancona, secondo cui: “Sebbene la sottoscrizione degli aderenti non sia stata autenticata in tutti i casi da un pubblico ufficiale fidefacente, (solo nell’accordo intercorso con gli Istituti di credito la sottoscrizione è stata autenticata da un notaio), così come ritenuto necessario in altre pronunce giurisprudenziali edite (si vedano, ad es., Trib. Udine, 22 giugno 2007 e Trib. Bari, 21 novembre 2005) non v’è motivo di dubitare della genuinità del consenso prestato dai sottoscrittori. In primo luogo la sottoscrizione dell’accordo risulta effettuata quanto agli altri creditori, dal legale rappresentante della società creditrice che ha aderito all’accordo, adesione risultante dall’invio della dichiarazione con comunicazione telematica attraverso posta certificata della società- PEC; in secondo luogo, nessuna opposizione è stata proposta nel termine previsto dalla legge, al fine di fare valere eventuali vizi del consenso. Non è inutile evidenziare che l’art. 182 bis l.f. non fa alcun riferimento alla necessità che la sottoscrizione degli aderenti all’accordo sia autenticata; peraltro, il Conservatore del Registro delle imprese non ha sollevato alcuna obiezione al riguardo”[14].
La giurisprudenza più recente sembra oggi orientata nel senso di non ritenere necessaria l'autentica delle firme per l'omologazione degli accordi di ristrutturazione. Ciò in quanto, in assenza di riferimenti normativi specifici, nessun problema si può porre sulla veridicità degli assensi alla ristrutturazione e/o sulla provenienza degli obblighi oggetto di un accordo non autenticato e formalizzato per scambio di corrispondenza, modalità cui la legge attribuisce pieno valore e riconoscimento.
Ci si riferisce, in particolare, a:
- Tribunale di Rimini, 27 giugno 2019, secondo cui: “Rilevato che la dichiarazione degli aderenti all’accordo è stata inviata a mezzo posta elettronica certificata dall’indirizzo pec delle due società aderenti, risultante dalle visure camerali, alla pec della società debitrice, dell’advisor e dell’attestatore e risulta regolare […]. Risulta che presso il registro delle Imprese è stata depositata l’unica proposta di accordo rivolta a tutti i creditori sociali, cosicché ciascuno è a conoscenza della condizione di insieme; […] rilevato che nel termine di legge non sono state proposte opposizioni – come attestato dalla Cancelleria […]”;
- Tribunale di Bergamo, 13 febbraio 2019, secondo cui: “Ritenuta sufficiente la produzione degli accordi sottoscritti in originale in quanto, se da un lato non si palesa affatto indispensabile l’autentica delle sottoscrizioni delle singole adesioni, dovendosi valorizzare in principalità la natura stragiudiziale e privatistica dell’accordo, dall’altro lato giova sottolineare che la forma dell’atto pubblico e della scrittura privata autenticata si mostra obbligatoria solo per gli atti per i quali tale modalità sia legalmente prevista ad substantiam, atti nel cui novero non figurano gli accordi di ristrutturazione”;
- Tribunale di Benevento, 30 gennaio 2019, secondo cui: “Il consenso dei creditori all’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.f. può essere manifestato attraverso scambio di PEC, perché l’autenticità e la sicura provenienza risultano assicurate tramite il ricorso alla posta elettronica certificata (art. 15, l. 59/1997; art. 27, l. 3/2003; D.P.R. 68/2005)"[15].
Di segno contrario il Tribunale di Milano che, ritenendo di aderire al precedente e più restrittivo orientamento, ha affermato che "il controllo del Tribunale in sede di omologa dell'A.D.R. invest[e], in primo luogo, una serie di presupposti formali di ammissibilità, quali: […] la correttezza dell'iter procedimentale, ed in particolare la presenza di adesioni dei creditori pari al 60% dei crediti nella forma della sottoscrizione autenticata"[16].
Ciò nonostante, l'orientamento prevalente e meno restrittivo è stato da ultimo confermato anche dalla Corte d'Appello di Milano che, dal punto di vista della forma, ha ritenuto perfettamente valido e omologabile un accordo di ristrutturazione in cui, oltre all'accordo concluso avanti al notaio con i principali creditori finanziari – rappresentanti, nel caso di specie, circa il 25% dei crediti –, tutti gli altri accordi sono stati perfezionati nella forma della scrittura privata non autenticata, tramite scambio a mezzo PEC di proposta ed accettazione, per poi essere depositati in atti notarili e, quindi, pubblicati nel Registro delle Imprese senza alcuna obiezione da parte del Conservatore. Più in particolare, osservato che l'imposizione di specifici requisiti formali, peraltro neppure richiesti dalla legge, contrasterebbe con "la natura del procedimento delineato dalla Legge fallimentare per la richiesta di omologa dell’accordo di ristrutturazione del debito", la Corte ha escluso la sussistenza di elementi concreti per ritenere che l’originario accordo firmato dai creditori non fosse genuino, tanto più che nessuna opposizione era stata presentata ex art. 182-bis, comma 4, L.F.. Tuttalpiù, usando le stesse parole della Corte, "il requisito della forma notarile, pur non essendo previsto dalla legge, può avere una sua ragionevolezza nella misura in cui ha una funzione di garanzia della genuinità del consenso prestato dai creditori ovvero, trattandosi di società, dai soggetti titolari del potere di firma", genuinità su cui, nel caso concreto, non pareva a giudizio della Corte ravvisarsi alcun dubbio[17] .
4. Conclusioni.
Ad avviso degli scriventi appare convincente l'orientamento meno rigido – conforme, peraltro, alle più recenti pronunce di merito – secondo cui la mancanza dell’autentica notarile non può inficiare di per sé la piena validità e genuinità degli accordi di ristrutturazione, non solo per l'assenza di una disposizione di legge che richiede la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata da un pubblico ufficiale, ma anche e soprattutto per la presenza di specifiche norme di legge che attribuiscono pieno valore, certezza ed efficacia probatoria a forme contrattuali più "snelle", ma non per questo meno legittime, peraltro perfettamente in linea proprio con quella snellezza che contraddistingue la procedura di omologa dell'accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis L.F., che si ponein netto conflitto con la richiesta di specifici requisiti formali che, appunto, la legge non prevede. E ciò, quanto meno, tutte le volte in cui tali accordi, pur venendo regolarmente pubblicati nel Registro delle Imprese, non vengono in alcun modo disconosciuti dalle parti che li hanno sottoscritti, né tramite l'opposizione che la legge espressamente prevede, né in altro modo.
Ove così non fosse, dovremmo allora mettere in discussione tutti quei contratti, scritture private e transazioni che vengono quotidianamente perfezionati senza alcuna autentica notarile, tutte le volte in cui gli stessi finiscono in un'aula di Tribunale per questioni, ad esempio, legate al loro adempimento, ed anche in mancanza di disconoscimento o contestazioni sollevate da una parte, in quanto mancherebbe l’attività di verifica sull’autenticità delle sottoscrizioni e sui poteri in capo al soggetto sottoscrittore che ha impegnato la società. O, rimanendo in tema di procedure concorsuali, dovremmo dubitare della genuinità dei voti espressi – tramite, appunto, sottoscrizioni non autenticate – nell’ambito delle procedure di concordato preventivo ai fini del raggiungimento delle maggioranze per l’approvazione della proposta, voto che comporta la remissione parziale delle pretese dei creditori analogamente a quanto avviene con l’adesione ad un accordo di ristrutturazione dei debiti.
Conseguentemente, per il perfezionamento dell'accordo di ristrutturazione, dal punto di vista formale, dovrebbe essere ritenuta pienamente valida non solo la "tradizionale" sottoscrizione con autentica notarile, ma anche la forma della scrittura privata, magari perfezionatasi tramite scambio di corrispondenza a mezzo PEC poi depositata in atti notarili – in modo da conferire certezza circa la definitività del contenuto del documento – e trasmessa, unitamente alla relazione di attestazione, al Registro delle Imprese per la pubblicazione, sola ed unica formalità richiesta dalla legge, avendo le parti cura di allegare a ciascun accordo, al più, copia del documento di identità del sottoscrittore e, in caso di società o ente, la relativa visura camerale dalla quale evincere i poteri rappresentativi in capo ai soggetti firmatari e l'indirizzo PEC di ciascun contraente, al fine di fornire al Tribunale omologante gli strumenti per poter compiere, ove necessario, ogni opportuna verifica in punto di genuinità del consenso.
Del resto, il legislatore attribuisce pieno valore e riconoscimento alle PEC, che costituisce valido strumento identificativo dei contraenti[18].
La mancanza dell’autentica notarile non può dunque inficiare la piena validità e genuinità dell’accordo di ristrutturazione concluso mediante scambio di proposta ed accettazione a mezzo PEC, non solo perché tale autentica non è richiesta dalla legge, ma anche per un ulteriore duplice ordine di considerazioni: (i) la certezza della “sede digitale”della società creditrice, che è ricorsa all’uso della PEC proprio al fine della certezza del ricevimento della propria dichiarazione di assenso all’accordo, manifestazione che richiama espressamente ed inequivocabilmente la volontà del creditore di aderirvi; (ii) il principio di “immedesimazione organica”, in forza del quale l’atto compiuto in nome e per conto della società, diretto ai rapporti con i terzi, estende i suoi effetti all’interno della società e direttamente alla stessa.
In conclusione, la mancata imposizione di particolari requisiti formali ben si concilia con l'obiettivo del legislatore di favorire e agevolare soluzioni concordate della crisi di impresa e mostra una particolare utilità in tutti quei casi in cui l’elevato numero di soggetti coinvolti e la loro differente collocazione geografica renderebbe assai difficoltosa (oltre che estremamente onerosa) una tempestiva apposizione di tutte le sottoscrizioni avanti ad un notaio, soprattutto nel contesto storico che abbiamo vissuto e stiamo in parte ancora oggi vivendo, pesantemente influenzato dalla pandemia da Covid-19 e dalle restrizioni ad essa connesse.
Peraltro, probabilmente non a caso la parola "stipulato" di cui all'art. 182-bis, comma 1, L.F. è stata sostituita con "conclusi" dall'art. 57 del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza.
[1] Di "nuove norme, sicuramente (e finalmente) debtor oriented" parla M. Arato, La scelta dell'istituto più adeguato per superare la crisi d'impresa, in Ristrutturazioni Aziendali, 8 ottobre 2021, nuove norme volte ad attribuire sempre più ai giudici il solo compito di dirimere le controversie, senza che siano più chiamati a valutare a priori la convenienza o meno di una determinata proposta; tutto ciò anche nel solco della direttiva comunitaria 2019/1023.
[2] La Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato la natura di procedura concorsuale degli accordi di ristrutturazione dei debiti (così Cass. 8 maggio 2019, n. 12064; Cass. 21 giugno 2018, n. 16347; Cass. 24 maggio 2018, n. 12965; Cass. 12 aprile 2018, n. 9087; tutte reperibili in www.ilcaso.it). Nello stesso senso, anche alla luce dell’evoluzione della relativa disciplina registratasi negli ultimi anni, e del regolamento 848 del 2015 UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 maggio 2015, Trib. Milano, 4 dicembre 2019, in www.ilcaso.it; in dottrina, C. Trentini, “Saturno contro”: sugli accordi di ristrutturazione dei debiti si rinfocola il contrasto tra legittimità e merito (e non solo), in Il Fall., 2019, 1327; M. Arato, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti tra la giurisprudenza della Cassazione e il Codice della Crisi e dell'Insolvenza, in Crisi d'Impresa e Insolvenza, 9 ottobre 2018.
[3] Così, testualmente, App. Milano, 14 gennaio 2022, in ww.ilcaso.it.
[4] Sul sindacato del Tribunale, ancora, App. Milano, 14 gennaio 2022.
[5] Recante "Misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19 e per la continuità operativa del sistema di allerta COVID, nonché per l'attuazione della direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020".
[6] In argomento si vedano G. B. Nardecchia, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, nota a Trib. Brescia, 22 febbraio 2006, in Il Fall., 6/2006, 674; B. Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis legge fallim.: natura, profili funzionali e limiti dell’opposizione degli estranei e dei terzi, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 1/2012, 50; M. Ferro, La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, III ed., 2014, 2514.
[7] In tal senso, L. Boggio, Gli accordi di ristrutturazione: il primo tagliando a tre anni del “decreto competitività, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, nota 28; G. Presti, L’art. 182 bis al primo vaglio giurisprudenziale, in nota a Trib. Bari, 21 novembre 2005, in Il Fall., 2006, 174; G. B. Nardecchia, op.cit., 674, nonché, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ed il procedimento per la dichiarazione di fallimento, in nota a Trib. Udine, 22 giugno 2007, in Il Fall., 2008, 707, il quale sostiene che l'autenticazione non sia necessaria solo nel caso in cui il debitore si sia avvalso della transazione fiscale ex art. 182-ter L.F. e, dunque, almeno per l'Erario, restando invece attuale il problema per gli altri diversi creditori. Alcuni elementi di maggior riflessione si trovano, invece, in M. Ferro, II nuovi strumenti di regolazione negoziale dell’insolvenza e la tutela giudiziale delle intese tra debitore e creditori: storia italiana della timidezza competitiva, in Il Fall., 2005, 595, secondo cui: "L'interrogativo sull'eventuale soggetto esterno che attesti effettivamente i «consensi» espressi da tanti creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti rinvia alla serietà antielusiva normalmente assolta dai consueti requisiti di forma e qui superficialmente ignorati. L'attestazione del professionista sembra infatti orientata a certificare l'attuabilità dell'accordo e la sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei; mentre non appare indirizzata ad una verifica preventiva, seppur sommaria, del passivo. A meno di non voler recuperare tale fidefacienza, a ritroso, tra i documenti dell'art. 161 quali la dichiarazione di veridicità del professionista sui dati aziendali: il rinvio è però acrobatico, non trattandosi appunto di dati aziendali. Così anche la traccia lessicale dell'accordo stipulato appare troppo labile per riferirsi alle competenze di un pubblico ufficiale come il notaio. A sua volta la chiara indicazione di un'intesa anteriore al suo deposito contrasta con qualunque coinvolgimento del cancelliere (presso cui si deposita) o del conservatore del registro delle imprese (presso cui si pubblica)".
[8] In tal senso C. Proto, in Il Fall., 2006, 132, secondo cui: "La norma (in considerazione della natura prevalentemente privatistica dell’accordo e nell’intento di semplificare al massimo la procedura) non richiede l’autenticazione delle sottoscrizioni, così che sarà onere di ogni eventuale controinteressato effettuare i necessari controlli ed eventualmente contestare la veridicità dell’adesione di un singolo creditore". Nello stesso senso, M. Fabiani, Accordi di ristrutturazione dei debiti: l'incerta via italiana alla "reorganization, in Il Foro It., 2016, 265, secondo cui: "La forma scritta della norma pare una garanzia ineludibile, mentre dalle trame della norma non si ricava la necessità della formalità dell’autenticazione della sottoscrizione, posto che questo corollario può essere preteso solo in relazione al contenuto dell’accordo e quindi alla disponibilità del diritto sostanziale oggetto del negozio”; e ancora I. L. Nocera, Analisi civilistica degli accordi di ristrutturazione dei debiti, 2018, 238, secondo cui: "Sussistono però vari argomenti a favore della non necessità dell'autenticazione delle sottoscrizioni degli aderenti. Oltre al rispetto del generale principio di libertà delle forme degli atti di autonomia privata, si riscontra la mancanza di un appiglio normativo […]. In concreto, inoltre, l'autenticazione di ogni sottoscrizione dell'accordo potrebbe rappresentare un'arma a doppio taglio nella realtà concreta della negoziazione precedente l'accordo di ristrutturazione" in quanto "potrebbe costituire un notevole intralcio all'omologazione dell'accordo, posto che l'autenticazione si rivela notevolmente onerosa, specialmente in ipotesi di un numero elevato di creditori e nel caso in cui essi si trovino in località lontane tra loro"; G. La Croce, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Giur. It., 2010, 2465 e ss., secondo cui: "Seppure la norma nulla disponga in merito, l’obbligo di deposito e di pubblicazione – che ne implica una loro materialità – esclude che gli accordi possano essere conclusi verbalmente. La forma sarà, quindi, quella della scrittura privata, la cui formazione potrà avvenire anche per corrispondenza. Pare, invece, da escludersi, nonostante autorevole dottrina e giurisprudenza di segno avverso, che debba trattarsi di una scrittura privata autenticata. Innanzitutto va osservato che l’art. 1325 c.c. dispone che la forma – nel caso specifico sarebbe quella relativa alla sottoscrizione autentica – costituisce requisito essenziale del contratto solo quando «risulta (che essa) è prescritta dalla legge sotto pena di nullità», sanzione che non è dato rinvenire né nel dettato specifico dell’art. 182 bis né aliunde (artt. 1350 e 2703 c.c.).[…] Errato è anche il richiamo dei sostenitori di tale tesi al fatto che sarebbe la pubblicazione degli accordi nel registro delle imprese a imporre l’autenticazione delle firme, in forza delle norme che regolano il deposito degli atti in tale registro. Questa deduzione pare per la verità confondere la sottoscrizione delle domande e denunce nel registro delle imprese […] con la sottoscrizione degli atti che vengono depositati; la quale potrà essere autentica o non autentica, conformemente al precetto dell’art. 1325 c.c., a seconda delle norme che regolano quello specifico atto".
[9] Così M. Fabiani, Diritto fallimentare. Un profilo organico, Bologna, 2011, 692.
[10] Così C. Proto, op. cit., 132; G. Lo Cascio, Il Concordato preventivo, 2011, 900; nello stesso senso, G. La Croce, op. cit., 2466. il quale aggiunge che "Pur volendo tralasciare – elemento non secondario – il fatto che appare assai improbabile che un imprenditore disinvolto si induca a falsificare tutte o solo alcune delle firme dei propri creditori dato che correrebbe, così, il rischio dell’opposizione di quei creditori falsificati e quello del conseguente inevitabile fallimento con bancarotta, non sembra che al Tribunale sia demandata – in assenza di opposizioni che vertano su questo argomento – una valutazione della genuinità del consenso dei creditori aderenti".
[11] Trib. Bari, 21 novembre 2005, in www.ilcaso.it.
[12] Trib. Udine, 22 giugno 2007, in www.unijuris.it.
[13] Trib. Roma, 20 maggio 2010, in www.ilcaso.it.
[14] Trib. Ancona, 20 marzo 2014, in www.unijuris.it.
[15] I suddetti provvedimenti sono tutti reperibili e consultabili in www.ilcaso.it.
[16] Trib. Milano, 3 giugno 2021, in www.transazione-fiscale.it.
[17] Cfr. App. Milano, 14 gennaio 2020, già precedentemente citata. Nel caso di specie, la società debitrice aveva concluso l'accordo di ristrutturazione dei debiti con i due principali creditori finanziari tramite scrittura privata autenticata da notaio, mentre gli accordi conclusi con i numerosi fornitori coinvolti, oltre 165, sono stati perfezionati – anche in considerazione del brevissimo tempo (poco più di 10 giorni effettivi) che era stato concesso dal Tribunale di Monza nell'ambito della procedura di (pre)concordato preventivo poi rinunciata dalla società e tenuto conto delle pesanti restrizioni vigenti in quel momento per contenere la diffusione della pandemia da Covid-19 (pressoché tutte le Regioni erano nella c.d. "zona rossa") – mediante scambio di proposta ed accettazione a mezzo PEC, per poi essere depositati in atti notarili e pubblicati nel Registro delle Imprese, unitamente alla relazione del professionista attestatore. I (pre) Commissari Giudiziali della procedura concordataria rinunciata, ma non ancora estinta, avevano tuttavia rilevato, inter alia, che a loro avviso il semplice deposito in atti notarili degli accordi con i fornitori, a differenza della sottoscrizione dell’accordo avanti al notaio, non avrebbe garantito la veridicità degli assensi alla ristrutturazione al fine di assicurare l’effettivo raggiungimento delle maggioranze previste dall’art. 182-bis L.F., mancando l’attività di verifica sull’autenticità delle sottoscrizioni e sui poteri di firma. Per tale ragione la società debitrice aveva depositato le dichiarazioni nel frattempo pervenute a mezzo PEC da quasi tutti i fornitori aderenti, con i quali gli stessi – in alcuni casi anche sotto forma di atto ricognitivo con autentica notarile –, allegando visura camerale e fotocopia del documento di identità del sottoscrittore, avevano: (i) dichiarato e confermato di aver personalmente sottoscritto per accettazione, in persona del legale rappresentate minuto degli occorrenti poteri, la proposta di accordo ricevuta dalla società a mezzo PEC e (ii) riconosciuto e attestato la conformità delle copie scansionate delle suddette accettazioni agli originali dai medesimi sottoscritti e pubblicati nel Registro delle Imprese. Il Tribunale di Monza, tuttavia, pur senza nulla contestare in punto di veridicità dei dati aziendali ed attuabilità dell'accordo e sebbene nessun creditore avesse fatto opposizione, aveva dichiarato l’inammissibilità della domanda di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ritenendo che la forma prescelta per la conclusione degli stessi “non sia assolutamente adeguata, dovendo essa avvenire mediante atto ricevuto da Notaio” e ciò “Tanto non per vincolo di forma che sia richiesta da norma alcuna”, ma in quanto non sarebbe sufficiente ad assolvere alle esigenze di “certezza in merito alla conclusione stessa degli accordi con i creditori”, e, con separata sentenza, a fronte dell'istanza di fallimento nel frattempo presentata dal pubblico ministero, aveva dichiarato il fallimento della società. La Corte d'Appello di Milano, nell'ambito del giudizio di reclamo proposto dalla società debitrice ex artt. 18 e 182-bis, comma 5, L.F., non condividendo le conclusioni del Tribunale, ha revocato il fallimento escludendo nel caso di specie la sussistenza di elementi concreti per ritenere che l’originario accordo firmato dai creditori e perfezionato a mezzo scambio di proposta e accettazione via PEC, poi versato in atti notarili e pubblicato nel Registro delle Imprese, non fosse genuino o fosse diverso da quello poi richiamato e confermato dagli stessi creditori, tanto più che nessuna opposizione era stata presentata ex art. 182-bis, comma 4, L.F..
[18] Ai sensi dell'art. 9, D.P.R. 68/2005 “Le ricevute rilasciate dai gestori di posta elettronica certificata sono sottoscritte dai medesimi mediante una firma elettronica avanzata ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera dd), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, generata automaticamente dal sistema di posta elettronica e basata su chiavi asimmetriche a coppia, una pubblica e una privata, che consente di rendere manifesta la provenienza, assicurare l'integrità e l'autenticità delle ricevute stesse secondo le modalità previste dalle regole tecniche di cui all'articolo 1”. Inoltre, “La busta di trasporto è sottoscritta con una firma elettronica di cui al comma 1 che garantisce la provenienza, l'integrità e l'autenticità del messaggio di posta elettronica certificata secondo le modalità previste dalle regole tecniche di cui all'articolo 17”.
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