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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 03/10/2022 Scarica PDF
Gran Bretagna: riduzione delle tasse. Esempio da seguire?
Dino Crivellari, Avvocato in RomaIl nuovo governo britannico ha appena annunciato una serie di provvedimenti orientati a far ripartire l’economia inglese ormai dichiaratamente in recessione. Provvedimenti del tutto in controtendenza con quelli del governo precedente che erano improntati ad una più severa gestione del debito pubblico.
Pur appartenendo allo stesso partito del precedente premier, la signora Liz Truss ha compiuto una virata di 180°. Borsa e mercati non hanno apprezzato: in particolare la sterlina è scivolata a quota 1090 contro dollaro USA (era a 1352 alla fine dello scorso anno), mai così svalutata negli ultimi 37 anni.
In estrema sintesi i provvedimenti annunciati, che si spera possano riportare l’andamento del Pil inglese a +2,5%, sono i seguenti:
- abolizione della aliquota massima del 45% sui redditi oltre le 150.000 £ che verranno tassati al 40%;
- l’aliquota minima passa dal 20 al 19%;
- non sarà effettuato il previsto amento dal 19% al 25% della aliquota fiscale sui redditi societari con la conseguenza di 12 miliardi in meno di gettito fiscale preventivato;
- verrà abolito il tetto dei Bonus dei banchieri rapportato al doppio della retribuzione fissa, introdotto in sede europea nel 2010 per contrastare il moral azard nei mercati finanziari cui si attribuiva, giustamente, la crisi del 2008. Provvedimento sfacciatamente in concorrenza con l’Europa nel tentativo di attirare i migliori banchieri in Gran Bretagna;
- sgravi fiscali sull’acquisto delle prime case;
- riduzione del cuneo fiscale sul costo del lavoro;
- esenzione dall’iva per gli acquisti da parte di non residenti;
- si esclude la tassazione degli extra profitti delle imprese produttrici di energia.
Su alcuni provvedimenti non c’è molto da dire perché ricalcano normative che per esempio in Italia sono già attuate (sgravi fiscali sulle prime case, esenzione dell’Iva per gli acquisti dei non residenti) o oggetto di promesse elettorali (riduzione del cuneo fiscale).
Ma la parte più significativa di questi provvedimenti si basa sulla teoria, alquanto propagandata anche in Italia, che un minor carico fiscale favorisca la propensione marginale al consumo (Pmc) e quindi induca la popolazione ad incrementare gli acquisti di beni favorendo l’aumento del Pil.
La evidente contropartita di una significativa riduzione del gettito fiscale non può che essere una contrazione della spesa sociale o un aumento del debito pubblico, in entrambi i casi per ben più dei denunciati 45 miliardi di sterline (50 miliardi di euro) cui si andranno ad aggiungere i fondi che verranno riservati per contenere entro le 2500 £ all’anno, per due anni, il costo delle bollette energetiche delle famiglie. La speranza, si deve credere, è che l’aumento del Pil faccia rientrare domani dalla finestra il minor gettito frutto dei provvedimenti di oggi.
Sotto il profilo sistematico della teoria economica si tratta di provvedimenti alcuni tipicamente liberisti (la riduzione della pressione fiscale) ed altri di segno del tutto opposto (riduzione del cuneo fiscale, interventi a ristoro delle bollette energetiche, eccetera).
La sensazione, in prima approssimazione, è che si tratti di una operazione ardita che da qui a non molto potrebbe rendere necessaria una significativa correzione specie con inflazione e tassi primari in crescita.
Il punto maggiormente critico è che puntare ad aumentare il Pil diminuendo il carico fiscale è contemporaneamente vero e falso. Vero se la riduzione fiscale riguarda la popolazione più povera, falso se il provvedimento riguarda la quota di popolazione più ricca.
Non si tratta di una considerazione nuova. Già J.M.Keynes nel suo celeberrimo “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta“ del 1936 sosteneva che la Pmc, che si vuol far crescere diminuendo le tasse per aumentare il Pil, varia considerevolmente tra classi socioeconomiche differenti.
Keynes pensava che la propensione a spendere una disponibilità monetaria addizionale (quella che in Gran Bretagna deriverà della riduzione dell’aliquota massima - dal 45 al 40% - e di quella minima - dal 20 al 19%) sia maggiore per le classi più povere e minore per le classi più ricche.
A ben vedere questo appare abbastanza ovvio: i percettori di redditi molto elevati hanno un tasso di risparmio (e quindi di mancato consumo) ben più alto di quello dei percettori di redditi più bassi che nelle fasce marginali hanno un tasso di risparmio pari a zero. Ne consegue che aspettarsi un incremento dei consumi da parte dei percettori di redditi elevati che beneficeranno di risparmi fiscali crescenti in funzione diretta del loro livello di reddito è, almeno parzialmente, illusorio.
La gran parte del maggior reddito trattenuto a seguito della minore imposizione, si trasformerà in risparmio che, con ogni probabilità, se non resterà sterile sui conti bancari come accade in Italia, verrà investito in strumenti finanziari. Probabilmente il governo inglese si aspetta che almeno una buona parte di questo minor gettito fiscale venga utilizzato dai più ricchi per sottoscrivere il debito pubblico in crescita a seguito di questi provvedimenti. Se così fosse sarebbe evidentemente un autogol perché si sostituiranno entrate fiscali con debiti onerosi.
I dati forniti da Kwasl Kwarteng, attuale Cancelliere dello Scacchiere, rappresentano questa situazione: i tagli delle tasse ammonteranno a 45 miliardi di sterline. Di questi, solo 5 miliardi deriveranno dalla riduzione dell’aliquota minima dal 20% al 19% che dovrebbe riguardare 30 milioni di contribuenti inglesi i quali avranno un maggior reddito disponibile di 166 £ a testa, praticamente un bonus che sicuramente verrà speso in consumi.
Non ci è dato sapere come si distribuirà per classi di reddito la maggior quota di 40 miliardi che in gran parte andrà a beneficio dei percettori di redditi superiori a 150.000 £. È molto probabile che le classi con reddito fino a 300.000 £ avranno ancora una Pmc sufficientemente elevata da incidere favorevolmente sul Pil grazie ai maggiori consumi, mentre le classi con redditi superiori, spesso anche anagraficamente più anziane e quindi poco propense ad aumentare i propri consumi se non altro perché già dotate di beni sufficienti a garantire un tenore di vita confortevole, trasformeranno il minor onere fiscale in risparmio finanziario non essendo di norma interessate neanche ad ampliare il loro patrimonio immobiliare già cospicuo. Insomma: più cresce il reddito su cui si va ad applicare una aliquota minore, minore sarà la quota destinata al consumo. Da un certo livello in poi sarà pari a zero, quindi nessun beneficio per il Pil.
Tra gli altri, di questo argomento ci eravamo già occupati con Roberto Tieghi in una intervista di Sergio Luciano dal titolo “Flat tax socialista…” (apparsa nel 2019 su Il Sussidiario.net), dove sostenevamo che la strada per indurre i cittadini a maggiori consumi a sostegno dell’andamento economico generale non è quella di ridurre le aliquote massime, ma quella di far scorrere verso l’alto gli scaglioni di imposizione fiscale con lo scopo di aumentare la Pmc delle classi di reddito appartenenti al cosiddetto ceto medio, il più tartassato nel nostro sistema impositivo, con una platea di consumatori numericamente ben maggiore di quella delle classi di reddito superiore. Il beneficio per il Pil potrebbe essere significativo con una riduzione del gettito meno ingombrante.
La risposta negativa di borsa e mercati valutari ai provvedimenti annunciati dal governo britannico sembra mettere in evidenza una contraddizione tra manovre antirecessive, governo del debito pubblico e costruzione del consenso.
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