CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 30/09/2023 Scarica PDF
La decisione degli amministratori sull'accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza delle società (art. 120-bis CCII)
Consiglio Nazionale del Notariato, Istituzione nata in Italia ed oggi presente in 91 Paesi del mondodi Fabrizio Guerrera e Marco Maltoni
(Approvato dalla Commissione Studi d’Impresa il 14 giugno 2023)
Abstract
Lo studio affronta i diversi profili di disciplina della decisione degli amministratori di accedere ad uno strumento di regolazione della crisi d’impresa di cui all’art.120 bis CCII, che deve risultare da verbale notarile.
A tal fine mette in evidenza quali sono gli strumenti di regolazione della crisi per accedere ai quali è necessaria una decisione degli amministratori risultante da verbale notarile, le differenze di contenuto determinate dalla peculiarità dello strumento a cui si intende accedere.
La parte conclusiva è dedicata alle regole di formazione della decisione nelle società di persone, nelle società a responsabilità limitata e nelle società in liquidazione.
Sommario: 1. Premessa e inquadramento normativo. – 2. L’ambito applicativo della disciplina societaria degli strumenti di regolazione della crisi. – 3. Il contenuto della decisione degli amministratori e la complessità della scelta di risanamento. – 4. La scissione fra decisione di accesso alla procedura di crisi e definizione dello strumento di regolazione. – 5. Segue: la forma della decisione sulle condizioni di ristrutturazione della società. – 6. Controllo notarile e regime pubblicitario della decisione ex art. 120-bis CCII. – 7. Segue: natura e regime d’invalidità della decisione – 8. La decisione di accesso allo strumento di regolazione della crisi nelle società di persone. – 9. Amministrazione disgiuntiva e congiuntiva nelle s.r.l. – 10. L’accesso delle società in stato di liquidazione agli strumenti di regolazione della crisi.
1. Premessa e inquadramento normativo.
Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), pur essendo imperniato soggettivamente sulla figura del debitore e dell’imprenditore commerciale, dedica alle società una disciplina specifica ben più ampia di quella della Legge fallimentare, che deroga sotto diversi importanti aspetti al diritto comune e contribuisce a delineare un nuovo “diritto societario della crisi” e, in particolare, un nuovo regime della ristrutturazione delle società.
Fra i molti profili problematici venuti all’attenzione della dottrina in materia dopo la riforma, che vertono soprattutto sulle competenze degli amministratori, sulla posizione dei soci e sui poteri dell’autorità giudiziaria[1], v’è quello dell’accesso alle procedure di crisi e, più in generale, agli strumenti di regolazione della crisi. Nel novero di questi vanno inclusi anche gli strumenti “non procedimentalizzati” e non soggetti a controllo omologatorio del giudice[2], che rientrano nei c.d. quadri di ristrutturazione preventiva oggetto della direttiva UE 2019/1023, cui è stata data attuazione con l’ultima novella al CCII, prima della sua entrata in vigore (d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83).
La disposizione dell’art. 120-bis, comma 1, CCII è rubricata semplicemente “Accesso” ed è inserita in apertura della Sezione VI-bis intitolata “Degli strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza delle società”. Essa prevede che “L'accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza è deciso, in via esclusiva, dagli amministratori unitamente al contenuto della proposta e alle condizioni del piano. La decisione deve risultare da verbale redatto da notaio ed è depositata e iscritta nel registro delle imprese. La domanda di accesso è sottoscritta da coloro che hanno la rappresentanza della società”.
Si noti che la Sezione VI-bis e l’art. 120-bis, comma 1, CCII sono posti all’interno del Capo III (“Concordato preventivo”), che a sua volta fa parte del Titolo IV (“Strumenti di regolazione della crisi”), in cui è collocata la disciplina sostanziale dei predetti “strumenti di regolazione” (ovverosia dei “quadri di ristrutturazione preventiva”, secondo la terminologia adottata dalla Direttiva UE 2019/1023, c.d. Insolvency).
Questa disciplina deve essere letta in collegamento sistematico con quella procedimentale delle soluzioni negoziali della crisi d’impresa e della fase di apertura della liquidazione giudiziale[3]. La “decisione” di accesso degli amministratori prelude, infatti, alla presentazione di una “domanda”, nelle forme processuali del ricorso, in tutti i casi in cui lo strumento di regolazione è soggetto a omologazione o comunque richiede una decisione del giudice, anche in relazione a provvedimenti strumentali alla gestione della crisi[4]. Si noti peraltro che l’art. 40, comma 2, CCII, nel disciplinare l’approvazione e la sottoscrizione della domanda, richiama espressamente l’art. 120-bis CCII.
Questa disciplina è collocata nel Capo IV del Titolo III del CCII (“Strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”), il quale reca una serie di disposizioni che regolano appunto, sotto il profilo procedimentale, “l’accesso aglistrumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza e alla liquidazione giudiziale”: vengono in considerazione, in particolare, gli artt. 39, 40, 44 sulla presentazione della “domanda di accesso” e gli artt. 54 e 55 sulle “misure protettive”.
2. L’ambito applicativo della disciplina societaria degli strumenti di regolazione della crisi.
La lettura delle disposizioni degli artt. da 120-bis a 120-quinquies CCII, sugli strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza delle società, mostra che il legislatore ha inteso disciplinare anzitutto il concordato preventivo, che costituisce l’archetipo delle soluzioni negoziali della crisi. Difatti, l’art. 120-quater, sull’omologazione, riguarda solo il concordato preventivo e le condizioni della ristrutturazione; l’art. 120-ter, sulla formazione delle classi di soci e di portatori di strumenti finanziari[5] si applica al concordato preventivo e al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione ex art. 64-bis CCII, che è suscettibile a sua volta di convertirsi in una proposta di concordato preventivo.
Rispetto a questi ultimi, l’art. 120-quinquies CCII (“Esecuzione”) ha un contenuto normativo più ampio, perché riguarda l’esecuzione di tutti gli strumenti di regolazione della crisi delle società soggetti a omologa giudiziale, anche se differenti dal concordato preventivo e dal piano di ristrutturazione omologato, quindi anche gli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui agli artt. 57 e segg. e gli accordi di ristrutturazione “a efficacia estesa” di cui all’art. 61 CCII, che rappresentano uno strumento ibrido, a cavallo fra accordi e concordato.
Orbene, a raffronto con le altre disposizioni della predetta Sezione VI-bis, l’art. 120-bis CCII sulla “decisione” dell’organo amministrativo, presenta la più ampia sfera applicativa, perché riguarda l’accesso a tutti gli strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza delle società, cioè anche quelli non soggetti a omologazione (id est, gli accordi stipulati in esecuzione del piano di risanamento attestato ex art. 56 CCII) ovvero soggetti a controllo giudiziale soltanto eventuale, cioè in caso di opposizione (id est, la convenzione di moratoria ex art. 62 CCII).
L’art. 120-bis CCII ha quindi una valenza sistematica che oltrepassa la collocazione nel Capo III del Titolo IV, dedicato al concordato preventivo. Ma soltanto nel caso degli strumenti di regolazione della crisi soggetti a omologazione giudiziale si pone il problema di precisare, nell’applicazione dell’art. 120-quinquies CCII, la fonte degli effetti modificativi degli statuti connessi alla riorganizzazione societaria programmata.
Peraltro, va precisato che anche l’accesso alla “composizione negoziata della crisi” (artt. 12 - 25-undecies CCII), che pure non rientra fra i “quadri di ristrutturazione preventiva” e non rappresenta uno “strumento di regolazione della crisi” – donde l’inapplicabilità diretta dell’art. 120-bis CCII –, dovrebbe ritenersi comunque devoluto alla competenza e responsabilità degli amministratori, nell’ambito dei loro doveri di prevenzione della crisi (cfr. art. 3 CCII, art. 2086 c.c., come modificato dall’art. 375 CCII, e artt. 2257, 2380-bis, 2409-novies e 2475 c.c., come modificati dall’art. 377 CCII); anche perché può sfociare in un “concordato semplificato” (art. 25-sexies e segg. CCII) o esigere l’applicazione di “misure protettive del patrimonio” (art. 18 CCII) da parte del tribunale competente.
Nel nuovo quadro sistematico, la disposizione dell’art. 120-bis CCII ricomprende inoltre l’accesso alle procedure d’insolvenza (cfr. art. 7 CCII), cioè la proposizione della domanda di apertura della “liquidazione giudiziale” ai sensi degli artt. 37, 39 e 40, comma 2, CCII da parte delle società non assoggettate alle discipline concorsuali speciali (A.S., L.C.A.), che sono fatte salve dal nuovo Codice (art. 1, comma 2).
Si rammenta infine che per le società di capitali, in assenza di una diversa disciplina statutaria, è attribuita all’organo amministrativo anche la competenza a deliberare sulla proposta e sulle condizioni del “concordato nella liquidazione giudiziale” (art. 265 CCII).
3. Il contenuto della decisione degli amministratori e la complessità della scelta di risanamento.
L’art. 120-bis CCII, nell’istituire una “competenza esclusiva” dell’organo amministrativo in materia di accesso alle soluzioni negoziali della crisi, solleva diverse questioni interpretative, specialmente con riguardo al contenuto e agli effetti della decisione per la quale è prescritta la verbalizzazione notarile.
Le profonde differenze ravvisabili nella “natura” e nella disciplina sostanziale e procedurale degli strumenti negoziali di regolazione della crisi e dell'insolvenza – oltre che della procedura di liquidazione giudiziale – si riverberano, infatti, sul contenuto della delibera (o determina) demandata all’organo amministrativo, tanto più in ragione del fatto che la norma sembra prefigurare una decisione “unitaria” sui diversi aspetti che ne costituiscono l’oggetto (in questo senso depone la frase: “… unitamente al contenuto della proposta e alle condizioni del piano”).
Il riferimento è, in particolare, a: (i) la scelta dello strumento di regolazione della crisi; (ii) il tempo e la modalità di accesso alla procedura che di volta in volta lo disciplina; (iii) il contenuto della proposta (ove prevista); (iv) le condizioni del piano (ove prescritto). E’ evidente, infatti, l’esigenza di chiarire il contenuto necessario o minimo della decisione e i suoi effetti giuridici sul piano societario e lato sensu concorsuale, in relazione alla disciplina dei diversi strumenti, la quale non è affatto omogenea, neanche sul piano procedimentale, sebbene come detto “unificata” per alcuni aspetti o fasi.
La soluzione del problema è resa più complessa dal fatto che il CCII, riprendendo la soluzione inaugurata dalla novella del 2012 alla Legge fallimentare, consente un accesso “accelerato” allo strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza con “riserva di deposito della documentazione” (art. 44 CCII), confermando quindi la possibilità di scindere la decisione sull’accesso a una procedura di crisi da quella (successiva) di definizione delle condizioni della ristrutturazione della società in crisi, come proposte alle “parti interessate” o negoziate con esse. Inoltre, la legge consente di mutare, almeno fino a un certo momento, lo strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza indicato inizialmente, passando da uno più semplice o uno più complesso (e quindi soggetto a un controllo giudiziale più pregnante) o viceversa, seppur mantenendo gli effetti e i benefici collegati all’accesso alla procedura di crisi (cfr. artt. 44, comma 1, lett. a; 46; 54, comma 5; 64-quater CCII).
Ulteriore complicazione deriva dai collegamenti sostanziali e procedurali fra la composizione negoziata della crisi e gli strumenti di regolazione della crisi ovvero la liquidazione giudiziale (artt. 23 e segg.), considerata anche la nuova figura del “concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio” (art. 25-sexies CCII), che si riconduce alla tipologia dei concordati preventivi.
In questo quadro, la “decisione” assunta dall’organo amministrativo ai sensidell’art. 120-bis CCII, lungi dal costituire un modello unitario, appare dunque destinata a rifrangersi in una moltitudine di varianti, considerando che gli strumenti di regolazione della crisi: (i) non sempre esigono la predisposizione di un “piano” (così, per es., la convenzione di moratoria ex art. 62 CCII); (ii) non sempre implicano la formulazione di una “proposta” ai creditori (così, per es., gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 57 e segg. CCII), presupponendo invece l’avvenuta conclusione di uno o più contratti da sottoporre a omologazione giudiziale, senza che ciò impedisca il ricorso alle “misure protettive” ex art. 54, comma 3, CCII); (iii) possono essere approntati in tempi diversi, cioè progressivamente, riservandosi di presentare il piano, la proposta o gli accordi entro il termine assegnato dal tribunale ex art. 44 CCII (così per la domanda di concordato preventivo o di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti o del piano di ristrutturazione ex art. 64-bis CCII); (iv) sono soggetti a diverse opzioni degli amministratori, anche in ordine alla scelta finale dello “strumento” (cfr. artt. 44, comma 1, lett. a; 46; 54, comma 5; 64-quater CCII); (v) contemplano l’eventualità di mutamenti volontari o necessitati del piano e delle condizioni proposte alle parti interessate (così, per la modifica o la rinegoziazione degli accordi di cui all’art. 58 CCII).
Tutti questi diversi aspetti o momenti dell’accesso della società alle procedure di crisi (latamente intese) esigono una “decisione” dell’organo amministrativo, individuato dall’art. 120-bis CCII come depositario di una “competenza esclusiva” in materia.
4. La scissione fra decisione di accesso alla procedura di crisi e definizione dello strumento di regolazione.
Fra i problemi d’interesse notarile prospettati dal nuovo “diritto societario della crisi”, con riferimento agli strumenti di regolazione soggetti a omologazione, quello di evidenza più immediata riguarda la separazione fra la (preliminare) decisione di accedere alla procedura di crisi presso il tribunale competente “con riserva di deposito della documentazione” (art. 44 CCII) e la (successiva) decisione di presentazione del piano o della proposta o degli accordi, determinati in tutti i loro elementi e completi della documentazione di corredo (bilanci, elenchi, attestazione ecc.).
Sebbene l’art. 120-bis, comma 1, CCII preveda che “L'accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza è deciso, in via esclusiva, dagli amministratori unitamente al contenuto della proposta e alle condizioni del piano”, è evidente che la contestuale definizione delle condizioni di ristrutturazione non è possibile, e neanche necessaria, nel caso di accesso accelerato alla procedura crisi, spesso funzionale alla richiesta di “misure protettive” e alla sospensione delle istanze di apertura della liquidazione giudiziale.
D’altra parte, non è chiara l’estensione applicativa – solo alla prima decisione, “preparatoria”, o anche alla seconda, “determinante” – del precetto formale secondo cui “La decisione deve risultare da verbale redatto da notaio ed è depositata e iscritta nel registro delle imprese”.
Beninteso, i problemi sollevati da questa articolazione del processo decisionale non sono del tutto nuovi, ove si considerino gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali formatisi sul comb. disp. degli artt. 152 e 161, comma 4, legge fall. dal 2012[6], allorquando fu introdotta la domanda di concordato “con riserva”, consentendo che la procedura iniziasse anteriormente alla presentazione del piano-proposta ai creditori, e fu ammessa anche la c.d. passerella fra concordato preventivo e accordo di ristrutturazione dei debiti e viceversa (cfr. art. 161, comma 6 e art. 182 bis, comma 9, legge fall.).
La “decisione” degli amministratori di accedere a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza della società è soggetta – come si diceva – alla disciplina degli artt. 39, 40 e 44 CCII, che consentono di presentare una domanda in senso processuale: (i) avente contenuto generico o variabile, tale da consentire successive modificazioni o specificazioni del suo oggetto; (ii) sganciata dalla proposta rivolta alle parti interessate, cioè ancora priva della definizione delle condizioni della ristrutturazione della società in crisi; e (iii) non corredata da un piano di risanamento o liquidazione, su cui l’accordo o la proposta di ristrutturazione dovrebbero basarsi.
Dunque, la decisione iniziale degli amministratori, da verbalizzare a cura del notaio, può avere ad oggetto esclusivamente la scelta di accedere ad uno strumento di regolazione della crisi di impresa soggetto a omologazione, senza alcuna ulteriore specificazione, se si intende avviare il procedimento disciplinato negli artt. 39, 40 e 44 CCII. Laddove, invece, la decisione sia quella di avvalersi dell’accordo in esecuzione di piano attestato di risanamento ex art. 56 CCII o della convenzione di moratoria ex art. 62 CCII, che sono strumenti “non procedimentalizzati” e non soggetti a controllo giudiziario, se non eventuale e successivo, la scelta dovrà essere precisa e completa e la decisione dovrà recare, anche in allegato il contenuto del piano e degli accordi.
Con riguardo alla prima ipotesi (decisione generica di accesso allo strumento di regolazione della crisi), occorre chiedersi se l’esautorazione dell’assemblea (o dei soci), connessa alla previsione della competenza decisionale “esclusiva” degli amministratori, nonché gli obblighi informativi e l’effetto di “stabilizzazione” dell’organo amministrativo previsti dall’art. 120-bis, commi 3 e 4, CCII siano determinati dalla decisione di presentare la domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi ai sensi dell’art. 44 CCII ovvero debbano ritenersi differiti alla decisione, successivamente adottata, in ordine alla concreta proposta di concordato o al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione o all’accordo di ristrutturazione dei debiti.
La risposta nel primo senso sembra preferibile, perché – sebbene non sia rispettata la previsione letterale dell’art. 120-bis, comma 1, CCII (“unitamente”), circa la decisione anche sul contenuto della proposta e sulle condizioni del piano – la ratio della norma pare in effetti quella di devolvere all’organo amministrativo la gestione complessiva della crisi grazie agli “strumenti di regolazione”, sin dalla fase iniziale e senza interferenze dei soci.
Anzi, proprio la predisposizione della proposta e del piano o la negoziazione dell’accordo di ristrutturazione, per le incertezze e le difficoltà connaturate a tali attività, sembrano giustificare vieppiù la concentrazione dei poteri prefigurata dalla norma.
5. Segue: la forma della decisione sulle condizioni di ristrutturazione della società.
In secondo luogo, occorre chiedersi se la decisione adottata successivamente a quella di accesso iniziale alla procedura di crisi, avente ad oggetto cioè la scelta dello strumento (o il suo mutamento) e le condizioni della proposta o il contenuto del piano o le eventuali modifiche sostanziali, debbarisultare anch’essa da un “verbale redatto da notaio” ed essere “depositata e iscritta nel registro delle imprese”, a termini dell’art. 120-bis, comma 1, CCII, ovvero se queste formalità possano essere omesse.
La risposta al quesito deve essere data alla luce delle prescrizioni dell’art. 40 CCII, che peraltro richiama al 2° comma l’art. 120-bis, tenendo conto che: (i) la “domanda di accesso” agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza va presentata con ricorso contenente “l’oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni” ed è – come tale – soggetta a iscrizione nel registro delle imprese, con effetto di pubblicità dichiarativa; (ii) la “decisione finale” degli amministratori potrebbe prevedere anche modificazioni statutarie e operazioni sul capitale e straordinarie della società proponente, prefigurando cioè una ristrutturazione avente effetti riorganizzativi (si vedano sul punto le definizioni dell’art. 2, lett. m-bis) CCII e dell’art. 2, comma 1, Direttiva Insolvency); (iii) la “decisione di accesso” allo strumento di regolazione della crisi adottata dagli amministratori in base all’art. 120-bis CCII è, in quanto tale – cioè a prescindere dalla “domanda di accesso” in senso processuale –, soggetta a iscrizione nel registro delle imprese.
Convince in tal senso anche l’impiego dell’avverbio “unitamente”, al quale gli indici normativi non consentono di attribuire un significato cronologico, quanto piuttosto funzionale, riferito cioè all’ambito della competenza degli amministratori e al tenore complessivo della decisione di accesso allo strumento di regolazione della crisi, oggetto della verbalizzazione notarile e della pubblicità nel registro delle imprese.
Questi indici depongono nel senso della necessità di adottare la forma notarile anche per il verbale recante la deliberazione o la determina dell’organo amministrativo, con la quale si stabiliscono definitivamente lo strumento di regolazione della crisi e i contenuti e le condizioni del piano e/o della proposta, che confluiranno poi nella domanda di accesso. Vi è, infatti, un’esigenza di certezza della data dell’atto e di determinazione dei contenuti della decisione adottata, i cui effetti – nelle soluzioni “riorganizzative” della crisi societaria – impingono sui diritti dei terzi, dei creditori e dei soci. Questi ultimi sono d’altronde, nel nuovo regime, destinatari di una informazione soltanto successiva ex art. 120-bis, comma 3, CCII e di una protezione giurisdizionale molto limitata.
Per altro verso, la regola di competenza esclusiva degli amministratori è “potenziata” dalla previsione di cui all’art. 120-quinquies, comma 1, CCII, che attribuisce alla sentenza di omologazione del tribunale (art. 48, comma 5, CCII) l’effetto di “determinare” (v. infra, § 6) “la riduzione e l’aumento del capitale e le altre modificazioni statutarie nei termini previsti dal piano” (id est, quello apprestato dagli amministratori). Ne consegue che, anche nelle ipotesi in cui, secondo la disciplina societaria comune, il procedimento riorganizzativo societario dovrebbe articolarsi in diverse “fasi” a tutela dei plurimi interessi coinvolti (anzitutto per la corretta informazione dei soci e dei portatori di strumenti finanziari), l’operazione configurata nel piano “deciso” dagli amministratori è il presupposto necessario e sufficiente degli effetti modificativi finali, che deriveranno poi erga omnes dal provvedimento giudiziale che conclude il giudizio di omologazione e dagli atti di esecuzione del piano o dalle successive modificazioni statutarie in esso programmate (art. 120-quinquies, comma 1, CCII).
Una volta omologato lo strumento di regolazione della crisi – e divenuta quindi efficace la ristrutturazione della società –, viene demandato all’organo amministrativo ogni altro atto o attività di esecuzione del piano, da svolgersi in una posizione tuttavia ancillare rispetto al tribunale; gli amministratori perdono infatti ogni prerogativa di “esclusività” e tantomeno di “inamovibilità”, potendo essere rimossi e sostituiti da un amministratore giudiziario in caso di ritardo o d’inadempimento dei loro compiti.
Queste considerazioni suggeriscono di non sovrapporre e confondere la fase della esecuzione del concordato (o piano o accordo) omologato con la fase decisionale e programmatica inerente l’adozione del piano-proposta, di cui specificamente si occupa l’art. 120-bis CCII.
E’ vero che il piano ex artt. 57, 64-bis o 84 CCII potrebbe prevedere anche solo genericamente i termini della ristrutturazione societaria e rinviare le modifiche statutarie a dopo l’omologa, cioè alla fase esecutiva. Ma non sembra questa la prospettiva primaria del legislatore, né rappresenta certo un’opzione desiderabile, perché restare sul vago sui contenuti e sui tempi di realizzazione effettiva delle modifiche organizzative che ridisegnano la struttura finanziaria della società e incidono sulla posizione di creditori, soci e portatori di strumenti finanziari sembra contrario ai principi di trasparenza informativa nei rapporti con le “parti interessate” e potrebbe compromettere la stessa valutazione di fattibilità del piano o perfino rendere aleatoria l’operazione.
È bene, cioè, che l’analisi ermeneutica sia compiuta tenendo presente l’ipotesi paradigmatica dell’adozione di un piano completo e autosufficiente, rispetto al quale, una volta intervenuta l’omologazione giudiziale che determina gli effetti modificativi della società, gli amministratori dovrebbero compiere atti eminentemente esecutivi (per es., emettere le azioni sottoscritte, dare seguito alla conversione dei crediti, depositare lo statuto aggiornato ecc.).
6. Controllo e regime pubblicitario della decisione ex art. 120-bis CCII.
Quanto alla disciplina del controllo e della pubblicità della decisione di accesso (sia iniziale, sia successiva) allo strumento di regolazione negoziale della crisi, deve osservarsi che l’art. 120-bis, comma 1, CCII prescrive il deposito e l’iscrizione nel registro delle imprese della delibera (o determina) risultante da verbale redatto da notaio, ma non richiama l’art. 2436 c.c., a differenza di quanto prevedeva il comb. disp. degli artt. 152 e 161 legge fall.
Per inquadrare correttamente il significato dell’omissione del rinvio all’art. 2436 c.c., e quindi per definire compiutamente il perimetro dei controlli che il notaio è chiamato a compiere in fase di accesso allo strumento di regolazione della crisi, è necessario – come già accennato – considerare, nella sua complessiva articolazione, la disciplina del procedimento di modifica dello statuto prevista nel CCII relativamente (e limitatamente) alle società che hanno richiesto l’ammissione ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza.
L’art. 120-quinquies CCII, stabilisce in particolare: “1. Il provvedimento di omologazione dello strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza determina la riduzione e l'aumento del capitale e le altre modificazioni statutarie nei termini previsti dal piano, demanda agli amministratori l'adozione di ogni atto necessario a darvi esecuzione e li autorizza a porre in essere, nei successivi trenta giorni o nel diverso termine previsto dal piano, le ulteriori modificazioni statutarie programmate dal piano (…). 2. Se il notaio incaricato ritiene non adempiute le condizioni stabilite dalla legge, ne dà comunicazione tempestivamente, e comunque non oltre il termine di trenta giorni, agli amministratori. Gli amministratori, nei trenta giorni successivi, possono ricorrere, per i provvedimenti necessari, al tribunale che ha omologato lo strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza”.
Secondo parte della dottrina[7], nel nuovo assetto procedimentale, “la modifica statutaria è determinata non dalla decisione degli amministratori, ma dal provvedimento di omologazione: è il tribunale, cioè, che propriamente si ‘sostituisce’ all’assemblea nei compiti di quest’ultima. Ora, in materia societaria, non è infrequente l’attribuzione all’autorità giudiziaria della competenza ad adottare misure in sostituzione dell’assemblea: si pensi alla previsione dell’art. 2487 c.c. …”.
Ai nostri fini sono significativi sia l’indicazione letterale, sia, in particolare, il rilievo che la soluzione apprestata dall’art. 120-quinquies CCII, che vede l’autorità giudiziaria esercitare nella vita della società commerciale un ruolo che soppianta il controllo notarile, non è priva di antecedenti nel Codice Civile.
Rispetto a questi ultimi giova rilevare che non è mai stato nemmeno ipotizzato che la modifica statutaria decisa dal Tribunale (per esempio, ai sensi dell’art. 2446 secondo comma c.c., il cui inciso finale recita “il tribunale provvede, sentito il pubblico ministero, con decreto soggetto a reclamo, che deve essere iscritto nel registro delle imprese a cura degli amministratori”), debba essere soggetta a controllo notarile, anche in fase di accesso (con riferimento, per esempio, alla domanda presentata, ai sensi dell’art. 2446 secondo comma c.c., dagli amministratori o dai sindaci).
Secondo la tesi proposta, dunque, ad essere soggetti a controllo di legittimità da parte del notaio – e, in caso di diniego, del “tribunale della procedura di crisi” – dopo l’omologazione dello strumento, sono soltanto gli atti di esecuzione degli amministratori, quando consistano in “ulteriori modificazioni statutarie” programmate dal piano (ulteriori rispetto a quelle prodotte ex se dalla sentenza di omologa) e anch’esse, ovviamente, soggette ad altra iscrizione nel registro imprese.
Secondo una diversa lettura della disposizione dell’art. 120-quinquies CCII, invece, atteso che nel secondo comma viene contemplato l’intervento del notaio, “si dovrà ritenere che il provvedimento di omologazione non determinerà in sé le modificazioni statutarie previste dal piano ma autorizzerà gli amministratori – che pertanto non avranno un potere originario e conseguente all’omologazione in sé dello strumento di regolazione della crisi – ad adottare le deliberazioni necessarie ad apportare allo statuto della società debitrice quelle modificazioni che gli stessi amministratori avranno individuato nel piano”[8].
Questa interpretazione declassa la modifica statutaria indicata nella delibera di accesso agli strumenti di regolazione della crisi a mera “proposta” degli amministratori e ne sposta l’attuazione, previa autorizzazione del tribunale, a valle del giudizio di omologazione: solo in questa fase si ritiene necessario, in applicazione dell’art.120-quinquies, comma 2, CCII, il controllo notarile.
La prima lettura appare preferibile in quanto più aderente alla lettera, alla logica e alla ratio della nuova disciplina delle riorganizzazioni societarie realizzate nell’ambito delle soluzioni concordate della crisi.
In ogni caso, entrambe le letture dell’art. 120-quinquies CCII, da un lato, rendono evidente l’importanza di tenere ben distinte la fase dell’esecuzione dello strumento omologato di regolazione della crisi e la fase decisionale e programmatica dell’adozione del piano-proposta; dall’altro, inducono a ritenere che la soppressione del rinvio all’art. 2436 c.c., con riferimento alla verbalizzazione notarile di accesso allo strumento di regolazione della crisi di impresa e dell’insolvenza, è frutto di una scelta consapevole, perché coerente con la scelta di rinviare a un momento successivo il controllo di legittimità delle modifiche statutarie, affidato secondo l’una al tribunale in sede di omologa del quadro di ristrutturazione, secondo l’altra al medesimo notaio, ma solo a seguito dell’autorizzazione al compimento di dette modifiche concessa dal tribunale in sede di omologazione dello strumento medesimo.
Per le ragioni esposte, alla luce degli orientamenti più diffusi e convincenti, non sembra che il mancato richiamo dell’art. 2436 c.c. sia frutto di una dimenticanza o di una svista sistematica, come si potrebbe argomentare sull’assunto che il controllo omologatorio operato dal Tribunale non possa essere sovrapposto al controllo notarile per contenuto o finalità e dovrebbe coesistere con il primo, seppur con diverse declinazioni[9].
Né un argomento in tal senso sembra potersi trarre dall’art. 210 CCII in tema di concordato delle società in liquidazione giudiziale, che riproduce il previgente art. 152 Legge fall., poiché gli strumenti di regolazione della crisi delle società regolati degli artt. 120-bis e segg. CCII rispondono a tutt’altra logica e si distinguono da ogni altra soluzione ivi prevista in funzione della “regolazione negoziale successiva” dell’insolvenza [10], dando attuazione alle prescrizioni della Direttiva 2019/1023 in materia di quadri di ristrutturazione preventiva[11].
Alla luce di quanto esposto, si può concludere che, mentre nel precedente sistema il controllo di legittimità del notaio (e, se del caso, del tribunale delle imprese) era richiesto su tutte le delibere di accesso alle procedure di crisi e d’insolvenza della società, anche se non prefiguravano effetti modificativi o riorganizzativi, nell’attuale sistema non opera più il controllo di conformità alla legge ex art. 2436 c.c. sulla decisione degli amministratori, posta a base dell’atto (processuale o non) d’accesso allo strumento di regolazione della crisi, e ciò anche nell’ipotesi in cui la decisione degli amministratori adottata ai sensi dell’art. 120-bis, comma 1, CCII prefiguri delle modifiche statutarie e delle operazioni sul capitale e straordinarie; le quali si realizzeranno, poi, con l’omologazione o con gli atti di esecuzione del piano e le altre eventuali modifiche (art. 120-quinquies, comma 1, CCII), nel quadro della ristrutturazione pianificata dell’impresa societaria sotto il controllo dell’autorità giudiziaria.
Se questo è vero, non solo la decisione iniziale di accesso “con riserva di presentazione” (che riguarda gli strumenti di regolazione della crisi soggetti a omologazione giudiziale), ma anche la decisione avente ad oggetto l’adozione del piano e della proposta di ristrutturazione da parte degli amministratori della società in crisi resta sottratta al controllo di “legittimità sostanziale” di cui all’art. 2436 c.c., preordinato alla produzione degli effetti modificativi della delibera.
Il controllo svolto dal notaio in sede di verbalizzazione della decisione degli amministratori, prevista dall’art. 120-bis, comma 1, CCII ai fini dell’iscrizione nel registro imprese, investirà pertanto i poteri del decidente e la validità formale della deliberazione (per es. il contenuto dell’avviso di convocazione, la costituzione dell’organo collegiale, l’osservanza dei quorum previsti dalla legge o dallo statuto ecc.), e comunque potrà rilevare esclusivamente vizi che emergano in modo palese dagli eventi che egli è chiamato a verbalizzare, senza che sia a tal fine necessaria alcuna ulteriore indagine[12].
Il controllo del notaio non investirà, invece, il contenuto della deliberazione, né la completezza del corredo documentale richiesto dall’art. 39 CCII, costituendo detta decisione soltanto l’atto di impulso al procedimento di ristrutturazione della società ed essendo il controllo di conformità alla legge dello strumento di regolazione della crisi, in funzione della produzione dei suoi effetti, anche societari, rimesso al tribunale in sede di omologazione ex art. 48 CCII[13].
Quale condotta dovrà tenere allora il notaio, qualora rilevi un vizio della decisione?
Non potendosi applicare la disciplina dell’art. 2436 c.c., e non operando quindi il filtro del rifiuto di iscrizione della delibera nel registro delle imprese, deve ritenersi che il notaio non possa rifiutarsi di verbalizzare[14], e tuttavia possa far constare dal verbale medesimo (che, come quello assembleare, può essere sottoscritto dal solo notaio) quali siano le ragioni che, a suo avviso, viziano la delibera, e, qualora ne ravvisi i presupposti, trasmettere il verbale al Pubblico Ministero per gli accertamenti di legge.
La disciplina della fase realizzativa delle ristrutturazioni societarie “omologate” di cui all’art. 120-quinquies CCII conferma, peraltro, l’assoluta centralità e decisività, per tutti gli sviluppi dell’operazione, della delibera di accesso allo strumento di regolazione della crisi e di determinazione delle condizioni e modalità della ristrutturazione.
7. Segue: natura e regime d’invalidità della decisione.
Per altro verso, sembra opportuno segnalare che la decisione adottata dagli amministratori “esclusivamente competenti” in materia ai sensi dell’art. 120-bis, comma 1, CCII: (i) è e resta un “atto societario”, come tale soggetto alle regole del procedimento deliberativo proprie dell’organo amministrativo (monocratico o pluripersonale o collegiale) che lo ha approvato nel caso concreto; (ii) è un “atto interno”, propedeutico al procedimento giudiziale prescritto eventualmente in relazione allo strumento di regolazione della crisi prescelto, che si attiva poi con la presentazione della domanda e del piano e/o della proposta nelle forme previste per ogni strumento; (iii) ha un valore giuridico rilevante, contenendo in nuce l’intero programma di ristrutturazione della società e prefigurando quegli effetti “riorganizzativi” che la sentenza di omologazione produrrà in virtù dell’iscrizione nel registro delle imprese e degli atti esecutivi conseguenziali (modificando il capitale, la forma societaria, l’assetto proprietario o la struttura finanziaria ecc.).
In quest’ottica, tanto più in assenza di un controllo preventivo di legittimità da parte del notaio e del tribunale delle imprese, sembra doversi applicare alla predetta “decisione” la disciplina delle cause d’invalidità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione della s.p.a. (art. 2388, comma 4, c.c.), che peraltro si applica, secondo un condivisibile orientamento, a tutte le possibili configurazioni dell’organo amministrativo delle società di capitali ed anche alle s.r.l. L’impugnabilità dinanzi al tribunale delle imprese della decisione dell’organo amministrativo – che si colloca “a monte” del procedimento concordatario o di omologazione dell’accordo o del piano di ristrutturazione – rappresenta infatti, sul piano delle tutele, un bilanciamento necessario alla sostanziale inamovibilità che gli amministratori acquisiscono dopo la pubblicità della decisione (art. 120-bis, comma 4, CCII).
Del resto, la competenza del tribunale delle imprese a delibare le questioni insorte nella fase dell’accesso agli strumenti di regolazione della crisi – competenza che non confligge con (né si sovrappone a) quella del giudice dell’omologazione, chiamato a verificare la legittimità del procedimento “a valle” di quella decisione e a risolvere i contrasti insorti per effetto della ristrutturazione – è evocata dall’art. 120-bis, comma 4, CCII, là dove prevede la necessità della “approvazione” da parte dello stesso, ai fini dell’efficacia della delibera assembleare di revoca degli amministratori dopo l’adozione della decisione.
La norma precisa al riguardo: “Non costituisce giusta causa la presentazione di una domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza in presenza delle condizioni di legge”. Quella competenza appare ineludibile sia nel caso che la regola venga applicata in un procedimento di volontaria giurisdizione, sia che si dibatta in sede contenziosa della ricorrenza o non di una “giusta causa” di revoca degli amministratori.
8. La decisione di accesso allo strumento di regolazione della crisi nelle società di persone.
L’art.120-bis ha come destinatari gli amministratori di qualsiasi società, senza distinzioni in ragione del tipo sociale, quindi anche quelli di società di persone.
L’attribuzione agli amministratori della competenza esclusiva in materia di accesso allo strumento di regolazione della crisi determina l’inapplicabilità dell’ultimo comma dell’art. 2257 c.c., poiché i soci, in quanto tali, non possono essere coinvolti nella decisione.
Nelle società di persone la rottura rispetto alla tradizione è ancor più significativa, poiché, stante la responsabilità personale illimitata e solidale per le obbligazioni sociali[15], la competenza naturale in materia di presentazione di proposte di concordato preventivo era in precedenza attribuita ai soci, chiamati a decidere a maggioranza di quote di partecipazione al capitale sociale e non per teste (art. 152 legge fall.), salvo diversa previsione contenuta nei patti sociali.
La scelta attuale risulta coerente a quanto disposto dall’art. 3 CCII e, prima ancora, dall’art. 2086 c.c. che, tramite il rinvio dell’art. 2257 c.c., impone anche agli amministratori di società di persone non solo di istituire assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati in funzione, fra l’altro, della rilevazione tempestiva della crisi di impresa, ma anche di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi.
La previsione dell’art.120-bis, primo comma, CCII risulta allora un precipitato degli obblighi posti a carico degli amministratori dalle disposizioni richiamate[16], e in particolare può essere considerata la specificazione di una delle possibili modalità di adempimento dell’obbligo di attivarsi per la prevenzione della crisi.
Dato atto che la competenza a decidere l’accesso ad uno qualsiasi degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza spetta oggi esclusivamente agli amministratori, occorre chiedersi: (i) se la stessa, in assenza di diversa previsione contenuta nei patti sociali, possa essere esercitata disgiuntamente da ogni socio amministratore – e quindi, in assenza di diversa previsione pattizia, da ogni socio, secondo il modello previsto nell’art. 2257 c.c.; (ii) se, in caso di organizzazione contrattuale del potere di amministrazione con modalità miste, cioè disgiunte o congiunte in relazione alla natura e al contenuto degli atti amministrativi o gestionali da porre in essere, la decisione di accedere allo strumento di regolazione della crisi e il potere di darvi attuazione spettino – in assenza di puntuale definizione contenuta nei patti sociali – ai singoli amministratori disgiuntamente oppure se debbano essere ricompresi nel novero degli atti da compiere congiuntamente.
Rispetto ad entrambe le questioni, si ritiene di dover muovere da una premessa sistematica: invero, alla scelta di affidare alla competenza esclusiva degli amministratori la decisione e l’attuazione dello strumento di regolazione della crisi consegue quella di sottoporre tali atti alle regole organizzative inerenti all’esercizio della funzione amministrativa secondo i diversi modelli societari, siano esse legali o di fonte pattizia.
La prima questione potrebbe porsi qualora il contratto sociale affidi l’amministrazione a più soci disgiuntamente fra loro, poiché l’applicazione ex lege del regime residuale del primo comma dell’art. 2257 c.c. si presta ad essere pensata per le società di fatto e per le società irregolari, e quindi con uno spazio applicativo ormai di scarso interesse.
Qualora dunque il regime pattizio sia quello dell’amministrazione disgiunta senza limiti, alla premessa consegue che, nel silenzio dei patti sociali, la decisione di accedere allo strumento di regolazione della crisi di impresa potrà essere assunta, ai sensi dell’art. 120-bis, primo comma, CCII, dal singolo socio-amministratore[17].
Peraltro, qualora, stante la disapplicazione dell’ultimo comma dell’art. 2257 c.c., tale soluzione sembrasse penalizzante degli interessi dei soci, occorrerebbe farsi carico dell’individuazione di una regola alternativa desunta dalla disciplina legale della funzione amministrativa propria del tipo sociale.
Anche secondo le norme sul mandato, a cui rinvia l’art. 2260, comma 1, c.c., in caso di pluralità di mandatari (scilicet, amministratori), è regola generale che “ciascuno di essi può concludere l’affare” (art. 1716 c.c.), se non è dichiarato nel contratto che gli stessi devono agire congiuntamente. Inoltre, ai sensi dell’art. 2266, comma 2, c.c. “in mancanza di diversa disposizione del contratto, la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore”.
Non sembra dunque agevole, neanche sul piano sistematico, desumere una disciplina diversa da quella dell’amministrazione disgiuntiva nel silenzio dei patti sociali.
Spinti da un intento garantista si potrebbe sostenere l’applicabilità ex lege alla fattispecie (decisione dei soci di accedere allo strumento di regolazione della crisi) del sistema di amministrazione congiuntiva, ma – a prescindere dal rilievo che non sembra ravvisabile un valido argomento a sostegno, poiché l’obbligo di agire congiuntamente presuppone una scelta pattizia, sia nella disciplina delle società di persone (art. 2258 c.c.), sia in quella del mandato (art.1716 c.c.) – l’esito della suggestione interpretativa risulterebbe incoerente alla scelta di sistema se confrontato con la norma dell’abrogato art. 152 legge fall. Quest’ultima prevedeva, infatti, che la decisione di presentare la domanda di concordato fosse assunta dai soci a maggioranza di quote calcolata sulla partecipazione al capitale sociale, per favorirne l’adozione; se si volesse concludere che la decisione di accedere allo strumento di regolazione della crisi deve essere assunta congiuntamente dai soci amministratori, in assenza di diversa previsione dei patti sociali, sarebbe richiesto il consenso unanime degli stessi, e quindi tendenzialmente di tutti i soci, attribuendo loro un diritto di veto, che prima non esisteva.
Tornando al regime dell’amministrazione disgiuntiva, se – come detto – la disposizione del primo comma dell’art.120-bis CCII comporta la disapplicazione dell’ultimo comma dell’art. 2257 c.c., ci si deve interrogare sulla persistenza del potere di opposizione di cui al secondo comma dello stesso articolo, ai sensi del quale “ciascun amministratore ha diritto di opporsi all’operazione che un altro voglia compiere, prima che sia compiuta”.
Parte della dottrina ritiene che il diritto di veto sia disponibile, e quindi derogabile dai patti sociali, con l’effetto di rendere inapplicabile anche la regola di soluzione del conflitto prevista nell’ultimo comma dell’art. 2257 c.c. Ma anche a prescindere da tale lettura, è considerazione condivisa che il socio amministratore possa revocare il veto, privando gli altri soci della possibilità di esprimersi in senso contrario al compimento dell’operazione[18].
Si potrebbe allora argomentare che la sussistenza di regole di bilanciamento del potere dei singoli amministratori, mediante la limitazione all’esercizio solitario della funzione, non rappresenta la risposta a un’istanza incomprimibile di tutela di coloro nell’interesse dei quali essi agiscono (i soci), come sistematicamente ricavabile anche dalle norme dell’art. 1716 c.c.[19]
Peraltro, concludere per l’applicabilità del diritto di veto qualora oggetto della decisione sia l’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi, perché si tratta di regola relativa ai rapporti fra amministratori, costringe a costruire arbitrariamente una regola di soluzione del conflitto, dichiarando, in assenza del sostegno dei patti sociali e di principi di sistema, che sull’opposizione si pronunciano tutti gli amministratori, allora per capi e non per quote.
Non sembra si possa invocare a tal fine l’applicazione analogica dell’ultimo comma dell’art. 2475 c.c., dettato per le società a responsabilità limitata qualora i soci scelgano di organizzare l’esercizio della funzione amministrativo in conformità a quanto previsto negli artt. 2257 e 2258 c.c. E’ tesi condivisa, infatti, che nelle società di persone gli atti elencati nell’art. 2475 c.c. possano essere compiuti da ogni socio amministratore. In proposito è sufficiente rammentare che, per orientamento pacifico, in regime di amministrazione disgiuntiva anche la redazione del bilancio può essere compiuta da un solo amministratore, benché debba tener necessariamente conto delle operazioni compiute da tutti, anche separatamente[20]. Si è sostenuto, per simmetria concettuale, che anche il progetto di fusione o di scissione possa essere atto individuale del singolo amministratore[21].
In definitiva, si ritiene di poter concludere che, ai sensi dell’art.120-bis, primo comma, CCII, qualora l’amministrazione sia esercitata disgiuntamente, ogni amministratore di società di persone possa decidere singolarmente l’accesso allo strumento di regolazione della crisi , e che sia inapplicabile nella fattispecie, per le ragioni esposte, la norma dell’art.2257 c.c. che attribuisce agli altri amministratori il diritto di opposizione; ciò anche al fine di evitare gli effetti indesiderabili che una paralisi decisionale potrebbe provocare finanche per la responsabilità patrimoniale dei soci[22].
Qualora i patti sociali attribuiscano ad alcuni soci l’amministrazione congiunta, non vi è dubbio che con la stessa modalità debba essere assunta, ed eseguita, anche la decisione di accedere allo strumento di regolazione della crisi.
Tuttavia, è applicabile quanto previsto nell’ultimo comma dell’art. 2258 c.c., che consente al singolo amministratore di compiere l’atto qualora “vi sia urgenza di evitare un danno alla società”, situazione che può ricorrere allorché occorra decidere di accedere ad uno strumento di regolazione della crisi, anche ai sensi degli artt. 40 e 44 CCII.
Se, come per lo più accade, i patti sociali organizzino l’amministrazione coniugando entrambe le discipline, disgiunta e congiunta, di esercizio della funzione e selezionando l’applicazione dell’una o dell’altra in ragione delle caratteristiche dell’atto da decidere, si deve ritenere che la decisione di cui all’art. 120-bis CCII debba essere assunta congiuntamente, fatto salvo il potere del singolo co-amministratore di decidere anche individualmente in via di urgenza l’accesso allo strumento di regolazione della crisi.
9. Amministrazione congiuntiva e disgiuntiva nelle s.r.l.
A prima vista, le conclusioni proposte rispetto alle società di persone potrebbero essere estese alle società a responsabilità limitata il cui statuto preveda, ai sensi dell’art. 2475 terzo comma c.c., che l’amministrazione sia affidata agli amministratori disgiuntamente o congiuntamente, applicandosi in tal caso gli artt. 2257 e 2258 c.c.
Senonché, a mente dell’ultimo comma dell’art. 2475 c.c., talune scelte ivi previste devono essere assunte dall’organo amministrativo.
Sebbene la norma abbia dato luogo ad una pluralità di interpretazioni, talora inconciliabili, si può ritenere prevalente quella che ritiene che la stessa valga ad escludere che le decisioni su determinate materie possano essere assunte dagli amministratori disgiuntamente, e finanche a maggioranza, senza neanche interpellare, in coerenza con la disciplina dell’amministrazione congiuntiva maggioritaria, taluni amministratori.
Dunque, pur non essendo necessario costituire un consiglio di amministrazione, tutti gli amministratori dovrebbero essere interpellati.
Già prima dell’entrata in vigore del CCII, la dottrina riteneva che tale procedimento dovesse essere adottato per assumere le decisioni di cui all’art. 152, comma 2, lett. b), legge fall.[23].
Si ritiene che tale conclusione debba essere confermata.
L’indicazione che proviene dall’ultimo comma dell’art. 2475 c.c. è nel senso di affidare all’organo amministrativo nel suo complesso (e quindi di richiedere il coinvolgimento di tutti gli amministratori per) la decisione in ordine a materie considerate particolarmente significative nell’interesse dei soci e dei terzi (approvazione del progetto di bilancio, approvazione del progetto di fusione ecc.), nonché alle modifiche statutarie delegabili (aumento di capitale), secondo un elenco che la dottrina non ritiene tassativo, poiché è ampiamente condivisa la tesi che lo stesso debba essere integrato con la riduzione del capitale sociale ai sensi dell’art. 2482-bis, ult. comma, c.c. e l’approvazione dei progetti di fusione e scissione, nei casi previsti negli artt. 2505, comma2, 2505-bis, comma 2, e 2506-ter, ult. comma, c.c., qualora tali decisioni siano affidate alla competenza dell’organo amministrativo.
La decisione di accedere allo strumento di regolazione della crisi presenta – o comunque può presentare – molti dei contenuti delle decisioni previste o ricondotte all’ultimo comma dell’art. 2475 c.c. (fra cui anche la proposta di modifiche statutarie), e pertanto si deve ritenere che sia ascrivibile a quell’elenco di competenze.
Ne consegue, che il notaio dovrà accertare che, pur in presenza di forme organizzative mutuate dalle società di persone, tutti gli amministratori siano stati convocati anche qualora non sia richiesta in statuto l’unanimità dei consensi in caso di amministrazione congiunta.
10. L’accesso allo strumento di regolazione della crisi delle società in stato di liquidazione.
Con un noto arresto[24], la Corte di Cassazione decise che non rientrava nei poteri legali dei liquidatori, di cui all’art. 2489 c.c., la proposta di concordato preventivo ai sensi dell’art. 152 legge fall., e che a tal fine gli stessi dovevano risultare espressamente legittimati dai soci, a mente di quanto disposto nell’art. 2487 c.c., che richiede un’espressa autorizzazione di questi ultimi per legittimare i liquidatori medesimi a compiere atti particolarmente incisivi sul patrimonio sociale.
Le conclusioni a cui era pervenuta la Suprema Corte, già criticate da parte della dottrina[25], non paiono conformi alla previsione dell’art. 120-bis, prima comma, CCII, che ascrive all’esclusiva competenza degli amministratori, che hanno il potere di gestione della società, dell’impresa e del patrimonio sociale, la decisione di accedere allo strumento di regolazione della crisi, rendendo altresì inefficaci eventuali clausole statutarie di segno contrario che, sulla scorta dell’abrogato art. 152 legge fall., rimettessero la competenza in materia ai soci.
La scelta normativa operata con la recente novella del CCII mostra la volontà di sottrarre ai soci, nell’interesse dei creditori e degli altri stakeholders, ogni competenza in merito. La disciplina conseguente determina, a tutela dei medesimi interessi, la “sospensione” dello statuto ordinario dei diritti dei soci.
Non si ravvisano ragioni sistematiche idonee a fondare una diversa valutazione sul piano della tutela degli interessi in gioco, se la società versa già in stato di liquidazione, tanto più nel caso in cui i liquidatori siano stati autorizzati alla continuazione dell’attività d’impresa.
Occorre chiedersi poi se la decisione di accedere ad uno strumento di regolazione della crisi assunta dal liquidatore debba essere necessariamente coerente alla sua funzione e ai suoi poteri, quali delineati nell’art. 2489 c.c. o determinati ai sensi dell’art. 2487 c.c., o se, al contrario, non incontri alcun limite specifico in tal senso, potendo giungere a proporre, “ai fini del buon esito della ristrutturazione”, anche la revoca dello stato di liquidazione, affinché sia “determinata” dal tribunale in sede di omologa, ai sensi dell’art.120-quinquies primo comma CCII.
Accedendo alla prima soluzione, ne deriverebbe che, qualora non fosse stato autorizzato alla continuazione dell’attività di impresa, l’organo di liquidazione non potrebbe proporre, per esempio, un concordato con continuità indiretta, ma solo un concordato liquidatorio, ai sensi dell’art. 84, comma 4, CCII.
L’ampiezza delle facoltà assegnate agli amministratori dall’art.120-bis, secondo comma, CCII, nell’interesse dei creditori e degli stakeholders, suggerisce invece di concludere nel senso che anche i liquidatori possano proporre qualsiasi modifica statutaria sia utile “ai fini del buon esito della ristrutturazione”, compresa la revoca dello stato di liquidazione.
In tal caso, tuttavia, poiché il piano prevede modifiche che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, come si desume dagli art. 2437 primo comma, lett. d) e 2473 c.c., è obbligatoria la formazione di una classe di soci a mente dell’art. 120-ter CCII.
[1] Cfr. N. Atlante-M. Maltoni-A. Ruotolo, Il nuovo art. 2475 c.c. Prima lettura, CNN - Studio n. 58/2019; M.S. Spolidoro, Note critiche sulla “gestione dell’impresa” nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in questa Rivista, 2019, 253; R. Santagata, Assetti organizzativi adeguati e diritti particolari di “ingerenza gestoria” dei soci, in questa Rivista, 2020, 1453; R. Formisani, Business judgment rule e assetti organizzativi: incontri (e scontri) in una terra di confine, in RDS, I, 2018, 455; V. De Sensi, Adeguati assetti e business judgment rule, in Diritto della crisi, 2021; A. Rossi, I soci nella regolazione negoziale della crisi, in Società, 2022, 945; R. Brogi, I soci e gli strumenti di regolazione negoziale della crisi, in Fallimento, 2022, 1290; N. De Luca, Il sovrano non ha abdicato, ma è stato deposto. Notarelle sul ruolo dell’assemblea nelle società in crisi o insolventi, in Luiss Law Review n. 2/2022, 6; F. Guerrera, L’espansione della regola di competenza esclusiva degli amministratori nel diritto societario della crisi fra dogmatismo del legislatore e criticità operative, in Riv. soc., 2022, 1271 ss.
[2] Si allude agli accordi conclusi in esecuzione di un piano di risanamento attestato (art. 56 CCII) o alla convenzione di moratoria (art. 62 CCII).
[3]Tale procedura che non rientra fra gli “strumenti di regolazione”; anzi, la trattazione delle domande di apertura di una procedura d’insolvenza è posposta a quella di accesso alla procedura di crisi: v. artt. 7, comma 2 e 40 CCII.
[4] Si allude agli accordi di ristrutturazione dei debiti (artt. 57-61 CCII), al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (art. 64-bis CCII), al concordato preventivo (artt. 84-120 CCII) o alla richiesta di applicazione di “misure protettive del patrimonio” da parte del tribunale competente nel corso delle trattative per gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 54, comma 3, CCII) o della composizione negoziata della crisi(art. 18 CCII).
[5] V. la definizione di “parti interessate” nell’art. 2, comma 1, della direttiva Insolvency: “i creditori, compresi, se applicabile ai sensi del diritto nazionale, i lavoratori, o le classi di creditori, e (…) i detentori di strumenti di capitale, sui cui rispettivi crediti o interessi incide direttamente il piano di ristrutturazione”.
[6] Cfr. F. Guerrera, Le competenze degli organi sociali nelle procedure di regolazione negoziale della crisi in questa Rivista, 2013, 1114.
[7]A. Nigro, Le operazioni straordinarie nelle procedure di composizione e soluzioni delle crisi di impresa, in Diritto delle operazioni straordinarie, a cura di Alessandro Nigro, Il Mulino, 2022, 404; nello stesso senso, R. Brogi, I soci e gli strumenti di regolazione della crisi, in Fallimento, 2022, secondo la quale “sarà la sentenza di omologazione a produrre, ipso iure, la riduzione e l’aumento del capitale e le modifiche statutarie nei termini previsti dal piano”.
[8] A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Società, 2022, 947. In tal senso sembra orientato anche il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, sub art. 125-quinquies, diretto da F. di Marzio, Giuffrè, 2022, 560.
[9] O. Cagnasso, C.F. Giuliani, G.M. Miceli, Il concordato preventivo delle società, in Nuovo Diritto delle Società, 2023, 559 ss.
[10] La dottrina non ha mancato di rimarcare che rispetto alle operazioni straordinarie nella liquidazione giudiziale, non essendo stato toccate le regole fissate in precedenza dall’art. 152 Legge fall. ed oggi dall’art.210 CCII, restano immutati i delicati problemi di coordinamento fra normale spettanza della competenza assembleare a deliberare fusioni ed altre modifiche statutarie e “le regole in materia di competenza a decidere sulla proposta di concordato nella liquidazione giudiziale”: così A. Nigro, cit., 415.
[11] La Direttiva 2019/1023, sulla ristrutturazione e sull’insolvenza, prevede, fra l’altro, all’art. 12, che gli Stati membri devono provvedere “affinchè ai detentori di strumenti di capitale non sia consentito di impedire o ostacolare irragionevolmente l’attuazione di un piano di ristrutturazione”, come illustrato nel Considerando 96, nel quale è espresso il principio per cui “l’efficacia del processo di adozione e attuazione del piano di ristrutturazione non dovrebbe essere compromessa dalle norme di diritto societario.” In attuazione di ciò, il nostro legislatore ha elaborato un procedimento innovativo, che si può definire speciale, allorchè l’attuazione del quadro di ristrutturazione, altresì detto nel nostro Codice strumento di regolazione della crisi di impresa e dell’insolvenza, richieda, o consista in, modifiche dello statuto della società debitrice.
[12] Cfr. Cass. 19 luglio 2016, n. 14766, in Riv. not., 2016, II, 1170 e in Notariato, 2016, 626; Trib. Milano, 25 settembre 2015, in Società, 2016, 43; C. Marchetti, in Commentario del Codice Civile, diretto da Gabrielli, sub art. 2436, Torino, 2015, 1159; e, con particolare riguardo ai vizi rilevabili e al carattere documentale del controllo, F. Guerrera, in Società di capitali, Commentario a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, II, Napoli, 2004, sub art. 2436 c.c., 1101 s.; M. Notari, in Le società per azioni, Commentario diretto da Abbadessa e Portale, II, Milano, 2016, sub art. 2436 c.c., 2485 ss.; P. Revigliono, Il controllo di iscrivibilità degli atti societari: profili sostanziali e procedimentali, in Riv. soc., 2001, 1475.
[13] Resta esclusa dalla competenza e responsabilità del notaio la verifica della sussistenza di vizi inerenti alla riorganizzazione prefigurata, alle finalità perseguite e ai presupposti della decisione o al conflitto fra gli interessi coinvolti, che potrebbero determinarne l’invalidità: questioni che si potranno porre, semmai, dinanzi al tribunale delle imprese in sede contenziosa (e non appunto nell’ambito del procedimento ex art. 2436, commi 3 e 4, c.c.), nel caso d’impugnazione della decisione dell’organo amministrativo da parte dei soggetti legittimati (infra, § 7).
[14] Si rammenta che prima dell’introduzione della disciplina dell’art. 2436 c.c., Cass., 4 maggio 1998, n. 4441, in Riv. not., 1998, II, 717, aveva deciso che il notaio poteva essere sanzionato non per aver fatto constare nel verbale una deliberazione di contenuto nullo per impossibilità dell’oggetto, ma per non aver rifiutato il suo ministero “in presenza di un avviso di convocazione dell’assemblea dal quale risultava che essa avrebbe deliberato su oggetto giuridicamente impossibile”.
[15] In tal senso, fra gli altri F. Guerrera, in Il nuovo diritto fallimentare, commentario diretto da Jorio, II, sub art.152, Bologna, 2007, 2208.
[16] In tal senso O. Cagnasso, L’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società: la posizione degli amministratori, in corso di pubblicazione; A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, cit., 946.
[17] Non è del medesimo avviso O. Cagnasso, loc. cit., per il quale il sistema dell’amministrazione disgiunta non potrebbe venire in considerazione con riferimento alle competenze in esame nemmeno nelle società di persone, concordando però sul fatto che “non parrebbe ammissibile l’opposizione da parte dei soci, che in qualche modo significherebbe consentire agli stessi di interloquire in ordine a scelte a loro sottratte”.
[18] Cfr. I. Capelli, in S. Patriarca-I. Capelli, Società semplice, Commentario Scialoja-Branca-Galgano, sub art. 2257, Bologna, 2021, 144.
[19] In proposito, val forse la pena rimarcare che il potere di decidere sull’opposizione è subordinato, fra l’altro, all’attualità del conflitto fra amministratori, nel senso che una rinuncia all’opposizione impedirebbe alla maggioranza di pronunciarsi e consente anzi la ripresa dell’operazione, constatazione che svaluta la rilevanza dell’istanza di tutela della maggioranza dei soci. La necessità di non enfatizzare la rilevanza dell’opposizione come strumento di tutela dei soci consegue anche alle considerazioni che l’opposizione deve essere esperita prima che l’operazione intrapresa sia conclusa e che il socio amministratore può sempre porre in essere efficacemente l’atto, malgrado l’opposizione, ferma la sua responsabilità, poiché la decisione della maggioranza, sia in senso positivo che in senso negativo, ha efficacia meramente interna. Cfr. V. Buonocore, Società in nome collettivo, Artt. 2291-2312, in Il Codice Civile, Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 1995, 97 s.
[20] R. Rordof, Rendiconto e bilancio d’esercizio nelle società di persone, in nota a Trib. Napoli, 30 marzo 1995, (ord.), in Società 1995, 1459; F. Di Sabato, Manuale delle società, Torino, 1990, 115.
[21] Cfr. CNN Studio n. 5620/I/200, Fusione, scissione e società di persone.
[22] Peraltro, si è recentemente sostenuto (I. Capelli, op. cit., 138 ss.) che il potere di agire disgiuntamente si pone su di un piano diverso “rispetto all’esistenza di un generale dovere di informare gli altri amministratori. In altri termini, e sempre escludendo la necessità che l’amministratore debba ricercare il consenso dei co- amministratori, l’amministrazione non attribuisce di per sé al singolo una sorta di “diritto al silenzio” sul proprio operato nei confronti degli altri amministratori… Sussiste dunque il dovere degli amministrazione di darsi reciproca informazione sulle attività in corso di realizzazione, quando ciò sia ragionevolmente possibile in rapporto alla natura ed all’importanza dell’attività di gestione…”. In altri termini, il dovere di diligenza porta ad escludere che il potere individuale possa giungere fino alle estreme conseguenze di consentire all’amministratore di agire furtivamente e di puntare all’“effetto sorpresa”; esigenza di coordinamento che risulta oggi coerente con il dovere di predisporre adeguati assetti organizzativi.
[23] F. Canazza, Concordato preventivo, organi sociali e deliberazione della proposta, in Fallimento, 2019, 935.
[24] Cass., 14 giugno 2016, n. 12273, in Società, 2016, 1329, con nota di Spiotta. Le argomentazioni utilizzate per sostenere nella fattispecie il limite al potere del liquidatore sono tuttavia contraddette dalla successiva sentenza Cass., 1° giugno 2017, n. 13867, in Notariato, 2017, 664, con nota di Trivigno, e in Corr. giur., 2017, 1562, con nota di Turelli. In sintesi, secondo questa sentenza “ove l’assemblea che ha deliberato lo scioglimento della società e la nomina del liquidatore non abbia determinato i poteri attribuiti a quest’ultimo alla stregua delle indicazioni contenute nell’art.2487, comma 2, c.c., il liquidatore è investito, giusta l’art. 2489, comma 1, c.c., del potere di compiere ogni atto utile per la liquidazione della società”.
[25] S. Turelli, Competenze gestorie dei liquidatori di società di capitali e potere di decidere sulla proposta di concordato preventivo e sull’esercizio provvisorio dell’attività di impresa, in Corr. giur., 2017, 1567-1568.
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