Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 14/10/2021 Scarica PDF
Eutanasia legale. Riflessioni giuridiche sulla tutela penale del diritto alla vita ed il quesito referendario parzialmente abrogativo dell'art. 579 cod. pen. [1]
Francesco Paolo Garzone e Iacopo Iacobellis, Avvocati in TarantoSommario: 1. Introduzione all’argomento. – 2. Il diritto alla vita: dal principio di indisponibilità al quesito referendario, attraverso l’evoluzione giurisprudenziale.
1. Introduzione all’argomento
Il tema delle scelte riguardanti la fine della vita umana è denso di implicazioni etiche, filosofiche, religiose e, prima ancora, antropologiche, che rimandano al senso stesso dell'esistenza e al destino ultimo dell'uomo[2]. È la tradizionale contrapposizione tra diritti di primaria rilevanza costituzionale: alla vita — giuridicamente indisponibile anche dal diretto interessato — ed all’autodeterminazione.
Lo straordinario progresso della medicina consente di «strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali»[3]
“Il tema della morte, e, più in generale, quello della fine della vita umana, possiede una rilevanza assolutamente primaria per l'autocomprensione dell'uomo. Probabilmente esso non è propriamente un tema, ma il tema fondamentale della nostra esistenza, l'orizzonte che la circoscrive globalmente (anche se nel nostro tempo appare ordinariamente sottaciuto, se non addirittura rimosso) poiché investe la radice stessa del rapporto che noi siamo in grado di stabilire con noi stessi e con il mondo esterno”[4].
Quante volte ci chiediamo fino a che punto è “giusto” protrarre la sopravvivenza quando il soggetto interessato è in una situazione irreversibile che non gli consente una vita di relazione (come accade ai pazienti in stato vegetativo permanente) e/o gli procura sofferenze indicibili e per lui intollerabili facendogli vivere una condizione infernale? Cosa accade quando il paziente chiede di essere liberato da questo stato? Qual è il ruolo del medico e quali forme di aiuto sono consentite o dovute a fronte di istanze di questo tipo?
Il fine vita evoca il contrasto tra la libera sovranità individuale sul corpo ed i limiti che il potere statuale può, invece, imporre sul governo di quest'ultimo. La riflessione giuridica, che rimanda ancor prima a questioni di carattere etico, religioso, filosofico ed antropologico, si incentra sul valore dell'esistenza umana e sulla possibilità di ammettere che ciascuna persona possa determinarsi secondo la propria identità anche nella fase finale della vita, senza imporle di “esistere” contro le proprie convinzioni individuali[5].
L'acceso dibattito in ordine alla regolamentazione delle scelte di fine vita si è sempre svolto contrapponendo quanti esaltano il valore della vita in quanto sacra, inviolabile e giuridicamente indisponibile anche dal diretto interessato, a coloro che privilegiano l'assoluta libertà del soggetto di scegliere come vivere la propria esistenza fino alla fine dei suoi giorni secondo le convinzioni individuali[6].
Da tempo nascita e morte non costituiscono più eventi meramente naturali, sottratti al controllo dell'uomo. Oggi le tecniche di rianimazione rendono possibile la sopravvivenza umana in condizioni estreme.
Le macchine, con l'aiuto di farmaci e dispositivi medici, sono in grado di sostituire funzioni vitali come la respirazione, la circolazione sanguigna, la funzione renale, che l'organismo malato non è in grado di svolgere da solo. In tal modo si mantiene in vita (artificialmente) l'organismo finché la cura non faccia effetto o sia disponibile un organo per il trapianto. Talvolta l'efficacia della cura consente di sospendere il funzionamento delle macchine grazie al recupero della salute del paziente. Quando ciò non accade, la sopravvivenza è affidata alle macchine. Quando la vita viene sostenuta “artificialmente”, si pone il problema delle decisioni relative all'uso dei dispositivi medici, quello della loro appropriatezza, dei costi sostenibili, oltreché dei limiti di durata. Il fatto che la morte in questi casi non sia un evento istantaneo ma giunga al termine di un processo di cui le tecniche consentono di dilatare i tempi e rendere indefiniti gli esiti, porta all'insorgere di nuove situazioni esistenziali che hanno sollevato questioni etiche e giuridiche: se la medicina è in grado di prolungare il più possibile (artificialmente) la vita (o, talvolta, un simulacro di vita), “non sempre aiuta i malati a morire”[7]. Il problema che si poneva e che si è posto per tanti anni fino all'approvazione della l. 22 dicembre 2017 n. 2019 era quello della fissazione dei limiti (etici, medici, bioetici e giuridici) alle cure sanitarie, dato che l'obiettivo dell'arte medica, quello della cura del paziente, “occorre che sia temperato da alcune considerazioni etiche, compresa quella per cui non devono essere praticate quelle terapie sproporzionate per eccesso che procrastinino inutilmente la morte”.
La bioetica laica contemporanea giustifica la possibilità in casi estremi di mettere fine alla vita umana (e di essere aiutati in tal senso) muovendo “dall’argomento che, sul piano puramente razionale, non si dà un dovere incondizionato di continuare a vivere e che non si può invocare il concetto di “interesse alla vita” ove sussista una situazione di insostenibile sofferenza tale da rendere la vita non vivibile nella sua proprietà di vita umana. In questo caso il principio di autodeterminazione con il relativo diritto di determinare la propria morte assumerebbe figura di tutela della dignità umana, che potrebbe rendere persino doveroso l’intervento di terzi per consentirne la realizzazione. Analogamente il pensiero morale laico in linea di massima negativo nei confronti del suicidio include tuttavia il riconoscimento che esso può in certi casi essere giustificato ove risulti motivato dall’intenzione di rendere testimonianza ai valori in cui si crede”[8].
La morale cattolica è invece di tutt’altro avviso. Nell’enciclica Evangelium vitae si afferma che a causa della concezione edonistica della vita, che fa ritenere la morte una semplice liberazione dal dolore, e dei continui progressi della scienza medica, che consentono di protrarre l’esistenza in situazioni prima insolubili, “si fa sempre più forte la tentazione dell’eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine “dolcemente” alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della “cultura di morte”, che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate. Esse vengono molto spesso isolate dalla famiglia e dalla società, organizzate quasi esclusivamente sulla base di criteri di efficienza produttiva, secondo i quali una vita irrimediabilmente inabile non ha più alcun valore”; “… l’eutanasia è una grave violazione della legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla parola di Dio scritta, è trasmessa dalla tradizione della Chiesa e insegnata dal magistero ordinario e universale”[9].
La proposta di referendum sull’eutanasia legale è ormai quasi una certezza. Mentre scriviamo questo contributo, il comitato referendario annuncia che sono state raccolte più di un milione di firme, ben oltre le 500.000 richieste dalla Carta Costituzionale.
Salvo, pertanto, il vaglio di ammissibilità del quesito e\o sorprese da parte del Parlamento che, invertendo la rotta assunta in questi lunghi anni di inerzia, decida di legiferare in materia (anche se un eventuale intervento del Legislatore potrebbe apparire agli occhi dei cittadini come il tentativo maldestro di rinviare il referendum sul quale è già in fieri un dibattito sul tema, tanto da aver avvicinato ai “banchetti” più di un milione di cittadini), il popolo italiano sarà chiamato a decidere se introdurre nel nostro ordinamento giuridico l’istituto dell’eutanasia legale già presente in altri Paesi, comunitari e non.
Senza dubbio l’inerzia del Legislatore è censurabile, avendo avuto tutto il tempo per poter discutere e approvare una Legge che tenesse conto delle diverse e sensibili istanze provenienti dalla società.
Un intervento legislativo avrebbe evitato la possibilità di ricorrere al referendum e, così facendo, di rimettere direttamente nelle mani del corpo elettorale la decisione su una materia che necessita non di slogan ma di una sensibile e attenta valutazione.
Il tema dell’eutanasia, infatti, per la sua delicatezza e complessità, non pare poter essere compendiato in una mera domanda da sottoporre al cittadino elettore nella segretezza della cabina elettorale (SI o NO). La tecnica del referendum impedisce, in altre parole, la possibilità per i votanti di esprimere posizioni diverse su un tema complicato, che attiene a situazioni che, per la loro complessità medica, etica, religiosa, non possono trovare un compendio frettoloso in una fredda domanda individuata nella scheda.
Esclude possibili soluzioni intermedie[10]. L'impossibilità di una mediazione comporta l'effetto di un “gioco a somma zero”[11]. Rispetto alla proposta formulata sono possibili solo due esiti: la totalizzazione del massimo risultato ottenibile o una perdita secca[12].
La storia ci insegna, tra l’altro, che se la proposta politica sottostante alla consultazione referendaria finisce per non coincidere con il contenuto del quesito, si giunge ad un quesito “implicito” che nel dibattito antecedente al voto potrebbe anche oscurare il contenuto effettivo del quesito “esplicito”, cioè di quello riportato sulla scheda. Da ciò derivano due possibili conseguenze: da una parte la consultazione finisce per caricarsi di un significato politico ulteriore rispetto ai suoi effetti giuridici naturali; dall'altra, l'effettiva portata della consultazione potrebbe apparire ambigua a coloro che sono chiamati a votare.
I dubbi sul ricorso a questo tipico istituto di “democrazia diretta”, soprattutto su argomenti delicati come l’eutanasia, sono tanti ma, essendo la strada del referendum già intrapresa, è opportuno anche chiedersi se i cittadini siano adeguatamente informati sul tema o se, invece, sia concreto il rischio di assistere ad una “competizione” tra semplici slogan che, per la loro natura emozionale, parlano al cuore della gente senza trasmettere una effettiva conoscenza.
2. Il diritto alla vita: dal principio di indisponibilità al quesito referendario, attraverso l’evoluzione giurisprudenziale.
La radicale domanda che il dibattito sull’eutanasia propone è: può l’ordinamento giuridico invertire il principio della indisponibilità del bene vita?
Il diritto penale tradizionale apprestava una tutela del diritto alla vita, sanzionando in misura progressivamente decrescente le fattispecie di omicidio (art. 575 c.p.), omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) ed agevolazione o istigazione dell’altrui suicidio (art. 580 c.p.).
Da questa tutela originariamente apprestata dal Legislatore si faceva derivare, correttamente, l’indisponibilità del diritto alla vita: se era vero, infatti, che il suicidio non costituiva atto punibile né quando consumato (per ovvie ragioni: non è possibile punire una persona che è già morta) né quando tentato (per motivi umanitari), esso era comunque oggetto di disvalore da parte del Legislatore, tant’è che l’art. 580 sanzionava qualsiasi contributo esterno sia di carattere psicologico (determinazione o istigazione) che materiale (agevolazione).
La graniticità di questa architettura è stata progressivamente erosa dalle successive evoluzioni, giurisprudenziali (prima) e normative (poi).
Il primo case law fu regolato dal Giudice dell'Udienza Preliminare del Tribunale di Roma con sentenza del 23 luglio -17 ottobre 2007, n. 2049.
Piergiorgio Welby era affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, clinicamente diagnosticato quale “distrofia fascioscapolomerale”.
La sua sopravvivenza era assicurata esclusivamente per mezzo del respiratore automatico al quale era stato collegato sin dall’anno 1997.
I trattamenti sanitari praticati sulla sua persona non erano in grado di arrestare in alcun modo il decorso della malattia avendo quale unico scopo quello di differire nel tempo l’ineludibile e certo esito infausto.
Egli, pertanto, dopo essere stato debitamente informato, chiedeva al medico di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di sostentamento in atto e di ricevere assistenza solamente per lenire le sofferenze fisiche; ovvero, che si procedesse al distacco dell’apparecchio di ventilazione, sotto sedazione.
Il medico di fiducia opponeva un rifiuto alla richiesta di Welby, che si vedeva costretto a rivolgersi alla magistratura, attraverso un ricorso d’urgenza, ex art. 669 ter e 700 c.p.c., volto ad ottenere il distacco del respiratore artificiale sotto sedazione terminale.
Il ricorso, con ordinanza depositata il 16 dicembre 2006, veniva dichiarato inammissibile.
Nel frattempo però Welby proseguiva nel suo intento, avendo trovato un medico anestesista resosi disponibile a venir incontro alle sue esigenze.
Nel procedimento penale a carico del medico e conseguente alla morte di Welby la Procura della Repubblica di Roma richiedeva l’archiviazione.
La conclusione si basava sull’esito della consulenza medico-legale, che escludeva qualsiasi nesso tra la sedazione ed il decesso del paziente, indicando quale unica causa di morte l’insufficienza respiratoria relativa alla malattia.
La richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura veniva rigettata dal giudice per le indagini preliminari.
Il processo per omicidio del consenziente, tuttavia, si concludeva nel luglio 2007 con una sentenza di non luogo a procedere: nella decisione il giudice per l’udienza preliminare metteva in luce che nell’ordinamento italiano “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, richiamando, peraltro, l’art. 13 Cost., secondo il quale “la libertà personale è inviolabile” e da ciò desumeva il diritto all’autodeterminazione del paziente, sovvertendo le motivazioni del G.I.P. e sottolineando che la gerarchia delle fonti del diritto contempla, comunque, la prevalenza della Carta costituzionale, ovvero di un dettato improntato al rispetto della volontà del paziente e al diritto a disporre del proprio corpo, anche attraverso il rifiuto delle cure mediche.
Il giudice riconosceva che il comportamento del medico imputato rientrava nella norma incriminatrice dell’omicidio del consenziente (art. 579 del codice penale) ma osservava che la condotta del medico si era realizzata nel contesto di una relazione terapeutica e, quindi, sotto la copertura costituzionale del diritto del paziente di rifiutare trattamenti sanitari non voluti (causa di non punibilità dell’adempimento di un dovere, così come stabilito dall’articolo 51 del codice penale).
La seconda tappa dell’evoluzione giurisprudenziale che conduce alla negazione dell’indisponibilità (id est, irrinunciabilità) del diritto alla vita è costituita dalla sentenza della Cassazione civile, I sezione, 16 ottobre 2007, n. 21748, nel noto caso Englaro: “Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice fatta salva l'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell'interesse del paziente può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario, in sé non costituente, oggettivamente, una forma di accanimento terapeutico, unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”. “In tema di attività medico-sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c'è spazio nel quadro dell' «alleanza terapeutica» che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno per una strategia della persuasione, perché il compito dell'ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c'è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Né il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”.
Le posizioni espresse dalla giurisprudenza sono state, poi, cristallizzate dal Legislatore: la legge 15 marzo 2010, n. 38 ha dettato “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”; la legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) ha sancito in modo espresso il diritto della persona capace di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, ancorché necessario per la propria sopravvivenza (compresi quelli di nutrizione e idratazione artificiale) previo apposito procedimento medico di informazione e controllo del consenso; in altri termini, nel quadro della valorizzazione del principio costituzionale del consenso informato ha “positivizzato” il diritto del paziente di rifiutare le cure e di "lasciarsi morire".
La Corte Costituzionale, infine, con la nota sentenza 242/2019, preceduta dall’ordinanza di rinvio-monito 207/2018, ha individuato una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa al vaglio (art. 580 c.p., sub specie di agevolazione del suicidio[13]) nei casi in cui l'aspirante suicida si identifichi – come nella vicenda oggetto del giudizio a quo – in una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
La vicenda giudiziale traeva origine dalla “questione Marco Cappato”, imputato per il reato di istigazione o aiuto al suicidio per aver rafforzato l'intento suicida di Antoniani Fabiano, noto come Dj Fabo, ed averlo materialmente aiutato ad arrivare nella clinica estera ove si era sottoposto volontariamente ad eutanasia attiva. Dj Fabo era affetto da tetraplegia e cecità causate da un incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014, il quale lasciò integre le sue capacità volitive ed intellettive. Egli avrebbe ben potuto richiedere il distacco della ventilazione artificiale e di qualsiasi ausilio alla nutrizione. Le sue condizioni cliniche lo avrebbero, però, costretto ad un periodo lungo di stato agonico e a fronte di ulteriori sofferenze preferì gestire la propria morte in un modo considerato da lui stesso più dignitoso, ricorrendo — appunto — all'assistenza al suicidio in Svizzera, che avvenne il 27 febbraio 2017, azionando egli stesso con la bocca uno stantuffo attraverso il quale iniettò il farmaco letale.
L'incipit della motivazione della Consulta (dell'ordinanza e ribadito nella sentenza) appare di stampo paternalistico. La Corte ha escluso che l'incriminazione dell'aiuto al suicidio possa ritenersi di per sé in contrasto con la Costituzione ed individuato la ratio dell'art. 580 c.p. nella “tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l'ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere”[14].
La conclusione della Corte è stata variamente criticata: chi è contrario al suicidio assistito vi ha visto un attentato inaccettabile alla intangibilità della vita ed un pericolosissimo pertugio verso la generalizzazione dell'eutanasia; per chi invece è favorevole, rischia di essere una decisione decisamente troppo limitativa[15].
La legislazione oggi in vigore non consente, comunque, al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti non già ad eliminare le sue sofferenze ma a determinarne la morte[16] (omicidio del consenziente – art. 579 c.p.).
Con il quesito referendario attualmente al vaglio della Suprema Corte si chiede, pertanto, di abrogare parzialmente l’art. 579 c.p., sì da sanzionare penalmente la condotta di “chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui” esclusivamente “se il fatto è commesso: 1. Contro una persona minore degli anni diciotto; 2. Contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3. Contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”.
Finora la funzione sistematica dell’art. 579 c.p. è stata, innanzitutto, quella di sancire che il diritto alla vita non rientra nel novero dei diritti disponibili da parte del titolare; inoltre, quella di stabilire un trattamento punitivo “privilegiato” (rispetto a quello comune, desumibile dall’art. 575 c.p.), riconoscendo un minore grado di antigiuridicità alla condotta omicida tenuta nei confronti del consenziente.
Eliminando le parole che la proposta di referendum si propone di abrogare, invece, l’art. 579, c.p. ruoterebbe agli antipodi e si ritroverebbe a sancire il principio di disponibilità del diritto alla vita.
L’asse teleologico dell’art. 579 c.p. (e cioè la finalità politico criminale ch’esso è destinato a realizzare) risulterebbe così letteralmente rovesciato: da norma-baluardo dell’indisponibilità del diritto alla vita a norma-riconoscimento della sua disponibilità.
Il quesito consiglia la riflessione su un tema essenziale e le cui “onde di propagazione” investono l’attualità anche in ambiti molto diversi e distanti dalle dolorose vicende umane Welby, Eluana Englaro e dj Fabo.
Il giurista chiamato ad esprimere il proprio parere rispetto all’importanza delle questioni trattate ed alle implicazioni che derivano dalla scelta per una (piuttosto che per un’altra) opzione legislativa non può che soffrire un senso – tutto umano – di umiltà ed incertezza.
La domanda, infatti, è radicale ed investe il quesito su chi, in concreto, debba governare il vivere e decidere la morte.
I confini all’interno dei quali è destinata a compiersi la scelta coincidono con i due poli dell’attività sanitaria: il diritto all’autodeterminazione del paziente da un lato ed il dovere di cura del medico dall’altro.
Si tratta, in sostanza, di riflettere su un tema antico ma ancora attuale, ossia sui limiti e sulla natura della libertà umana, cercando di tradurre in termini giuridici una riflessione che si appartiene (anche o, forse, soprattutto) ad altre branche dello scibile umano.
La certezza di Friedrich Carl von Savigny che “la morte come limite della capacità giuridica è un evento naturale così semplice che non è necessaria una determinazione più netta dei suoi elementi” a distanza di due secoli cede il passo ad uno stato di fatto che, grazie anche al progresso tecnico-scientifico, si presenta assai più problematico.
L’incessante incedere del sapere medico può illudere, invero, di restituire alla persona la signoria sulla vita e di elevare la stessa ad unica titolare del diritto di decidere in ordine ai trattamenti sanitari e al rifiuto degli stessi.
Tale illusione, tuttavia, si scioglie al contatto con l’etica della sacralità della vita e si inchina al cospetto delle tematiche di fine-vita.
Il responsabile giurista non può che vivere con senso di preoccupazione la sostanziale deriva normativa e giurisprudenziale verso una concezione del diritto alla vita non già come indisponibile, ergo irrinunciabile, prevalente nel confronto e nel bilanciamento con altri diritti costituzionali, ma addirittura recessivo rispetto a questi.
Tanto perché l’art. 2 della Costituzione, nel riconoscere i diritti inviolabili della persona umana, presuppone la vita (recte, una vita dignitosa)[17] di quest’ultima come valore – anche giuridico – sovraordinato rispetto ad ogni altro diritto[18].
Perché l’art. 3 della Carta, nel tutelare e promuovere l’uguaglianza sia in senso formale che in una dimensione sostanziale (come dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di natura economica e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese) consente ed incentiva l’evoluzione storica dallo Stato liberale (ove la tutela era riferita esclusivamente ai cosiddetti diritti di libertà) allo Stato democratico (ove invece lo Stato è chiamato ad intervenire nella vita dei cittadini, anche limitandone la libertà e l’autonomia, in vista della tutela dei cosiddetti diritti sociali: alla salute, all’istruzione scolastica, all’ambiente…).
Perché, in effetti, l’art. 32 della Costituzione tutela la salute non soltanto come diritto “fondamentale” (l'unica volta in cui il Costituente usa questa qualificazione) dell’individuo ma anche come interesse della collettività.
Perché il diritto è tutelato a livello sovranazionale dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (art. 3); ancora, dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (art. 6); dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (art. 2) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (art. 2).
Si tratta di una cornice che rende ancora corretta ed attuale la costruzione giuridica del diritto alla vita come diritto indisponibile ed irrinunciabile.
D’altronde, l’ordinamento conosce già diritti indisponibili, irrinunciabili, inalienabili; diritti rispetto ai quali la libertà personale di autodeterminazione è destinata a recedere (ad esempio, il diritto di difesa, che è inviolabile ai sensi dell’art. 24, comma 2, Cost., ergo irrinunciabile – come insegna l’esperienza dei tanti avvocati uccisi durante il periodo del terrorismo eversivo dell’ordinamento costituzionale dello Stato).
Orbene: se il diritto di difesa dell’imputato nel processo penale è (giustamente!) indisponibile, inviolabile, irrinunciabile (l’imputato non può rinunciare alla difesa tecnica da parte di un difensore, neanche ove lo volesse), perché mai dovrebbe ritenersi inconcepibile un diritto alla vita che anch’esso sia tale, e dunque prevalente sulla libertà personale di autodeterminarsi alla morte? Forse nella scala di valori il diritto alla difesa vale più del diritto alla vita?
Gli orizzonti di questo dibattito sono molto più vasti di quelli che si possano immaginare.
Ogni norma, invero, non vive come una monade, in una sfera assolutamente impermeabile al contatto con le altre regole che presiedono alla vita civile dei consociati.
Se si aprisse definitivamente alla disponibilità del diritto alla vita le conseguenze sarebbero tante e, forse, imprevedibili: inattuale e superata diventerebbe, ad esempio, la disposizione dell’art. 5 cod. civ., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo ove tali da determinare una permanente diminuzione dell’integrità psico-fisica[19].
Non solo: si pensi a tutte quelle situazioni di conflitto fra diritto alla vita/salute ed altri diritti costituzionalmente protetti; se si enfatizzasse il diritto all’autodeterminazione (libertà personale) fino a renderlo prevalente sullo stesso diritto alla vita come mai si potrebbe fondare logicamente la legittimità di una previsione di obbligo vaccinale? (Per limitare l’ambito di attenzione ad una questione di scottante attualità).
Oppure, si pensi al conflitto che attività industriali o produttive impattanti sull’ambiente propongono fra il diritto alla vita/salute e la libertà d’iniziativa economica privata.
O, ancora, si pensi alle implicazioni che l’apertura all’eutanasia avrebbe sull’eugenetica: se fosse possibile disporre del diritto alla vita di una persona vivente (opzione consensualistica proposta dal quesito referendario) perché mai non dovrebbe essere possibile disporre del diritto a nascere di un embrione e quindi autorizzarne la selezione in virtù di parametri (razza, sesso, colore dei capelli…) predeterminati?
Se fosse lecito distinguere quoad mortem fra vite degne di essere vissute e non (eutanasia) perché mai questo non dovrebbe essere consentito quoad vitam (eugenetica)?
Sul piano etico soccorre quanto contenuto nella Dichiarazione sull’eutanasia (parte IV del 9.12.2000) della Pontificia Accademia per la vita: “Nell’immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile ed imminente … vi è grande differenza etica tra “procurare la morte” e “permettere la morte”: il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa e rievoca una delle pagine più alte delle Sacre Scritture (“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” – Lc. 23, 46), quella che, con silenziosa commozione, ripercorre l’abbandono consapevole e fiducioso del Figlio dell’Uomo sul Golgota ad un destino in cui: “Tutto è compiuto” (Gv. 19,30), in cui l’immagine umana della sofferenza e della fine dell’esistenza è vinta dal tempo e si consegna alla storia: “E, chinato il capo, spirò (Gv. 19,30”.
Altro è che il medico debba astenersi da trattamenti straordinari non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura”; altro è che debba uccidere il paziente, sebbene con il suo consenso.
Naturalmente, si tratta di compiere una scelta di campo non universalmente condivisa.
Così, ad esempio, scriveva Indro Montanelli: “Io non voglio soffrire, io non ho della sofferenza un’idea cristiana. Ci dicono che la sofferenza eleva lo spirito; no la sofferenza è una cosa che fa male e basta, non eleva niente. E quindi io ho paura della sofferenza. Perché nei confronti della morte, io che in tutto il resto credo di essere un moderato, sono assolutamente radicale. Se noi abbiamo un diritto alla vita, abbiamo anche un diritto alla morte. Sta a noi, deve essere riconosciuto a noi il diritto di scegliere il quando ed il come della nostra morte”.
Questa, viceversa, la riflessione di Jourcenar nelle Memorie di Adriano: “L’esistenza mi ha dato molto o, perlomeno, io ho saputo ottenere molto da lei. In questo momento … mi sembra che non abbia più niente da offrirmi, ma non sono certo di non avere più nulla da imparare da lei. Ascolterò fino all’ultimo le sue istruzioni segrete: per tutta la vita mi sono fidato della saggezza del mio corpo; ho cercato di assaporare con criterio le sensazioni che questo mio amico mi procurava, devo a me stesso di apprezzarne anche le ultime … L’ora dell’impazienza è passata … ho rinunciato a precipitare la mia morte”.
Al di là dell’opzione prescelta, ciò che maggiormente dispiace è che la polarizzazione del dibattito, favorita dall’inevitabile nettezza del proposto quesito referendario, non imprima invece il giusto focus sul potenziamento del sistema sociale di “prendersi-cura” anche delle persone che versano in condizioni terminali.
L’esperienza, forse trascurata dalla soluzione parzialmente abrogativa dell’art. 579 c.p., è quella di tanti anziani la cui tentazione di lasciarsi andare probabilmente non vi sarebbe se vi fosse una rete di assistenza, vicinanza, non tanto nella mera “cura” quanto nel “prendersi cura” degli stessi attraverso un atteggiamento di amorevole conforto.
La pratica del sanitario e del giurista, filtrata da solidi fondamenti etici, insegna che spesso il desiderio di morte, pur di fronte ad acute sofferenze, dissimula una tensione verso la vita.
La richiesta del malato di lasciarlo morire tradisce frequentemente un bisogno di attenzione e di amore, che può trovare risposta in un’efficace terapia del dolore e nella presenza di strutture e personale adeguati.
Il proposto quesito referendario tradisce tale sforzo, diretto ad ampliare il carattere “sociale” piuttosto che “libertario” del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.
Aderisce, invece, al principio di assoluta signoria del consenso che, benché apparentemente al servizio di una malintesa e soltanto asserita causa di progresso del genere umano, lungi dall’attuare la piena capacità di autodeterminazione dell’uomo, comporta invece l’infelice ripiegamento della persona su se stessa ed il malinconico ritorno dell’ordinamento ad un passato in cui il diritto alla salute era inteso come diritto di libertà (Stato liberale) piuttosto che come diritto sociale (Stato democratico).
[1] Il contributo dottrinale scaturisce dal pubblico dibattito: “Eutanasia legale. Le ragioni del si e del no a confronto”, tenutosi a Palagianello (TA) presso il Teknè – Centro di esperienza socio culturale in data 16.9.2021.
[2] È l'incipit del saggio di V. Verdicchio, Testamento biologico e consenso informato (Aspetti delle decisioni di fina vita nel diritto italiano tra jus conditum e jus condendum), in Dir. succ. e fam., 2017, 637.
[3] Corte cost., n. 207 del 2018 (ord.); il passo è poi ripreso nella sentenza n. 242 del 2019.
[4] Così, nel 1995, il Comitato Nazionale per la Bioetica introduceva il proprio parere sulle “Questioni bioetiche alla fine della vita umana”.
[5] M. Foglia e S. Rossi, voce Testamento biologico, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Agg., IX, Torino, 2014, 641.
[6] D. Neri, Il diritto di decidere la propria fine, in S. Canestrari, G. Ferrando, C.M. Mazzoni, S. Rodotà e P. Zatti (a cura di), Il governo del corpo, II, in Trattato di biodiritto, S. Rodotà e P. Zatti (diretto da), Milano, 2011, 1785.
[7] Così Foglia, S. Rossi, voce Testamento biologico, in Dig. IVº ed., Disc. priv., Aggiornamento, IX, Torino, 2014, 639 e ss., in part. 643.
[8] G. ZIZOLA, Testamento in vita. I termini del discorso, in Il tetto, 2008, n. 263, pag. 61- 62, il quale al riguardo così conclude: “Dal punto di vista di un’etica laica, non esistono dunque sul piano meramente filosofico, ragioni così perentorie da escludere radicalmente ogni possibilità di autodeterminazione rispetto alla morte. Il che comporta che il suicidio, – non quello conseguente a stati patologici psichici, ma quello deliberato lucidamente nella persuasione che la vita abbia perduto il suo senso proprio – non potrebbe essere moralmente riprovato, non esistendo di per sé un diritto alla vita ad ogni costo, ma solo un diritto a vivere dignitosamente e dovendo pertanto ammettere che, ove ciò non possa più verificarsi, sia lecito darsi la morte” (Ibidem, pag. 62)
[9] GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Evangelium vitae, 25.3.95, n. 65
[10] Cfr. G. M. Salerno, Il referendum (voce), in Enciclopedia del diritto, XXXIX, Giuffré, Milano, 1988, che osserva (par. 9) come una “caratteristica propria della 'domanda', e conseguentemente del quesito referendario, è la formulazione in termini dilemmatici ed alternativi, in modo da non consentire risposte ulteriori o differenziate rispetto all'accettazione di una soluzione ed al corrispondente rifiuto della soluzione opposta: la volontà popolare non può esprimersi in forme intermedie, quali ad esempio l'adesione parziale o condizionata ad una delle due opposte soluzioni proposte, sempre per evidenti ragioni di uniformità della risposta. […] il referendum si presenta, in tutte le sue forme, come espressione diretta della volontà popolare che si manifesta attraverso il criterio maggioritario inteso come prevalenza di una scelta nei confronti della scelta opposta. Del resto, la molteplicità di quesiti concorrenti, in relazione ai quali venga a determinarsi una graduatoria tra le risposte date dal corpo votante, potrebbe anche impedire la rilevazione della valutazione che raccolga la maggioranza dei consensi del corpo votante”.
[11] G.Sartori, Democrazia: cosa è, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. II, pp.742-749, Ivi p.85: “Una decisione viene detta a somma positiva quando tutti gli interessati ne sono avvantaggiati: tutti, insomma, guadagnano qualcosa (per questo la somma è positiva). Per contro una decisione viene detta a somma nulla (zero sum) quando chi la vince, vince tutto, e chi la perde, perde tutto (e la vincita corrisponde esattamente alla perdita: io vinco quel che l’altro perde)”.
[12] “È chiaro perché il referendum sia un meccanismo decisionale a somma nulla: ogni volta si approva o si respinge una proposta prefissata, e ogni volta ne esce un gruppo vincitore e un gruppo sconfitto. Divorzio sì o divorzio no; nucleare sì o nucleare no; e così via. Ed è altrettanto chiaro che se tutto (o il più) va in decisione referendaria, e il sistema delle decisioni politiche nel suo complesso che diventa a somma nulla o a somma zero”, G.Sartori, Democrazia: cosa è, cit., p.85. Su posizioni parzialmente contrarie, v. P. Uleri, Referendum e Democrazia, 2003, Bologna, Il Mulino, p. 58. Ivi, l'A. osserva che l'effetto “gioco a somma zero” si realizza solo all'interno di quegli ordinamenti in cui il ricorso al referendum sia raro ed eccezionale. Qualora invece si faccia ampio e frequente uso dei referendum, la dinamica cambia, in quanto il referendum si inserisce in un “processo decisionale più ampio e complesso, nel quale, spesso, l’ultima parola – di diritto o di fatto – non è quella dei governati ma quella di governanti”, con la conseguenza che si aprono spazi per la mediazione, in sede rappresentativa. Peraltro, seppure Sartori faceva riferimento, in particolare, ad un'ipotetica forma di governo, una “democrazia referendaria”, come possibile attuazione dell'ideale di democrazia diretta, che, in quanto tale sarebbe priva di un'assemblea rappresentativa, nello stesso scritto (p.78) rileva che anche all'interno delle democrazie rappresentative il referendum è “un modo di decidere viziato da difetti intrinseci”.
[13] Cass. pen. 12 marzo 1998 n. 3147
[14] Corte cost., n. 207 del 2018 (ord.).
[15] «Ci potrà essere una persona con una patologia degenerativa neuromuscolare, in ventilazione controllata per alcune ore al giorno tramite tracheostomia ma non completamente dipendente da essa; una situazione molto simile a quella in esame, ma nella quale sono assenti dolori fisici significativi. Oppure una persona con la stessa patologia, ancora autonoma dal punto di vista respiratorio ma con gravi problemi di disfagia e quindi nutrita artificialmente tramite PEG, che chieda di rinunciare alla stessa ma contestualmente ritenga lesivo della propria dignità il lungo tempo che intercorrerebbe dalla sospensione della nutrizione alla morte». In L. Busatta, N. Zamperetti, L'aiuto medico a morire dopo la sentenza sul caso Cappato, in Responsabilità Medica, 4, 2019, pp. 483-488.
[16] Diverse, a tal proposito, sono le scelte operate dai Legislatori europei: si va dall’ammissibilità dell’eutanasia della legge olandese (L. 10.4.2001 n. 137) a legislazioni di “compromesso”, come la loi francese 22.4.2005.
[17] In tema di dignità, F. D. Busnelli, Le alternanti sorti del principio di dignità della persona umana, in Riv. dir. civ., 2019, 1071 ss.; M. Meli, Dignità della persona e diritto all'autodeterminazione: l'incidenza del diritto sovranazionale sul diritto privato, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 10 ss.; A. Pirozzoli, La dignità dell'uomo, Napoli-Roma, 2012, 161; C.M. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, trad. it. di E. Greblo, Bologna, 2002, passim; A. Baldassarre, Diritti della persona e valori costituzionali, Torino, 1997, passim; F.P. Casavola, I diritti umani, Padova, 1997, passim; F. Bartolomei, La dignità umana come concetto e valore costituzionale, Torino, 1987, passim; G. Ferrara, La pari dignità sociale (Appunti per una ricostruzione), II, in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, a cura di G. Zangari, Milano, 1974, 1089 ss.
[18] Sulla centralità della persona nel nostro ordinamento si veda diffusamente S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Bari, 2012, 140 ss.; P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 2006, passim; Id., La personalità umana nell'ordinamento giuridico, Napoli, 1972, passim; L. Palazzini, Il concetto di persona tra bioetica e diritto, Torino, 1996, 16-25 e passim; P. Rescigno, Persona e comunità. Saggi di diritto privato, Bologna, 1966, passim; Id., voce Personalità (diritti della), in Enc. giur., XXIV, Roma, 1991, 6 ss.; P. D'Addino Serravalle, Atti di disposizione del corpo e tutela della persona umana, Napoli, 1983, 52 e 79 ss.; M. Bessone e G. Ferrando, voce Persona fisica, a) Diritto privato, in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 196 ss.; D. Messinetti, voce Personalità (diritti della), ivi, 335 ss.; P. Zatti, Persona giuridica e soggettività, Padova, 1975, 100 ss.; G. Giampiccolo, La tutela della persona umana e il cosiddetto diritto alla personalità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2, 1958, 458 ss.; P. Barile, Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Padova, 1953, passim; A. Falzea, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano, 1939, passim.
[19] In tema v. T. Pasquino, Il bene “vita” e l'integrità del corpo: note a margine dell'art. 5 c.c., in Le decisioni di fine vita, a cura di M. Bianca, in Quaderni della “Rivista del Notariato”, Milano, 2011, 55 ss.; G. Campanelli, Linee giurisprudenziali della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione in tema di atti di disposizione del corpo, Torino, 2009, passim; G. Anzani, Identità personale e atti di disposizione della persona, in Nuova giur. civ. comm., 2008, 207 ss.; G. Cricenti, I diritti sul corpo, Napoli, 2008, passim; D. Carusi, Atti di disposizione del corpo, in Enc. giur., Roma, 1999, 10 ss.; R. Romboli, La libertà di disporre del proprio corpo: profili costituzionali, in Aa. Vv., Vivere: diritto o dovere?, a cura di L. Stortoni, Trento, 1992, 34 ss.; Id., La relatività dei valori costituzionali per gli atti di disposizione del proprio corpo, in Pol. dir., 1991, 565 ss.
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