Civile


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 09/09/2021 Scarica PDF

Verso l'obbligo vaccinale urbi et orbi

Manuela Salvalaio, Avvocato in Padova


SOMMARIO: 1. Progressiva estensione ai lavoratori della obbligatorietà del green pass (versus) obbligo vaccinale. 2. Tra obbligo vaccinale, raccomandazione e tutela della salute sul luogo di lavoro. 3. L'intervento della normativa in materia di green pass ed il relativo impatto sull'obbligo di vaccinazione. 4. Il datore di lavoro nella giungla tra l'(assenza) di un obbligo vaccinale, green pass e privacy. 5. Le conseguenze del rifiuto del dipendente di sottoporsi alla vaccinazione. 6. Conclusioni attendendo l'intervento normativo.



1. Progressiva estensione ai lavoratori della obbligatorietà del green pass (versus) obbligo vaccinale

La marcia verso l'estensione dell'obbligo di Certificazione verde COVID-19 (c.d. green pass) a tutti i lavoratori (in senso lato, non solo quindi a quelli subordinati) ha subìto una evidente accelerazione proprio in concomitanza con la riapertura settembrina dei "cancelli delle fabbriche", attraverso l'allargamento progressivo dell'obbligo a settori diversi (ormai sembrerebbe in via di approvazione il decreto con cui si impone l'obbligo anche ai dipendenti della pubblica amministrazione ed ai lavoratori dei settori ove esso è già previsto per i clienti).

Proprio il 9 settembre 2021 è stato approvato dal Governo il D.L "Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza da COVID-19 in ambito scolastico, della formazione superiore e socio sanitario - assistenziale", con cui è stato previsto per il personale delle residenze sanitarie per anziani (amministrativi e addetti spesso esterni che si occupano di pranzi e cene degli ospiti e delle pulizie) l'obbligo di sottoporsi al vaccino, così ampliando la platea dei lavoratori in cui requisito essenziale per lo svolgimento della prestazione diventa la somministrazione del vaccino. Nelle residenze sanitarie per anziani, peraltro, già vige l'obbligo di vaccinazione per il personale sanitario.

Con lo stesso D.P.C.M. è arrivato l'allargamento (del possesso) della certificazione verde anche per gli addetti (esterni) alle mense scolastiche e universitarie e per i lavoratori delle imprese di pulizia e manutenzione negli istituti scolastici.

Il decreto ha inoltre esteso l'obbligo di green pass nella scuola agli studenti che frequentano gli istituti di alta formazione artistica musicale e coreutica, nonché le istituzioni di alta formazione collegate alle università.

Si intensificano, inoltre, proprio in questi giorni anche gli incontri tra le organizzazioni sindacali e le associazioni datoriali per raggiungere un accordo sui limiti dell'estensione del "lasciapassare" e per rafforzare (quale misura coadiuvante) i Protocolli delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro.

Ineluttabile sembra, quindi, il graduale, ma inesorabile incedere (attraverso l'inclusione in via normativa a settori e categorie merceologiche) dell'obbligatorietà del green pass, con la manifesta finalità di addivenire ad una sorta di "osmosi" tra obbligo di adozione del green pass e l'estensione omnibus dell'obbligo vaccinale. Sicché i confini tra le due obbligazioni si fanno via via volutamente labili.



2. Tra obbligo vaccinale, raccomandazione e tutela della salute sul luogo di lavoro

In attesa della capillare emanazione di interventi normativi ad hoc per singoli settori e categorie, numerosi sono i quesiti rimasti sul tavolo in merito alla esistenza di un obbligo vaccinale in capo ai dipendenti (anche alla luce della recente normativa relativa al green pass) ed all'individuazione dei possibili strumenti a disposizione del datore di lavoro in caso di omessa adozione da parte dei dipendenti. Punctum pruriens rimane, peraltro e preliminarmente, anche l'ambito della conoscenza e/o conoscibilità del possesso o meno del "lasciapassare", atteso il vuoto normativo lasciato dal legislatore.

Ripercorrendo la vigente disciplina emergenziale, nonché la normativa in materia di salute e sicurezza sul posto di lavoro, vale la pena di ricordare che, a fronte dei principi sanciti dall'art 32 della Costituzione, il quale dall'un lato tutela la salute come fondamentale interesse della collettività, dall'altro impone che nessuno possa essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, attualmente l'unica norma che direttamente impone il vaccino anti-Covid-19 è il D.L. n. 44 del 1.04.2021, convertito con modificazioni dalla L. n. 76 del 28.05.2021, il quale, all'art. 4, prevede un obbligo di vaccinazione in capo agli esercenti le professioni sanitarie ed agli operatori di interesse sanitario[1] ed il recente D.L. del 9 settembre 2021, che ha ampliato la platea anche ai lavoratori che gravitano nell'ambito dei suddetti servizi.

Per tutti gli altri soggetti, dunque, la somministrazione del vaccino è esclusivamente "raccomandata".

Inoltre, il D.L. n. 111 del 6.08.2021 ha aggiunto l'art. 9-ter al D.L. n. 52 del 22.04.2021, convertito con modificazioni dalla L. n. 87 del 17.06.2021, il quale prevede che dal 1° settembre 2021 e fino al 31 dicembre 2021, tutto il personale scolastico del sistema nazionale di istruzione e universitario, nonché gli studenti universitari, debbono possedere e sono tenuti ad esibire la certificazione verde COVID-19[2].

Si ricorda che sono tuttora vigenti le misure emergenziali contenute nei c.d. Protocolli anti-contagio.

Peraltro, in assenza di un intervento del legislatore sul punto, ad oggi non sussiste alcun obbligo di vaccinazione per i dipendenti non espressamente individuati dalle citate disposizioni. Ciononostante, la dottrina si è espressa in modo non univoco sul punto, assumendo diverse posizioni.

Una parte della dottrina[3], favorevole ad una implicita estensione dell'obbligo vaccinale ai lavoratori, sottolinea come la giurisprudenza costituzionale in merito all'art. 32 della Costituzione, abbia più volte puntualizzato che la salute costituisce un diritto fondamentale della persona, che opera sia in ambito pubblicistico sia nei rapporti di diritto privato. Il suddetto precetto non si esaurirebbe nella tutela di posizioni attive pretensive, ma postulerebbe il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l'interesse della collettività e, quindi, implicherebbe il dovere dell'individuo di non ledere, né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui e gli interessi essenziali della comunità. Da ciò deriva la legittimità di un onere a carico del lavoratore di accertamenti sanitari preventivi per poter svolgere determinate attività, che il legislatore deve imporre nella forma dell'obbligo o della raccomandazione.

Proprio con riferimento alle alternative "obbligo/raccomandazione", l'orientamento dottrinale in esame sostiene che entrambe sono dirette al medesimo obiettivo, ovverosia tutelare la salute secondo valutazioni contingenti[4].

Conseguentemente, viene posta l'attenzione sulle modalità di espressione della riserva di legge di cui all'art. 32 Cost. In particolare - si sostiene - la giurisprudenza costituzionale avrebbe parificato gli effetti della raccomandazione a quelli dell'obbligo esplicito: obbligatorietà e raccomandazione, pur costituendo due tecniche legislative diverse, non presenterebbero differenza qualitativa. La vaccinazione, in adempimento di ciascuna delle due modalità, realizzerebbe il dovere di solidarietà implicito nell'art. 32 Cost., imponendo allo Stato la medesima tutela in caso di complicanze. Secondo detto orientamento dottrinale, dunque, "la raccomandazione rappresenta lo stadio evolutivo di un processo culturale tendente a valorizzare la collaborazione del cittadino rispetto alle precedenti modalità autoritarie"[5].

La dottrina favorevole a riconoscere la sussistenza di un obbligo di vaccinazione in capo ai dipendenti sostiene, inoltre, che una norma satisfattiva della riserva di legge di cui all'art. 32 della Costituzione potrebbe ravvisarsi nell'art. 2087 c.c., il quale impone al datore di lavoro di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Stante l'acclarata natura di norma di chiusura del sistema di prevenzione, si ritiene che l'art. 2087 sia una norma aperta, il cui contenuto è volto a supplire alle eventuali lacune di una disciplina che non può ragionevolmente prevedere e normare qualunque fattore di rischio ed è, pertanto, pronta a recepire le esigenze variabili del miglioramento dei livelli della sicurezza al progredire e mutare della tecnica e dell'organizzazione del lavoro. Il datore di lavoro, dunque, sarebbe tenuto ad adottare tutte quelle misure ulteriori che risultano necessarie secondo gli standards tecnici più aggiornati, in forza del principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile. Tra le "misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica" dei prestatori di lavoro, in cima vi è sicuramente il vaccino contro il Covid-19. Pertanto, laddove il contesto e l'ambiente lavorativo richiedano tale misura al fine di tutelare la salute e la sicurezza non solo del singolo prestatore di lavoro, ma anche dei colleghi e della clientela, ciò potrebbe giustificare un obbligo di vaccinazione al fine di consentire al dipendente di svolgere l'attività lavorativa.

Un secondo dato normativo sovente richiamato è rappresentato dall'art. 279 del D.Lgs. n. 81 del 2008, il quale disciplina il rischio di infezione derivante da un agente biologico presente nella lavorazione.

Si sostiene, in particolare, che il termine "lavorazione" di cui all'art. 279, comma 2, lett. a)[6], non si riferirebbe esclusivamente all'ambiente lavorativo, ma sarebbe da intendersi quale sinonimo di "attività protetta".

Infine, si sostiene che il fatto che il vaccino de quo non sia nella disponibilità del datore di lavoro, ma dello Stato, non avrebbe alcuna rilevanza.

Per altro verso, tale dottrina segnala che la norma andrebbe letta in correlazione con l'art. 20 del medesimo decreto[7]: ne deriverebbe da una parte, l'obbligo per il datore di lavoro di fornire il vaccino efficace, di somministrarlo a mezzo del medico competente, di allontanare il lavoratore in caso di inidoneità alla mansione derivante da motivi sanitari legati all'agente biologico; dall'altra, l'obbligo per lo stesso lavoratore di utilizzare i mezzi forniti dal datore di lavoro ai fini della sicurezza della salute propria e delle altre persone presenti sul luogo di lavoro. Trattasi, dunque, di obbligazioni reciproche sinallagmaticamente collegate.

Agli obblighi del datore corrispondono, pertanto, quelli del lavoratore, la cui regolamentazione si ritrova nell'art. 20 citato, che li ricomprende all'interno di un ampio catalogo. Tra questi, emergono l'obbligo di contribuire all'adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, di osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro e, per quanto qui rileva, soprattutto quello di prendersi cura della propria salute e di quelli dei colleghi e di tutti gli altri soggetti presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle azioni od omissioni del prestatore di lavoro.

Secondo la dottrina in esame, il lavoratore sarebbe, dunque, già obbligato (proprio in forza dell'art. 20 cit.) a prendersi cura non soltanto della propria salute e sicurezza, ma anche di quella di tutti gli altri soggetti presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni. Ed un'omissione potrebbe essere considerata anche quella che, nel corso di una pandemia, attiene alla somministrazione del vaccino quale efficace strumento quando sussista il rischio biologico.

Le argomentazioni espresse dalla dottrina sono state fatte proprie anche dal Tribunale di Modena (con ordinanza del 19 maggio 2021), chiamato a decidere proprio in merito alla legittimità dei provvedimenti di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione comminati a due fisioterapiste dipendenti di r.s.a. Le lavoratrici erano inserite nella categoria del personale sanitario per il quale è stato imposto l'obbligo vaccinale - introdotto peraltro solo successivamente ai fatti di causa - con D.L. 1° aprile 2021 n. 44, convertito con modificazioni dalla legge 28 maggio 2021, n. 76. Tale precisazione è stata rilevata dal giudice per porre una distinzione tra quanto accaduto prima dell'intervento legislativo e le situazioni ad esso successive. È evidente, infatti, che la questione bisognosa di un chiarimento fosse solo quella del periodo precedente alla legge che ha introdotto l'obbligo vaccinale per specifiche categorie, in quanto sanata dalla novella per il periodo successivo.

Per quel che concerne il pregresso, invece, il giudice è intervenuto partendo proprio dalla natura sinallagmatica del contratto di lavoro e dagli obblighi incombenti su entrambe le parti del rapporto di lavoro, desumendone il contenuto dalla combinazione del dettato normativo degli art. 20 D. Lgs. n. 81 del 2008 e 2087 cod. civ. Dall'analisi delle due disposizioni, infatti, il giudice (ancora) non arriva a dedurre alcun reale obbligo di vaccinazione, bensì ne trae un complesso intreccio di doveri reciproci tra datore di lavoro e lavoratore, i cui risvolti sono parte integrante dell'oggetto del contratto e si riverberano sul suo sinallagma. Afferma, infatti, il giudice che, in forza della natura sinallagmatica del rapporto di lavoro, "è possibile ritenere che il prestatore di lavoro sia astretto da ulteriori obblighi, tutti finalizzati a rendere la propria prestazione utile per il perseguimento dei fini propri dell'impresa datrice di lavoro (così come obiettivamente espressi nel contratto di lavoro) ed alla effettiva realizzazione del sinallagma". Il Tribunale di Modena afferma che "la salvaguardia e la salute dell'utenza rientri nell'oggetto della prestazione esigibile", ritenendo ragionevole sostenere che "fin dagli esordi del rapporto, la salvaguardia e il miglioramento delle condizioni di salute degli ospiti della struttura rientrassero nell'oggetto della prestazione richiesta alle ricorrenti. In altre parole si ritiene che la tutela della salute dell'utenza della RSA costituisca un elemento penetrante nella struttura del contratto, qualificando la prestazione cui le ricorrenti sono astrette". Proprio dalla piana lettura dell'art. 20 cit. si evince che "il prestatore di lavoro [...] è tenuto (non solo a mettere a disposizione le proprie energie lavorative ma anche) a osservare precisi doveri di cura e sicurezza per la tutela dell'integrità psico-fisica propria e di tutti i soggetti terzi con cui entra in contatto"[8]. La sentenza chiarisce che nell'introdurre la disposizione citata, il legislatore ha inteso concepire sia "il datore di lavoro che il prestatore quali soggetti attivi, tenuti a collaborare fattivamente alla realizzazione di un ambiente di lavoro salubre e sicuro. Il tutto per garantire il soddisfacimento e la tutela di beni di primaria rilevanza costituzionale (v. combinato disposto artt. 32 e 41 Cost.). Non un dovere generale ed astratto per ogni lavoratore, quindi, ma un obbligo derivante dalla specifica mansione (nell'ambito sanitario) assunta dalle due lavoratrici rispetto ad un'utenza fatta di soggetti fragili[9]. La incidenza sul sinallagma contrattuale renderebbe - secondo il Tribunale di Modena - di fatto impossibile la fruizione della prestazione delle dipendenti, così da ritenersi legittimo il provvedimento di sospensione della prestazione senza la corresponsione della retribuzione.

La dottrina che ritiene già implicita la sussistenza nell'ordinamento dell'obbligo vaccinale afferma che sembrerebbe invero contraddittorio sostenere, da una parte, che, nell'ambito del rapporto di lavoro, l'ordinamento preveda il criterio della massima di sicurezza tecnologicamente fattibile per il datore, esteso fino alla prescrizione dei vaccini e, dall'altra parte, abbia lasciato libero il lavoratore di non vaccinarsi.

Peraltro, si sottolinea come rilevi non tanto solo la salute dei singoli, quanto quella collettiva.

Perciò non assume alcuna rilevanza il fatto che il vaccino sia obbligatorio o meno per la generalità dei cittadini. In ambito lavorativo, l'ordinamento già obbligherebbe il lavoratore a prendersi cura della salute altrui ed a considerare l'effetto potenzialmente nocivo della sua omissione (quando il rischio esista, il vaccino sia disponibile e sia efficace).

I valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono molteplici ed implicano, oltre alla libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti ai trattamenti sanitari, anche la tutela della salute collettiva (come espressamente considerata, al pari di quella individuale, dall'art. 32 Cost.), ivi compresa quella di chi non può essere vaccinato (essendo fragile) o di chi, pur volendo, non ha potuto avere ancora accesso al vaccino.

Sul piano formale, il profilo della riserva di legge prevista dall'art. 32 Cost. potrebbe, dunque, ritenersi soddisfatto sulla base di un sistema normativo del D. Lgs. n. 81 del 2008 (e dell'art. 2087 c.c.).

Pertanto, se il datore è obbligato ad adottare una misura, il lavoratore è del pari obbligato a prestare la propria collaborazione nell'esecuzione della misura.

Non sarebbe ipotizzabile, senza mettere in crisi il sistema di sicurezza, l'esistenza di uno scarto tra obblighi del datore e obblighi del lavoratore, quando entrambi siano fondati sulla legge.

Infine, viene citato dalla dottrina - seppur con meno frequenza - anche l'art. 29, comma 3, del D.Lgs. n. 81 del 2008, il quale dispone che la valutazione dei rischi debba essere immediatamente rielaborata qualora si renda disponibile una nuova misura che incida sulla prevenzione e protezione dei lavoratori e, così, si ritiene che la disponibilità di un vaccino efficace possa rientrare tra tali misure. In tal modo, infatti, il rischio per la salute e sicurezza viene non solo contenuto, ma addirittura eliminato alla fonte, in una logica di prevenzione primaria.

Pertanto, il datore di lavoro avrebbe l'onere di aggiornare il piano di valutazione dei rischi e, successivamente, ai sensi dell'art. 41, comma 1, lett. b, sottoporre a visita periodica i lavoratori per verificarne l'idoneità alla mansione specifica. In tale occasione, il medico competente dovrebbe valutare l'idoneità dei lavoratori alle mansioni, anche in relazione all'utilizzo di altri e diversi strumenti di contenimento del contagio. In ultima battuta, con riferimento ai Protocolli anti-contagio ed al fatto che questi non contemplino il vaccino tra le misure da adottare, si sostiene che all'epoca della loro approvazione, alcun vaccino risultava ancora essere a disposizione della generalità della popolazione.

Di segno opposto è quella parte della dottrina che ha rilevato l'inesistenza di un obbligo vaccinale in capo ai dipendenti.

Partendo dall'apice, ovverosia dall'analisi dell'art. 32 Cost., l'orientamento dottrinale in parola[10] sostiene che nessuna delle disposizioni vigenti dettate in materia di salute e sicurezza sul posto di lavoro sia idonea a giustificare l'imposizione o la richiesta da parte del datore di lavoro della vaccinazione da parte dei dipendenti. In particolare, nessuna delle suddette norme sarebbe idonea a soddisfare la riserva di legge di cui all'art. 32 Cost.

Quel che occorre - e che allo stato mancherebbe - sarebbe una legge che imponga specificamente l'obbligo di un determinato trattamento sanitario, mediante un esplicito ed inequivoco richiamo di tale trattamento. Anche la L. n. 833 del 1978 - argomenta detto orientamento - evocando a certi fini le vaccinazioni obbligatorie, lascerebbe chiaramente intendere come queste siano tali in quanto imposte dalla legge[11].

Invero, ove si ritenesse di collegare un inespresso obbligo alla vaccinazione del personale dipendente alle previsioni generali di cui all'art. 2087 c.c., ciò sostanzialmente significherebbe rimettere una tale imposizione alle valutazioni del datore di lavoro effettuate in base all'esperienza e tecnica, che sarebbero destinate a prevalere rispetto alla scelta del legislatore di attuare il piano vaccinale su base volontaria. Peraltro, si ricorda che proprio l'art. 2087 è stato esplicitamente chiamato in causa dall'art. 29-bis del D.L. n. 23 del 2020, convertito con modificazioni dalla L. n. 40 del 2020, il quale ha previsto che, ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo del 24 aprile 2020 e negli altri protocolli e linee guida di cui all'art. 1, comma 14, del D.L. n. 33 del 2020, nonché mediante l'adozione ed il mantenimento delle misure ivi previste (che non contemplano il vaccino).

In sintesi, se si ammettesse la sufficienza dell'art. 2087, "l'obbligo dei lavoratori di assoggettarsi al trattamento sanitario della vaccinazione ne risulterebbe soltanto indirettamente in conseguenza di un obbligo datoriale (posto dall'art. 2087 c.c.) previsto genericamente di imporre ed esigere indirettamente una vaccinazione di cui oltretutto il datore al momento non potrebbe neppure disporre stante la gestione pubblicistica della medesima"[12]. Si tenderebbe, così, ad affidare al datore di lavoro, nell'ambito della dinamica contrattuale, una funzione di tutela della salute pubblica mediante un'obbligatorietà del vaccino che non emerge invece nell'ordinamento generale, contraddicendosi la dimensione pubblicista del diritto.

Nemmeno l'art. 279 del D.Lgs. n. 81 del 2008 sembrerebbe idoneo a giustificare l'imposizione del vaccino ai prestatori di lavoro. Le disposizioni del Titolo X del citato decreto, nel quale è inserito l'art. 279, si applicano, per espressa previsione dell'art. 266, comma 1, a "tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici".

A tal proposito, la dottrina in esame sostiene che sarebbe da prediligere l'interpretazione restrittiva di "attività lavorative", coincidente con gli specifici processi di lavoro, loro modalità di svolgimento e sostanze e materie utilizzate. Infatti, proprio la direttiva 2000/54/CE, all'art. 3, par. 1, si riferisce alle "attività nelle quali i lavoratori sono o possono essere esposti ad agenti biologici a causa della loro attività professionale" e, così, anche la direttiva quadro 89/391/CE riguarda essenzialmente gli specifici "rischi professionali" che emergono nell'organizzazione predisposta dal datore di lavoro.

Quanto al fatto che la direttiva della Commissione n. 739 del 3.06.2020 abbia modificato l'allegato III della direttiva 2000/54/CE (inserendo il SARS-CoV-2 nell'elenco di cui al gruppo 3 degli agenti biologici), si obbietta che tale classificazione non inciderebbe sul campo di applicazione del Titolo X, quanto piuttosto su altri adempimenti (quali valutazione dei rischi, sorveglianza sanitaria, ecc.).

Per quanto concerne la messa a diposizione dei vaccini di cui all'art. 279 del D. Lgs. n. 81 del 2008, la dottrina evidenzia come la norma non si riferisca ad alcun vaccino in particolare. Pertanto, dal tenore letterale dell'art. 279 cit. non si evincerebbe un obbligo dei lavoratori a vaccinarsi.

Con riferimento alla equiparazione tra raccomandazione ed obbligo prospettata dalla contrapposta dottrina, una parte degli autori sostiene che, invece, vi sia sì una stretta assimilazione tra vaccinazioni obbligatorie e vaccinazioni raccomandate evidenziata dalla giurisprudenza, ma che tale parificazione riguarderebbe il versante dei rimedi agli effetti pregiudizievoli della vaccinazione, dovendo lo Stato indennizzare chiunque li abbia subiti a prescindere dal fatto che il trattamento fosse obbligatorio o solo raccomandato. Pertanto, solo la sussistenza di un obbligo varrebbe a configurare determinate conseguenze (anche sanzionatorie).

Allo stesso modo, il precetto di cui all'art. 20 del D.Lgs. n. 81 del 2008 non potrebbe imporre la vaccinazione: l'art. 20, insieme al generale e solidaristico dovere di cura della salute e della sicurezza propria e altrui, impone al lavoratore una serie di doveri specifici.

Tra questi, solo uno si riferisce espressamente ai trattamenti sanitari (art. 20, comma 2, lett. i), ma riguarderebbe esclusivamente i controlli sanitari previsti dallo stesso Testo unico o, comunque, disposti dal medico competente.

Per altro verso, si segnala che se ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, ciò deve essere adempiuto conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. Pertanto, il lavoratore ha l'obbligo di attuare le misure che il datore di lavoro prescrive e non di individuare da sé le misure da attuare: questo vale naturalmente anche per la misura di prevenzione rappresentata dal vaccino, per la quale non si potrebbe mai affermare che il lavoratore abbia un autonomo dovere di vaccinarsi in forza di una propria autodeterminazione, quando manchi una specifica previsione normativa od una specifica regola di sicurezza aziendale.

L'art. 20, dunque, in tanto potrebbe essere richiamato se sussistesse a monte dell'obbligo del lavoratore, una esplicita prescrizione del datore di lavoro che preveda il vaccino come misura di prevenzione da adottare. Ma questa, ad oggi, non è rinvenibile e non potrebbe essere diversamente, essendo la questione vaccinale pertinente la salute pubblica: il datore di lavoro non avrebbe sul punto alcun potere né decisionale né di spesa in merito.

Peraltro, sempre con riferimento all'art. 20 del D. Lgs. 81 del 2008, si evidenzia come trattasi di precetto che potrebbe essere astrattamente invocato rispetto alle misure che impongono di indossare la mascherina e/o rispettare il distanziamento o, ancora, sottoporsi alla misurazione della temperatura corporea all'ingresso dei luoghi di lavoro (misure del resto previste da fonti sovraordinate), ma non per quelle che, come la vaccinazione, incontrano un limite che deriva da una norma costituzionale.

In ultima battuta, si sostiene che l'aver dettato una apposita disciplina in ordine all'obbligo vaccinale esclusivamente applicabile al personale che svolge attività di interesse sanitario (o comunque gravitante in detto ambito) comporterebbe un'inevitabile scissione in due categorie: chi svolge le professioni per cui sussiste l'espresso obbligo vaccinale e tutti gli altri. Si potrebbe argomentare, infatti, che se il legislatore ha deciso di intervenire introducendo uno specifico obbligo di vaccinazione - e l'ha fatto esclusivamente per il personale sanitario - allora ciò è frutto di una precisa scelta di escludere tutti gli altri lavoratori. Diversamente - si sostiene - il legislatore non si sarebbe limitato ad introdurre l'obbligo di vaccinazione per i sanitari, ma avrebbe introdotto un obbligo destinato ad una platea più estesa. Inoltre, viene ricordato che il Piano strategico per la vaccinazione anti-SARS-CoV-2/Covid-19[13], formalmente adottato con il D.M. 2.01.2021, non fa alcun cenno alla obbligatorietà del vaccino.

Infine, anche il Parlamento europeo, nella Risoluzione del 27.01.2021, n. 2361, al punto 7.3.1., esorta gli Stati membri e l'Unione Europea a "garantire che i cittadini siano informati che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno è politicamente, socialmente o altrimenti sotto pressione per vaccinarsi, se non lo desiderano da soli" e, al punto 7.3.2., ribadisce che occorre "garantire che nessuno sia discriminato per non essere stato vaccinato, a causa di possibili rischi per la salute o per non voler essere vaccinato".

Pertanto, alla luce di tutto quanto sopra esposto e delle contrapposte posizioni dottrinali, considerando l'assenza di un espresso intervento legislativo, si ritiene, allo stato, di non poter considerare sussistente un obbligo di vaccinazione generalizzato in capo ai dipendenti (ad esclusione delle categorie di cui all'art. 4 del D.L. n. 44 del 1.04.2021 e di quelle indicate dal recente D.L. del 9 settembre 2021).

Trattasi, tuttavia, di soluzione controversa ed, in ogni caso, non definitiva e si auspica sul punto un urgente intervento normativo chiarificatore da parte del Governo.

Ciò precisato, l'insussistenza di obbligo vaccinale, in ogni caso, non comporta necessariamente la totale assenza di conseguenze in capo al lavoratore che rifiuti di vaccinarsi, come si dirà a breve.



3. L'intervento della normativa in materia di green pass ed il relativo impatto sull'obbligo di vaccinazione

Occorre dunque riflettere sull'incidenza del green pass, introdotto con il D.L. n. 105 del 23 luglio 2021, sul possibile obbligo di vaccinazione.

La soluzione ad una pandemia non può che essere l'immunità collettiva ed il legislatore aveva due strade per ottenerla: la prima sarebbe stata quella di rendere il vaccino obbligatorio, la seconda quella di creare un sistema premiale che incentiva i possessori del green pass, penalizzando indirettamente coloro che non ritengono di dotarsi di detta certificazione.

Tuttavia, si ritiene che l'entrata in vigore della normativa citata non incida, né comporti in alcun modo un obbligo di vaccinazione in capo ai dipendenti.

Nemmeno la recente introduzione dell'obbligo di esibizione della certificazione in capo al personale scolastico può portare a concludere per la sussistenza di un obbligo vaccinale generalizzato. Infatti, il green pass, come già chiarito, non viene rilasciato esclusivamente ai soggetti vaccinati[14]. Pertanto, anche tale norma risulta frutto di una precisa scelta del legislatore: quella di prevedere un espresso obbligo di vaccinazione esclusivamente per il personale sanitario, prediligendo altre vie (che non passano per un obbligo, ma per rimedi "premiali") per incentivare la vaccinazione.



4. Il datore di lavoro nella giungla tra l'(assenza) di un obbligo vaccinale, green pass e privacy

Acclarata la insussistenza, allo stato, sia di una estensione dell'obbligo di Certificazione verde COVID-19 che dell'obbligo vaccinale generalizzato quantomeno ai lavoratori, si pone un problema di puntuale adempimento da parte del datore di lavoro delle obbligazioni finalizzate alla tutela della salute dei propri dipendenti. La realizzazione dell'obiettivo deve fare i conti con le strettoie dettate dalla tutela della personalità del lavoratore (art. 5 L. n. 300 del 1970), nonché con il proliferare dei provvedimenti del Garante della Privacy sul tema.

Il tutto, quindi, considerando a monte il problema dei limiti della conoscenza e/o conoscibilità dello status vaccinale del dipendente, in assenza del diritto del datore di verificare effettivamente e formalmente il possesso di green pass da parte dei lavoratori.

Il Garante della Privacy ha infatti ribadito[15] che il datore di lavoro non può chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale o copia di documenti che comprovino l'avvenuta vaccinazione anti Covid-19 o la concessione del green pass.

Entra in campo allora il medico competente, che potrebbe giocare un ruolo fondamentale nella partita attraverso la visita di accertamento di idoneità alle mansioni specifiche. Peraltro, si tratta di una via tutt'altro che piana, in quanto il medico competente non può comunque comunicare al datore di lavoro i dati della visita, essendo l'unica lo stesso figura titolata a trattare i dati sanitari dei lavoratori e tra questi, se del caso, le informazioni relative alla vaccinazione, nell'ambito della sorveglianza sanitaria e in sede di verifica dell'idoneità alla mansione specifica.

Il datore di lavoro può invece acquisire, in base al quadro normativo vigente, i soli giudizi di idoneità alla mansione specifica e le eventuali prescrizioni e/o limitazioni in essi riportati.

Infatti, i dati relativi all'avvenuta (o meno) vaccinazione, ai sensi dell'art. 4, par. 1, punto 15, del Regolamento UE 2016/679, vanno annoverati nella categoria dei dati relativi alla salute ovverosia ai "dati personali attinenti alla salute fisica o mentale di una persona fisica [...] che rivelano informazioni relative al suo stato di salute". Come esplicitato nel Considerando n. 35 del Regolamento, nei dati relativi alla salute devono rientrare tutti i dati riguardanti lo stato di salute dell'interessato che rivelino informazioni connesse allo stato di salute fisica o mentale "passata, presente o futura dello stesso".

Affinché sia assicurata la liceità del trattamento di tale categoria particolare di dati personali[16] è necessario che il trattamento sia conforme ai principi di cui all'art. 5 del Regolamento e ad uno dei fondamenti di liceità di cui all'art. 6 del Regolamento, nonché alle deroghe specifiche indicate nel medesimo Regolamento negli artt. 6 e 9. In particolare, l'art. 9 del citato Regolamento, relativo al trattamento di categorie particolari di dati, pone un divieto generalizzato di trattamento nel par. 1, mentre nel par. 2 introduce una serie di eccezioni a tale divieto, tra le quali, ai fini della presente analisi, potrebbero rilevare quelle di cui alle lettere i) e b). Ai sensi della lettera i), il divieto di trattare i dati relativi alla salute non si applica se il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica. Essa, però, deve essere letta in combinato disposto con il Considerando 54 del Regolamento, secondo cui il trattamento di dati particolari può essere necessario per motivi di interesse pubblico nei settori della sanità pubblica, senza il consenso dell'interessato, sempreché siano state individuate misure "specificate ed appropriate a tutela dei diritti e delle libertà delle persone fisiche" e non comporti "il trattamento per altre finalità da parte di terzi, quali datori di lavoro". La lettera b) chiarisce che il trattamento dei dati relativi alla salute è possibile "nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell'Unione o degli Stati membri in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell'interessati".

Lo Stato italiano, infatti, in applicazione del par. 4 dell'art. 9 del Regolamento (ai sensi del quale "Gli Stati membri possono mantenere o introdurre ulteriori condizioni, comprese limitazioni, con riguardo al trattamento", tra l'altro dei dati relativi alla salute), ha previsto, all'art. 2-septies del D. Lgs. n. 196 del 2003, come modificato dal D. Lgs. n. 101 del 2018, l'adozione di ulteriori misure di garanzia per il trattamento di questi dati.

Occorre, dunque, il verificarsi di due condizioni concorrenti: la previsione di legge e le ulteriori misure di garanzia. Queste ultime sono state declinate nel Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali n. 146 del 5.06.2019 recante le prescrizioni relative al trattamento di categorie particolari di dati.

Nell'Allegato 1, al punto 1.3, si stabilisce che il trattamento delle categorie particolari di dati può essere effettuato qualora risulti necessario, tra l'altro, "per perseguire finalità di salvaguardia della vita e dell'incolumità fisica del lavoratore o di un terzo". Ne risulta che, rispetto a questa finalità, il datore potrebbe acquisire informazioni sullo stato vaccinale dei lavoratori, sempreché - considerata la contestuale ricorrenza delle due condizioni sopra descritte - intervenga un atto normativo che, come previsto nel più volte citato Regolamento, autorizzi il trattamento stesso.

Si sottolinea, infine, che l'acquisizione di un esplicito consenso da parte del lavoratore al trattamento dei propri dati relativi alla salute, segnatamente per quanto riguarda le informazioni concernenti la sua vaccinazione, non configura idonea base giuridica: il consenso non può essere considerato libero se vi è un evidente squilibrio tra l'interessato e il titolare del trattamento. Squilibrio che - come evidenziato dal Gruppo di lavoro Articolo 29 nell'Opinion 2 adottata l'8.06.2017 - caratterizza il rapporto di lavoro.

Né, infine, potrebbe invocarsi il legittimo interesse del datore di lavoro a proteggere la propria attività, giacché tale base giuridica è una condizione di liceità applicabile al trattamento dei dati c.d. comuni (art. 6, comma 1) e non a quello dei dati particolari, quali quelli relativi alla salute[17].

Dinanzi al quadro normativo, pare dunque che una breccia sul muro della indisponibilità del datore di lavoro del diritto di conoscere lo status del dipendente. possa essere aperta proprio dal medico competente, che potrebbe rappresentare proprio un "cavallo di Troia" coadiuvante gli oneri datoriali in materia di sicurezza sul luogo di lavoro.

Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 28 luglio 2021, n. 18441, proprio con riferimento agli esiti della visita medica, ha dichiarato la legittimità della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione disposta dal datore nei confronti della dipendente (non appartenente alle categorie per le quali ad oggi sussiste un espresso obbligo di vaccinazione) che aveva ricevuto, a causa del rifiuto di vaccinarsi, un giudizio di idoneità con limitazione. Infatti, il datore di lavoro, dopo il giudizio del medico competente e previa verifica della possibilità per la dipendente di svolgere altre mansioni nella sua attività, appurata la mancanza di un diverso impiego, aveva deciso di sospendere la lavoratrice, privandola della retribuzione, fino a eventuale giudizio di revisione di idoneità o alla cessazione delle limitazioni per pandemia. Il Tribunale ha, così, chiarito che la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione non costituisce un provvedimento disciplinare per il rifiuto di sottoporsi alla vaccinazione, bensì un doveroso provvedimento di sospensione adottato stante la parziale inidoneità alle mansioni della lavoratrice. Il Tribunale richiama proprio quanto previsto dal D .Lgs. n. 81 del 2008, all'art. 20, nonché la recentissima ordinanza del Tribunale di Modena del 19 maggio 2021, per cui "il prestatore di lavoro è tenuto (non solo a mettere a disposizione le proprie energie lavorative ma anche) a osservare precisi doveri di cura e sicurezza per la tutela dell'integrità psico-fisica propria e di tutti i soggetti terzi con cui entra in contatto [...] La protezione e la salvaguardia della salute dell'utenza rientra nell'oggetto della prestazione esigibile. Tutela [...] che non può che attuarsi (anche) mediante la sottoposizione al trattamento sanitario del vaccino contro il virus Sars CoV-2. Con la conseguenza per cui un ingiustificato contegno astensivo rende la prestazione (ove tramontata la possibilità di ricollocamento aliunde) inutile, irricevibile da parte del datore di lavoro".

Sicché, il depotenziamento degli strumenti a disposizione del datore di lavoro per l'attuazione della tutela della salute dei dipendenti, potrebbe trovare un utile supporto - seppure in via di mero espediente certo non satisfattivo - proprio nella visita periodica, sempre ove ricorra la necessità di sottoporre il lavoratore alla stessa (ma vedi infra) e tenuto conto che non tutte le attività sono sottoposte all'obbligo di sorveglianza sanitaria e che, in ogni caso, anche nel caso vi rientrino, le visite mediche sono comunque periodiche.

L'art. 25 del D.Lgs. n. 81 del 2008 (c.d. Testo Univo in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro) prevede che il medico competente collabori con il datore di lavoro alla valutazione dei rischi, anche ai fini della programmazione - ove necessario - della sorveglianza sanitaria, alla predisposizione dell'attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico-fisica dei lavoratori, all'attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori - per la parte di competenza - ed alla organizzazione del servizio di primo soccorso.

La lettera b, comma 1 della citata norma prevede che il medico aziendale programma ed effettua la sorveglianza sanitaria di cui all'articolo 41 attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati[18].

Pertanto, se è chiaro che in ragione di quanto previsto nelle disposizioni sopra citate, è imposto al medico aziendale un ampio dovere di collaborazione con il datore di lavoro al fine dell'attuazione delle misure per la tutela della salute dei lavoratori, va altresì rilevato che sono pacifici i limiti entro cui il medico stesso dovrà operare, con particolare riferimento alla visita medica periodica.

Il medico aziendale dovrà limitarsi, infatti, sulla base della anamnesi, degli esami clinici e biologici cui avrà sottoposto il lavoratore, ad effettuare un'analisi che si concluda fornendo un giudizio medico dello stato di salute del dipendente, evidenziando la sussistenza dell'idoneità o meno dello stato psico-fisico rispetto alle mansioni attribuite allo stesso.

Solo nell'ipotesi in cui l'esito coincida con l'idoneità parziale, la legge riconosce al medico competente di fornire indicazioni sulle prescrizioni o limitazioni, le quali - evidentemente - debbono avere unicamente a riguardo le misure di sicurezza da utilizzare (dispositivi di protezione individuale) o le attività incompatibili rispetto allo stato di salute del dipendente.

È evidente che il medico nella partita della pandemia gioca un ruolo importante (visto anche il richiamo fatto sin dal primo momento nei Protocolli sanitari aziendali, che ne impongono la fattiva partecipazione alla redazione), ma non è un dato scontato la obbligatorietà della presenza dello stesso nell'ambito aziendale.



5. Le conseguenze del rifiuto del dipendente di sottoporsi alla vaccinazione

Sostenere la non obbligatorietà del vaccino non significa che l'eventuale rifiuto del lavoratore a riceverlo sia privo di conseguenze.

Parte della dottrina ritiene, infatti, che l'art. 279 del D.Lgs. n. 81 del 2008 potrebbe assumere un ruolo di valorizzazione dei vaccini, prevedendo significative conseguenze nel caso in cui non si intenda essere sottoposti agli stessi.

In primo luogo, si richiama l'art. 29, comma 3, del medesimo decreto, il quale prevede che la valutazione dei rischi debba essere immediatamente rielaborata, tra l'altro, "in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione", che è decisamente mutato nel momento in cui è divenuto disponibile il vaccino. Se, infatti, nel periodo pre-vaccino si poteva sostenere la non necessarietà di aggiornamento della valutazione dei rischi, allo stato attuale non può negarsi che l'art. 29 citato meriti una lettura aggiornata. A tal fine, non rileva che la vaccinazione non sia, ad oggi, un trattamento nella disponibilità del datore di lavoro, in quanto essa comunque incide sulla natura e sul grado del rischio.

Conseguentemente, rileverebbe l'art. 41, comma 1, lett. b, del D. Lgs. n. 81 del 2008, con particolare riferimento alla visita medica periodica e all'espressione del giudizio di idoneità alla mansione specifica.

Sarebbe, infatti, in occasione di tale visita che il medico competente può valutare l'idoneità dei lavoratori alle proprie mansioni alla luce del fatto che si siano vaccinati o meno, potendo esprimere un giudizio di inidoneità o idoneità con limitazioni ove ritenga che, nonostante l'utilizzo degli altri dispositivi di protezione, il singolo lavoratore sia esposto (e/o esponga altri) ad un rischio eccessivo che sarebbe scongiurabile mediante la vaccinazione. Un giudizio che, si ricorda, è sindacabile in sede di impugnazione da parte di un organo terzo quale la commissione medica ai sensi dell'art. 42, comma 9, D.Lgs. n. 81 del 2008.

Sul punto preme precisare che l'inidoneità alla mansione specifica prescinde dall'obbligatorietà o meno di una determinata misura o trattamento (in questo caso, il vaccino).

La valutazione compiuta dal medico competente non è tuttavia una valutazione astratta poiché egli, nell'esprimere il proprio giudizio, dovrebbe tener conto non solo del dato della vaccinazione nell'ipotesi in cui sussista la necessità - in ragione delle mansioni svolte - di procedere alla verifica al fine della tutela della salute e della idoneità alle mansioni, ma anche del contenuto e modalità di svolgimento delle mansioni, nonché dello stato di salute, dell'età e degli altri fattori di rischio del soggetto interessato. Trattasi, dunque, di una valutazione da farsi caso per caso e non oggettivata.

Ci si chiede come debba allora comportarsi il datore di lavoro in caso di inidoneità o idoneità con limitazioni (qualora il datore di lavoro non abbia la possibilità di ricollocare il dipendente).

Nella impossibilità di riorganizzazione dell'ambiente lavorativo, al fine di tutelare anche gli altri dipendenti o di consentire lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità smart working (soluzioni, peraltro, già contemplate dai c.d. Protocolli anti-contagio in vigore, che tra le altre cose incentivano il ricorso al lavoro agile ed "il rispetto del distanziamento sociale, anche attraverso una rimodulazione degli spazi di lavoro, compatibilmente con la natura dei processi produttivi e degli spazi aziendali"), una via praticabile ma, anch'essa, da valutarsi con cautela e caso per caso, potrebbe essere la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione (ovviamente, esclusivamente previo giudizio di inidoneità o idoneità parziale del medico competente), misura peraltro avallata - come visto - anche dalla recente giurisprudenza.



6. Conclusioni attendendo l'intervento normativo

Allo stato attuale ed in attesa delle "progressioni normative", il datore si trova a doversi far strada in una giungla, tra provvedimenti del Garante della Privacy, assenza di una estensione generalizzata a tutti i dipendenti se non dell'obbligo vaccinale, quantomeno del possesso di green pass, con la bussola sempre orientata a garantire la salute di tutti i dipendenti, compresi coloro che vaccinandosi hanno contribuito alla tutela dell'interesse della collettività proprio alla salute di cui all'art. 32 Cost, in adempimento del dovere di solidarietà, previsto dall'art. 2 Cost.


[1] La norma chiarisce che la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati. L'adozione dell'atto di accertamento di mancata vaccinazione da parte dell'ASL determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2. Conseguentemente, il datore di lavoro è tenuto ad adibire il lavoratore, ove possibile, a mansioni (anche inferiori) diverse da quelle precluse, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate e che, comunque, non implichino rischi di diffusione del contagio. Quando l'assegnazione a mansioni diverse non risulta possibile, per il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento. La norma, inoltre, precisa che la sospensione mantiene efficacia fino all'assolvimento dell'obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021.

[2] Preme sottolineare che trattasi di un obbligo di esibizione della certificazione verde e non, invece, di un obbligo di vaccinazione. Il mancato rispetto dell'obbligo di esibizione della certificazione è considerato assenza ingiustificata e, a decorrere dal quinto giorno di assenza, il rapporto di lavoro è sospeso e non sono dovuti né la retribuzione né altro compenso o emolumento.

[3] Cfr., ex multis, Patrizio P., L'obbligo vaccinale nell'alveo applicativo dell'art. 2087 c.c., in Rivista online Il Giuslavorista, 2021; De Matteis A., Art. 32 Cost.: diritti e doveri in tema di vaccinazioni anti Covid, in Rivista online Il Giuslavorista, 2021; Ichino P., Perché e come l'obbligo di vaccinazione può nascere anche solo da un contratto di diritto privato, in LavoroDirittiEuropa, 1/2021; Riverso R., L'obbligo di vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà, in Questionegiustizia, 2021

[4] Viene richiamata la nota sentenza n. 218 del 1994 della Corte Costituzionale, con cui viene dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, commi 3 e 5, della L. n. 135 del 5.06.1990 (Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l'AIDS, che non prevedeva l'obbligatorietà del vaccino) per contrasto con l'art. 32 Cost. nella parte in cui non prevede accertamenti sanitari dell'assenza di sieropositività all'infezione da HIV come condizione per l'espletamento di attività che comportino rischi per la salute di terzi.

[5] De Matteis, cit.

[6] "la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all'agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente".

[7] "Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro".

[8] La sentenza arriva, altresì, a concludere in merito alla esistenza di precisi doveri di sicurezza in capo al lavoratore che, pertanto, deve essere considerato soggetto responsabile a livello giuridico dei propri contegni.

[9] L'indirizzo espresso in prima istanza è stato confermato in sede di reclamo dallo stesso Tribunale con l'ordinanza n. 2467 dello scorso 23 luglio, ove il collegio ha ribadito che «in ragione della tipologia delle mansioni espletate (cura e assistenza a persone anziane e con molteplici patologie) e della specificità del contesto lavorativo e dell'utenza della RSA, è possibile sostenere che l'assolvimento dell'obbligo vaccinale inerisca alle mansioni del personale sanitario».

[10] Fra cui si segnalano Pascucci P.; Delogu A., L'ennesima sfida della pandemia Covid-19: esiste un obbligo vaccinale nei contesti lavorativi?, in Diritto della Sicurezza sul Lavoro, 1-2021; Nannetti C., Obbligo vaccinale e conseguenze sul rapporto di lavoro in caso di rifiuto del lavoratore pre e post d.l. 44/2021, in Rivista online Il Giuslavorista, 2021; Zappia T., Obbligatorietà del vaccino: il datore impone ove il legislatore tace?, in Rivista online Il Giuslavorista, 2021; Giovannone M., Vaccinazioni dei lavoratori: obbligo o volontarietà? Si cerca una soluzione per le imprese, in Ipsoa Quotidiano, 2021; Mazzotta O., Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro, in Labor. Il lavoro nel diritto, 2021.

[11] Si veda l'art. 6, comma 1, lett. b o l'art. 7, comma 2.

[12] Pascucci P.; Delogu D., cit.

[13] Art. 1, comma 457, L. n. 178 del 2020.

[14] Come, del resto, chiarito anche dalla Fondazione Studio Consulenti del Lavoro, nell'approfondimento del 27.07.2021, "la previsione di una certificazione quale possibilità di accesso a determinati servizi, ottenibile anche attraverso la vaccinazione, è fattispecie che si distingue dall'imposizione dell'obbligo vaccinale [...] proprio l'art. 32 della Costituzione, brandito dal popolo dei no vax, prevede la possibilità dell'introduzione per legge di trattamenti sanitari obbligatori. Ciò perché se è vero che la norma fissa il principio costituzionale del diritto individuale alla salute, è altrettanto pacifico che allo stesso modo afferma il diritto dell'ordinamento di provvedere nell'interesse della tutela della salute della collettività. Per le stesse ragioni, questo significa che in assenza di una legge che ne imponga l'obbligatorietà, chiunque può legittimamente rifiutare di sottoporsi al vaccino senza che - con riferimento all'ambito lavorativo - questa scelta possa rivestire rilievo di carattere disciplinare, men che meno rappresentare fonte di automaticità per il licenziamento del personale non vaccinato". Nel medesimo documento, peraltro, alla domanda "I lavoratori delle attività per cui è previsto il Green pass saranno obbligati a vaccinarsi?", viene fornita la seguente risposta: "Attualmente, con l'eccezione del settore sanitario, non sono previsti obblighi di vaccinazione diffusa per le altre categorie di lavoratori. La norma sul Green pass fa riferimento all' "accesso" ai "servizi e attività" che poi elenca, pertanto non può intravedersi, al netto delle valutazioni di opportunità, alcun obbligo in tal senso. Peraltro, va evidenziato che l'obbligo di certificazione verde Covid-19 ha tra i suoi requisiti il vaccino, ma non in via esclusiva, potendo essere rilasciata, sussistendo i requisiti di cui all'art. 9, co. 2, del D.L. n. 52/2021, convertito con modificazioni dalla L. n. 87/2021, anche ai guariti dall'infezione e a coloro che sono in possesso dell'esito negativo del tampone".

[15] V. FAQ Garante Privacy del 17.02.2021.

[16] Cfr. sul punto European Data Protection Board, Linee guida 3/2020 sul trattamento dei dati relativi alla salute a fini di ricerca scientifica nel contesto dell'emergenza legata al Covid-19, adottate il 21.04.2020.

[17] Si ricorda che, stando alla FAQ pubblicata sul sito del Governo in data 14.08.2021, è necessario il Green Pass per accedere alle mense aziendali. Con riferimento agli oneri di controllo e verifica dei certificati, si specifica che ciò spetta ai gestori dei servizi di mensa, come si evince dalla lettera della predetta FAQ: "Per la consumazione al tavolo nelle mense aziendali o in tutti i locali adibiti alla somministrazione di servizi di ristorazione ai dipendenti pubblici e privati è necessario esibire la certificazione verde COVID-19? Sì, per la consumazione al tavolo al chiuso i lavoratori possono accedere nella mensa aziendale o nei locali adibiti alla somministrazione di servizi di ristorazione ai dipendenti, solo se muniti di certificazione verde COVID-19, analogamente a quanto avviene nei ristoranti. A tal fine, i gestori dei predetti servizi sono tenuti a verificare le certificazioni verdi COVID-19 con le modalità indicate dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17 giugno 2021".

Del resto, diversamente non potrebbe essere non potendo il datore di lavoro, come anticipato al paragrafo che precede, conoscere né chiedere l'esibizione di documentazione attestante l'avvenuta vaccinazione (o l'esito negativo di un tampone). Pertanto, fermi restando gli adempimenti di cui all'art. 26 del D.Lgs. n. 81 del 2008, sarà poi compito dell'appaltante effettuare i controlli delle certificazioni dei dipendenti che vogliano accedere al servizio di mensa.

[18] L'art. 41 del Testo Unico dispone che la sorveglianza sanitaria venga effettuata dal medico competente anche attraverso la visita medica periodica, finalizzata a controllare lo stato di salute dei lavoratori ed a esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica. Le visite mediche comprendono - secondo quanto previsto ex lege - gli esami clinici e biologici e le indagini diagnostiche miranti al rischio, ritenuti necessari dal medico competente, il quale, sulla base delle risultanze, esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica del lavoratore: a) idoneità; b) idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni; c) inidoneità temporanea; d) inidoneità permanente.



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