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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 29/05/2021 Scarica PDF
Prelievi dei soci di s.n.c. e requisito soggettivo di ammissione al concordato
Serena Maurutto e Alessandro Turchi, Serena Maurutto, Docente a contratto nell'Università degli Studi di Bergamo. Alessandro Turchi, cultore di 'Gestione d'impresa e creazione di valore', presso l'Università degli Studi di BergamoSommario: 1. Massima: Cassazione Civile, Sez. I, 20 gennaio 2021, n. 979. 2. I fatti di causa. 3. I debiti dei soci sorti in virtù dell’erosione del capitale sociale. 4. I prelievi dei soci di s.n.c. 5. I principi di diritto statuiti dalla Corte di Cassazione.
1. Ai fini dell’ammissione alla procedura di concordato preventivo di una società di persone (nel caso di specie una s.n.c.), concorrono a formare l’«attivo patrimoniale», di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), l. fall., i prelievi di somme dalle casse sociali da parte dei soci, che non trovino la loro esatta giustificazione in utili effettivamente conseguiti, posto che le somme così percepite sono soggette ad azione di ripetizione di indebito da parte della società. Viceversa, poiché le obbligazioni sociali costituiscono debiti che sono in capo alla società pur nel caso delle società di persone, non concorre a formare l’«attivo patrimoniale» la circostanza che i soci illimitatamente responsabili siano tenuti, quali garanti ex lege, a rispondere degli stessi.
2. Nel caso esaminato, una società in nome collettivo proponeva avanti al Tribunale di Pescara domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, ai sensi dell’art. 161, comma 6, l. fall.
Il Tribunale dichiarava l’inammissibilità della domanda presentata dalla ricorrente, osservando che «dalla documentazione allegata alla domanda non emerge il requisito soggettivo per l’ammissione alla procedura, non essendo evidenziato il superamento dei limiti dimensionali posti dalla L. Fall., art. 1».
Sulla base della documentazione contabile prodotta dalla ricorrente, i Giudici rilevavano che l’attivo ascendeva oltre il limite di euro 300.000 esclusivamente per effetto della contabilizzazione della voce “deficit patrimoniale”. Precisavano gli stessi che tale voce indica «il disavanzo patrimoniale riportato dall’impresa» e che essa «può essere inserita nelle attività», allorché il passivo risulti a queste superiore; ciò, tuttavia, «può avvenire per una mera questione di segno contabile, che non può avere l’effetto di indicare una effettiva attività considerabile quale elemento dell’attivo patrimoniale ai fini del superamento della soglia di cui alla L. Fall., art. 1, comma 2». Evidenziavano, infine, i Giudici che nell’attivo rilevante ai fini dell’art. 1, co. 2, lett. a), l. fall., non rientra il capitale sociale, poiché quest’ultimo risulta collocato dall’art. 2424, cod. civ., tra le poste patrimoniali passive.
Avverso il provvedimento del Tribunale di Pescara, la società in nome collettivo avanzava ricorso, promovendo due motivi di cassazione.
Con il primo, attinente all’omessa e/o contraddittoria motivazione, la ricorrente contestava la decisione del Tribunale di assegnare carattere meramente fittizio alla posta “deficit patrimoniale”. La S.n.c. riteneva, infatti, che la predetta voce rappresentasse senz’altro una «posta effettiva», da computarsi ai fini dell’art. 1, comma 2, l. fall., in quanto consistente in «crediti della società nei confronti dei soci». Questi ultimi, a parere della ricorrente, erano, da un lato, quelli «sorti in virtù dell’erosione del capitale sociale, determinata dalla sommatoria dei fattori perdita di esercizio su varie annualità» e, dall’altro, da «prelievi dei soci» dalle casse sociali.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamentava la falsa applicazione dell’art. 2424 del Codice civile che detta i criteri di redazione dello Stato Patrimoniale civilistico. Osservava la S.n.c. «che detti criteri non necessariamente coincidono con quelli riferibili ai requisiti soggettivi di cui alla L. Fall., art. 1», affermazione quest’ultima «totalmente infondata» secondo i Giudici di merito.
I Giudici di legittimità ritenevano inammissibile il ricorso presentato dalla ricorrente. Posto che il decreto con cui il Tribunale dichiara l’inammissibilità della proposta di concordato senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa di fallimento non è soggetto a ricorso per cassazione ex art. 111, Cost. comma 7, stante il suo carattere non decisorio, il Collegio riteneva opportuno enunciare un principio di diritto, ai sensi dell’art. 363 c.p.c.
La questione riguardava il rilievo da riconoscere - con specifico riferimento alla nozione di «attivo patrimoniale» rilevante ai fini del superamento dei limiti dimensionali sanciti dall’art. 1, comma 2, lett. a), l. fall. - alla voce di bilancio “deficit patrimoniale”. Più precisamente, se questa fosse da stimare nei termini di mera posta contabile o, viceversa, rappresentasse una effettiva voce dell’«attivo patrimoniale», con riguardo ai debiti dei soci «sorti in virtù dell’erosione del capitale sociale» ovvero, e in modo distinto, con riguardo ai «prelievi» da questi effettuati dalle casse sociali.
3. La ricorrente sosteneva che la posta di bilancio “deficit patrimoniale” non avesse carattere fittizio, bensì che rappresentasse una posta effettiva, poiché consistente in crediti «sorti in virtù dell’erosione del capitale sociale, determinata dalla sommatoria dei fattori perdita di esercizio su varie annualità». A parere della ricorrente, in sostanza, le perdite accumulate nei vari esercizi rappresentano un credito della società nei confronti dei soci, che in quanto tale concorre a formare l’attivo patrimoniale della stessa alla stregua delle altre voci rappresentative di capitale investito.
La posizione assunta dalla S.n.c. rimanda direttamente all’idea che nelle società di persone, come nel caso di specie, il debitore finale delle obbligazioni assunte dalla società sia non quest’ultima, bensì i soci illimitatamente responsabili.
Secondo i Giudici di legittimità, tuttavia, la tesi sopra esposta non corrisponde all’orientamento della giurisprudenza consolidatasi nella relativa materia.
La tesi avanzata dalla Corte di Cassazione si sostanzia, infatti, in tre punti cardine:
• la società costituisce un «distinto centro di interessi e imputazione di situazioni, dotato di una propria autonomia e capacità rispetto ai soci»;
• la responsabilità verso terzi dei soci, sancita dagli artt. 2304 e 2291 del Codice civile, si atteggia come una forma di «garanza fissata ex lege»;
• il socio, che ha provveduto a pagare il suo debito sociale, può esercitare azione di regresso nei confronti della società[1].
Tale orientamento risulta altresì avvalorato dalla norma generale dell’art. 2266, cod. civ., il quale dispone espressamente che la società assume obbligazioni «per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza». Allo stesso modo, l’art. 2280, secondo comma, cod. civ., che disciplina la responsabilità dei soci, viene «ad atteggiarsi come sopportazione e distribuzione del rischio dell’insolvenza della società debitrice nel cui esclusivo interesse risulta posta l’obbligazione».
Precisavano inoltre i Giudici l’estraneità alla questione in esame dell’ipotesi dei versamenti ancora dovuti dai soci a titolo di conferimento. Questi, infatti, per espressa previsione civilistica, rappresentano una voce dell’attivo dello stato patrimoniale (lettera A) ex art. 2424, comma 1, cod. civ.).
La Corte di cassazione concludeva affermando che «la posta di bilancio deficit patrimoniale assume riferimento e valore meramente contabili, dato che la società in nome collettivo non vanta crediti nei confronti dei soci in punto di obbligazioni sociali».
In sostanza, la circostanza in cui le passività eccedano le attività, rendendo così il patrimonio netto negativo, non comporta che il “deficit patrimoniale” identifichi un credito della società verso i soci, seppur illimitatamente responsabili. Ritenere, infatti, come avanzato dalla ricorrente, che le perdite accumulate nel corso degli esercizi siano rappresentative di capitale investito (nella forma di crediti verso i soci) appare opinabile a parere degli scriventi.
4. La seconda questione affrontata dal provvedimento in esame attiene ai prelievi da parte dei soci di somme dalle casse sociali, posto che la ricorrente configurava questi ultimi come effettivi crediti della società che, in quanto tali avrebbero formato l’attivo patrimoniale in relazione al superamento delle soglie di fallibilità sancite dall’art. 1, comma 2, l. fall.[2].
In primo luogo, i Giudici di legittimità evidenziavano come non siano infrequenti le prassi intese a qualificare i prelievi dei soci, seppur riferiti a esercizi ancora in corso, nei termini di “percezione di utili”.
Parimenti, si registrano orientamenti atti a ritenere le attribuzioni patrimoniali, che questi prelievi producono, come senz’altro definitive e quindi intangibili, all’unica condizione che sussista il previo consenso da parte di tutti i soci[3]. Tale valutazione, secondo la Cassazione, è stata superata dall’evoluzione giurisprudenziale della Corte, che ha portato ad affermare che «nelle società di persone il diritto del singolo socio a percepire gli utili è subordinato, ai sensi dell’art. 2262 c.c., all’approvazione del rendiconto, situazione contabile che equivale, quanto ai criteri di valutazione, a quella di un bilancio»[4].
Fermo restando la perdurante incertezza in merito alla questione affrontata, i Giudici di legittimità giungevano alla conclusione per cui nelle società di persone vige la «imperatività della regola per cui non può farsi luogo a ripartizione di somme fra soci, se non per utili realmente conseguiti». Ciò è altresì espressamente previsto dall’art. 2303, cod. civ., che disciplina i limiti alla distribuzione degli utili nelle società in nome collettivo, disponendo che «non può farsi luogo a ripartizione di somme tra soci se non per utili realmente conseguiti».
Non può inoltre trascurarsi che l’illegale ripartizione degli utili è presidiata da un’apposita sanzione penale nei confronti degli amministratori[5]. Infatti, ai sensi dell’art. 2627, co. 2, cod. civ., «gli amministratori che ripartiscono utili o acconti su utili non effettivamente conseguiti o destinati per legge a riserva (…) sono puniti con l’arresto fino ad un anno»[6].
La circostanza, peraltro, che l’art. 2262, cod. civ., faccia salvo il patto contrario nel dichiarare il diritto del socio a percepire gli utili dopo l’approvazione del rendiconto, va intesa, secondo la sentenza in commento, nel senso di «limitare», non già di «espandere», il diritto del socio alla percezione degli utili di periodo; e così, in specie, alla possibilità che lo statuto sociale subordini, durante la vita della società, la distribuzione degli utili al consenso della maggioranza dei soci.
Da ultimo, i Giudici evidenziavano due aspetti cardine della disciplina delle società di persone.
Fermo restando che gli utili di periodo si formano in relazione all’esito dei singoli esercizi sociali, le società di persone non conoscono la possibilità di distribuire acconti sui dividendi. Ciò si ricava (se non altro) dalla disposizione di cui all’art. 2433 bis, cod. civ., secondo la quale «la distribuzione di acconti sui dividendi è consentita solo alle società il cui bilancio è assoggettato per legge a revisione legale dei conti».
Inoltre, dal settimo comma della predetta norma, nonché dal comma quarto dell’art. 2433, cod. civ., si evince che la distribuzione di utili non effettivamente conseguiti configura un’ipotesi di indebito oggettivo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2033, cod. civ. Quest’ultimo dispone il diritto di chi ha eseguito un pagamento non dovuto di ripetere ciò che ha pagato.
5. Dalle osservazioni in precedenza esposte discende, secondo la sentenza in commento, che il prelievo di somme dalle casse sociali da parte dei soci, che non trovino la loro esatta giustificazione in utili effettivamente conseguiti dalla società medesima, comporta senz’altro il sorgere del diritto della società di ripetere le somme, concretamente distribuite, nei confronti di ciascun socio che le abbia fatte proprie[7].
Nel rispetto di queste condizioni, concludeva la Corte di Cassazione, la voce di bilancio “deficit patrimoniale” rappresenta una posta non fittizia, bensì effettiva. In quanto tale, quest’ultima diviene rilevante ai fini della formazione dell’«attivo patrimoniale» della società in relazione all’art. 1, comma secondo, lett. a), l. fall.
In conclusione, i Giudici di legittimità statuivano il seguente principio di diritto: «Posto che le obbligazioni sociali costituiscono debiti che stanno in capo alla società pur nel caso delle società di persone, non concorre a formare l’attivo patrimoniale, che viene preso in considerazione dalla norma della L. Fall., art. 1, comma 2, lett. a, il fatto che i soci illimitatamente responsabili siano tenuti, quali garanti ex lege, a rispondere degli stessi. Concorrono invece a formare l’attivo patrimoniale i prelievi di somme dalle casse sociale da parte dei soci, che non trovino la loro esatta giustificazione in utili effettivamente conseguiti, dato che le somme così percepite sono soggette ad azione di ripetizione di indebito da parte della società».
Due sono quindi i principi statuiti dalla Cassazione: (i) il prelievo dalle casse sociali, che non trovi esatta giustificazione in utili effettivamente conseguiti, comporta il diritto della società di ripetere le somme nei confronti dei soci della s.n.c., con la conseguente rilevanza di tale credito nella formazione dell’«attivo patrimoniale» ai fini del superamento delle soglie di fallibilità ex art. 1, comma 2, lett. a), l. fall.; (ii) la circostanza per cui i soci illimitatamente responsabili siano tenuti, quali garanti ex lege, a rispondere delle obbligazioni sociali non concorre a formare l’«attivo patrimoniale».
* Serena Maurutto - Docente a contratto presso il dipartimento di scienze aziendalistiche e Docente al Master Universitario di II livello “Crisi d’impresa e ristrutturazioni aziendali” presso l’Università degli Studi di Bergamo.
* Alessandro Turchi - Dottore commercialista in Milano e cultore di “Gestione d’impresa e creazione di valore”, presso l’Università degli Studi di Bergamo.
[1] Cfr. Cass., 16 marzo 2018, n. 6650; Cass., 22 marzo 2018, n. 7139; Cass., 26 febbraio 2014, n. 4528; Cass., 12 dicembre 2007, n. 26012.
[2] Chi scrive ritiene opportuno richiamare l’attenzione del lettore sull’effetto deflattivo che l’incremento dell’attivo patrimoniale determinato dall’appostazione a bilancio dei crediti verso soci – per prelievi degli stessi – comporta sulla misura del deficit patrimoniale e sull’aggravamento del dissesto.
[3] Tale orientamento trova supporto nella sentenza della Corte di Cassazione del 9 luglio 2003, n. 10786, la quale ha statuito che «quanto alla possibilità, in una società in nome collettivo, di imputare dei pagamenti a utili sociali di competenza del periodo in corso, ancor prima del rendiconto, essa è consentita dall'art. 2262 c.c. Questa norma, infatti, nel subordinare la distribuzione degli utili all'approvazione del rendiconto, ammette espressamente il patto contrario». In tal senso, la Corte ha altresì, ritenuto legittimi soltanto quei prelievi autorizzati da clausole specifiche dello Statuto approvate all’unanimità dei soci.
[4] Cfr. Cass., 31 dicembre 2013, n. 28806; Cass. 4 luglio 2018, n. 17489; nella medesima direzione si veda Cass., 17 febbraio 1996, n. 1240.
[5] In virtù del richiamo all’art. 2627, cod. civ., operato dall’art. 223, comma 2, n. 1, l. fall., la distribuzione di somme di denaro a titolo di acconti su utili non effettivamente conseguiti, dando luogo ad una manomissione del capitale posto a garanzia dei creditori sociali, è condotta suscettibile di integrare il delitto di bancarotta patrimoniale impropria. Così, Cass., Sez. V Penale, 13 giugno 2017, n. 34162.
[6] In tal senso, va ricordato che, così come affermato nella sentenza n. 2894/2018 del Tribunale di Milano, Sezione in materia di impresa, tali prelievi comportano l’obbligo da parte del tribunale di accertare la responsabilità del socio amministratore per violazione delle norme sottese al rapporto di mandato. In materia di società di persone «I diritti e gli obblighi degli amministratori sono regolati dalle norme sul mandato. Gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società per l’adempimento degli obblighi ad essi imposti dalla legge e dal contratto sociale (…)» (art 2260, cod. civ.). In tal senso risulta, dunque, indiscutibilmente riconosciuta l’autonomia del patrimonio della società da quello dei soci illimitatamente responsabili e conseguentemente un preciso obbligo dei soci-amministratori, quali gestori di un patrimonio autonomo, di dare conto della attività svolta nella amministrazione.
A fronte di tale obbligo, l’azione sociale di responsabilità viene a configurarsi come azione di inadempimento contrattuale, con conseguente distribuzione dei relativi oneri di allegazione e di prova. In tale prospettiva, inoltre, il tema centrale riguarda non già l’astratta possibilità che nella gestione di una snc si faccia affidamento su utili futuri, ma piuttosto una valutazione della condotta dei soci amministratori con riferimento alla situazione concreta in cui versava la società all’epoca dei prelievi. Non risulterebbe, infatti, ragionevole che il socio amministratore, facendo affidamento su utili futuri tanto da legittimare il prelievo di “anticipi”, non avesse poi provveduto al recupero delle somme prelevate negli esercizi precedenti a fronte dell’evidenziato aggravamento dello stato dei conti.
[7] Tale principio trova, peraltro, ulteriore conferma dalla stessa Cassazione che, con ordinanza n. 6028 del 4 marzo 2021, ribadisce che il prelevamento di somme dalle casse sociali comporta senza dubbio il sorgere del diritto della società di ripetere le somme, confermando la decisione con cui, i giudici di merito nel caso in esame, avevano condannato due ex soci di una s.n.c. al pagamento delle somme di danaro corrispondenti alla serie di “prelievi non autorizzati” effettuati dal conto corrente bancario e dalle casse della società.
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