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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 10/05/2021 Scarica PDF

Le S. U. "impongono" al trib. fallimentare di effettuare il cram down anche nell'ipotesi di voto contrario dell'amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza obbligatorie

Fabio Santangeli, Professore di Diritto processuale civile nell'Università di Catania


Nelle pagine di questa rivista si è con passione dibattuto sulla portata degli art. 180 quarto comma e dell’art. 182 bis, terzo comma, l.f.., di recentissima introduzione.

Sono note, in tema, le differenti soluzioni interpretative che dottrina e giurisprudenza hanno proposto, in particolare, sulla ammissibilità che il tribunale fallimentare possa omologare il concordato preventivo o l’accordo di ristrutturazione dei debiti nonostante i voti contrari delle Agenzie.

Ho già espresso le mie considerazioni, ritenendo che il tribunale debba intervenire anche in presenza di un espresso voto contrario, e, in questa sede, non posso che rinviare al mio scritto[1].

La vicenda, tuttavia, si arricchisce di un ulteriore elemento, di cui credo sia opportuno dare conto. Mi riferisco alla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite 8504/2021[2], che, in ragionato dissenso con la giurisprudenza di merito, ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario (fallimentare)  e non del giudice tributario nella declinazione del giudice competente per la concessione di tutela giurisdizionale avverso il rigetto di una proposta da parte della Agenzia delle Entrate; e, questo,  in riferimento ad una fattispecie dell’anno 2018, cui pacificamente si applicano pertanto le disposizioni della legge fallimentare anteriori alle recenti innovazioni (dunque, la disciplina precedente alle riforme del dicembre 2020).

Il ragionamento della Sezioni Unite, nella decisione che ci occupa, conferma una propria precedente soluzione ermeneutica, che aveva ritenuto in via di principio non applicabile il codice della crisi d’impresa come utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare, ad eccezione delle ipotesi in cui si possa configurare “nello specifico segmento un ambito di continuità tra il regime attuale e quello futuro”[3]; eccezione, tuttavia, che le Sezioni Unite 8504/2021 rinvengono proprio nel caso di specie (come, del resto, sostenuto dalla difesa delle Agenzia delle Entrate).

La soluzione in concreto adottata è certo opinabile; dalla netta distinzione tra le disposizioni precedenti alle riforme del dicembre 2020, da un lato, ed  appunto queste riforme (e le corrispondenti disposizioni del codice della crisi d’impresa), dall’altro, è, semmai, coerente affermare la necessità, per le nuove procedure concorsuali oggi introdotte, e per quelle che domani lo saranno nella vigenza del codice della crisi di impresa,  di sottoporre a radicale ripensamento  quella giurisprudenza  che oggi  delinea i rapporti tra giurisdizione tributaria e giurisdizione fallimentare (in tema,  ad esempio, di interpretazione dell’art. 90 dpr 602/1973, o in tema di falcidiabilità dei tributi locali ), ma che si è formata, appunto, in una precedente fase in cui il contemperamento tra le esigenze “dell’interesse fiscale” e della “conservazione del bene impresa” era diversamente declinato dal legislatore.

Ma non è questo il tema di cui intendo riferire in questo breve contributo; ciò che, in questa sede, ritengo invece opportuno sia sottolineato è che le Sezioni Unite (confermando così una interpretazione, per il vero, difficilmente contestabile) attribuiscano espressamente e ripetutamente il medesimo significato alle disposizioni del CCII e alle disposizioni della “novella anticipatrice del dicembre 2020”[4]; “...non può farsi applicazione del d.gls 14/2019, Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (breviter, CCII), né risulta applicabile la versione degli artt. 180, 182 bis e ter, l.f. recentissimamente introdotta dall’art. 3 comma 1 bis, d.l. 125/2020. Quest’ultimo novum legislativo ha anticipato, rispetto alla vacatio generale del 1° settembre 2021, le previsioni di cui all’art. 48 n.5 c.c.i.i.”…“ le nuove versioni degli art. 180 quarto comma ultima parte, 182 bis, terzo comma, seconda parte, l.f. introdotta con il d.l. 125/2020 invece, danno un’indicazione molto più precisa e pregnante, essendo peraltro la stessa una mera riproduzione della omologa previsione di cui all’art. 48, comma 5 c.c.i.”[5].

Questa lettura, laddove naturalmente dovesse essere condivisa, conferma ulteriormente l’onere per il tribunale fallimentare di provvedere ad omologare anche superando il voto contrario dell’amministrazione finanziaria, come appare innegabile ai sensi dell’art. 48 n. 5 c.c.i.; confermando come già le attuali disposizioni, di recente introduzione, debbano essere interpretate allo stesso modo delle corrispondenti del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, e ciò nonostante alcune marginali differenze esegetiche che, appunto, avevano invece indotto taluno a ritenere la necessità di una differente lettura tra il disposto di cui all’art180 quarto comma l.f., e invece l’art. 48 n.5 c.c.i..



[1]. Santangeli, Note sul nuovo ruolo del Tribunale come giurisdizione di merito nel trattamento dei crediti erariali e contributivi nel codice della crisi di impresa e dell’insolvenza ed in più recenti disposizioni legislative, in Il caso.it https://blog.ilcaso.it/news_1079.

[2] Cass. s.u. 23 febbraio 201 n.8504.

[3] Cass, s.u. 24 giugno 2020 n. 12476

[4] Così espressamente, le Sezioni unite, a pag.7

[5] Così, a pag. 8.


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