Bancario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 31/03/2021 Scarica PDF
Le "eccedenze" di liquidità sui conti correnti. On the dark side of the moon
Aldo Angelo Dolmetta e Luca Serafino Lentini, Aldo Angelo Dolmetta, già Consigliere nella Prima sezione della Corte di Cassazione, già Professore ordinario di Diritto privato nell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Luca Serafino Lentini, Docente a contratto presso la Facoltà di giurisprudenza.1.- Le notizie di stampa raccontano che, in correlazione con la conferma da parte della Banca Centrale Europea dei tassi negativi dell’Euribor[1], talune banche italiane hanno adottato modifiche del regolamento contrattuale dei conti correnti in cui, per una o altra contingenza, si trovino a giacere somme d’importo superiore a euro 100.000. Nel concreto, le scelte operative, che sono state compiute da queste imprese, risultano seguire due diversi – e alternativi, naturalmente – approcci di base.
La prima opzione si sostanzia nella previsione di uno specifico, e apposito, caso di facoltà di recesso da parte dell’intermediario. Precisamente la banca aggiunge, alle correnti clausole sul recesso delle parti dal conto corrente, un’ipotesi ulteriore, fondata appunto sulla detta esuberanza delle liquidità giacenti.
Diversamente, in altri casi si è pensato di prevedere una «commissione di liquidità» sulle (esuberanti) giacenze in essere, misurata in termini percentuali su queste (o in misura fissa su scaglioni) e di cadenza periodica (per quanto abbiamo letto, la stessa ha frequenza trimestrale o anche mensile).
Su questi schemi strutturali di base vengono poi a innestarsi (meglio, possono innestarsi) altre previsioni aggiuntive, tra loro in vario modo combinabili. In alcune versioni, la misura è - almeno per ora[2] – prevista soltanto per i conti dei non consumatori; in altri, senza discriminazioni soggettive. Talvolta, le modifiche vengono veicolate mediante una dichiarazione ex art. 118 TUB, investendo anche i contratti in corso; talaltra, riguardano solo rinnovi e nuovi rapporti. Ancora, l’applicazione della previsione di base viene, alle volte, subordinata al fatto che il cliente non abbia in essere (o non apra) dei rapporti con la banca inerenti a servizi di investimento.
Se abbiamo bene inteso, l’approntamento di modifiche di questo genere risale già agli inizi di quest’anno, se non prima anzi. Né, per la verità, il fenomeno sembrerebbe destinato a manifestarsi propriamente effimero, posto che la Banca Centrale Europea ha già dichiarato che i tassi negativi sono destinati a permanere pure nel medio e lungo periodo. Del resto, non sono mancate forme di reazione sostanzialmente analoghe in altri paesi europei (come Germania, Francia, Svizzera e Danimarca)[3], in cui gli istituti bancari hanno iniziato ad applicare tassi negativi già prima di quanto accaduto in Italia.
2.- Nonostante la diversità dell’impianto strutturale, le dette opzioni di base sembrano esprimere, al fondo, una non differente filosofia. Che appare composta, a guardar lungo, da due anime (se non forse, addirittura, da un’anima dotata di una duplice prospettiva). Una, intesa a dissuadere il correntista dal mantenere depositate sulconto delle liquidità importanti; l’altra - più sfumata, volendo, e nel caso pure mediata – volta a persuadere il cliente ad attivare i servizi di investimento coll’intermediario (ovvero a incrementarne i rapporti).
La struttura posata sul recesso non appare, per la verità, in sé dotata di un autonomo, utile valore normativo. Trattandosi di contratto a tempo indeterminato, la banca può sempre recedere ad nutum secondo i princìpi (cfr., del resto, pure la norma dell’art. 1855 cod. civ.); le clausole correnti nei moduli standard non mancano, d’altro canto, di ribadire il concetto. Sì che l’introdotta ipotesi appare più che altro espressiva di una «manifestazioni di intenti», che viene rivolta alla clientela: come, nel caso, enfatizzata a mezzo di una comunicazione ex art. 118 TUB[4] e magari anche divulgata attraverso i media.
La struttura basata sulla commissione di liquidità possiede, per contro, un significato normativo sin troppo evidente. Tuttavia, è da considerare pure che la soglia minima posta per la sua applicazione si manifesta - specie nella prospettiva dei depositi a vista - particolarmente elevata e che, secondo quanto pare, il peso economico della commissione (oltre a non esprimere un montante fisso) è tutt’altro che modesto[5]. Sì che l’intento di lucro, che è senz’altro sotteso alla introduzione della commissione, sembra «cedere il passo» rispetto a quello di «penalizzare» il cliente ritenuto troppo liquido.
Certo, né l’una, né l’altra versione ha in sé la forza di impedire al cliente di «frazionare» i propri depositi presso più istituti di credito. È però vero pure che un simile frazionamento può portare – specie in determinate situazioni[6] - complicazioni ed aggravi. Soprattutto, è difficile ipotizzare che delle imprese bancarie si pongano in via deliberata (e fisiologica, se così si può dire) sulla via di perdere della clientela[7]. Più sensato appare allora pensare che, in realtà, non si intenda trascurare del danaro, quanto piuttosto dirottarlo verso altri fini (e redditizi, magari).
Col che viene di conseguenza pure a emergere il ruolo centrale (la seconda faccia della luna, appunto) che possiede il punto dato daiservizi di investimenti instaurandi tra banca e cliente: non tanto nel suo eventuale essere formalmente «aggiunto» in una clausola pattizia, quanto piuttosto per il suo venire a esprimere una parte costituiva dell’idea che sta dietro alle modifiche regolamentari di cui si discute. Non è davvero difficile immaginare l’ipotesi di un accordo con cui la banca, a fronte di investimenti fatti per il suo mezzo dal cliente, rinuncia ad applicare la commissione di liquidità ovvero a recedere dal contratto diconto corrente.
3.- Di per sé, la sussistenza di un intento delle banche di dissuadere la clientela dal lasciare in deposito a vista dosi di «eccessiva» liquidità potrebbe anche venire a stupire; comunque, ad apparire «anormale».
Nei fatti economici, la stessa sembra dipendere da un duplice ordine di fattori: da un lato, sta la scelta della Banca Centrale Europea di applicare e mantenere tassi negativi all’Euribor (si è già accennato nel n. 1), sì da agevolare l’accesso al credito nell’attuale scenario di crisi (pandemica, in specie); dall’altro, v’è il fatto dell’ingente accumulo di liquidità privata sui conti occorso nell’anno pandemico[8]. Da qui la perdita d’interesse delle banche a raccogliere, per l’esercizio dell’attività di erogazione, il danaro privato: il danaro è reperibile anche altrove; e a prezzi più convenienti.
In realtà, da stupirsi non vi sarebbe nemmeno a guardare la cosa dal punto di vista dommatico: della definizione verticistica, cioè, del sistema normativo delle imprese bancarie. Vero è che la vicenda in esame si contrappone alla tradizionale lettura che ancora oggi, sulla base dell’art. 10 tub, si dà della nozione di attività bancaria, che pone la raccolta tra il pubblico del risparmio con obbligo del rimborso a vista come proprio, se non necessario, fattore di produzione per l’esercizio del credito.
Sennonché, tale nozione - a cui fa da sostanziale pendant l’idea dell’attività bancaria nei termini di intermediazione del bene danaro – lungi dall’ esprimere un valore immutabile, o addirittura ontologico, costituisce solo una reliquia storica, che si può anche pensare abbia fatto il suo tempo.
Di tanto è già prova, al di là del dato materiale offerto dalla presente vicenda, il dibattito che si svolse all’epoca del recepimento della seconda direttiva. E più ancora lo è la separata considerazione normativa che l’art. 47 Cost. riserva alle attività di raccolta del risparmio (anche a vista) e di esercizio del credito, intese come le due distinte attività identificative, sotto il profilo storico, del nucleo base della «nozione» di banca. Del resto, nel vigente testo unico circola, a fianco della nozione dell’art. 10, già una diversa nozione di banca (cfr. l’art. 1, comma 2 lett. f., «attività ammesse al mutuo riconoscimento»), che al riguardo considera una serie di attività distinte e separate l’una dall’altra. Sembra lecito pensare, anzi, che nell’oggi quest’ultima nozione costituisca «il vero motore attuale di inquadramento della materia» e che in questa diversa prospettiva – di considerazione disaggregata di una serie di attività – venga, almeno per certi aspetti, anche a rifluire la coesistenza delle due attività, di raccolta del risparmio e di erogazione del credito, che è presa in speciale considerazione dall’art. 10[9].
4. Nel contesto di questa (più attuale) prospettiva, è facile constatare come l’accogliere depositi a vista non costituisca per forza attività servente rispetto a quella di erogazione del credito e funzionale alla stessa. Come pure, per altro verso, l’impresa di far credito ben può, evidentemente, venire alimentata anche a mezzo di altre, nell’eventualità più «convenienti», provviste.
Non v’è ragione, d’altra parte, per pensare che un’autonoma attività di accoglienza dei depositi a vista non possa (o non debba) aspirare ai tratti dell’autosufficienza economica e della separata organizzazione, sì da porsi, nel caso, come diretto esercizio di un’attività d’impresa.
A confrontarsi con l’onere economico preteso in cambio (sinallagmatico) certo non è, peraltro, l’idea di «scoraggiare» i clienti dal lasciare in banca troppo danaro: idea, questa ultima, sostanzialmente antitetica – lo si è già accennato sopra – a quella dell’impresa di depositi. E’, piuttosto, la prestazione di custodia del danaro e di pronta disponibilità a restituirlo a richiesta (senza alcun preavviso, cioè) che connota quest’attività e ne giustifica un corrispettivo.
A seconda delle contingenze, storiche e di mercato, questa prestazione ben può risultare «assorbita» da un prevalente interesse a fornirsi di provvista per un’opportuna attività di esercizio del credito[10] oppure invece emergere come servizio autonomo e, come tale, per sé retribuibile[11]. In ragione – può giovare ripetere – di una custodia del danaro intesa all’immediata restituzione in parte o in tutto dello stesso, sol che il cliente lo chieda. Né può esservi dubbio, ovviamente, sull’oggettiva utilità di una simile prestazione.
Ciò posto sulla linea dei principi del sistema e scendendo ora alla vicenda proposta dall’odierna situazione, non si può, in conseguenza di quanto appena sopra rilevato, non formulare almeno un dubbio importante. Come relativo alla sostanziale e concreta «coniugabilità» (o convertibilità) della commissione di liquidità, che è oggi prevista da talune banche nei loro contratti di conto corrente, con la detta funzione di «custodia di danaro disponibile». E pure chiedersi, nell’ipotesi di risposta negativa a tale quesito, se vi sia una causa che, nel contesto negoziale dell’operatività, possa sostenere la relativa pretesa e, nel caso, quale[12].
5.- Sul piano dei fatti, l’applicazione di una «commissione di liquidità» è causata, si è detto (sopra, nel n. 3), da due fattori distinti e tuttavia connessi al fenomeno pandemico, quasi a costituirne i due volti: al di là di quello rappresentato dal calo dei tassi Euribor voluto dalla BCE in funzione agevolatrice del credito, si pone, altresì, un accumulo di risparmio privato, che è fuori dall’ordinario (e che, peraltro, solo in parte dipende – è pure da rimarcare - dalle ridotte possibilità di spesa dovute ai lockdown). L’introduzione della detta commissione (al pari dell’alternativa espressa dalla recedibilità dal rapporto) – pure si è già rilevato – non sembra fine a sé stessa, intendendo piuttosto «spingere» il cliente verso la costituzione (ovvero l’incremento) di rapporti ulteriori con quella medesima banca: si vuole trasformare le (esuberanti) liquidità giacenti in investimenti, insomma.
Non v’è dubbio, del resto, che l’attuale scenario economico-sociale presenti toni forti di peculiarità. Su un polo, si riscontrano più e più situazioni di «eccedenza» di liquidità ferma sui conti correnti; e ciò anche in ragione - va almeno annotato in limine – dell’attuale scarsa propensione del mercato a investire: tanto per memoria dei fatti passati (le Autorità hanno davvero «difeso» il risparmio?), quanto per timore dei fatti futuri. Sul polo opposto si pone - diffusa e tangibile - una crisi economica di spessore assai forte: già nell’attuale; e più ancora nella prospettiva del futuro prossimo.
La delicatezza dell’oggi impone dunque, com’è peraltro evidente, cautela e attenzione davvero particolari.
In Italia, gli istituti bancari (e con questi - a fianco degli stessi – il risparmio postale) hanno tradizionalmente costituito, com’è pure tuttora, la principale cinghia (di raccolta e) di trasmissione del risparmio verso gli investimenti (non im)mobiliari. Nel contesto attuale, di progressiva digitalizzazione dei pagamenti (al di là dei limiti all’uso del contante, basta pensare, da ultimo, al cash back), il passaggio bancario risulta, alla conta dei fatti, cosa sostanzialmente non evitabile.
Posta l’attuale situazione pandemica, è necessario (più che mai) che la ricchezza della liquidità non venga «bruciata», ma conservata e, anzi, accresciuta. Nella prospettiva di canalizzazione del risparmio in investimenti mobiliari, si palesa netta, infine, l’esigenza di una selezione degli investimenti oculata e opportuna: che venga governata in modo particolarmente diligente, specie in un contesto in cui la pandemia, già di per sé costituisce fattore rilevante – come pure, però, opportunità di peso non meno rilevante - che si collega al rischio di crisi delle imprese.
È il caso di aggiungere: prima ancora di tutte le altre (nel mercato degli intermediari in generale cioè), proprio dalle banche che vengono ad approntare i meccanismi persuasivi di cui si sta discutendo[13].
6. Da questo angolo visuale, l’indicazione persuasiva all’attivazione di servizi di investimento, che sta al fondo della vicenda delle «commissioni di liquidità» (compresa la «variante» del recesso, v. ancora nel 2), appare, per la verità, di tratto un poco massimalistico: nei fatti, non si tratta solo di investire, ma di come farlo, in specie, secondo quale direzione.
La constatazione è focalizzata sulla contingenza delle clausole di recesso e di commissione di liquidità, delle quali qui si è discorso. In generale, però, va sottolineato che l’attuale (e pandemico) momento economico richiede, per l’esercizio delle attività dei servizi di investimento, una professionalità degli esponenti bancari particolarmente elevata: nel segno, naturalmente, dell’efficienza della prestazione offerta alla clientela. Il riferimento va, in specie, alla necessità che le prestazioni rese dall’intermediario siano governate dal criterio della qualità degli investimenti e della coerenza, in punto di rischio connesso, con il profilo e l’interesse che nel concreto sono propri dei clienti.
Anche per questa segnata ragione occorre (più che mai) un comportamento proattivo di vigilanza e di controllo, da parte delle Autorità di settore: sia della Banca d’Italia, che della CONSOB, in relazione alle loro rispettive funzioni. Del resto, in un periodo in cui la fiducia dei risparmiatori si attesta su minimi storici (cfr. pure sopra, nel secondo capoverso del n. 5), la presenza di un atteggiamento «presente, responsabile e utile» appare bene di prima necessità.
Come è pure evidente – è ancora da aggiungere -, le peculiarità della vicenda delle clausole di recesso e di commissione di liquidità richiamano in modo diretto pure il tema specifico del conflitto di interessi: l’intento persuasivo, di cui si è detto, non è certo diretto a suggerire l’apertura di generiche posizioni di investimento, quanto piuttosto a «tramutare» il rapporto che corre tra gli stessi partner, da un deposito a vista a un investimento (azionario, obbligazionario o in fondi che sia). Sì che non si può non notare come ancor oggi manchi una disposizione che – tanto sul piano della repressione dell’attività, quanto su quello negoziale delle conseguenti strutture rimediali –, nel segno dell’efficienza del prodotto e della trasparenza nei rapporti con la clientela, inibisca il collocamento sul mercato di prodotti rispetto a cui, per una qualunque ragione, l’intermediario si trova in una situazione di conflitto di interesse[14].
[1] Nel momento in cui si scrive il tasso si attesta intorno allo –0,50%.
[2] Rileva infatti Ursino, nell’inserto Plus24 del Sole24ore del 27 marzo 2021, p. 6, che in alcuni casi anche nei conti correnti destinati ai consumatori è stata prontamente inserita (pur se adesso in misura pari a zero) la «commissione di gestione della liquidità», che quindi in astratto ben potrebbe essere innalzata attraverso ius variandi ex art. 118 TUB.
[3] Lo riportano tra l’altro Ursino, alla prima pagina (v. nt. precedente) e Capozucca, nella sezione online L’economia del Corriere della Sera, 24 marzo 2021.
[4] In sé stessa pure del tutto inutile dal punto di vista normativo per le ragioni appena esposte nel testo.
[5] Basti rilevare che in alcuni casi la commissione arriva a raggiungere un importo mensile pari allo 0,50% della liquidità depositata sul conto.
[6] Basti pensare, in proposito, alle operazioni di accentramento della liquidità nel contesto dei gruppi di società (cd. cash pooling, su cui v., per tutti, Daccò, L’accentramento della tesoreria nei gruppi di società, Milano, 2002; e, per la letteratura aziendalistica, più recentemente Dalla Riva, Cash pooling. Il governo centrale della liquidità nei gruppi societari, Milano, 2007; Manca, Controllo centrale della liquidità nelle pmi, Torino, 2016); oppure anche ai rentier, che potrebbero ricevere sul conto ingenti dosi di denaro, simultaneamente, a certe scadenze.
[7] Non foss’altro perché – è davvero appena il caso di rilevare – un’eventuale fuga di massa dai depositi bancari, forzata o spontanea che sia, potrebbe paralizzare lo stesso istituto bancario, impossibilitato a rispettare i coefficienti di liquidità imposti dalla normativa attuale.
[8] Sulla base dei dati forniti dall’ABI, al termine del 2020 si è registrato un livello record di oltre 1.700 miliardi, con un incremento delle somme depositate di quasi 110 miliardi nei primi 7 mesi di pandemia.
[9] Su questi punti v. in particolare Dolmetta, Gli interventi normativi sul contenuto economico dei contratti bancari, in Nuove regole per le relazioni tra banche e clienti. Oltre la trasparenza?, Torino, 2011, 50 s.; ove pure si rileva, tra l’altro, che «sul fronte delle imprese bancarie occorre notare come la norma definitoria dell’art. 10 si limiti a prevedere la compresenza dell’esercizio e del risparmio e del credito: un esercizio congiunto dunque, non già (per forza) collegato di queste due attività», per passare al rilievo per cui l’esercizio della raccolta non è necessario per la definizione di banca, se non al livello di mera dichiarazione statutaria o al più sul piano programmatico (cfr. l’art. 14 tub); nonché Id., Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013, passim e spec. 15, nt. 22, nonché 229 (da cui è preso il virgolettato nel testo).
[10] Cfr. Dolmetta, Sui depositi bancari a vista: tra prescrizione arricchimento e doveri di avviso, in ilcaso.it, 1° agosto 2012, spec. 11 ss.; nonché Id., Funzione di provvista del credito vs funzione di «custodia» nel contratto bancario di raccolta a vista. Da un’idea di Niccolò Salanitro, in Banca borsa tit. cred., 2013, I, 7 ss.
[11] Nella misura in cui soddisfa direttamente l’interesse proprio del cliente che consiste nell’avere, pronte e a sua disposizione, le somme lì depositate (funzione «di disponibilità»): cfr. Dolmetta-Malvagna, Il conto corrente bancario, in Trattato dei Contratti (a cura di) Roppo, Mercati Regolati, V, Milano, 2014, 724 ss.
[12] E non è inopportuno ricordare anche qui (v. sopra, la nt. 5) che gli importi fissati con la commissione di liquidità possono raggiungere anche cifre davvero elevate, del tutto sproporzionate – sotto il profilo causale (e specie nel versante rappresentato dalla causa concreta) - rispetto alla funzione della «custodia di danaro disponibile».
[13] Sulla base del principio (se così è lecito esprimersi) hic Rhodus, hic salta.
[14] Come, per contro, sarebbe necessario secondo parte della letteratura, cfr. Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, passim e 131 s.; più recentemente, Maffeis, Mifid II e il conflitto di interessi, in Rass. dir. civ., 2020, 139 ss.; e (con particolare riferimento agli ulteriori problemi che si manifestano nel contesto delle procedure previste dalla direttiva BRRD2), Malvagna e Sciarrone Alibrandi, Misseling in Self-placement and Bank Resolution under BRRD2, in Eur. Com. Financial Law Rev., De Gruyter, 17(5), 2020, 522 ss. Insiste in particolare sul fondamento pubblicistico dei doveri che innervano la materia, ad esempio, Di Raimo, Ufficio di diritto privato e carattere delle parti professionali quali criteri ordinanti delle negoziazioni bancaria e finanziaria (e assicurativa), in Giust. civ., 2020, 321 ss.
Non è inoltre inopportuno ricordare come dal contesto della direttiva Mifid II (e del Reg. UE 2017/565) emerge altresì che l’informativa può costituire soltanto una «misura estrema da utilizzarsi solo quando le disposizioni organizzative efficaci adottate ... per gestire il conflitto di interessi... non sono sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza, che sia evitato il rischio di ledere l’interesse del cliente» (corsivo aggiunto): a ulteriore conferma, dunque, se non altro, che l’informazione in sé, qualunque sia il suo effettivo contenuto, non può certo costituire la panacea per la protezione dei clienti.
Sul tema in generale del conflitto di interessi nella prestazione dei servizi di investimento v. adesso De Poli, I conflitti di interessi e gli inducements, nel Il Testo unico finanziario, diretto da Cera e Presti, Bologna, 2020, 454 ss.
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