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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 02/03/2021 Scarica PDF

Il voto espressamente negativo come presupposto del cram down fiscale

Giulio Andreani e Fabio Cesare, Giulio Andreani, Of Counsel PwC TLS. Fabio Cesare, Avvocato in Milano


Sommario: Introduzione 1. L’ordinanza del Tribunale di La Spezia 2. Mancato voto dell’erario e voto negativo 3. La riduzione ad uno dell’istituto del cram down fiscale 4. Conclusioni

 

Introduzione

Il presente contributo intende offrire una chiave di lettura del cram down fiscale nella nuova formulazione del 182-ter l. fall. emendata dalla legge 27 novembre 2020, n. 159, che ha convertito il decreto legge 7 ottobre 2020, n. 125. È possibile e doveroso armonizzare l’istituto all’interno di una unica soluzione applicativa sia per il sovraindebitamento sia per le procedure minori nella legge fallimentare. I primi commentatori[1] risultano divisi tra due principali opzioni interpretative, sulle quali sono state innestate alcune varianti, sicché le soluzioni prospettate sono diventate almeno tre: la prima, che chiameremo tesi restrittiva, presupporrebbe il potere-dovere del giudice di intervenire in via sostitutiva dell’erario solo allorquando non vi sia alcuna espressione di voto o di adesione. La seconda ipotesi esegetica, che definiremo estensiva, opta invece per ricomprendere anche il voto negativo o il rigetto dell’adesione da parte dell’erario quale presupposto della omologazione, da parte del tribunale, della proposta del concordato o dell’accordo[2].

Secondo una terza ipotesi ricostruttiva che potremmo definire intermedia, il potere sostitutivo di omologa del Tribunale ricorrerebbe sia in caso di mancata pronuncia sia in caso di rigetto della proposta nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, ma non anche nell’ambito del concordato, nel cui contesto tale potere sussisterebbe solo in caso di mancata espressione del voto. Ciò in considerazione della diversa interpretazione delle espressioni “mancanza di adesione”, rilevante con riguardo all’accordo, “mancanza di voto”, prevista nel concordato: mentre la prima espressione sarebbe compatibile con un rigetto espresso della proposta, alla seconda non potrebbe corrispondere una manifestazione esplicita di rigetto della proposta a mezzo di un voto negativo.

Le divergenze ermeneutiche si originano dalla differente declinazione dell’intervento sostitutivo del tribunale nel concordato e nell’accordo di ristrutturazione dei debiti: il legislatore della novella ha previsto la “mancanza di voto” al comma quarto dell’art. 180 l. fall., per il concordato preventivo, e la “mancanza di adesione” nel comma 5 dell’art. 182-bis l. fall., per gli accordi di ristrutturazione dei debiti, senza tuttavia precisare cosa debba intendersi con tali espressioni.

La prima ipotesi ricostruttiva, quella più restrittiva, impone una visione di rottura tra cram down nel sovraindebitamento e cram down nella legge fallimentare, che è incompatibile con il meccanismo del silenzio assenso previsto nell’accordo di composizione della crisi.

L’occasione per riflettere su una prospettiva unitaria dell’istituto è offerta da una pronuncia del Tribunale di La Spezia che, a quanto consta, applica per la prima volta la disciplina del nuovo art. 12-quater l.3/2012 che regola l’istituto per il sovraindebitamento.


1. L’ordinanza del Tribunale di La Spezia

Con l’ordinanza del 14 gennaio 2021, il Tribunale di La Spezia ha infatti approvato un accordo di composizione della crisi proposto da un professionista nonostante il voto espressamente contrario e determinante dell’Agenzia delle Entrate. La proposta prevedeva di soddisfare i creditori mediante le risorse rivenienti dal prezzo di un immobile di proprietà del sovraindebitato in favore del creditore ipotecario incapiente e un importo pari a una quota del reddito prospettico del debitore per settantadue mesi. Sul totale dei creditori ammessi al voto pari ad Euro 369.610,76, l’Agenzia delle Entrate pesava per poco meno di un terzo, precisamente per Euro 94.944,20. Il giudice spezzino constata l’espressione di voto negativo da parte di due banche e dell’erario, per un complessivo importo di Euro 198.986,04 , pari al 53,84%. La proposta veniva approvata dai rimanenti creditori, per una percentuale pari al 46,16%, mediante il meccanismo del silenzio assenso.

Il Tribunale richiama l’art. 12-quater l. 3/2012 interpolato dall’art. 4-ter del decreto legge 137/2020 che impone l’omologa anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria, quando essa è decisiva per il raggiungimento delle maggioranze e la proposta è più conveniente dell’alternativa liquidatoria. La disposizione doveva intendersi immediatamente applicabile anche alle procedure pendenti alla data di entrata in vigore della novella, del 25 dicembre 2020. Pertanto, essa doveva considerarsi applicabile anche al caso in commento, il cui decreto di ammissione risaliva al 29 novembre 2019.

L’ordinanza premette quali siano le condizioni per il cram down nel sovraindebitamento: la decisività del voto dell’erario e la preferibilità per l’Agenzia delle Entrate dell’accordo rispetto alla liquidazione del patrimonio, quale applicazione in astratto del principio del buon andamento della pubblica amministrazione sancito dalla Costituzione all’art. 97.

Entrambe le condizioni ricorrono nel caso all’esame del giudice spezzino: l’erario risultava determinante nella prospettiva in cui con il solo voto positivo della sola Agenzia delle Entrate l’accordo può dirsi approvato. Il prezzo del bene immobile offerto ai creditori nell’accordo e utilizzato per l’attività professionale del sovraindebitato veniva assorbito dal credito ipotecario. Vi sarebbe stata una verosimile riduzione della quota di reddito a disposizione dei creditori nella liquidazione. Le risorse offerte dal ricorrente nell’accordo al limite del mantenimento erano da considerarsi superiori, per la necessità di reperire un immobile dove svolgere l’attività professionale in seguito alla necessaria espropriazione dell’immobile adibito a sede dell’attività professionale nello scenario della liquidazione del patrimonio.

Il Tribunale ha omologato la proposta, perché più conveniente, nonostante il voto espressamente negativo dell’erario.

 

2. Mancato voto dell’erario e voto negativo

Come si è detto, secondo i sostenitori della tesi restrittiva, l’espressione “in mancanza di voto” si presterebbe a ricomprendere solo l’ipotesi della mancata manifestazione di voto (o di adesione) da parte dell’Agenzia delle Entrate. Tale lettura della norma sarebbe compatibile con la previsione contenuta nel considerando (64) della Direttiva UE 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, che consente agli Stati membri di “decidere come comportarsi con i creditori che hanno ricevuto correttamente la notifica ma che non hanno partecipato alle procedure”. Inoltre una interpretazione estensiva sarebbe incompatibile con il principio di negoziabilità che governa il concordato preventivo (e, ancor di più, l’accordo di ristrutturazione dei debiti) e l’intervento suppletivo del tribunale non potrebbe tradursi in una “ammissione d’ufficio” delle proposte concordatarie che non abbiano ricevuto l’approvazione della maggioranza dei creditori: ciò che avverrebbe ove il tribunale potesse modificare il voto negativo del Fisco, quando tale voto sia determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all’art. 177 l. fall..

Questi motivi, sebbene efficacemente argomentati, non sembrano tuttavia cogliere la reale essenza della novella legislativa recata dalla Legge 27 novembre 2020, n. 159, il cui scopo è non solo quello (espressamente menzionato nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 14/2019, che ha introdotto nell’ordinamento il Codice della crisi da cui le nuove disposizioni sono state tratte) di “superare ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate, spesso registrate nella prassi”, ma anche quello di fornire al contribuente una reale tutela giurisdizionale a fronte di una condotta illegittima del Fisco.

Quanto al primo scopo, non vi è dubbio che le resistenze dell’erario possono concretizzarsi sia qualora l’ente creditore dilazioni oltre misura la risposta alla proposta di transazione, sia (e ancor di più) qualora esso la rigetti espressamente.

Del resto la norma fa riferimento alla “mancanza” di voto o di adesione, che anche letteralmente comunque rappresenta qualcosa di più della semplice “mancanza di espressione” del voto e dell’adesione. E, se proprio se si volesse trarre dalla lettera di tali norme un’incertezza interpretativa, questa dovrebbe essere superata sulla base della ratio delle stesse, che conduce alla conclusione testé esposta, atteso che queste disposizioni sono state introdotte per un duplice scopo: quello di evitare che il Fisco e gli enti previdenziali continuassero a impiegare tempi irragionevoli (talvolta persino due anni) per pronunciarsi sulle proposte di transazione loro formulate e quello di impedire (come talvolta è accaduto) che alcune proposte vengano rigettate, sebbene siano convenienti per l’Erario, semplicemente perché prevedono un soddisfacimento troppo “limitato” dei crediti fiscali e contributivi (peraltro quale sarebbe il criterio da utilizzare per stabilire quando un pagamento è limitato e quando no, se non quello della convenienza che prescinde dal valore assoluto del soddisfacimento offerto?).

Ciò posto, se le norme di cui trattasi dovessero essere interpretate nel senso che per “mancanza” di voto o di adesione si deve intendere solo la mancata espressione del voto o dell’adesione, pur rimanendo tutelata la prima di tali finalità, non lo sarebbe affatto la seconda: non lo sarebbe nell’accordo di ristrutturazione, che vincola solo i creditori che lo sottoscrivono, e non lo sarebbe nella sostanza nel concordato preventivo, perché in esso almeno l’Agenzia delle Entrate è solita esprimere il voto. Una simile interpretazione equivarrebbe quindi a ridurre sensibilmente l’utilità delle norme di cui trattasi e risulterebbe ben poco aderente alla ratio della novella legislativa sopra richiamata. È vero che il concordato potrebbe essere comunque approvato dal voto favorevole di altri creditori. Ma il fatto che le “resistenze” richiamate nella relazione accompagnatoria del Codice della crisi d’impresa possano essere superate dal voto maggioritario espresso favorevolmente da altri creditori - nel qual caso, non essendo Fisco ed enti determinanti, non vi è bisogno delle norme in questione - non significa che l’approvazione “coattiva” non sia utile quando invece il voto di tali soggetti determinante lo è.

A favore della tesi estensiva militano altresì ragioni sistematiche, perché nel concordato la mancata espressione di voto produce sostanzialmente il medesimo effetto del voto negativo e quindi del rigetto della proposta concordataria. Pertanto, posto che il creditore può esprimere il proprio dissenso sulla proposta concordataria sia palesemente sia tacitamente, non ha senso distinguere, come discende dalla interpretazione restrittiva, tra mancato voto, nel qual caso la omologazione coattiva sarebbe consentita, e voto negativo, in presenza del quale la omologazione coattiva non sarebbe consentita.

L’interpretazione estensiva trova infine conforto, ancora di tipo sistematico oltre che costituzionale, nella disciplina della composizione della crisi da sovraindebitamento, per i motivi meglio esposti nel paragrafo successivo, così riassumibili: (i) nella composizione della crisi da sovraindebitamento la mancata espressione di voto equivale a un voto favorevole e pertanto l’approvazione coattiva può essere disposta dal Tribunale solo se l’Erario o gli enti previdenziali disapprovano espressamente la proposta di composizione; (ii) nel concordato non può valere una regola diversa, pena la violazione dei principi stabiliti dalla Corte Costituzionale in tema di falcidia IVA[3]; (iii) conseguentemente anche nel concordato preventivo l’approvazione coattiva deve trovare applicazione anche a seguito del voto negativo del Fisco o degli enti, e non solo quando tali soggetti non si pronunciano sulla proposta.

Inoltre, come si è sopra rilevato, le disposizioni introdotte dalla Legge n. 159/2020 perseguono anche un altro, non meno importante, fine, che è quello di assicurare alle imprese debitrici una reale tutela giurisdizionale contro i provvedimenti di rigetto delle proposte di transazione emessi dall’Amministrazione finanziaria e dagli enti previdenziali e assistenziali in contrasto con i principi affermati dall’art. 182-ter l.f.; tutela che sino all’introduzione di tali norme, pur essendo teoricamente sussistente, è risultata di fatto inattuabile. Infatti, nonostante il contrario avviso dei predetti soggetti (per quanto attiene all’Agenzia delle entrate si veda la circolare 6 maggio 2015, n. 19/E), è da ritenersi che un rimedio giurisdizionale all’illegittimo rigetto della proposta di transazione debba sussistere, posto che l’esame di tali proposte deve essere informato al principio della convenienza sancito dall’art. 182-ter e, pur richiedendo valutazioni e comparazioni, non lascia spazio alla discrezionalità; dal che discende il diritto del contribuente di impugnare dinanzi al giudice quei provvedimenti che siano adottati in violazione di tale principio o siano fondati su valutazioni errate. Altrimenti detto, l’approvazione di una proposta di transazione conforme alle previsioni del citato art. 182-ter, che sia conveniente per l’Erario, costituisce per la Pubblica amministrazione un obbligo, la cui violazione non può rimanere priva di rimedio. L’interesse dell’impresa debitrice a impugnare il diniego del Fisco e degli enti è evidente nel concordato preventivo ogniqualvolta il voto di tali soggetti sia determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all’art. 177 l.f., atteso che, se tali maggioranze vengono comunque raggiunte, gli effetti delle proposte di transazione si producono nonostante il rigetto di queste ultime, ma non si generano quando il voto del Fisco e degli enti è determinante ai fini dell’approvazione delle proposte. Nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti dovrebbe ritenersi, invece, che tale interesse sussista sempre, visto che in tale contesto non vige la regola generale dell’estensione all’erario degli effetti della proposta in caso di mancata adesione di quest’ultimo.

Sino all’entrata in vigore della novella legislativa e al termine di un annoso dibattito che aveva condotto a individuare il giudice competente talora nel giudice tributario (o, per la transazione contributiva, nel giudice del lavoro), talora nel giudice amministrativo e talora ancora nel giudice ordinario, con la sentenza 14 dicembre 2016, n. 25632, emanata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione e con una coeva pronuncia del Consiglio di Stato, questi era stato alfine rinvenuto nel giudice tributario, in considerazione della natura dell’oggetto del giudizio, che attiene a dei tributi[4], e, relativamente alla transazione contributiva, nel giudice del lavoro. Precisamente, con tale pronuncia, i giudici di legittimità hanno sancito che “la giurisdizione del giudice tributario ha carattere pieno ed esclusivo, estendendosi non solo all’impugnazione del provvedimento impositivo, ma anche alla legittimità di tutti gli atti del procedimento” e che l’art. 7, comma 4, dello Statuto del contribuente “si limita ad attribuire alla giurisdizione del giudice amministrativo, secondo i normali criteri di riparto, l’impugnazione di atti amministrativi a contenuto generale o normativo, ovvero di atti di natura provvedimentale che costituiscano un presupposto dell’esercizio della potestà impositiva”.

Tuttavia si è trattato solo di un rimedio teorico, perché i tempi della definizione di tali giudizi non sono compatibili con quelli del concordato preventivo (e neanche con quelli dell’accordo di cui all’art. 182-bis): infatti, esso è costituito dall’impugnazione del rigetto della proposta di transazione dinanzi al giudice tributario, in merito alla quale quest’ultimo normalmente si pronuncia, quanto al primo grado di giudizio, dopo vari mesi (il più delle volte dopo circa un anno) e, in via definitiva, dopo diversi anni, e non è quindi atto a evitare la dichiarazione di inammissibilità della proposta di concordato da parte del Tribunale conseguente al mancato raggiungimento delle maggioranze di legge, la quale deve essere pronunciata in tempi assai più rapidi; né, visto il contesto, si può concretamente immaginare una sospensione del procedimento di approvazione del concordato (o degli effetti dell’accordo) per un periodo così ampio, in attesa della decisione del giudice tributario.

È quindi del tutto naturale che il legislatore si sia fatto carico di introdurre nel Codice della crisi d’impresa e, con la Legge n. 159/2020, nella Legge fallimentare delle disposizioni che forniscano una effettiva tutela giurisdizionale contro provvedimenti della Pubblica amministrazione adottati in violazione dell’art. 182-ter, attribuendo al Tribunale fallimentare (come aveva suggerito lo stesso CNDCEC) il potere di giudicare la legittimità dei provvedimenti di rigetto, approvando nella sostanza le proposte di transazione rigettate illegittimamente, ove l’approvazione delle stesse sia “determinante” o “decisiva”[5]. Tali disposizioni sono quelle inserite negli artt. 180 e 182-bis l.f. dalla Legge n. 159/2020: svilirebbe pertanto la loro portata e contrasterebbe con il contesto da cui esse hanno tratto origine un’interpretazione che ne delimitasse il campo di applicazione al solo caso della mancata espressione del voto o di una pronuncia sulla proposta. In questa prospettiva si rivelerebbe ora incoerente e asistematico attribuire al legislatore l’intenzione di istituire (fino all’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa) una sorta di “doppio binario”, ovverosia di conferire al Tribunale il potere di decidere in ordine alla transazione fiscale in caso di mancata espressione del diritto di voto da parte del Fisco, da un lato, e, dall’altro, di continuare a rimettere al giudice tributario il potere di decidere sulla stessa in caso di manifestazione di voto negativo, con conseguente allungamento dei tempi di esecuzione della procedura e, dunque, in palese contrasto con la ratio delle norme in commento[6].

 

3. La riduzione ad uno del cram down fiscale tra legge fallimentare, codice della crisi e sovraindebitamento

A parere di chi scrive, la tesi estensiva beneficia di un argomento dirimente, portato proprio dalla pronuncia in commento. Nell’accordo di composizione della crisi, infatti, la mancata espressione del voto equivale ad approvazione del piano per espressa previsione di legge (art. 11 comma primo l. 3/2012). La mancata espressione di voto nel sovraindebitamento equivale dunque al voto espresso e pertanto non necessita dell’intervento sostitutivo del tribunale ex art 12-quater, comma 3,l.3/2012. L’unica ipotesi in cui è concettualmente possibile il cram down nel sovraindebitamento è il solo voto espressamente negativo dell’erario e degli istituti di previdenza. Ma se il sovraindebitamento è ormai espressamente considerato una procedura concorsuale e il suo inserimento sistematico all’interno del codice della crisi è il frutto di una precisa volontà del legislatore delegante[7], non è possibile differenziare l’applicazione dell’istituto della transazione fiscale tra concordato preventivo e accordo di ristrutturazione del debito da una parte e accordo di composizione della crisi dall’altra.

E ciò anche per una lettura costituzionalmente orientata del nuovo 182-ter l. fall. 

Va infatti ricordato che con la sentenza n. 245/2019, la Corte Costituzionale ha dichiarato al contrario l’incostituzionalità dell’art. 7 comma primo della l. 3/2012 proprio richiamando l’art. 3 della Costituzione perché nel sovraindebitamento non era prevista la possibilità di falcidiare l’IVA mentre nel concordato il tributo poteva essere regolato nelle forme di cui all’art. 182-ter l. fall..

Una lettura coerente con la Carta Fondamentale della nuova fisionomia della transazione fiscale impone pertanto che anche nel concordato e nell’accordo di ristrutturazione del debito il voto espressamente negativo sia considerato condizione per il cram down erariale, al pari che nel sovraindebitamento.

Una diversa interpretazione determinerebbe il trattamento ingiustificato dell’imprenditore maggiore rispetto ai sovraindebitati, espressamente esclusa dalla Consulta, e contrasterebbe con il principio di buon andamento ed efficienza della Pubblica amministrazione stabilito dall’art. 97 della Costituzione. Com’è stato autorevolmente affermato, “l’interesse fiscale, costituzionalmente inteso, non è un interesse proprio dell’ufficio che lo rappresenta. È un interesse della comunità”[8]. Pertanto è del tutto naturale che contro la scorretta applicazione del principio da Parte dell’Amministrazione finanziaria sia previsto un rimedio giurisdizionale, proprio al fine realizzare pienamente l’interesse fiscale, ancor prima di un interesse del contribuente; e questo rimedio deve essere previsto sia se l’interesse fiscale è violato a causa di una mancata adesione del Fisco alla proposta sia quando la sua violazione deriva da una pronuncia negativa espressa.

Conseguentemente non sembrano decisivi gli argomenti contrari che si fondano sul richiamo della natura negoziale del concordato e dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, che non possono impedire la tutela giurisdizionale necessaria per far sì che i menzionati principi costituzionali trovino effettiva applicazione, e della Direttiva UE 2019/1023, con la quale in ogni caso le disposizioni di cui trattasi non confliggono.

 

4. Conclusioni

Sussistono quindi buoni motivi, fondati sul rispetto dei principi costituzionali, per ritenere che, tra la tesi restrittiva quella estensiva, debba essere adottata la seconda. Non è infatti ammissibile che in un momento di straordinaria difficoltà e di rischio sistemico di tenuta si debbano restringere la possibilità di risanamento attraverso letture troppo ancorate ad ambiguità semantiche del dato normativo e non agli obiettivi palesati dal legislatore e all’effettività della tutela giurisdizionale. Occorrerebbe anche stabilizzare l’interpretazione con senso di responsabilità da parte di tutti gli operatori del diritto concorsuale, per evitare che l’incertezza applicativa dissuada le imprese dall’accesso a una procedura maggiore e determini una fatale disgregazione del valore sistemico delle attività produttive. In quest’ottica, la tesi restrittiva preclude l’accesso alla ristrutturazione a un maggior numero di soggetti e può arrecare un pregiudizio di secondo livello all’erario e agli enti previdenziali. Per effetto dei mancati risanamenti derivanti dalla ingiustificata applicazione della tesi restrittiva essi non solo subirebbero conseguenze immediatamente deteriori causate dalla distribuzione liquidatoria e dal sostenimento di oneri sociali dovuti alla disgregazione delle imprese, ma perderebbero anche occasioni di gettito future per l’eliminazione di un centro produttivo di ricchezza e di imposizione fiscale nel futuro.



[1] Aderiscono a questa interpretazione MONTELEONE, M- PACCHI, S. Il nuovo “cram down” del tribunale nella transazione fiscale, www.ilcaso.it, 9 febbraio 2021, De Bernardin, L.Brevi note a prima lettura sull’omologa dei piani di ristrutturazione con trattamento dei crediti tributari e contributivi (o anche: “del cram down del tribunale nella transazione fiscale”), in www.ilcaso.it, 02/01/2021

[2] E’ la tesi sostenuta, tra gli altri da G. ANDREANI, Le nuove norme della legge fallimentare sulla transazione fiscale, in Il Fallimentarista, gennaio 2021; GAMBI, L. Alcune note sul nuovo cram down nella transazione fiscale e contributiva, in www.ilcaso.it, 13 gennaio 2021; sul tema del cram down nel sovraindebitamento si veda CESARE, F. Il nuovo sovraindebitamento modificato dalla legge di conversione del Decreto Ristori, in Il Fallimentarista, gennaio 2021. Calò, L., La transazione fiscale e contributiva in mancanza di adesione da parte dell'Agenzia delle entrate e degli istituti previdenziali, In ilfallimentarista, gennaio 2020. ANDREANI, G., Rinaldi, P, L’omologa sblocca la transazione, In Norme e tributi Plus, 8 febbraio 2021

[4] Nello stesso senso si veda Consiglio di Stato, Sez. IV, 14 luglio - 28 settembre 2016, n. 4021.

[5] Si è dunque ritenuto di accogliere il suggerimento a suo tempo prospettato dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, Osservazioni in tema di transazione fiscale, aprile 2010, pagg. 6 e 7.

[6] In senso analogo L. Gambi, cit., pagg. 6-8.

[7] L’art. 1 della legge delega n 155/2017 recita così: “il  Governo provvede a riformare in modo organico la disciplina  delle  procedure concorsuali”. Va ribadito che la Cassazione ha utilizzato i criteri della legge delega e le soluzioni adottate dal Codice della Crisi anticipandone in via interpretativa diversi principi innovativi, confermando la necessità di una lettura organica e anticipatoria del CCII (si veda ad esempio  Cass 19 novembre 2018, n. 29742 per la continuità indiretta, Cass. 28 ottobre 2019  n. 27544 per il pagamento dei creditori privilegiati nel piano del consumatore oltre il termine annuale).

[8] De Mita, E. Con la nuova transazione al centro l’interesse fiscale Il Sole 24 Ore 22 febbraio 2021.


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