Bancario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 25/01/2021 Scarica PDF
Conto corrente e recesso ad nutum
Lalage Mormile, Professore aggregato di Diritto privato nell'Università degli Studi di PalermoSommario: 1. I fatti di causa – 2. Una possibile spiegazione delle ragioni di fatto sottese alla determinazione di recesso – 3. Il diritto al conto corrente: lo stato dell’arte - 4. Intermediazione bancaria fra funzione pubblica e natura essenziale del servizio – 5. Recesso ad nutum e discrezionalità bancaria.
1. L’ordinanza in commento offre l’occasione per riflettere sul recesso ad nutum dal contratto di conto corrente e, in particolare, sulla sostenibilità, nell’attuale contesto economico caratterizzato dall’essenzialità rivestita dall’intermediazione bancaria per la gestione dell’attività d’impresa, di un diritto riconosciuto nella disciplina codicistica dei rapporti bancari di durata[1].
La controversia da cui scaturisce il provvedimento trae origine dal recesso da contratti di conto corrente, esercitato, ai sensi dell’art. 1833 c.c., da una banca nei confronti di quattro società appartenenti ad un medesimo gruppo d’imprese. La peculiarità del caso risiede nella circostanza che le società erano titolari, ciascuna, esclusivamente di quell’unico rapporto di conto corrente, avendo tentato, invano, di ottenere il medesimo servizio rivolgendosi a numerosi altri istituti di credito. Lo scioglimento dai rapporti avrebbe così rischiato di provocare un blocco gestionale e operativo, considerando l’ormai centralità assunta dagli strumenti di pagamento dematerializzati, il cui uso è, peraltro, imposto da un articolato assetto normativo, funzionale al perseguimento di finalità anche di interesse generale, come, il contrasto all’evasione fiscale e la lotta al riciclaggio.
Le imprese, inoltre, lamentavano l’insussistenza di una causa giustificativa di recesso, mai esplicitata e comunicata, con la conseguente impossibilità di eventualmente adeguarsi alle esigenze della banca. Dal canto suo l’istituto di credito rilevava come l’art. 1833 c.c. non condiziona la facoltà di recesso alla ricorrenza della giusta causa, esprimendo piuttosto pieno riconoscimento alla generale autonomia dei privati di sciogliersi dai rapporti di durata.
2. L’ordinanza è particolarmente interessante per la dettagliata ricostruzione dell’attuale contesto normativo, sovranazionale e nazionale, che non renderebbe fumosa l’ipotesi di riconoscere l’esistenza, di un vero e proprio “diritto al conto corrente” e, comunque, la configurabilità del servizio in termini di “essenzialità”.
Non solo, infatti, gli strumenti di pagamento dematerializzati hanno ormai quasi completamente sostituito la tradizionale pecunia[2], ma l’uso del contante è addirittura vietato da diverse disposizioni normative. Si pensi al divieto del trasferimento di denaro e di titoli al portatore effettuato, tra soggetti diversi, sia persone fisiche, sia giuridiche, per importi superiori a 2.000,00 euro, di cui all’art. 49 del D. Lgs. n.231/2007 di attuazione della Direttiva 2005/60/CE[3]; all’art. 37, comma 49, del D.L. n.223/06[4] che obbliga i titolari di partita Iva ad effettuare i versamenti fiscali, contributivi e previdenziali esclusivamente mediante modalità telematiche; all’art.1, commi da 910 a 914 della L. 205/2017 (Legge di Bilancio 2018), di introduzione dell’obbligo di tracciabilità delle retribuzioni e, dunque, dell’obbligo per i datori di lavoro o committenti di corrispondere ai lavoratori la retribuzione e ogni anticipo di essa, attraverso gli strumenti di pagamento individuati dalla legge stessa. Di contro, ai sensi degli artt. 10 bis e 10 ter del D. Lgs. n. 74/2000[5], l’omesso pagamento delle imposte e dei contributi, effettuabile, come si è detto, solo a mezzo modalità tracciabili, configura reato penale (reato da omesso versamento delle ritenute d’acconto IRPEF e da omesso versamento IVA), così come, ai sensi dell’art.2 del D.L. n. 463/83, convertito in L.638/83[6], l’omesso versamento di contributi INPS in misura superiore a 10.000,00 euro.
Numerosi indici normativi a livello sovranazionale dimostrano come la fruizione del servizio bancario rappresenti un’esigenza imprescindibile tale che, l’eventuale sua esclusione, si traduce in una violazione del principio di non discriminazione. Emblematica, in tal senso, era stata già la Raccomandazione del 18 luglio 2011 (2011/442/UE) sull’accesso ad un conto di pagamento di base, seguita dalla direttiva UE 2014/92 (Payment Account Directive, c.d. PAD) sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base. Quest’ultima, nelle premesse, afferma esplicitamente la necessità di evitare “di discriminare i consumatori che soggiornano legalmente nell’Unione a motivo della cittadinanza o del luogo di residenza o per qualsiasi altro motivo di cui all’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea in relazione alla richiesta di aprire un conto di pagamento o all’accesso al conto all’interno dell’Unione” e, come diretta conseguenza, l’opportunità che gli Stati membri garantiscano l’accesso ai conti di pagamento con caratteristiche di base a prescindere dalle condizioni finanziarie dei consumatori, ad esempio il loro status professionale, il livello reddituale, la solvibilità o il fallimento”[7]. Il destinatario privilegiato dell’azione del legislatore europeo è senza dubbio il consumatore, nell’accezione ormai consolidata di persona fisica che agisce per scopi estranei alla sua attività imprenditoriale e/o professionale[8]. La possibile discriminazione delle imprese nell’accesso ai servizi bancari di base non è, evidentemente, un’emergenza avvertita in ambito europeo, probabilmente perché l’ipotesi di un immotivato rifiuto della banca a contrarre con un operatore del mercato è un’evenienza del tutto residuale. Generalmente le imprese richiedono servizi bancari più articolati, e più remunerativi, che il semplice conto di base o di pagamento. Ma non sempre a questi servizi le imprese possono avere accesso. Si pensi, ad esempio, agli affidamenti bancari o alle anticipazioni, concedibili previa valutazione del merito creditizio. Presupposti che, specie nei periodi di più accesa crisi economica, escludono dalla possibilità di accesso al credito numerosi imprenditori comunque operanti sul mercato con risorse proprie. A fronte di ciò, l’assetto complessivo degli adempimenti oggi imposto agli intermediari dalla disciplina di regolamentazione del sistema creditizio si traduce in evidenti maggiori costi per l’impresa bancaria, che, dunque, potrebbe ritenere più confacente al suo interesse l’esclusione dell’imprenditore considerato scarsamente remunerativo[9].
Se questo è il dato fattuale, l’evidente cortocircuito determinato, da un lato, dalla necessità, per gli intermediari, di ricerca di contraenti non solo virtuosi, ma anche remunerativi e, dall’altro, dall’essenzialità di quei servizi, non può che risolversi attraverso la sottile verifica del grado di equilibrio ottenibile nel singolo rapporto contrattuale nel quale gli effetti di quel cortocircuito si riverberano. L’eliminazione delle esternalità negative spetta, come sempre, al giudice e alla sua capacità di ricercare, fra le trame dell’ordinamento, gli elementi che consentano l’applicazione orientata delle norme.
3. Dalle coordinate della politica inclusiva dettate innanzitutto dal legislatore europeo emergono indici cui non può non riconoscersi portata generale. Tant’è che l’incentivo all’uso della moneta dematerializzata, in attuazione al sopra richiamato indirizzo europeo, sta inducendo molti ordinamenti a riconoscere espressamente il diritto al conto corrente o, comunque, a sancire l’obbligo delle banche a garantire ai privati l’accesso, per lo meno, ad un conto corrente c.d. di base. Come ricordato nell’ordinanza in commento, tale obbligo è, ad esempio, previsto all’art. 312-1 del Codice monetario e finanziario francese. Ma, a ben vedere, è anche sancito espressamente nel nostro ordinamento, sebbene nelle norme del Capo II ter del TUB, il cui ambito di applicazione è circoscritto, ancora una volta, ai consumatori. L’art. 126 noviesdecies del TUB, così come modificato dal D. L.vo 15 marzo 2017, n.37 in attuazione della ricordata PAD, riconosce espressamente il “diritto al conto di base” e il successivo art. 126 vicies sancisce la legittimità del rifiuto alla “richiesta di apertura di un conto di base” esclusivamente se fondato “sulla mancanza dei requisiti previsti dall’art. 126 noviesdecies o se il consumatore è già titolare in Italia di un conto di pagamento che gli consente di utilizzare i servizi indicati nell’allegato A”[10]. Peraltro, già in epoca precedente alle riforme attuative, proprio la titolarità di altro conto corrente aveva consentito all’Arbitro bancario e finanziario di negare la sussistenza di un obbligo a contrarre in capo all’intermediario[11].
E’ inoltre attualmente in discussione un disegno di legge volto alla previsione di un obbligo per la banca a riconoscere l’accesso generalizzato al conto corrente[12].
Non v’è dubbio alcuno, dunque, che “alla luce dell’evoluzione normativa richiamata dalle ricorrenti e della sempre più diffusa dematerializzazione della moneta – la titolarità di un conto corrente sta diventando progressivamente indispensabile, non solo nei rapporti commerciali tra privati, ma anche nei rapporti tra il cittadino e le istituzioni, sicché da più parti si sostiene che sia configurabile un vero e proprio diritto a disporre di tale servizio”. Così come è del pari innegabile che, almeno de iure condito, nel nostro ordinamento non vi sia ancora un generalizzato riconoscimento di tale diritto, essendo, stato positivizzato solo con riferimento alla categoria consumeristica. Un diritto che potrebbe però dedursi in via interpretativa.
Non tanto attraverso il richiamo alla disciplina antimonopolistica e, in particolare, all’obbligo a contrarre di cui all’art. 2957 c.c., per l’evidente esclusione, nel settore bancario, di condizioni di monopolio legale[13], quanto per il possibile riconoscimento della natura “essenziale” del servizio bancario. Convincente, in questo senso è, il richiamo all’applicazione analogica dell’art. 1679 c.c. che, nei limiti della compatibilità con i mezzi ordinari dell’impresa, secondo le condizioni generali stabilite o autorizzate nell’atto di concessione e rese note al pubblico, prevede l’obbligo a contrarre per coloro che esercitano servizi di linea per concessione amministrativa[14].
4. Lo snodo centrale della pronuncia è il suggerimento circa la possibile ricostruzione di alcuni servizi offerti dal sistema bancario in termini di essenzialità. La natura di impresa privata delle banche – e, dunque, la loro conduzione secondo principi prettamente imprenditoriali – non offusca il necessario rispetto dei concomitanti interessi costituzionali e delle libertà fondamentali. Invero, “pur essendo scomparsa dal TUB la qualificazione dell’attività bancaria in termini di funzione di interesse pubblico contenuta, invece, nella legge bancaria del 1936 e, pur essendo l’esercizio dell’attività bancaria subordinato al rilascio di una autorizzazione (art. 14 co. 2^ TUB), per un verso non può affermarsi che l’attività privatistica delle banche e il conseguente fisiologico perseguimento da parte loro di obiettivi di efficienza e redditività, siano avulse dagli interessi generali che sono sottesi all’esercizio del credito e alla raccolta del risparmio (art. 47 Cost) e, per altro verso, va evidenziato (anche) sulla scorta delle norme richiamate in ricorso che, a sempre più numerosi fini, è ormai indispensabile, quando non obbligatorio di fatto, dotarsi di un conto corrente bancario ordinario”.
Ciò consente al decidente il richiamo all’art. 1679 c.c. che, in tema di trasporto pubblico, obbliga l’impresa concessionaria a contrarre con chiunque richieda il servizio, in aperta deroga al generale principio di autonomia nella scelta del contraente[15]. A maggior ragione nel caso in esame, ove la negazione del servizio si può tradurre in un ostacolo alla libertà d’iniziativa economica protetta dall’art. 41 della Costituzione. Norma che, osservata dalla prospettiva della banca invocante la sua piena autonomia negoziale nella scelta del cliente-contraente, ricolloca la stessa entro il limite posto dal divieto di un suo svolgimento in contrasto con l’utilità sociale.
5. Il descritto assetto economico mostra l’ormai obsolescenza di alcune norme in materia di contratti bancari. Prime fra tutte quelle che, ispirate dallo sfavore verso i limiti alla libertà di vincolarsi dai rapporti patrimoniali di durata, riconoscono, quale regola generale, il recesso ad nutum. Diritto che, di fatto, si sostanzia nell’esercizio della più ampia discrezionalità della banca, la cui determinazione a concludere un contratto o a risolverlo, può essere orientata, anche o solo, da valutazioni di mera convenienza economica.
Ma è ormai difficile affermare che tale diritto prescinda dalla sussistenza di una giusta causa, almeno ogni qual volta l’impresa cliente non sia titolare di un analogo rapporto eventualmente presso altro istituto bancario. E ciò è, a ben vedere, quello che emerge dall’ordinanza in commento, che, proprio ritenendola sussistente, nella fattispecie concreta, rigetta la richiesta di inibizione del comportamento minacciato[16]. Rifiutando, così, non tanto implicitamente, di assecondare un’interpretazione esclusivamente testuale dell’art. 1833 c.c. e offrendo una lettura della norma costituzionalmente orientata.
D’altra parte proprio gli indici normativi già presenti nel nostro ordinamento consentono di integrare l’assenza, nelle norme bancarie codicistiche che regolano i rapporti di durata, del richiamo alla giusta causa quale condizione legittimante il diritto di recesso del contraente “più forte”.
Infatti, fatti salvi gli obblighi di osservanza delle disposizioni in materia di contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo e, dunque, l’eventuale sussistenza di ragioni ampiamente qualificate, solo la titolarità di altro rapporto può legittimare il rifiuto della richiesta di apertura di un conto di base. Il compendio delle cautele atte a garantire il diritto al servizio è, inoltre, completato dall’obbligo di informazione del cliente-consumatore. In caso di rifiuto di apertura del conto, infatti, il prestatore di servizi di pagamento è obbligato ad informare immediatamente il consumatore, indicando le specifiche motivazioni del rifiuto[17]. Analogamente, anche il diritto di recesso del prestatore del servizio è fortemente limitato e condizionato ai presupposti tassativamente individuati nell’art. 126 vicies del TUB[18].
Naturalmente non si intende invocare l’applicazione diretta della disciplina speciale prevista dal TUB a tutela del consumatore. Essa, però, offre certamente all’interprete tutti gli elementi che consentono l’adattamento di norme non più in grado di garantire l’equo contemperamento di opposti interessi meritevoli di tutela, in una prospettiva orientata alla massima valorizzazione del principio di correttezza.
[1] Il tema dell’abusivo esercizio del diritto di recesso dai rapporti bancari non è per nulla nuovo, anche se è stato affrontato soprattutto con riferimento all’apertura di credito e alla conseguente richiesta di saldo al correntista. E’ ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, nonostante la presenza di una giusta causa tipizzata di recesso dal contratto di apertura di credito a tempo determinato di cui all’art. 1845, comma 1, c.c., il giudice deve accertare se il comportamento esecutivo della banca sia qualificabile in termini di imprevedibilità e arbitrarietà. In questo senso, fra le tante Cass. 13 agosto 2004, n. 15769, in Dir. fall., 2005, 895 ss. e più di recente Cass., 24 agosto 2016, n. 17291 in Nuova giur. civ. comm. con nota di F. Scaglione. Sull’argomento, in generale, si rinvia a G. Santoro, L’abuso del diritto di recesso ad nutum, in Contr. e impr., 1986, 766 ss.; F. Galgano, Abuso del diritto: l’arbitrario recesso ad nutum della banca, ivi, 1998, 18 ss. La questione sottoposta al Tribunale di Palermo riguarda l’ipotesi del recesso da un conto corrente di corrispondenza con saldo attivo. Non risultano editi precedenti su fattispecie analoghe. Che la questione non sia affatto irrilevante è attestato dalla relazione di accompagnamento al disegno si legge n. 1712 del 2020, attualmente all’esame parlamentare, nato “da numerosi casi di cittadini che, negli ultimi mesi, si sono visti chiudere unilateralmente e senza motivo il rapporto di conto corrente, pur in presenza di saldi attivi, costringendoli per effetto delle segnalazioni interbancarie a non poter più disporre delle proprie provviste”. Il disegno propone l’introduzione, nel codice civile, dell’art. 1857 bis in tema di apertura e chiusura di un rapporto di conto corrente, con la previsione dell’obbligo della banca a contrarre e il divieto di recesso in caso di saldo attivo.
[2] Proprio a livello comunitario si registra un chiaro indirizzo politico volto alla massima incentivazione all’uso degli strumenti di pagamento dematerializzati. Ne rappresentano esempi, la Direttiva 2000/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 settembre 2000, sull’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica; la Raccomandazione 87/598/CEE della Commissione, dell’8 dicembre 1987, relativa ad un codice europeo di buona condotta in materia di pagamento elettronico; la Raccomandazione 88/590/CEE della Commissione, del 17 novembre 1988, concernente i sistemi di pagamento, in particolare il rapporto tra il proprietario della carta e l’emittente della carta; la Raccomandazione 97/489/CE della Commissione, del 30 luglio 1997, relativa alle operazioni mediante strumenti di pagamento elettronici, con particolare riferimento alle relazioni tra gli emittenti ed i titolari di tali strumenti; Direttiva 2007/64/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 novembre 2007, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno e, per ultimo, la Direttiva 2014/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 luglio 2014 sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base.
[3] Si tratta della Direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo.
[4] Noto come Decreto Bersani, convertito in L. legge 4 agosto 2006, n. 248, recante “Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale”.
[5] Decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, recante “Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”.
[6] Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 12 settembre 1983, n. 463, recante “Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica”.
[7] Sotto questo profilo deve osservarsi che sebbene il legislatore europeo abbia perseguito la strada della massima implementazione dell’uso della moneta dematerializzata scegliendo quale destinatario privilegiato dei suoi interventi di inclusione il consumatore e, dunque, la persona fisica, il riferimento all’impresa deve ritenersi implicito. In questo senso il richiamo al fallimento è stato considerato un indice della portata più ampia dei principi dettati nella direttiva, operanti anche nei confronti degli imprenditori. In realtà, la lettura più consona alla ratio dell’intero provvedimento suggerisce un’interpretazione del richiamo al fallimento nel senso che l’eventuale status derivante dalla procedura liquidatoria dell’imprenditore non può essere condizione ostativa all’accesso al conto corrente di base di quello stesso imprenditore che dovesse rivolgersi al sistema bancario in veste di consumatore.
[8] Per un recente e interessante precedente v. Tr. Ancona, ordinanza 29 luglio 2019, in www.osservatoriodiscriminazioni.org, che, con riguardo al caso dello straniero cui era stata negata l’iscrizione anagrafica, ha sottolineato come l’impossibilità di apertura di un conto corrente cui il datore di lavoro possa versare il salario incida sull’esercizio effettivo di diritti di rilievo costituzionale.
[9] Si considerino, ad esempio, l’ampiezza degli obblighi di verifica e segnalazione imposti dalla sopra richiamata Direttiva 231/2007, con gli ovvi riflessi sul fronte dei costi per l’impresa bancaria.
[10] L’art. 126 noviesdecies TUB ricomprende nella categoria del consumatore soggiornante legalmente nell’Unione europea, comprendendo “chiunque abbia il diritto di soggiornare in uno Stato membro dell’Unione europea in virtù del diritto dell’Unione o del diritto italiano, compresi i consumatori senza fissa dimora e i richiedenti asilo ai sensi della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati, del relativo protocollo del 31 gennaio 1967 nonché ai sensi degli altri trattati internazionali in materia”.
[11] ABF, Collegio di Roma, Decisione 27 marzo 2015, n. 2364 in www.arbitrobancariofinanziario.it, che rigetta la pretesa della ricorrente proprio sul presupposto della titolarità di altri conti, con la conseguenza che “non si può, pertanto, ritenere che un supposto eccesso di diffidenza della banca possa tradursi nell’impedimento ad usufruire di servizi bancari minimi”.
[12] Si tratta del già richiamato Disegno di legge 1712 del 2020 che propone l’introduzione dell’art. 1857 bis del seguente tenore: «Apertura e chiusura di un rapporto di conto corrente – La banca non può in alcun caso esimersi dall’apertura di un rapporto di conto corrente. La banca non può recedere dal contratto di conto corrente prima della scadenza del termine quando i saldi siano in attivo».
[13] Sul punto v. ABF, Collegio di Milano, Decisione 14 febbraio 2020, n. 2540, in www.arbitrobancariofinanziario.it.
[14] In generale, sull’obbligo a contrarre, v. R. Sacco, Contratto imposto, in Dig. Disc. priv. (sez. civ.), Torino, Agg. 2011; L. Nivarra, L’obbligo a contrarre e il mercato, Padova, 1989; M. LIBERTINI – P.M. SANFILIPPO, voce Obbligo a contrarre, in Dig. disc. priv., sez. civ., XII, Torino, 1995, pp. 480 ss; A. DI MAJO, voce Obbligo a contrarre, in Enc. giur. Treccani, XXI, 1990, pp. 1 ss.
[15] Sotto questo profilo l’ordinanza si pone in netto contrasto con l’indirizzo piuttosto granitico espresso dall’Arbitro bancario e finanziario che ha, in più occasioni, negato l’esistenza, nel nostro ordinamento, di un generale obbligo di contrarre in capo all’intermediario. Un tale obbligo, “non solo non è desumibile dai principi generali, ma finirebbe con porsi addirittura in contrasto con essi, ledendo la libertà di iniziativa economica. Sicché, salvo il caso in cui venga in rilievo la violazione dei doveri di correttezza e buona fede, la valutazione del merito creditizio costituisce prerogativa assoluta dell'istituto erogante, rientrando nell’esercizio dei propri poteri discrezionali la scelta se addivenire o meno alla conclusione del contratto”. Così ABF, Collegio di Roma, 27 marzo 2015, n.2364.
[16] Giusta causa ravvisata nella struttura opaca delle società, partecipate da un Trust di scopo che non avrebbe consentito alla banca di accertare il titolare effettivo dei rapporti societari con conseguente violazione della normativa antiriciclaggio.
[17] Recita così l’art. 126 vicies del D.lgs. 1 settembre 1993, n.385 (TUB), che fa salve le ipotesi in cui la comunicazione del rifiuto può porsi in contrasto con gli obiettivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza specificamente indivicati.
[18] Quali l’aver il consumatore usato intenzionalmente il conto per fini illeciti; in caso di incapienza del fondo; in caso di errate informazioni fornite dal consumatore nella fase precontrattuale; in assenza di soggiorno legale nell’Unione europea; e, per ultimo, in caso di titolarità di altro conto di base.
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