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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 27/11/2020 Scarica PDF

Sentenza Lexitor: la linea Maginot delle banche "cade" sotto i colpi delle ordinanze dei procedimenti cautelari dei Tribunali di Torino e Milano

Biagio Campagna, Avvocato, cultore della materia di diritto bancario presso la facoltà di Giurisprudenza della Università 'La Sapienza' di Roma


Sommario: 1. L’art. 16, par. 1, della Direttiva 23/8/2008 n. 2008/48 (c.d. seconda Direttiva sul credito al consumo) alla luce dei criteri interpretativi posti dalla sentenza “Lexitor”. – 2. L’ordinanza n. 2770 del 22 settembre 2020 nel procedimento cautelare dinanzi il Tribunale di Torino. - Segue 2.1 Le sentenze della CGUE, sia pregiudiziali, sia emesse in sede di verifica della validità delle disposizioni, hanno efficacia retroattiva. - 3. L’ordinanza n. 27406 e n. 27398 del 3 novembre 2020 nel procedimento cautelare dinanzi il Tribunale di Milano. – Segue 3.1 Sul rimborso in percentuale delle imposte. - Segue 3.2 Sull’eccezione ritenuta infondata dal Tribunale, circa “la non efficacia vincolante della sentenza Lexitor nei confronti del giudice italiano”. – 4. Brevi considerazioni circa il contenzioso dinanzi l’Arbitro Bancario Finanziario. – 5. Considerazioni conclusive.

 

 

1. L’art. 16, par. 1, della Direttiva 23/8/2008 n. 2008/48 (c.d. seconda Direttiva sul credito al consumo) alla luce dei criteri interpretativi posti dalla sentenza “Lexitor”.

L’art. 16, par. 1, della Direttiva 23/8/2008 n. 2008/48 (c.d. seconda Direttiva sul credito al consumo) prevede che “Il consumatore ha il diritto di adempiere in qualsiasi momento, in tutto o in parte, agli obblighi che gli derivano dal contratto di credito. In tal caso, egli ha diritto ad una riduzione del costo totale del credito, che comprende gli interessi e i costi dovuti per la restante durata del contratto”.

Il d.lgs. 13/8/2010 n. 141 ha trasposto nell’ordinamento italiano la predetta Direttiva 2008/48, tra l’altro introducendo l’art. 125 sexies TUB, che dispone “Il consumatore può rimborsare anticipatamente in qualsiasi momento, in tutto o in parte, l'importo dovuto al finanziatore. In tale caso il consumatore ha diritto a una riduzione del costo totale del credito, pari all'importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita residua del contratto”.

Questa disposizione è stata interpretata dalla Banca d’Italia (a partire dalle Disposizioni sulla trasparenza, 9.2.2011) nel senso che “solo una parte delle commissioni pagate interamente dalla clientela in via anticipata si riferisce a prestazioni non rimborsabili (come le spese d’istruttoria o di stipula del contratto) (c.d. quota up front), mentre la restante parte (c.d. quota recurring) è volta a coprire i rischi trattenuti (rischi di credito e di liquidità connessi con le garanzie prestate, quali ad esempio quella del ‘non riscosso per riscosso’) e gli oneri la cui maturazione è intrinsecamente connessa con il decorso del finanziamento (ad esempio, la gestione degli incassi e dei sinistri)”, sicché “è fondamentale la corretta distinzione della complessiva commissione corrisposta, in via anticipata, dalla clientela tra quota up front e quota recurring”, perché solo “queste ultime, in quanto soggette a maturazione, saranno ristorate, per la quota non ancora maturata, in caso di estinzione anticipata”.

La sentenza 11/9/2019 causa C 383/18 della Corte di Giustizia (c.d. sentenza Lexitor) ha, invece, statuito che “L’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE del Consiglio, deve essere interpretato nel senso che il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del credito include tutti i costi posti a carico del consumatore”.

Il giudice del rinvio chiedeva se il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato di quest’ultimo, contemplato all’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48, riguardasse anche i costi che non dipendono dalla durata del contratto e, ritenendo che tale articolo debba essere interpretato nel senso che la riduzione del costo totale del credito include i costi che non dipendono dalla durata del contratto (interpretazione osteggiata da parte della giurisprudenza polacca), sottoponeva alla Corte di Giustizia il seguente quesito pregiudiziale: «Se la disposizione contenuta nell’articolo 16, paragrafo 1, in combinato disposto con l’articolo 3, lettera g), della direttiva [2008/48], debba essere interpretata nel senso che il consumatore, in caso di adempimento anticipato degli obblighi che gli derivano dal contratto di credito, ha diritto ad una riduzione del costo totale del credito, compresi i costi il cui importo non dipende dalla durata del contratto di credito in questione».

La Corte di Giustizia al riguardo rilevava che l’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48, letto alla luce del considerando 39 di quest’ultima, prevede il diritto per il consumatore di procedere al rimborso anticipato del credito e di beneficiare di una riduzione del costo totale del credito, che comprende gli interessi e i costi dovuti per la restante durata del contratto;

Il «costo totale del credito», ai sensi dell’articolo 3, lettera g), di detta direttiva è definito come l’insieme di tutti i costi, compresi gli interessi, le commissioni, le imposte e tutte le altre spese che il consumatore deve pagare in relazione al contratto di credito e di cui il soggetto concedente il credito è a conoscenza, escluse le spese notarili.

Tale definizione non contiene dunque alcuna limitazione relativa alla durata del contratto di credito in questione.

A questo proposito, la CGUE prospetta due ipotesi interpretative della presenza nell’art. 16 del riferimento alla «restante durata del contratto»: potrebbe essere interpretata tanto nel senso che essa significa che i costi interessati dalla riduzione del costo totale del credito sono limitati a quelli che dipendono oggettivamente dalla durata del contratto oppure a quelli che sono presentati dal soggetto concedente il credito come riferiti ad una fase particolare della conclusione o dell’esecuzione del contratto, quanto nel senso che essa indica che il metodo di calcolo che deve essere utilizzato al fine di procedere a tale riduzione consiste nel prendere in considerazione la totalità dei costi sopportati dal consumatore e nel ridurne poi l’importo in proporzione alla durata residua del contratto.

Secondo la CGUE, l’analisi comparativa delle diverse versioni linguistiche dell’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48 non permette di stabilire la portata esatta della riduzione del costo totale del credito prevista da tale disposizione. Infatti, da un lato, le versioni in lingua neerlandese, polacca e rumena di tale disposizione suggeriscono una riduzione dei costi correlati alla restante durata del contratto. Dall’altro lato, le versioni in lingua tedesca e inglese della disposizione di cui sopra sono caratterizzate da una sicura ambiguità e fanno pensare che i costi correlati a tale periodo residuo servono come indicazione per il calcolo della riduzione. La versione in lingua italiana della medesima disposizione evoca, al pari della versione in lingua francese, interessi e costi «dovuti» («dus») per la restante durata del contratto. Infine, la versione in lingua spagnola dell’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48 prescrive una riduzione che includa i costi che corrispondono alla restante durata del contratto.

Tuttavia, evidenzia la Corte Europea, la disposizione suddetta deve essere interpretata non soltanto sulla base del suo tenore letterale, ma anche alla luce del suo contesto nonché degli obiettivi perseguiti dalla normativa di cui essa fa parte (v., in tal senso, sentenza del 10 luglio 2019, Bundesverband der Verbraucherzentralen und Verbraucherverbände, C-649/17, EU:C:2019:576, punto 37).

Per quanto riguarda il contesto, la Corte ricorda che l’articolo 8 della direttiva 87/102, che è stata abrogata e sostituita dalla direttiva 2008/48, stabiliva che il consumatore, «in conformità alle disposizioni degli Stati membri, (…) deve avere diritto a una equa riduzione del costo complessivo del credito»; dunque, occorre constatare che l’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48 ha concretizzato il diritto del consumatore ad una riduzione del costo del credito in caso di rimborso anticipato, sostituendo alla nozione generica di «equa riduzione» quella, più precisa, di «riduzione del costo totale del credito» e aggiungendo che tale riduzione deve riguardare «gli interessi e i costi».

Quanto all’obiettivo della direttiva 2008/48, rimarca che una consolidata giurisprudenza della Corte ha riconosciuto che questa mira a garantire un’elevata protezione del consumatore (v., in tal senso, sentenza del 6 giugno 2019, Schyns, C-58/18, EU:C:2019:467, punto 28 e la giurisprudenza ivi citata). Questo sistema di protezione è fondato sull’idea secondo cui il consumatore si trova in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere di negoziazione che il livello di informazione (v., in tal senso, sentenza del 21 aprile 2016, Radlinger e Radlingerová, C-377/14, EU:C:2016:283, punto 63).

Al fine di garantire tale protezione, poi, l’articolo 22, paragrafo 3, della direttiva 2008/48 impone agli Stati membri di provvedere affinché le disposizioni da essi adottate per l’attuazione di tale direttiva non possano essere eluse attraverso particolari formulazioni dei contratti.

Orbene, la Corte avverte che l’effettività del diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito risulterebbe sminuita qualora la riduzione del credito potesse limitarsi alla presa in considerazione dei soli costi presentati dal soggetto concedente il credito come dipendenti dalla durata del contratto, dato che, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 54 delle sue conclusioni, i costi e la loro ripartizione sono determinati unilateralmente dalla banca e che la fatturazione di costi può includere un certo margine di profitto.

Inoltre, come sottolineato dal giudice del rinvio, limitare la possibilità di riduzione del costo totale del credito ai soli costi espressamente correlati alla durata del contratto comporterebbe il rischio che il consumatore si veda imporre pagamenti non ricorrenti più elevati al momento della conclusione del contratto di credito, poiché il soggetto concedente il credito potrebbe essere tentato di ridurre al minimo i costi dipendenti dalla durata del contratto.

Ancora, come sottolineato dall’avvocato generale ai paragrafi 53 e 55 delle sue conclusioni, il margine di manovra di cui dispongono gli istituti creditizi nella loro fatturazione e nella loro organizzazione interna rende, in pratica, molto difficile la determinazione, da parte di un consumatore o di un giudice, dei costi oggettivamente correlati alla durata del contratto.

Infine, aggiunge che il fatto di includere nella riduzione del costo totale del credito i costi che non dipendono dalla durata del contratto non è idoneo a penalizzare in maniera sproporzionata il soggetto concedente il credito. Infatti, ricorda che gli interessi di quest’ultimo vengono presi in considerazione, da un lato, tramite l’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2008/48, il quale prevede, a beneficio del mutuante, il diritto ad un indennizzo per gli eventuali costi direttamente collegati al rimborso anticipato del credito, e, dall’altro lato, tramite l’articolo 16, paragrafo 4, della medesima direttiva, che offre agli Stati membri una possibilità supplementare di provvedere affinché l’indennizzo sia adeguato alle condizioni del credito e del mercato al fine di tutelare gli interessi del mutuante; infine, occorre rilevare che, nel caso di un rimborso anticipato del credito, il mutuante recupera in anticipo la somma data a prestito, sicché quest’ultima diventa disponibile per la conclusione, eventualmente, di un nuovo contratto di credito.

 

2. L’ordinanza n. 2770 del 22 settembre 2020 nel procedimento cautelare dinanzi il Tribunale di Torino.

Il Tribunale di Torino ha esordito con una perentoria frase che lascia il segno: “Le decisioni dei Tribunali ordinari, che negano l’ efficacia vincolante alla sentenza Lexitor della Corte UE nei confronti del giudice italiano, che la dichiarano non self-executing e dicono che non è immediatamente applicabile nei rapporti privatistici, non colgono nel segno, erroneamente applicando i principi del diritto comunitario e anche fraintendendo la situazione concreta in esame”. E’ vero che le Direttive Comunitarie, per disposizione di legge (art. 288 TFUE) non sono direttamente applicabili, vincolando solo lo Stato membro. Mentre il Regolamento Comunitario ha efficacia sia verticale (per lo Stato e per i titolari di funzioni amministrative), sia orizzontale (per i privati cittadini, ai quali è direttamente applicabile), la Direttiva Comunitaria ha efficacia solo verticale (soltanto per lo Stato e i titolari di funzioni amministrative). Diritti ed obblighi per i privati cittadini possono nascere solo dalle disposizioni nazionali che attuano la Direttiva.

Ciononostante, in alcuni casi, la Corte di giustizia riconosce alla Direttiva un’efficacia diretta al fine di tutelare i diritti dei singoli. La Corte ha quindi stabilito nella propria giurisprudenza che una direttiva ha efficacia diretta quando le sue disposizioni sono incondizionate e sufficientemente chiare e precise[1]. Tuttavia, questa efficacia diretta può avere carattere solo verticale ed essere applicabile soltanto se gli Stati membri non hanno recepito la direttiva entro i termini previsti[2].

Dunque, in caso di mancata attuazione (o di cattiva attuazione) della Direttiva entro il termine fissato, la Direttiva inattuata, che sia sufficientemente precisa e incondizionata, può essere azionata verso lo Stato o le imprese controllate, per ottenere il risarcimento dei danni[3].

Tuttavia, occorre altresì ricordare che tale principio di interpretazione conforme del diritto nazionale è soggetto ad alcuni limiti. Così, l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una Direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del diritto nazionale trova un limite nei principi generali del diritto e non può servire a fondare un’interpretazione contra legem del diritto nazionale[4].

Nel caso di specie, però, come sottolineato dal Collegio di Coordinamento dell’Arbitro Bancario Finanziario con la decisione n. 26525 dell’11 dicembre 2019, sopra riportata, e come ben osservato dal Tribunale di Torino 21/3/2020 n. 1434, non si tratta di indagare se la Direttiva 48/2008 sia o meno self.executing e abbia o meno efficacia diretta, verticale od orizzontale, dal momento che tale Direttiva è già stata attuata e trasposta nel diritto nazionale attraverso la legge di attuazione n. 141/2010, che, tra l’altro, ha introdotto l’art. 125 sexies TUB, che riproduce in modo quasi identico la formulazione dell’art. 16 della Direttiva. Pertanto, nel presente giudizio, si tratta di interpretare una norma di diritto interno (immediatamente applicabile nei rapporti tra privati, naturalmente). A questo proposito, l’art. 125 sexies TUB deve essere interpretato in modo conforme alla Direttiva 48/2008, così come interpretata dalla sentenza CGUE Lexitor. In particolare, per esempio: Corte Giustizia UE Grande sezione 5/4/2016 n. 689: “L'art. 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che, dopo aver ricevuto la risposta della Corte di giustizia dell'Unione europea ad una questione vertente sull'interpretazione del diritto dell'Unione da essa sottopostale, o allorché la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea ha già fornito una risposta chiara alla suddetta questione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza deve essa stessa fare tutto il necessario affinché sia applicata tale interpretazione del diritto dell'Unione[5]. E come osservato dalla citata sentenza del Tribunale di Torino n. 1434/2020: -“L’art. 125-sexies deve interpretarsi in conformità alla dir. 2008/48/CE di cui costituisce, come a breve si vedrà, fedele trasposizione. Conviene ricordare che l’obbligo di interpretazione conforme è un corollario del principio di leale cooperazione e, in particolare, dell’obbligo degli stati membri di “adottare ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione” (art. 4 par. 3 Trattato UE). Destinatari di quest’obbligo sono “tutti gli organi degli stati membri ivi compresi, nell’ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali. Ne consegue che nell’applicare il diritto nazionale, e in particolare la legge nazionale espressamente adottata per l’attuazione della direttiva [..], il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato[6]”.

Resta fermo che l'obbligo di interpretazione conforme non può spingersi al punto di imporre un'interpretazione contra legem[7]. La natura vincolante dell’interpretazione del diritto comunitario adottata dalla Corte di giustizia è riconosciuta anche dalla Cassazione[8], secondo cui tale interpretazione “ha efficacia ultra partes, sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali che emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità”.

Dunque, non rileva che la pronuncia della sentenza Lexitor abbia avuto luogo a seguito del rinvio pregiudiziale da parte del giudice polacco, avendo le sentenze della Corte di Giustizia efficacia immediata in tutti gli Stati membri.

Né rileva che essa abbia ad oggetto l’interpretazione dell’art. 16 della Direttiva e non, direttamente, quella dell’art. 125 sexies della nostra legge nazionale, dovendo la normativa nazionale (considerato altresì che si tratta di norma attuativa della Direttiva comunitaria) essere interpretata in maniera conforme alla normativa comunitaria, come interpretata dalla Corte di Giustizia.

A questo punto si osserva che è vero che l'obbligo di interpretazione conforme non può spingersi al punto di imporre un'interpretazione contra legem, tuttavia, nel caso di specie l’interpretazione che la CGUE ha dato dell’art. 16 Direttiva 48/2008 non conduce ad una interpretazione contra legem del corrispondente art. 125 sexies TUB. In particolare, si osserva che l’art. 125 sexies riproduce fedelmente l’art. 16 (art. 16: “una riduzione del costo totale del credito, che comprende gli interessi e i costi dovuti per la restante durata del contratto; art. 125 sexies:”riduzione del costo totale del credito, pari all'importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita residua del contratto”), distinguendosene solo per il termine “pari a”, invece che “comprende”, distinzione da ritenersi, ai fini dell’interpretazione in esame, del tutto irrilevante (ed anzi, il termine “pari a” ancora meglio si presta all’interpretazione della frase come riferentesi ad un metodo di calcolo e non all’esclusione di certi costi dal rimborso: la riduzione deve essere “pari ai costi dovuti per la restante durata del contratto”, cioè deve essere corrispondente a questa misura). La frase “riduzione del costo totale del credito, pari all'importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita residua del contratto” non è di sicura interpretazione univoca, nel senso che l’interpretazione della CGUE (invece che interpretare nel senso che i costi interessati dalla riduzione del costo totale del credito sono limitati a quelli che dipendono oggettivamente dalla durata del contratto, la Corte fa riferimento a metodo di calcolo che deve essere utilizzato al fine di procedere a tale riduzione) non appare manifestamente irragionevole e del tutto incompatibile con una interpretazione letterale dell’art. 125 sexies. Infatti, l’interpretazione della predetta frase come riferentesi ad un metodo di calcolo (riduzione dei costi in misura proporzionale alla durata residua del contratto) trova un consistente appiglio letterale (come indicato anche dalla Corte UE) nel riferimento al “costo totale del credito”.

La nozione di “costo totale del credito” è identica nella Direttiva e nel TUB: l’art. 3 lett. g della Direttiva fa riferimento a tutti i costi, compresi gli interessi, le commissioni, le imposte e tutte le altre spese che il consumatore deve pagare in relazione al contratto di credito e di cui il soggetto concedente il credito è a conoscenza, escluse le spese notarili; l’art. 121 lett. 2 TUB: “costo tostale del credito indica gli interessi e tutti gli altri costi, incluse le commissioni, le imposte e le altre spese, a eccezione di quelle notarili, che il consumatore deve pagare in relazione al contratto di credito e di cui il finanziatore è a conoscenza”. Ed allora, se deve essere ridotto il costo totale del credito, tale riduzione non può essere riferita solo ad alcune componenti del credito, cioè a quelle spese non ancora maturate nell’arco della durata del contratto. Deve trattarsi di una riduzione, “proporzionale alla durata residua del contratto”, di tutte le componenti di costo. Accertato, dunque, che l’interpretazione della CGUE non è incompatibile con la lettera dell’art. 125 sexies, appare del tutto compatibile con tale disposizione il metodo interpretativo della CGUE, che, per superare i contrasti tra le varie versioni linguistiche della trasposizione della Direttiva, utilizza ulteriori criteri interpretativi per supportare la scelta della suddetta interpretazione letterale dell’art. 16 della Direttiva, criteri che si attagliano perfettamente anche alla formulazione dell’art. 125 sexies e ai principi dell’ordinamento italiano. In particolare, appare del tutto legittimo il criterio storico sistematico, che, rilevando che la precedente Direttiva sul credito al consumo, la n. 102/87, stabiliva che il consumatore, in caso di adempimento anticipato, dovesse avere un’equa riduzione del costo complessivo del credito, sottolinea che la nuova Direttiva n. 48/2008 costituisce una evoluzione del diritto, giungendo a sostituire alla nozione generica di equa riduzione quella più precisa di riduzione del costo totale del credito (dunque deve trattarsi della riduzione del costo complessivo del credito, come detto dalla Direttiva precedente, ma con la precisazione in più della misura dello stesso, proporzionale alla vita residua). E questa evoluzione, per essere tale, deve comportare un innalzamento della tutela del consumatore: se la restituzione delle “prestazioni non godute” poteva essere dedotta in analogia dal diritto civile non specialistico (art. 1373, co. 2, c.c., che prescrive che, nei contratti a esecuzione continuata o periodica, il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite- per cui ha effetto solo per quelle non godute-; art. 2033 c.c.), la nuova disposizione non limita il rimborso ai soli costi recurring, ma lo amplia anche ad una misura dei costi up front. Il quadro interpretativo delineato dalla CGUE si completa con l’utilizzo altresì del criterio finalistico, per cui gli obiettivi della Direttiva sono quelli di una maggiore tutela del consumatore, cioè del soggetto debole. Il consumatore si trova con evidenza in una situazione di inferiorità rispetto alla banca professionista, che ha il potere di determinare come crede i costi recurring e quelli up front (con connesso rischio che la maggior parte dei costi siano imputati a voci escluse dalla riduzione) e il livello di informazione che fornisce (l’indicazione di una riduzione proporzionale di tutti i costi del credito è senz’altro più chiara della opaca distinzione tra costi recurring e costi up front e permette anche, in forza della sua chiarezza, una migliore comparazione tra le varie offerte di credito). In definitiva, non essendo l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia contra legem, essa resta vincolante per il giudice nazionale, che deve interpretare la norma nazionale di cui all’art. 125 sexies in modo conforme all’art. 16 Direttiva 48/2008 (di cui essa costituisce attuazione) come interpretato dalla CGUE.

 

segue 2.1 Le sentenze della CGUE, sia pregiudiziali, sia emesse in sede di verifica della validità delle disposizioni, hanno efficacia retroattiva.

Si osserva, inoltre, che le sentenze della CGUE, sia pregiudiziali, sia emesse in sede di verifica della validità delle disposizioni, hanno effetto retroattivo. In tal senso la stessa Corte di Cassazione con sentenza dell’ 8 febbraio 2016, n. 2468 ha sancito che: “La Corte di giustizia della UE è l’unica autorità giudiziaria deputata all’interpretazione delle norme comunitarie, la quale ha carattere vincolante per il giudice nazionale, che può e deve applicarla anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa. Ne consegue che a tali sentenze, sia pregiudiziali e sia emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito effetto retroattivo, salvo il limite dei rapporti ormai esauriti, e “ultra partes”, di ulteriore fonte del diritto della UE, non nel senso che esse creino “ex novo” norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia “erga omnes” nell’ambito dell’Unione”. Nello stesso senso si è espressa la Cassazione con sentenza dell’. 11 novembre 2012 n. 22577: “Le sentenze della Corte di giustizia ex art. 267 TFUE chiariscono e precisano il significato e la portata di una norma di diritto Ue sin dalla sua entrata in vigore con la conseguenza che la norma così interpretata, purché dotata di efficacia diretta, dovrà essere applicata dal giudice nazionale anche a rapporti giuridici sorti in precedenza, salvo la stessa Corte di giustizia decida eccezionalmente di limitare "ex nunc" gli effetti della propria decisione, con la finalità di fare salvi, e dunque, di non rimettere in discussione i rapporti giuridici costituiti in buona fede, nonché di salvaguardare il principio della certezza del diritto”. Il limite all’efficacia delle sentenze della CGUE è, dunque, quello dei c.d. rapporti esauriti. Per tali si intendono quelle situazioni irretrattabili, così come individuato dalla Cassazione, sia con riferimento alle sentenze della CGUE, sia con riferimento a quelle della Corte Costituzionale[9].

Come riportato nella sentenza del Tribunale di Torino del 21 marzo 2020 già citata: “nella giurisprudenza della Corte di giustizia la limitazione degli effetti temporali di un’interpretazione: 1) ha carattere dichiaratamente eccezionale (da ultimo Corte di giustizia UE 12.2.2000, causa C-372/98, punto 42); 2) necessita che siano soddisfatti due criteri essenziali, e cioè la buona fede degli ambienti interessati e il rischio di gravi inconvenienti (Corte di giustizia UE 23.5.2000, causa C-104/98, Buchner e a., punto 39; 28.9.1994, causa C-57/93, Vroege, punto 21); 3) soprattutto, può essere ammessa solo nella sentenza stessa che statuisce sull’interpretazione richiesta (Corte di Giustizia UE 28.9.1994, causa C-57/93, Vroege, punto 31; 16.7.1992, causa C-163/90, Legros e a., punto 30; 2.2.1988, causa 24/86, Blaizot e a., punto 27-28).”.

Nel caso in esame, la Corte di Giustizia ha valutato come prevalente il principio di effettività della tutela giurisdizionale del consumatore (al quale espressamente fa riferimento), art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, rispetto a quello dell’affidamento del professionista relativo a precedenti interpretazioni della legge (tra l’altro rilevando che il professionista non è eccessivamente penalizzato, potendo ricevere un indennizzo e potendo reimpiegare prima del previsto il denaro restituito anticipatamente). L’efficacia retroattiva della sentenza Lexitor comporta dunque l’obbligo del giudice azonale di conformarsi ad essa nell’interpretare l’art. 125 sexies anche relativamente ai rapporti pregressi, purchè “non esauriti”. Né rileva la contestazione della resistente, secondo la quale l’interpretazione fornita dalla sentenza Lexitor contrasterebbe con gli artt. 101 e ss. TFUE per la distorsione della concorrenza che si determinerebbero tra gli operatori del credito nel mercato europeo, considerato che in altri Paesi vigono termini prescrizionali più brevi, per cui le banche straniere sarebbero esposte ad obblighi di rimborso di oneri per rapporti pregressi meno pesanti. Infatti, tale situazione sarebbe determinata non dalla legittima interpretazione fornita dalla CGUE della Direttiva valevole per tutti gli Stati membri, ma dalla diversità dei termini prescrizionali, che già, di per sé, pone gli operatori del credito in situazioni differenziate.

 

3. L’ordinanza n. 27406 e n. 27398 del 3 novembre 2020 nel procedimento cautelare dinanzi il Tribunale di Milano.

Nel caso trattato dal Tribunale di Milano, è stato osservato che nessuna rilevanza ha la circostanza che nei contratti dell’intermediario convenuto, venisse effettuata una distinzione tra costi up-front e recurring.

Del resto le condizioni generali ed economiche di contratto del giudizio Lexitor non distinguevano fra costi iniziali e costi ricorrenti, ma la Corte di Giustizia ha dichiaratamente voluto procedere a giudicare anche i casi di avvenuta distinzione nel contratto.

Pertanto, esplicitamente la Corte di Giustizia ha voluto emanare una pronuncia “al fine di garantire tale protezione, l’articolo 22, paragrafo 3, della direttiva 2008/48 impone agli Stati membri di provvedere affinché le disposizioni da essi adottate per l’attuazione di tale direttiva non possano essere eluse attraverso particolari formulazioni dei contratti” (punto 30).

Le esemplificazioni ai punti 31-33 sono in questo senso. Non può ammettersi “la presa in considerazione dei soli costi presentati dal soggetto concedente il credito come dipendenti dalla durata del contratto, dato che [..] i costi e la loro ripartizione sono determinati unilateralmente dalla banca e che la fatturazione di costi può includere un certo margine di profitto” (punto 31), né la riduzione dei “soli costi espressamente correlati alla durata del contratto” poiché ciò “comporterebbe il rischio che il consumatore si veda imporre pagamenti non ricorrenti più elevati al momento della conclusione del contratto di credito, poiché il soggetto concedente il credito potrebbe essere tentato di ridurre al minimo i costi dipendenti dalla durata del contratto” (punto 32). Infine, la stessa divisione dei costi in due tipologie distinte, per causa e-o tempo di maturazione, è in grado di pregiudicare l’effettività del diritto del consumatore, visto che “il margine di manovra di cui dispongono gli istituti creditizi nella loro fatturazione e nella loro organizzazione interna rende, in pratica, molto difficile la determinazione, da parte di un consumatore o di un giudice, dei costi oggettivamente correlati alla durata del contratto” (punto 33).

Questi argomenti comportano il rifiuto della prima e della terza interpretazione, perché lasciano all’intermediario un eccessivo margine nella selezione dei costi ripetibili e non, e orientano la Corte verso la seconda che, riferendo l’attributo della “restante durata del contratto” alle modalità di calcolo del rimborso e non alla tipologia dei costi ammessi, implicitamente ammette la ripetizione di tutte le voci comprese nella nozione di “costo totale del credito” (art. 3 lett. g) dir. 2008/48), incluse quelle che non dipendono dalla durata del contratto.

     

segue 3.1 Sul rimborso in percentuale delle imposte.

Quanto al rimborso percentuale delle imposte, gravanti sull’operazione in sé e non sull’utente finale, così come il rimborso percentuale dei costi di distribuzione, trattasi di vicende che riducono una parte dei profitti della società finanziaria ma che non alterano i principi di diritto enunciati dalla CGUE. Del resto, l’ipotesi di recesso nei 14 giorni – che prevede una disciplina legislativa parzialmente diversa (mancato rimborso delle imposte) - conferma la correttezza della interpretazione della Lexitor in quanto, in caso di recesso, il professionista rimane sostanzialmente privato di qualsiasi profitto.

 

segue 3.2 Sull’eccezione ritenuta infondata dal Tribunale, circa la non efficacia vincolante della sentenza Lexitor nei confronti del giudice italiano.

L’intermediario resistente ha argomentato sostenendo che la sentenza Lexitor non può avere efficacia vincolante nei confronti del giudice italiano, perché la direttiva europea, e quindi anche la sentenza che la interpreta, non ha efficacia diretta (c.d. “orizzontale”) tra i privati, ma “vincola lo stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi” (art. 288 TFUE) e pertanto non avendo efficacia diretta, prosegue, la direttiva non può dunque imporre diritti ed obblighi ai privati, che potranno nascere soltanto dalle disposizioni nazionali una volta che queste siano state adottate.

Al contrario di quanto dedotto dall’intermediario, il collegio del Tribunale di Milano ha ritenuto che l’argomento dei limiti all’efficacia diretta “orizzontale” della direttiva sia inconferente in quanto è vero che una direttiva “non può creare obblighi a carico di un singolo e non può essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti” (Corte giustizia 5.10.2004, nelle cause riunite C-397/01 C-403/01, Pfeiffer et al.); nondimeno la dir. 2008/48/CE è già stata trasposta nel diritto nazionale con il cit. d.lgs. 13.8.2010 n. 141 ed è dunque la norma interna, qui l’art. 125-sexies TUB, a essere fonte dei diritti e obblighi delle parti e metro di giudizio della legalità delle clausole contrattuali.

L’art. 125-sexies deve interpretarsi in conformità alla dir. 2008/48/CE di cui costituisce fedele trasposizione. Conviene ricordare che l’obbligo di interpretazione conforme è un corollario del principio di leale cooperazione e, in particolare, dell’obbligo degli stati membri di “adottare ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione” (art. 4 par. 3 Trattato UE). Destinatari di quest’obbligo sono “tutti gli organi degli stati membri ivi compresi, nell’ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali. Ne consegue che nell’applicare il diritto nazionale, e in particolare la legge nazionale espressamente adottata per l’attuazione della direttiva [..], il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato” (Corte di giustizia UE 10.4.1984, causa 14/83, Von Colson e Kamann e molte altre conformi).

La natura vincolante dell’interpretazione del diritto comunitario adottata dalla Corte di giustizia è riconosciuta anche dalla Cassazione, secondo cui tale interpretazione “ha efficacia ultra partes, sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali che emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità”.

Resta fermo che l'obbligo di interpretazione conforme non può spingersi al punto di imporre un'interpretazione contra legem.

Se tra i plurimi significati che possono trarsi dalla disposizione di diritto interno ce ne è almeno uno compatibile, il giudice è tenuto a conformare la propria interpretazione a quella della Corte.

Ora, come ha già osservato il Collegio di coordinamento dell’ABF nella decisione 26525 dell’11.12.2019, l’art. 125-sexies co. 1 costituisce trasposizione pressoché letterale dell’art. 16 par. 1, con un’unica variante lessicale, visto che la norma UE si riferisce ad una riduzione “che comprende gli interessi e i costi dovuti per la restante durata del contratto”, mentre la norma interna si riferisce a una riduzione “pari all’importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita residua del contratto”.

L’utilizzo del termine “pari a” può sembrare più limitante ma esso significa anche “similmente a” “ugualmente a”.

Inoltre proprio sulla base dei chiarimenti offerti dalla Corte di Giustizia per cui il rimborso del Costo Totale del Credito viene effettuato proporzionalmente alla restante durata del credito sussiste una sostanziale continuità di significato tra la Direttiva e norma interna, di modo che è impossibile non applicare all’interpretazione dell’art. 125-sexies co. 1 TUB le conclusioni attinte dalla Corte di giustizia nell’interpretazione dell’art. 16 par. 1, ossia che “la restante durata del contratto” non rappresenta il criterio di selezione dei costi ammissibili a riduzione, ma l’indicazione della misura della riduzione di tutti i costi.

Escluso quest’elemento di apparente differenziazione, le due disposizioni sono sostanzialmente sovrapponibili, senza che le pur esistenti differenze lessicali siano in grado di dare alla norma di diritto interno un senso non soltanto diverso, ma addirittura incompatibile con quello espresso dalla fonte comunitaria, come interpretata dalla Corte di giustizia.

Peraltro, qualunque argomento letterale finisce per essere scarsamente persuasivo, visto che la Corte di giustizia nella sentenza Lexitor ha dato atto (punto 26) dell’impossibilità di pervenire a un’interpretazione soddisfacente “soltanto sulla base del [..] tenore letterale” della disposizione, e ha invece usato argomenti di tipo teleologico, valorizzando il “contesto” e gli “obiettivi perseguiti dalla normativa” di cui la disposizione fa parte.

In conclusione, la sostanziale continuità di significato tra art. 16 par. 1 dir. 2008/48/CE e art. 125-sexies TUB rende oggi necessario e doveroso, dal punto di vista dell’interprete italiano, recepire l’interpretazione indicata dalla Corte di giustizia.

 

4. Brevi considerazioni circa il contenzioso dinanzi l’Arbitro Bancario Finanziario

A seguito delle ordinanze dei Tribunali di Torino e Milano, con riferimento all’enorme contenzioso in atto dinanzi all’ABF, in primo luogo si rileva come l’applicazione di criteri di calcolo distinti per gli interessi (pro rata temporis o applicazione del piano di ammortamento) altri oneri recurring (pro rata temporis) e up-front (valutazione caso per caso secondo equità) può significativamente limitare i positivi effetti di regolamentazione del mercato conseguenti alla sentenza Lexitor.

Detta interpretazione da parte dell’ABF a seguito della decisione del Collegio di Coordinamento n. 26525 del 2019, ha permesso agli intermediari ampi margini di manovra nell’individuazione delle commissioni oggetto di riduzione su base rigidamente proporzionale o in forza di altri criteri, meno favorevoli al cliente, non eliminando così il rischio di comportamenti opportunistici ben evidenziati da Banca d’Italia. Il principio dell’equità integrativa ritagliata sul caso concreto, oltre a mal calarsi in un contesto di contratti standardizzati e di un contenzioso di massa, non consente nemmeno di delineare una regola chiara e precisa in quanto impone al consumatore di effettuare per ogni tipologia di costo calcoli differenti e complicati, senza per altro conoscere come possa essere applicato in concreto il criterio di riduzione. Lo stesso spessore quantitativo del contenzioso ABF non è altro che il risvolto di prassi illecite fondate su un’opaca distinzione tra costi up-front e recurring.

Al riguardo si auspica un ritorno dello stesso Arbitro Bancario Finanziario, all’adozione del “fu” criterio pro rata temporis per tutte le voci di costo presenti nei contratti di cessione del quinto dello stipendio e deleghe di pagamento.

 

5. Considerazioni conclusive.

La riduzione di tutte le voci di costo, comprese le commissioni up-front, secondo un criterio rigidamente proporzionale porterebbe sicuramente ad esternalità positive sul mercato della cessione del quinto. Si andrebbe a salvaguardare la valenza comparativa del TAEG e, di riflesso si renderebbero più semplici e confrontabili le offerte, oltre a garantire un maggior livello di concorrenza tra gli operatori che dovrebbe avere l’effetto di consentire una complessiva riduzione dei prezzi.

La riduzione secondo il criterio pro rata temporis di tutte le commissioni, ed in particolare di quelle destinate a remunerare la rete degli intermediari e dei mediatori che operano nel settore dei finanziamenti contro cessione del quinto e che pesano in maniera decisiva sugli oneri complessivi, potrebbe incentivare una complessiva riduzione della filiera del credito e l’intervento sul mercato di nuovi intermediari di maggiori dimensioni ad oggi poco attivi.

Senza peraltro verso dimenticare che l’applicazione di costi di intermediazione, è da riconoscersi come una scelta commerciale dell’intermediario, e pertanto se è la filiera distributiva ad applicare dei costi di mediazione non sussiste alcuna ragione per limitare il diritto alla riduzione o all’equa riduzione di detta commissione.

Del resto, se cade la distinzione tra costi up-front e costi recurring, non rileva più né il titolo né la causa, né la circostanza che il costo sia stato pagato interamente o meno dall’intermediario, in quanto tutti i costi devono ricadere nella riduzione.

In tale contesto pare opportuno un ulteriore intervento della Banca d’Italia che affermi “una volta per tutte” che, in caso di rimborso anticipato, tutti gli oneri in passato “fatti passare” dagli intermediari come costi di natura up-front sono sottoposti a riduzione secondo il criterio del pro rata temporis. 

Una precisazione di tale portata avrebbe l’effetto positivo di ridurre il contenzioso, incentivare la trasparenza, la semplicità e la confrontabilità delle offerte, fungendo così da stimolo alla concorrenzialità del mercato.



[1] sentenza Corte di Giustizia del 4 dicembre 1974, Van Duyn)- Direttiva self-executing.

[2] (sentenza Corte Giustizia del 5 aprile 1979; Trib. Napoli 31/10/2012 n. 27186- “Con riguardo alle direttive c.d. self executing - che prevedono obblighi di contenuto sufficientemente chiaro e preciso - sussiste una efficacia diretta soltanto in senso verticale, ma non in senso orizzontale, nel senso che la direttiva può essere fatta valere dal privato soltanto nei confronti dello Stato inadempiente e non anche nei rapporti tra privati”; Cassazione civile sez. I, 09/11/2006, n.23937-“Le disposizioni di una direttiva comunitaria non attuata hanno efficacia diretta nell'ordinamento dei singoli stati membri - sempre che siano incondizionate e sufficientemente precise e lo Stato destinatario sia inadempiente per l'inutile decorso del termine accordato per dare attuazione alla direttiva - limitatamente ai rapporti tra le autorità dello Stato inadempiente ed i soggetti privati (cosiddetta efficacia verticale), e non anche nei rapporti interprivati (cosiddetta efficacia orizzontale). Infatti , esclusivamente in tal senso si è pronunciata - sin dalla sentenza 26 febbraio 1986 nella causa n. 152/84 (Marshall/Southampton and South-West Hampshire Area Health Authotity) - la giurisprudenza della Corte di giustizia europea (vincolante per i giudici nazionali), la quale non ha affatto superato il principio che le direttive obbligano esclusivamente gli Stati alla loro attuazione mediante strumenti normativi interni (talché l'applicazione delle loro disposizioni ai singoli è soltanto l'effetto indiretto delle disposizioni interne che le recepiscono), ma ha, più limitatamente, stabilito che lo Stato non può opporre ai singoli l'inadempimento, da parte sua, degli obblighi impostigli dalla direttiva, per cui esso risponde, nei loro confronti, dei danni derivanti da tale inadempimento)”-).

[3] (per es.: CGUE Grande Sezione 24/1/2012 C282/10; Corte CGUE Grande Sezione 10/10/2017 n. 413- “Le Direttive con effetti diretti, non recepite o mal attuate, sono opponibili ad enti di diritto privato cui lo Stato affidi compiti di interesse pubblico”). Inoltre, in caso di Direttiva self-executing, la norma interna contrastante viene disapplicata dal giudice nazionale, ma sempre nell’ambito di una efficacia verticale. In particolare: CGUE, 13 luglio 2000, C-456/98, parr. 16-17: “Nell'applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla Direttiva, il giudice nazionale deve interpretarlo quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della Direttiva per conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi pertanto all'art. 189, terzo comma, del Trattato CE (divenuto art. 249, terzo comma, CE). Pertanto, quando è adito per una controversia rientrante nella sfera di applicazione della Direttiva e scaturita da fatti successivi alla scadenza del termine di trasposizione della Direttiva medesima, il giudice di rinvio, applicando le disposizioni del diritto nazionale ovvero una giurisprudenza interna consolidata, deve interpretarle in modo da consentirne un'applicazione conforme agli scopi della Direttiva”; Corte appello Perugia sez. lav., 23/09/2014, n.114: “Nell'ipotesi di contrasto fra una direttiva dell'Unione, sufficientemente dettagliata ed incondizionata, ed una norma nazionale, alla prima si riconosce, nell'ambito dei rapporti verticali (ossia fra cittadino e Stato o comunque soggetto pubblico) una efficacia diretta, alla quale - dall'altro lato della medaglia - si accompagna la disapplicazione della norma interna”. Tuttavia, sempre secondo la citata Corte d’Appello di Perugia, tale obbligo di interpretazione conforme riguarda i soli casi in cui la norma interna sia suscettibile di una pluralità di interpretazioni (ed allora va prescelta l'interpretazione maggiormente conforme al diritto dell'Unione) ma non anche quelli in qui manchi la possibilità di scegliere fra più opzioni ermeneutiche; inoltre, l'obbligo in questione non può condurre ad un'interpretazione "contra legem". Così, per esempio, CGUE, 6 novembre 2018, cause riunite C 569/16 e C 570/16 “E’ vero che la questione sulla necessità di disapplicare una disposizione nazionale contraria al diritto dell’Unione si pone solo se non risulta possibile alcuna interpretazione conforme di tale disposizione (v., in tal senso, sentenza del 24 gennaio 2012, Dominguez, C 282/10, EU:C:2012:33, punto 23).

[4] sentenza del 24 gennaio 2012, Dominguez, C 282/10, EU:C:2012:33, punto 25.

[5] Consiglio di Stato sez. III, 16/6/2015 n. 3027: “L'unica chiave interpretativa della normativa di diritto interno, anche con riferimento a profili di legittimità costituzionale delle norme nazionali, ruota attorno alla prevalenza del diritto comunitario sulla norma nazionale e sul fine precipuo di garantire l'esecuzione immediata ed effettiva della decisione di recupero per realizzare la certezza delle norme comunitarie che permettono una interpretazione conforme in tutti gli Stati membri; inoltre, in ossequio al principio di supremazia del diritto comunitario, riconosciuto da tutti gli Stati membri, con perdita a favore delle istituzioni comunitarie della propria sovranità legislativa, le sentenze della Corte di giustizia hanno effetti vincolanti per i giudici nazionali chiamati a pronunziarsi sulle singole fattispecie recando norme integrative dell'ordinamento comunitario”

[6] Corte di giustizia UE 10.4.1984, causa 14/83, Von Colson e Kamann e molte altre conformi.

[7] cfr. Corte giustizia 24.1.2012 in causa C-282/10, Dominguez.

[8] vedi tra molte Cass. 3.3.2017 n. 5381; Cass. 8.2.2016 n. 2468; Cass. 11.12.2012 n. 22577.

[9] Cass. civ. sez. trib., 26/7/2019 n. 20342: “Nel caso di specie, non si è verificata l'espunzione di una norma impositiva dall'ordinamento, ma si è in presenza di una sentenza che, con effetto retroattivo analogo a quello di una sentenza di illegittimità costituzionale, ha dichiarato in contrasto con una direttiva comunitaria self executing una norma nazionale di agevolazione fiscale ampliandone la portata soggettiva; l'efficacia retroattiva della sentenza della Corte di Giustizia incontra, quindi, il limite della intangibilità dei cd. rapporti esauriti, ipotizzabile allorché una qualsiasi situazione o rapporto giuridico diviene irretrattabile in presenza di determinati eventi, quali lo spirare di termini di prescrizione o decadenza, l'intervento di una sentenza passata in giudicato, o altri motivi previsti dalla legge, trattandosi di istituti posti a tutela del fondamentale principio, di preminente interesse costituzionale, della certezza del diritto e delle situazioni giuridiche”; -Cass. civ. sez. lav., 7/7/2020 n. 14085: “Le pronunce dichiarative di illegittimità costituzionale eliminano la norma con effetto "ex tunc", con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione. Il principio che gli effetti dell'incostituzionalità non si estendono ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo riguarda le sole ipotesi in cui si sia formato il giudicato, si sia verificato altro evento cui l'ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo ovvero si siano prodotte preclusioni processuali, decadenze o prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti formativi, dalla pronuncia d'incostituzionalità”. Né è fondata l’eccezione di parte resistente, che invoca il principio della certezza del diritto e la tutela dell’affidamento, sanciti dai Trattati comunitari per sostenere che una interpretazione con efficacia retroattiva della sentenza della CGUE lederebbe la certezza del diritto e il legittimo affidamento della banca professionista di fronte ad una interpretazione costante e decennale dell’art. 125 sexies (con conseguente obbligo della stessa di sostenere oneri di rimborso che erano stati imprevedibili). Infatti, il potere di limitare nel tempo l’efficacia delle sue decisioni compete alla Corte di Giustizia stessa, alla quale compete, dunque, la valutazione e il bilanciamento degli interessi in gioco. Come detto dalla citata Cass. 22577/2012: “salvo la stessa Corte di giustizia decida eccezionalmente di limitare "ex nunc" gli effetti della propria decisione, con la finalità di fare salvi, e dunque, di non rimettere in discussione i rapporti giuridici costituiti in buona fede, nonché di salvaguardare il principio della certezza del diritto”


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