Arbitrato
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 04/11/2020 Scarica PDF
Le norme che regolano il bilancio sono divenute uno strumento di politica economica? Ulteriori considerazioni sul d.l. 14/8/20, n. 104, convertito, con modificazioni nella legge 13/10/20, n. 126
Gianfranco Capodaglio, Vanina Stoilova Dangarska, Lauretta Semprini, Gianfranco Capodaglio già professore ordinario di economia aziendale nell'Università di Bologna, dottore commercialista e revisore legale. Vanina Stoilova Dangarska dottore commercialista e revisore legale, phd Università UNWE SofiaIl quadro generale di riferimento
A partire dalla primavera del 2020 stiamo assistendo ad una ponderosa serie di provvedimenti normativi, aventi generalmente natura temporanea, caratterizzati dal fatto che, direttamente o indirettamente, incidono sulle regole di redazione dei bilanci.
In data 30 ottobre 2020 il Presidente del Consiglio dei ministri ha annunciato la proroga generalizzata del divieto di licenziamenti collettivi ed individuali, sino a fine marzo, accompagnata dalla corrispondente concessione gratuita generalizzata della cassa integrazione. L’importanza (ai fini del presente studio) di provvedimenti come questo va osservata nel contesto di tutti quelli in precedenza emanati ed in particolare considerando il contenuto dell’art. 60 del decreto legge 104/2020 convertito dellalegge 13 ottobre 2020, n. 126, del quale parleremo in seguito. In esso, dopo la disposizione riguardante la possibilità di non iscrivere in bilancio gli ammortamenti, leggiamo che «Tale misura, in relazione all'evoluzione della situazione economica conseguente alla pandemia da SARS-COV-2, può essere estesa agli esercizi successivi con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze». Le due disposizioni hanno in comune il riferimento a periodi successivi al 2020: ciò lascia presumere la volontà del Governo di utilizzare le norme che influenzano, direttamente o indirettamente, la redazione del bilancio come strumento di politica economica, atto a neutralizzare, di volta in volta, gli effetti della crisi su singoli settori economici o categorie di imprese.
Sin dall’inizio i provvedimenti sono stati adottati con la definizione di espressi termini di scadenza, ma successivamente sono stati prorogati, o sostituiti da altri con scadenze protratte.
Indipendentemente da giudizi in merito alle scelte politiche operate in questo periodo di grave crisi, resta il fatto che il bilancio d’esercizio ha subito, temporaneamente, un sostanziale cambiamento di natura e, quindi, di finalità.
Se questo fenomeno si può considerare eccezionale e temporaneo, destinato ad annullarsi in un breve periodo, alla fine del quale il bilancio tornerà ad assumere le funzioni previste dagli articoli 2423 e seguenti del codice civile, occorre, comunque, domandarsi come si colloca all’interno della normativa vigente riguardante il bilancio e delle interpretazioni fornite dall’Organismo italiano di contabilità. Sorge, però, il dubbio che esso possa perdurare almeno sino a che si dovranno subire gli effetti di questa crisi economica mondiale dovuta alla pandemia, la cui durata attualmente non è prevedibile.
Esiste un altro elemento di estrema incertezza: quando finalmente il virus sarà sconfitto - speriamo al più presto possibile – le varie deroghe contenute nei provvedimenti attualmente vigenti potranno essere eliminate? Sembra oggettivamente difficile: le imprese che si saranno avvalse delle nuove disposizioni avranno quasi sicuramente dei bilanci ben lontani dal rappresentare in modo sostanziale la loro situazione patrimoniale e reddituale, a meno che le misure compensative previste nei loro confronti siano effettivamente riuscite a restituire loro l’equilibrio economico. Quest’ultima ipotesi, però, sembra abbastanza remota e probabilmente si verificherà soltanto dopo che il sistema economico generale, sconfitta la pandemia, avrà ripreso, attraverso lo sviluppo del “pil”, livelli paragonabili a quelli ante crisi.
Il venir meno delle deroghe alla disciplina del bilancio, quando le condizioni sostanziali di una grande parte delle imprese saranno ancora precarie, potrebbe costituire una catastrofe economica per il sistema Paese, ancor più grave di quella che si sarebbe verificata se tali deroghe non fossero mai state assunte.
Se così sarà, le modifiche alla normativa sui bilanci ora adottate non potranno venir meno nei suddetti termini e, quindi, ora non possono considerarsi “di breve periodo”, almeno secondo il concetto imperante nella prassi attuale, che considera “durevoli” le condizioni di prevedibile durata superiore a dodici mesi [1], o addirittura a soli sei, come previsto dalla recente normativa sulla crisi d’impresa.
Esiste, quindi, la concreta possibilità che la normativa attuale possa considerarsi “durevole”, almeno nel medio periodo.
Le nuove regole “temporanee” per la redazione dei bilanci delle imprese italiane: una deroga alla clausola generale del bilancio
In un nostro recente lavoretto [2], abbiamo avuto modo di analizzare la “rivoluzionaria” norma secondo la quale “I soggetti che non adottano i principi contabili internazionali, nell’esercizio in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, possono, anche in deroga all’articolo 2426, primo comma, numero 2), del codice civile, non effettuare fino al 100 per cento dell’ammortamento annuo del costo delle immobilizzazioni materiali e immateriali, mantenendo il loro valore di iscrizione, così come risultante dall’ultimo bilancio annuale regolarmente approvato.” Abbiamo osservato in proposito che la nuova regola deve interpretarsi come parziale deroga anche all’art. 2423, in quanto la mancata applicazione dei criteri di valutazione previsti dall’art. 2426 rappresenta anche una deroga implicita ai principi di redazione del bilancio contenuti nell’art. 2423-bis, in primis quelli della prudenza e della competenza economica, dopo aver derogato esplicitamente anche al principio della continuazione dell’attività. Tutto ciò, quindi, può essere interpretato come una deroga implicita all’intera clausola generale contenuta nell’art. 2423.
Aggiungiamo in questa sede che ora vengono chiaramente indicati i soggetti destinatari, dato che sono espressamente esclusi quelli che adottano i principi contabili internazionali, con la conseguenza che per tutti gli altri dovrebbero valere le nuove regole. Secondo alcuni commentatori, però, dato che la deroga riguarda parte del contenuto dell’art. 2426, essa sarebbe limitata alle società soggette alle norme contenute negli articoli 2423 e seguenti, ovvero le sole c.d. “società di capitali”. L’ipotesi a nostro avviso non è condivisibile, perché, non essendoci alcun riferimento esplicito nella norma, l’esclusione delle società di persone e delle imprese individuali in contabilità ordinaria non può essere invocata sulla base del solo riferimento all’art. 2426, data l’espressa estensione contenuta dall’art. 2217 alle valutazioni previste per le spa.
Una buona parte dei commenti apparsi sulla stampa specializzata ha fortemente criticato il provvedimento normativo, soprattutto mettendo in evidenza che si tratta di un intervento che si limita a modificare convenzionalmente i risultati dei bilanci, senza incidere, ovviamente, sulla sostanza economica dell’impresa, che resta in disequilibrio, a differenza di ciò che risulta dai prospetti contabili del bilancio. Inoltre, il disequilibrio si evince, comunque, dalle informazioni che devono essere inserite in nota integrativa. Si tratterebbe, quindi, di un provvedimento del tutto inutile, oltre che dannoso per la funzione stessa del bilancio.
Contrariamente a quanto è avvenuto in altri periodi e circostanze, dalla primavera del 2020 assistiamo ad una serie di nuove norme e di documenti interpretativi, sia dell’OIC, sia di associazioni di categoria, che sembrano fra di loro coordinati ed interagenti verso un unico fine: la salvaguardia dell’occupazione in questo periodo di crisi.
I mezzi utilizzati per perseguire tale fine appaiono appartenere ad un disegno unitario di politica economica, la cui scelta può risultare criticabile, ma, questa volta, è decisamente chiara: il legislatore vuole che gli effetti negativi subiti dalle imprese a causa (rectius nel periodo) della crisi da pandemia non incidano sui risultati dei bilanci, in termini di capitale netto e di risultato economico. Ma non basta: anche se, malgrado i provvedimenti presi in tal senso non avessero pieno successo e, quindi, dai bilanci risultasse una perdita che riduce, azzera, o rende negativo il capitale netto, ciò non deve provocare l’obbligo di ricapitalizzazione, di liquidazione, o di cambiamento di tipo di società, né provocare l’applicazione di taluni provvedimenti previsti dal codice della crisi d’impresa. Che questo sia il dichiarato obiettivo è confermato da altri provvedimenti non riguardanti il bilancio, come il “blocco dei licenziamenti”, accompagnato da misure compensative, in particolare la proroga straordinaria della cassa integrazione. Il legislatore sa bene che un’impresa per sopravvivere deve poter contare su di un volume di ricavi che, almeno, copra tutti i costi, fra i quali quelli per il personale dipendente costituiscono una parte molto rilevante: se calano i ricavi, l’impresa deve ridurre i costi, fra i quali quelli per il lavoro. Ciò, però, va contro l’obiettivo del pubblico potere riguardante il mantenimento dei livelli occupazionali, per cui le imprese vengono mantenute in vita artificialmente. A seguito delle disposizioni riguardanti il bilancio, esso finisce per rappresentare - nel modo più coerente possibile - questa situazione, che, chiaramente, è caratterizzata da un equilibrio “convenzionale”, strettamente legato ad una serie di provvedimenti normativi, in continua, imponente evoluzione.
Il rapporto fra processo di ammortamento e “valore durevolmente inferiore” degli immobilizzi materiali ed immateriali
Ciò posto, non deve destare meraviglia il fatto che le norme destinate ad ottenere il primo passo dell’obiettivo in precedenza indicato, ovvero la neutralizzazione in bilancio degli effetti della pandemia, prevedono espresse deroghe alla legge vigente. Le deroghe possono essere esplicite, o implicite; mentre le prime sono immediatamente individuabili ed hanno formato oggetto di osservazioni ed interpretazioni già dai primi commenti, le seconde affiorano man mano che l’analisi dei diversi provvedimenti viene approfondita. Una di queste, recentemente individuata, riguarda i prevedibili effetti sul contenuto dell’art. 2426, primo comma n. 3 della possibilità di non iscrivere in bilancio gli ammortamenti, contenuto nel decreto 104/2020, dopo la sua conversione in legge. Come è noto, il codice prevede che «l’immobilizzazione che, alla data della chiusura dell’esercizio, risulti durevolmente di valore inferiore a quello determinato secondo i numeri 1) e 2) deve essere iscritta a tale minor valore; questo non può essere mantenuto nei successivi bilanci se sono venuti meno i motivi della rettifica effettuata». Alcuni commentatori[3] osservano che, se non vengono imputati gli ammortamenti al conto economico e, quindi, il valore di iscrizione degli immobilizzi a fine esercizio resta uguale a quello presente all’inizio, dovrebbe risultare che il “valore” degli immobilizzi è inferiore a “quello determinato secondo i numeri 1) e 2)” e quindi si dovrebbe rilevare una svalutazione che annullerebbe il vantaggio concesso dalla deroga.
La cosa è chiaramente improponibile e, a nostro avviso, deriva da un equivoco di fondo causato da un passo del documento OIC 9, che da un’interpretazione del termine “valore inferiore” nel senso di “valore recuperabile”, ripresa dagli IAS. Il documento premette che, in sede di bilancio, la società deve verificare se esistono degli indicatori atti a far presumere che una o più immobilizzazioni siano di valore durevolmente inferiore a quello contabile. Fra tali indicatori il documento include il fatto che «l’obsolescenza o il deterioramento fisico di un’attività risulta evidente;». A nostro avviso questa inclusione appare fuorviante e, probabilmente, è causa degli odierni fraintendimenti: se si tratta di obsolescenza o di deterioramento fisico, non v’è dubbio che debba influire sul piano d’ammortamento e non certo su di un ipotetico valore durevolmente inferiore [4].
Secondo la chiara disposizione del codice, il confronto va effettuato fra il “valore” riconosciuto al cespite sulla base di varie considerazioni lasciate alla discrezionalità tecnica del redattore del bilancio[5] e “quello determinato secondo i numeri 1) e 2)”; ma, attenzione, il valore del cespite a fine esercizio nel nostro caso non è determinato secondo i numeri 1) e 2), ma, al contrario, secondo la deroga all’art. 2426. Trattasi, quindi, dell’implicita deroga anche al n. 3) del citato articolo.
In conseguenza di questa interpretazione, il redattore del bilancio, nella verifica del valore delle immobilizzazioni tecniche materiali ed immateriali, deve tener conto della fictio juris secondo la quale i cespiti non hanno subito diminuzioni della residua possibilità di utilizzazione. Ciò fatto, verificherà se sono intervenuti dei fenomeni che possono aver provocato una diminuzione di valore, indipendentemente dal logorio fisico e dall’obsolescenza: nel caso in cui tali fenomeni si sono verificati, si deve stimare l’eventuale diminuzione di valore subita. L’importo calcolato tenendo conto di tale diminuzione, però, deve essere confrontato con il valore netto contabile che si sarebbe ottenuto se si fossero imputati gli ammortamenti al conto economico; soltanto nel caso in cui si rilevasse una differenza negativa tra i due valori, si dovrebbe procedere ad una svalutazione.
I possibili effetti sulla valutazione di altre poste di bilancio
Gli elementi presenti nel bilancio d’esercizio derivano direttamente, o in modo indiretto attraverso aggregazioni o ripartizioni, dai saldi di tutti i conti della contabilità generale, e con essi devono “quadrare”, nel senso che non può esistere in bilancio neppure un euro di differenza con quanto risulta dalle scritture contabili. Questa precisazione è alla base del sistema di bilancio, ovvero dell’armonia che lega tutte le sue poste: non si può intervenire su di un suo elemento, senza aver attentamente studiato le possibili conseguenze su altri elementi dello stesso sistema.
Quello che si sta verificando oggi, a seguito di una crisi violenta ed inaspettata, deriva anche da una lenta e progressiva disgregazione delle basi scientifiche e storiche che hanno sinora contribuito alla statuizione delle regole di corretta contabilità. Se ci si allontana dal concetto di bilancio come “rendiconto delle operazioni di gestione”, per considerarlo uno strumento di programmazione, ma contemporaneamente anche un documento giuridicamente rilevante che limita o promuove l’attività dell’impresa che lo redige, inevitabilmente vengono alla luce le incongruenze legate ad interventi esterni, che rischiano di essere “rigettati” dal sistema bilancio come “corpi estranei”.
Un esempio di questo problema si riscontra in quelli che possono essere gli effetti della novità introdotta dal decreto 104/2020 sulla valutazione delle rimanenze. L’art. 2426, comma 2, n. 9), dispone che «le rimanenze, i titoli e le attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni sono iscritti al costo di acquisto o di produzione, calcolato secondo il numero 1), ovvero al valore di realizzazione desumibile dall'andamento del mercato, se minore […]»; il citato n. 1 del medesimo articolo così spiega il concetto di costo: «Nel costo di acquisto si computano anche i costi accessori. Il costo di produzione comprende tutti i costi direttamente imputabili al prodotto. Può comprendere anche altri costi, per la quota ragionevolmente imputabile al prodotto, relativi al periodo di fabbricazione e fino al momento dal quale il bene può essere utilizzato; con gli stessi criteri possono essere aggiunti gli oneri relativi al finanziamento della fabbricazione, interna o presso terzi […]».
Il testo di legge viene interpretato dal documento OIC 13, che così si esprime al paragrafo 23: «Il costo di produzione comprende i costi diretti ed i costi indiretti (cd. costi generali di produzione) sostenuti nel corso della produzione e necessari per portare le rimanenze di magazzino nelle condizioni e nel luogo attuali per la quota ragionevolmente imputabile al prodotto relativa al periodo di fabbricazione e fino al momento dal quale il bene può essere utilizzato; con gli stessi criteri possono essere aggiunti, nei casi e con le condizioni previsti nel paragrafo 39, gli oneri relativi al finanziamento della fabbricazione, interna o presso terzi. Esso esclude i costi di distribuzione ai sensi dell’articolo 2426, comma 1, numero 9 del codice civile». Viene successivamente spiegato che il concetto di costo di produzione deve intendersi come costo “normale”, nel senso che si devono imputare al prodotto in giacenza i costi relativi ad un volume ordinario di produzione, senza dunque tener conto di riduzioni dovute a fenomeni straordinari.
Tutto questo come si inserisce nei bilanci redatti secondo le deroghe stabilite dalla nuova normativa? La risposta a questa domanda non può che essere articolata, complessa e difficilmente esaustiva. In primis, è probabile che la raccomandazione dell’OIC di escludere dal calcolo del valore delle rimanenze di prodotti le straordinarie incidenze dei costi fissi non venga seguita dalle imprese colpite dal calo di produzione dovuto alla crisi pandemica, con la conseguenza che nel bilancio 2020 le rimanenze vengano valutate ad un costo che comprende una quota di costi fissi particolarmente elevata, a causa dell’incidenza sul volume di produzione ridotto in conseguenza della crisi. Tale raccomandazione, infatti, non corrisponde ad alcuna norma specifica, ma rientra nel principio generale di prudenza, contenuto nell’art. 2423-bis, ripetutamente derogato dall’odierno legislatore. Qualcuno in questo caso potrebbe ipotizzare che il legislatore, consentendo di non iscrivere in bilancio gli ammortamenti, senza disporre alcunché in merito alle possibili conseguenze di ciò sulle altre poste di bilancio, abbia implicitamente consentito un’ulteriore deroga al principio di prudenza, con la conseguente caduta dell’effetto interpretativo dato dal documento citato.
Questa interpretazione, però, presenta delle criticità: l’elemento di maggiore riflessione riguarda proprio quale sia la conseguenza della mancata imputazione a bilancio degli ammortamenti sui criteri di valutazione dei prodotti in giacenza a fine esercizio. È sicuramente innegabile che gli ammortamenti siano “costi indiretti [(….)] sostenuti nel corso della produzione e necessari per portare le rimanenze di magazzino nelle condizioni e nel luogo attuali” e che, quindi, debbano rientrare nel calcolo del valore delle rimanenze.
Il fenomeno si può considerare da due diversi punti di vista. Se esaminiamo le singole norme che sono alla base di tale valutazione, osserviamo che l’art. 2426, primo comma, n. 9 prevede la valutazione delle rimanenze al costo, o al realizzo se minore, mentre il n. 1 da la definizione di costo. Non v’è dubbio che nella definizione di costo sono compresi gli ammortamenti e quindi si potrebbe desumere che in ogni caso la valutazione delle rimanenze al costo debba comprendere anche tali ammortamenti, che sono un costo effettivamente sostenuto dall’impresa. Come detto, però, bisognerebbe tener conto anche del fatto che, secondo quanto previsto dal documento OIC 13, la quota di costo che grava sulla valutazione delle rimanenze deve essere stimata con riferimento a quello che è un volume di produzione normale per effetto dell’applicazione del principio di competenza e di quello di prudenza, in quanto l’OIC correttamente prevede che gli effetti negativi relativi ad una produzione straordinariamente inferiore a quella normale devono gravare sull’esercizio nel quale tale riduzione di produzione si è verificata. Infatti, i costi fissi di produzione si imputano al valore delle rimanenze solo per una quota corrispondente ad un normale volume di produzione. Evidentemente gli altri costi graveranno interamente sull’esercizio. In questo modo le rimanenze, anche in presenza delle nuove normative sulla pandemia, verrebbero valutate al costo comprensivo di una quota, seppur ridotta, degli ammortamenti, che, però, per espressa previsione normativa non incidono sul conto economico.
Una simile soluzione non è condivisibile, in quanto non è corretto un procedimento che analizzi le singole norme senza tener conto di quella che è la natura contabile ed economico aziendale del processo di valutazione delle rimanenze. Le rimanenze vengono valutate allo scopo di individuare la porzione di costi sostenuti per la produzione, che non sono di competenza economica dell’esercizio, in quanto riguarderanno vendite che verranno effettuate negli esercizi successivi. Tale processo di valutazione non ha il fine di stimare quale può essere il realizzo dei beni in giacenza[6], perché esso costituisce solo il parametro di confronto che, se minore, deve essere applicato per il principio di prudenza. La valutazione al costo delle rimanenze ha come unico scopo quello già illustrato di stimare correttamente i costi da attribuire all’esercizio in chiusura e quelli da rinviare al futuro. A questo punto, si deve escludere che si possano imputare in tutto o in parte gli ammortamenti al costo delle rimanenze, in quanto, così facendo, si rinvierebbero al futuro dei costi che non sono stati imputati al conto economico, contravvenendo così alla natura contabile del processo di valutazione delle rimanenze.
Così ragionando, si comprende come sia necessario partire dall’esame dei costi rilevati ed iscritti nel “dare” del conto economico, per stimare quanti di essi siano da attribuire alle giacenze (in “avere”), sottraendoli in questo modo da quelli che gravano sull’esercizio in chiusura. Risulta chiaro che, se non abbiamo imputato al conto economico gli ammortamenti, non si pone neppure il problema di come imputarli al prodotto in giacenza, perché non abbiamo nulla da stornare in proposito.
Qualcuno, però, potrebbe obiettare che ci troviamo in un caso analogo a quello che abbiamo affrontato con riferimento alla stima del “minor valore” degli immobilizzi e, quindi, potrebbe suggerire di continuare a considerare la nuova norma come deroga implicita all’art. 2426, questa volta n. 9). La tesi non è però condivisibile, perché nel caso degli immobilizzi la svalutazione avrebbe interamente annullato il beneficio relativo alla mancata imputazione degli ammortamenti, mentre, con riferimento alle rimanenze, atteso che gli ammortamenti non imputati al conto economico provocano un miglioramento del risultato dell’esercizio di pari importo, valutare i prodotti in giacenza non includendo nel costo gli ammortamenti non rilevati, compenserebbe l’effetto benefico della norma solo in piccola parte.
Facciamo un esempio a maggior chiarimento: supponiamo che il bilancio, redatto indipendentemente dalle nuove deroghe e nel rispetto di quanto previsto dall’OIC 13 in tema di capacità produttiva normale, chiuda con una perdita di 40, calcolando ammortamenti pari a 100; il volume di produzione effettivo è di 1000 unità, delle quali 200 sono in giacenza a fine esercizio, mentre il volume ordinario di produzione è di 2000 unità.
Se l’impresa usufruisce della deroga per tutti gli ammortamenti, il conto economico (semplificando) chiuderà con un utile di 60, anziché con una perdita di 40. L’effetto degli ammortamenti sul valore delle rimanenze, calcolato al costo secondo le indicazioni dell’OIC 13, potrebbe essere il seguente:
Incidenza degli ammortamenti sul costo unitario di prodotto, tenuto conto del volume effettivo di produzione: 100/1000=0,1
Incidenza ridotta in base al volume ordinario di produzione: 100/2000=0,05
Incidenza degli ammortamenti sul costo delle rimanenze a fine esercizio, tenuto conto della capacità produttiva normale: 0,05x200=10
Effetto sul risultato economico della mancata imputazione degli ammortamenti al costo di prodotto: 60-10=50
Se invece il redattore del bilancio non avesse tenuto conto delle indicazioni dell’OIC 13, l’incidenza degli ammortamenti sul costo delle rimanenze a fine esercizio, tenuto conto della capacità produttiva effettiva sarebbe stato di 0,1x200=20. In tal caso l’effetto sul risultato economico della mancata imputazione degli ammortamenti al costo di prodotto sarebbe stato 60-20=40.
L’esempio dimostra che, se applichiamo corrette regole di ragioneria per la redazione del bilancio, fortemente condizionato dalle nuove deroghe alle norme del codice, a fronte di un “beneficio” sul risultato di 100, non tenendo conto dell’impropria supervalutazione delle rimanenze, si ha un “sacrificio” di soli 10. Se, invece, il redattore del bilancio non avesse tenuto conto delle previsioni dell’OIC 13, il “sacrificio” sarebbe stato pari a 20.
Un’ultima considerazione: resta da esaminare la seconda parte della disposizione contenuta nel n. 9) dell’art. 2426, in cui si prevede che le rimanenze si devono valutare “al valore di realizzazione desumibile dall'andamento del mercato, se minore” del costo d’acquisto o di produzione.
Ci si domanda se la soluzione appena suggerita possa contravvenire in qualche modo alla disposizione del codice.
Riprendendo l’esempio proposto, supponiamo che il costo di produzione delle 200 unità in giacenza non considerando gli ammortamenti sia 214 ed il loro valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato ammonti a 220.
Confrontando i valori di costo con quelli di mercato, constatiamo che, se valutiamo le rimanenze al costo netto da ammortamenti, ci troviamo nelle condizioni più frequenti, nelle quali viene confermata la valutazione al costo, in quanto inferiore al valore desumibile dall’andamento del mercato; in entrambi gli altri casi, ovvero valutando le rimanenze 224 o 234, dovremmo ridurre tale valutazione, perché superiore al suddetto valore.
Quindi, la soluzione proposta, ovvero quella di non includere gli ammortamenti non rilevati nella valutazione delle rimanenze, è del tutto corrispondente alle prescrizioni della legge.
[1] Cfr. OIC 11, paragrafo 22.
[2] Cfr. Gianfranco Capodaglio, Vanina Stoilova Dangarska, Lauretta Semprini, Il disegno di legge di conversione del D.L. 104/2020 approvato dal Senato, Articolo 1004 in IL CASO.IT, 11 ottobre 2020.
[3] Fabrizio Bava, Donatella Busso, Alain Devalle, Con gli ammortamenti sospesi nel bilancio 2020 impairment test in tilt, Eutekne.info, 26 ottobre 2020.
[4] Ciò si evince leggendo la relazione accompagnatoria al disegno di legge delegata 127/91, che così recita: «2) I nn. 2 e 3 disciplinano, rispettivamente, l’ammortamento e le altre svalutazioni delle immobilizzazioni: quanto al primo, la formula in relazione con la ... residua possibilità di utilizzazione [sostanzialmente corrispondente a quella dell’art. 35, par. 1, lettera b), della Direttiva] è sembrata la più idonea a ricomprendere tutte le componenti dell’ammortamento (usura fisica, superamento tecnologico, minore alienabilità del prodotto ottenuto con l’impianto, eccetera). L’avverbio “sistematicamente” mira ad evitare che gli ammortamenti vengano accelerati o rallentati nei vari esercizi a seconda della convenienza, anziché essere effettuati in conformità a piani. [...]
Quanto al n. 3, esso si riferisce sia alle svalutazioni di immobilizzazioni non soggette ad ammortamento, sia alle svalutazioni eccezionali di quelle ammortizzabili. Il divieto di mantenere tali svalutazioni quando ne siano venute meno le ragioni costituisce applicazione del principio generale della rappresentazione veritiera e corretta.»
[5] Per un’analisi di altre criticità presenti nel citato documento, si cfr. Il bilancio d’esercizio (degli autori del presente articolo), editore Maggioli, 2019, pag. 111 e seguenti.
[6] Dai primi anni del nuovo secolo, gl’interpreti delle norme sul bilancio hanno spostato sempre più l’attenzione sulle poste patrimoniali, allontanandola da quelle del conto economico. La tendenza è dovuta all’acritico riferimento agli standard internazionali, assunto ignorando, o volutamente trascurando, il fatto che la loro origine è legata ai concetti delle teorie “patrimonialiste” della contabilità, ancora in uso in ambiente anglo americano, mentre in Italia ed in altri Paesi dell’Europa continentale sono state superate da circa un secolo dal sistema “reddituale”, che ha informato la struttura del bilancio prevista dal codice civile attualmente in vigore.
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