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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 11/04/2020 Scarica PDF

La (presunzione di) continuità aziendale al tempo del COVID-19

Marina Spiotta, Professore associato di diritto commerciale nell'Università degli Studi del Piemonte Orientale


Il saggio è pubblicato sul libro curato da M. Irrera: "Il diritto dell'emergenza: profili societari, concorsuali, bancari e contrattuali"


Il libro può essere scaricato gratuitamente dal sito del "Centro RES - Regolazione, Etica e Società, Centro di riferimento e confronto per i giuristi, i consulenti d'impresa, gli imprenditori e i policy-maker."


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Sommario: 1. Premessa. – 2. L’ultrattività della continuità aziendale. – 3. La sterilizzazione della causa di scioglimento per perdita del capitale sociale. – 4. Meglio una fictio juris o una sospensione? – 5. Conclusioni interlocutorie.

   

1. Premessa

Dopo aver letto le riflessioni pubblicate su questa ed altre Riviste in merito alle implicazioni dell’emergenza sanitaria e, di riflesso, economica che stiamo vivendo sul diritto dei contratti e delle procedure concorsuali, vorrei prendere parte a questo dialogo (necessariamente virtuale) non perché sia convinta di poter apportare un reale contributo, ma perché in un contesto in cui i legislatori europei sono stati invitati da un recente statement dell’executive committee di CERIL (Conference on European Restructuring and Insolvency Law) a modificare le norme in materia di crisi e di insolvenza[1], credo che, per il giurista, fare la “sua parte” significhi anche impegnarsi per proporre delle soluzioni.

Come noto, il d.l. n. 18/2020 contenente «Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19» (c.d. decreto “Cura Italia”) ha specificato che il rispetto delle misure di contenimento ivi previste «è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti» (così l’art. 91 che ha aggiunto un comma 6 bis all’art. 3 del d.l. n. 6/2020 in tema di appalti pubblici).

Si è osservato che «queste poche parole rappresentano quasi più una traccia per la discussione piuttosto che una linea chiara per l’impostazione dei problemi»[2]. L’inciso, tuttavia, rievoca alla mente quanto autorevole dottrina[3] aveva scritto nel 1955: «lo sforzo del debitore è... qualche cosa di concreto e non di astratto. Si svolge in un determinato mondo, in una certa situazione economica, su certe premesse». Parole che se nella stagione del “rigore” potevano apparire eversive, nella stagione del “sostegno” (iniziata nel 2015) suonano di sorprendente attualità e paiono denotare il superamento della nozione strettamente “naturalistica” dell’«impossibilità» di cui agli artt. 1256 e 1258 c.c., oggi valutabile anche sul piano economico-finanziario.

Muovendo da questa premessa, in un lavoro monografico[4] avevo cercato di sostenere che se l’impossibilità sopravvenuta della prestazione di diritto comune (ex art. 1256 c.c.) non ha più i caratteri dell’assolutezza, della definitività e dell’irreversibilità, forse la giurisprudenza dovrebbe optare per un’esegesi evolutiva della causa di scioglimento per impossibilità di conseguire l’oggetto sociale (ai sensi del n. 2 degli artt. 2272 e 2484 c.c.), facendovi rientrare anche la perdita della continuità aziendale. L’obiettivo finale era, non certo quello di far chiudere queste imprese, ma d’indurle a monitorare la continuità aziendale e agevolarle nel ripristinarla attraverso una consequenziale “estensione teleologica” dell’ambito di operatività dell’art. 182 sexies l. fall.[5] anche all’asserita causa di scioglimento della società rappresentata dal venir meno dell’equilibrio economico-finanziario[6]. Non avrebbe, infatti, alcun senso sostituire alla causa di scioglimento temporaneamente disattivata (perdita rilevante del capitale sociale) un’altra (perdita del going concern).

Benché la tesi non abbia mai convinto la giurisprudenza[7] (fatta eccezione per poche pronunce, rimaste isolate[8]) e sia stata confutata dal Notariato[9], tra le proposte di emendamenti al d.lgs. n. 14/2019 raccolte dal Centro “CRISI”[10] vi è anche quella[11] di modificare l’art. 380 c.c.i. aggiungendo all’art. 2484 c.c. (e di conseguenza all’art. 2545 duodecies c.c.) un n. 8 volto a identificare come ulteriore causa di scioglimento proprio la perdita di continuità aziendale e, come corollario, d’integrare anche gli artt. 20, 64 e 89 c.c.i. in modo da sospendere tale ipotesi dissolutiva durante la composizione assistita della crisi o il concordato preventivo o gli accordi di ristrutturazione.

Ovviamente nessuno poteva prevedere lo scoppio di una pandemia che, come si è osservato, potrebbe determinare «incertezze significative» sulla continuità aziendale di molte imprese e rendere la previsione dei flussi di cassa per la sostenibilità dei debiti un esercizio quasi divinatorio. 

In un saggio interdisciplinare, si è osservato che «fortunatamente il crescente successo di questa (discutibile) tesi è rimasto privo di significativi riscontri giurisprudenziali»[12].

Chiosa che mi ha indotto a scrivere queste poche righe: un’excusatio non petita, che spero possa almeno tacitare il mio “senso di colpa” per aver sostenuto una tesi che, se già prima dell’emergenza Covid-19 era minoritaria, adesso potrebbe sembrare, a dir poco, cinica.

   

2. L’ultrattività della continuità aziendale.

Tralasciando per un attimo le questioni d’inquadramento dogmatico, mi pare vi sia un dato di partenza sul quale tutti (giuristi e aziendalisti) concordano: un’impresa in disequilibrio economico-finanziario non è materialmente in grado di proseguire l’attività. Detto altrimenti, «presupposto fondamentale della continuità aziendale è l’equilibrio economico e finanziario, che, a sua volta, si nutre della fiducia che gli stakeholders ripongono nella capacità dell’impresa di adempiere le obbligazioni esistenti e di assumerne di nuove. Senza questa fiducia la continuità s’interrompe istantaneamente, ma non può altrettanto istantaneamente ripristinarsi (“la fiducia si guadagna goccia a goccia, ma si perde a litri”, Jean-Paul Sartre)»[13].

Ma, sia pure in un momento in cui ciascuno di noi, e nei più svariati contesti, è chiamato all’adempimento dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2 Cost.), si può imporre questa fiducia per decreto?

Pare questa, in ultima analisi, la soluzione ipotizzata dall’art. 7 del decreto n. 23/2020 (c.d. decreto liquidità), ai sensi del quale «Nella redazione del bilancio di esercizio in corso al 31 dicembre 2020, la valutazione delle voci nella prospettiva della continuazione dell’attività di cui all’art. 2423 bis, 1° comma, n. 1), c.c. può» (si tratta, dunque, di una facoltà) «comunque essere operata se risulta sussistente nell’ultimo bilancio di esercizio chiuso in data anteriore al 23 febbraio 2020» (data di entrata in vigore delle prime misure collegate all’emergenza pandemica), «fatta salva la previsione di cui all’art. 106 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18» che ha generalizzato la possibilità di estendere fino a 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio il termine per la convocazione dell’assemblea annuale di approvazione dei bilanci relativi all’esercizio 2019[14].

La norma aggiunge che «Il criterio di valutazione è specificamente illustrato nella nota informativa» (e, probabilmente, per le c.d. “micro imprese” che abbiano optato per la compilazione del bilancio in forma abbreviata o iper-semplificata, in calce allo stato patrimoniale) «anche mediante il richiamo delle risultanze del bilancio precedente». Precisazione dalla quale, se non si commettono errori d’interpretazione, parrebbe lecito desumere che questa finzione di ultrattività della continuità aziendale non esonererà amministratori[15], sindaci e revisori dai loro rispettivi doveri e dalle loro responsabilità[16].

Il 2° comma estende la stessa regola «anche ai bilanci chiusi entro il 23 febbraio 2020 e non ancora approvati», il che ha destato perplessità[17] in quanto, mutatis mutandis e stando all’interpretazione meramente letterale, basterebbe il bilancio del 2018 a giustificare il mantenimento della prospettiva di continuazione dell’attività.

   

3. La sterilizzazione della causa di scioglimento per perdita del capitale sociale.

L’art. 6 del d.l. n. 23/2020, viceversa, ha preferito sterilizzare, dal 9 aprile (data di entrata in vigore del decreto) e fino al 31 dicembre 2020[18], «per le fattispecie verificatesi nel corso degli esercizi chiusi entro la predetta data», la tipicizzata causa di scioglimento rappresentata dalla perdita rilevante del capitale sociale (inapplicabile alle società di persone), senza subordinarla all’assunzione d’iniziative idonee a risolvere la crisi, ma «mantenendo ferma la previsione in tema di informativa ai soci, peraltro prevista, per la società per azioni, dall’art. 58 della Direttiva 1132/2017»[19].

Nulla dice la Relazione illustrativa per la s.r.l., ma il dovere d’informazione anche nei confronti dei quotisti potrebbe essere recuperato valorizzando la formulazione testuale dell’art. 6, che non sospende né il 1° comma dell’art. 2446 c.c., né i primi tre commi dell’art. 2482 bis c.c. Così come permane il divieto (sancito dagli artt. 2433, 2° comma e 2478-bis, 5° comma, c.c.) di distribuire utili ai soci finché le perdite non siano state ripianate, con la conseguenza che qualora una siffatta delibera fosse stata già adottata dall’assemblea prima della sospensione disposta ex lege, gli amministratori non dovrebbero darvi esecuzione per non pregiudicare il tentativo di soluzione concordata della crisi o comunque le prospettive di recupero del going concern.

Come spiega la Relazione, «la previsione in esame mira a evitare che la perdita del capitale, dovuta alla crisi da Covid-19 e verificatasi nel corso degli esercizi chiusi al 31 dicembre 2020, ponga gli amministratori di un numero elevatissimo di imprese nell’alternativa - palesemente abnorme - tra l’immediata messa in liquidazione, con perdita della prospettiva di continuità per imprese anche performanti, ed il rischio di esporsi alla responsabilità per gestione non conservativa ai sensi dell’art. 2486 c.c.».

Ad onor del vero, tertium (et quartum) datur: presentare una domanda (de jure condito) per l’omologazione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione e (de jure condendo) anche di composizione assistita della crisi.

Pare altresì lecito dubitare che la sospensione degli obblighi previsti dal codice civile in tema di ricapitalizzazione e le disposizioni temporanee sui principi di redazione del bilancio siano una soluzione volta a fronteggiare le difficoltà dell’emergenza Covid-19 «con una chiara rappresentazione della realtà» (così si esprime la Relazione sia sub art. 6 che sub art. 7).

Fingere che non ci siano perdite e che persista una prospettiva (di continuità) probabilmente compromessa (si spera, non irrimediabilmente) non è propriamente offrire una fedele rappresentazione della realtà. Celare i sintomi di uno stato di crisi (che invece dovrebbero essere costantemente monitorati) potrebbe incoraggiare gli amministratori a tenere una condotta non molto diversa da quella che si è sempre rimproverata loro, ossia di nascondere, tramite artifici contabili, la perdita del capitale sociale. Così come non basta scrivere “andrà tutto bene” per cambiare la realtà, redigere il bilancio nella prospettiva (rectius, auspicio) di continuare l’attività, ma senza alcuna iniziativa per recuperarla, potrebbe essere controproducente. 


4. Meglio una fictio juris di perdurante continuità aziendale o una sospensione della relativa ipotesi dissolutiva?

Senza banalizzare temi complessi e delicati, tutto potrebbe ridursi al seguente interrogativo: meglio una fictio juris di perdurante continuità aziendale (art. 7) o una sospensione (analoga all’art. 6) della relativa ipotesi dissolutiva?

Difficile rispondere e forse qualunque soluzione lascerebbe insoddisfatti posto che la continuità aziendale si può interrompere (per effetto della paralisi generata dal lockdown Covid-19), ma purtroppo non può essere (magicamente) ripristinata per decreto, né “sospesa”[20]. Tuttavia, presumerne (in senso atecnico)[21] la ricorrenza[22] significa passare da un’ottica forward looking ad una retrospettiva[23].

In alternativa e almeno in teoria (non sul piano pratico), sarebbe stata più in linea con la nozione tecnica di going concern[24] una “presunzione di continuità aziendale intermedia” (analoga a quella prevista per il possesso dall’art. 1142 c.c.), per cui se l’ultimo bilancio chiuso era stato redatto nella prospettiva di continuare l’attività e l’impresa (in ossequio agli artt. 3 c.c.i. e 2086 c.c., in vigore da metà marzo 2019 e che non constano essere stati “sospesi”[25]), presenta un piano di ripristino dell’equilibrio economico-finanziario o di riconversione della produzione[26], si presume che tale prospettiva non sia mai venuta meno.

Del resto, anche i detrattori della tesi volta a equiparare la perdita della continuità aziendale ad una causa di scioglimento ammettono che, in una simile circostanza, gli amministratori dovrebbero prudenzialmente adottare una gestione  conservativa (art. 2486 c.c.).

Sempre ragionando sul rapporto tra le suddette due cause di scioglimento (una tipizzata e l’altra ricavabile in via interpretativa), mentre è ben possibile che sussista la continuità aziendale nonostante la perdita del capitale sociale, non mi è facile capire come si possa continuare l’attività in assenza di concrete prospettive di recupero del going concern.

   

5. Conclusioni interlocutorie.

Credo, in sintesi, che la soluzione ai gravi problemi che dovranno affrontare le imprese nei prossimi mesi (e forse anni) non risieda tanto nell’inquadramento dogmatico della continuità aziendale (ossia nel negare che sia una causa di scioglimento autonoma o rientrante nell’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale), quanto piuttosto nel metterle concretamente in condizione di recuperare l’equilibrio economico-finanziario e quella fiducia che, non per causa loro, si è bruscamente interrotta[27].

Non ho la pretesa di avere la ricetta magica, ma mi riservo di proporre qualche riflessione sulle linee d’intervento del decreto n. 23/2020, che, per un limitato periodo, disattiva la postergazione prevista dagli artt. 2467 e 2497 quinquies c.c.[28] e paralizza la stessa possibilità di “portare i libri in tribunale”[29].



[1] Il documento del 20 marzo è reperibile sul sito http://www.ceril.eu/. Per un primo commento v. G. Corno e L. Panzani, I prevedibili effetti del Coronavirus sulla disciplina delle procedure concorsuali, in www.ilcaso.it, 25 marzo 2020, mentre per un quadro comparatistico delle linee d’intervento si rinvia a I. Pollastro, Emergenza sanitaria e crisi d’impresa: come contenere il contagio?, in www.ilcaso.it, 2 aprile 2020.

[2] T. Dalla Massara, Emergenza sanitaria ed esigenza di regole: scenari e proposte, in www.dirittobancario.it, 30 marzo 2020. Per G. Di Marco, L’esonero da responsabilità contrattuale prevista dall’art. 91, comma 1, del Cura Italia, in Pluris. Quotidiano giuridico, 10 aprile 2020, «ad un primo esame sommario, parrebbe che tale normativa non introduca nulla di particolarmente nuovo, se rapportata agli ordinari rimedi che l’ordinamento riconosce a tutela dei soggetti del rapporto contrattuale». Secondo l’Autore «è da escludersi […] che il debitore possa essere alleviato da responsabilità contrattuale qualora sia rimasto inadempiente ad un’obbligazione pecuniaria, visto che il pagamento di una somma di danaro non può mai risultare obiettivamente impossibile (con l’eccezione dell’ipotesi estrema di totale sparizione della moneta)» e può sempre essere effettuato «grazie all’impiego di strumenti elettronici o telematici». Contra A.A. Dolmetta, «Rispetto delle misure di contenimento» della pandemia e disciplina dell’obbligazione, in www.ilcaso.it, 11 aprile 2020, 8 s., a cui avviso «la dissociazione programmata dal comma 6 bis tra la linea della (non) responsabilità e la linea della liberazione apre senz’altro la via alla ricomprensione, nel contesto della protezione in questione, anche delle obbligazioni di cose di genere» (con consequenziale superamento del principio espresso dalla locuzione latina genus numquam perit). In tal senso pare militare anche l’interpretazione testuale (ossia l’avverbio «sempre») e l’art. 11 del decreto n. 23/2020 (che prevede la «Sospensione dei termini di scadenza dei titoli di credito»).

[3] G. Cottino, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, Milano, 1955, 143, opinione poi ripresa da O. Cagnasso, Profili relativi alla fattispecie «sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale», in Studi in onore di Gastone Cottino, I, Padova, 1997, 171 ss.

[4] M. Spiotta, Continuità aziendale e doveri degli organi sociali, Milano, 2017, 97 ss.

[5] Il cui contenuto è stato sdoppiato negli artt. 64 e 89 c.c.i. e aggiunto all’art. 20, ma andrebbe forse ribadito anche per la l.c.a. e l’a.s.

[6] M. Spiotta, op. cit., 93 s.

[7] Tra le pronunce più recenti v. Trib. Milano, 22 giugno 2019, in www.ilcaso.it: «Il venir meno della continuità aziendale non integra una causa legale di scioglimento della società bensì, piuttosto (a seconda che sia o meno reversibile), una situazione di insolvenza o quantomeno di crisi, costituendo quindi uno dei più rilevanti e ricorrenti presupposti per dare avvio a quelle che il nuovo codice della crisi definisce ora procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza». Tuttavia, ad avviso del giudice ambrosiano, «la conseguenza del (doveroso) rilievo del venir meno della continuità aziendale da parte degli amministratori, e del controllo su tale precondizione da parte dei sindaci, è che - come indirettamente prescrive l'art. 2423-bis, 1° comma, n. 1, c.c. - i principi di redazione del bilancio non sono più quelli dettati dall'art. 2426 c.c., bensì quelli imposti dalla prospettiva liquidatoria in cui la società, anche prima della formale constatazione di una causa di scioglimento, deve necessariamente porsi». Un ragionamento che desta qualche perplessità apparendo contraddittorio far emergere l’organizzazione aziendale nella sua dimensione statica nonostante la presentazione di una domanda di concordato in continuità. Correttamente, i principi contabili internazionali (IAS 1, § 25 e IAS 10, § 14) impongono di redigere il bilancio nella prospettiva della continuazione dell’attività a meno che la direzione aziendale non intenda liquidare l’entità o interromperne l’attività «o non abbia alternative realistiche a ciò». Anche il principio contabile OIC n. 5 consente di disapplicare i criteri di funzionamento solo dalla data di apertura della fase dissolutiva o comunque dal momento in cui, in conseguenza del verificarsi di un evento interno o esterno all’impresa, si produca l’effettiva cessazione o una cessazione pressoché immediata dell’attività (v. anche il principio contabile OIC n. 11, §§ 22 e 23). Per brevità sia consentito rinviare a M. Spiotta, op. cit., 115 ss.

[8] Trib. Torino, 5 febbraio 2013, in www.giurisprudenzadelleimprese.it, pur ribadendo il principio per cui «l’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale può costituire causa legittima di scioglimento della società quando riveste caratteri di assoluta definitività tali da rendere inutile ed improduttiva la permanenza del vincolo sociale» e che «tale non può considerarsi la scarsa redditività prospettica della società ovvero la carenza momentanea di commesse», precisa: «questi ultimi elementi debbono considerarsi insufficienti anche per ritenere che sia venuta meno la continuità aziendale»; qualora invece fosse raggiunta quest’ultima prova, sarebbe «obbligo dell’amministratore disporre lo scioglimento della società con la nomina del liquidatore ovvero presentare istanza di concordato preventivo».

[9] G. Ferri jr. e M. Silva, In tema di impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale e scioglimento delle società di capitali, Studio n. 237/2014/I, approvato dal Consiglio Nazionale del Notariato il 9 settembre 2014, in www.notariato.it, dal quale traspare anche la preoccupazione di attribuire un’eccessiva discrezionalità agli amministratori, i quali dovrebbero prudenzialmente convocare l’assemblea. 

[10] Centro di Ricerca interdipartimentale su Impresa, Sovraindebitamento e Insolvenza, promosso dai Dipartimenti di Management e di Scienze Economico-Sociali e Matematico-Statistiche dell’Università degli Studi di Torino. Gli studiosi coinvolti e il materiale sono reperibili all’indirizzo centrocrisi.it.

[11] Formulata dal Prof. M. Irrera, Presidente del Centro CRISI.

[12] Così N. Abriani e G. Palomba, Strumenti e procedure di allerta: una sfida culturale (con una postilla sul Codice della crisi dopo la pandemia da Coronavirus), inwww.osservatorio-oci.org. Anche V. Calandra Buonaura, Amministratori e gestione dell’impresa nel Codice della crisi, in Giur. comm., 2020, I, 18, parla di una «tesi che ha incontrato un notevole (ed inaspettato) consenso», ma «del tutto priva di fondamento» perché contrasta con la ratio dell’art. 182 sexies l. fall. (obiezione che potrebbe essere superata considerando tale norma espressione di un principio generale di diritto dell’impresa) e perché comporterebbe, come corollario, l’applicabilità del criterio di quantificazione dei danni codificato dal nuovo art. 2486, 3° comma, c.c. Una critica sicuramente degna della massima attenzione, ma che forse andrebbe rivolta all’art. 378, 2° comma, c.c.i. che, come rileva l’Autore, ha codificato delle regole molto distanti dai principi affermati dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 9100 del 2015.

[13] La citazione è tratta da R. Tiscini, Continuità e fiducia vitali per le aziende, in Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2020.

[14] In argomento v. D. Fico, Il differimento del termine di approvazione del bilancio di esercizio, in www.ilsocietario.it, Focus del 30 marzo 2020. Per un commento dell’art. 106 si rinvia a M. IRRERA, Le assemblee (e gli altri organi collegiali) delle società ai tempi del Coronavirus (con una postilla in tema di associazioni e fondazioni), in www.ilcaso.it, 22 marzo 2020, mentre sulle specifiche ricadute d tale dilazione sulla redazione dei bilanci v. M. Di Sarli, Redazione del bilancio e dintorni ai tempi del coronavirus: prime riflessioni, in www.ilcaso.it, 11 aprile 2020.

[15] Che in base al principio contabile OIC 29 devono tener conto dei fatti successivi alla chiusura dell’esercizio che possano compromettere la continuità aziendale.

[16] G. Munarin, Effetto Coronavirus sugli obblighi di vigilanza e verifica di sindaci e revisori, in www.ipsoa.it. V. anche S. Carollo, Crisi Covid-19 e Bilancio 2019: il problema della continuità aziendale, in www.fiscoetasse.com.

[17] E. Bozza, Valutazione della continuità aziendale “al netto” dell’effetto Covid-19, in Eutekne.Info, 8 aprile 2020, auspica un chiarimento dell’OIC e consiglia di fornire nella nota integrativa e nella relazione sulla gestione una compiuta illustrazione degli impatti della crisi e delle modalità con cui l’impresa intenda reagire, in quanto «gli stakeholders daranno sicuramente massima attenzione a tale aspetto che sarà anche una cartina tornasole degli assetti organizzativi dell’azienda».

[18] Dies ad quem probabilmente insufficiente, in quanto è verosimile che le ricadute negative si faranno sentire anche nel 2021.

[19] Ai sensi di tale norma «In caso di perdita grave del capitale sottoscritto, l’assemblea deve essere convocata nel termine previsto dalla legislazione degli Stati membri, per esaminare se sia necessario sciogliere la società o prendere altri provvedimenti».

[20]  Cfr. R. Tiscini, La continuità aziendale non si può “sospendere”, in wwwJudicium.it del 24 marzo 2020.

[21] Le presunzioni sono «le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato» (art. 2727 c.c.). In tutte le presunzioni sancite ex lege (per es. dall’art. 232 c.c.), il ragionamento logico condurrebbe alla stessa conclusione del legislatore. Viceversa, nella fattispecie, si desume da un fatto noto (la sussistenza della continuità aziendale nei bilanci degli anni precedenti) un fatto (la perdurante sussistenza di tale prospettiva) che si sa non essere corrispondente al vero.

[22] Così G. Negri, Bilanci con presunzione di continuità. Stop alle norme sulla perdita di capitale, in Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2020.

[23] Come sottolinea A. Bongi, Bilanci con sguardo al passato. Valutazione di continuità sui dati dell’ultimo esercizio, in Italia Oggi, 8 aprile 2020, «per i bilanci al tempo del coronavirus la valutazione della continuità aziendale si baserà sul recente passato anziché sul futuro prossimo».

[24] Intesa come capacità dell’impresa di continuare a operare come un’entità in funzionamento per un arco temporale di almeno 12 mesi.

[25] C. Ceradini, Gli adeguati assetti aiutano a monitorare la continuità aziendale, in Il Sole 24 Ore. Quotidiano del diritto, 6 aprile 2020.

[26] Sull’esempio delle grandi firme della moda: v. G. Crivelli, Armani produce camici, Herno mascherine, Gucci lancia un crowdfunding con Intesa Sanpaolo, in Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2020.

[27] Parla di «interventi strutturali» G. Buffelli, Continuità aziendale ai tempi del Coronavirus: alcune riflessioni, in Guida alla Contabilità & Bilancio, Il Sole 24 Ore, n. 4/aprile 2020, 21 ss.

[28] Mentre la ratio dell’art. 8 è chiara (favorire il coinvolgimento dei soci nell’accrescimento dei flussi di finanziamento verso la società), non lo è altrettanto il passaggio della Relazione in cui si legge che l’applicazione del meccanismo della postergazione sarebbe «destinat(o) a subire un parziale ridimensionamento a far tempo dal 15 agosto 2020 per effetto della parziale modifica dell’art. 2467 c.c., con eliminazione dell’obbligo di restituzione del rimborso dei finanziamenti avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento della società». A parte il refuso sulla data di entrata in vigore del Codice della crisi, posticipata (dall’art. 5 dello stesso decreto), al 1° settembre 2021, l’obbligo di restituzione non è stato eliminato, ma solo spostato nell’art. 164 c.c.i.

[29] Anche in questo caso, mentre non si fatica a comprendere la ragione del differimento disposto dall’art. 10 (lasciare all’imprenditore uno spatium deliberandi per evitare decisioni impulsive, assunte sull’onda emotiva dello sconforto e consentirgli di «valutare con maggiore ponderazione la possibilità di ricorrere a strumenti alternativi alla soluzione della crisi di impresa senza essere esposti alle conseguenze civili e penali connesse ad un aggravamento dello stato di insolvenza che in ogni caso sarebbe in gran parte da ricondursi a fattori esogeni», mi pare non si sia tenuto conto che lo sbocco di un fallimento (o liquidazione giudiziale che dir si voglia) potrebbe anche essere un concordato (fallimentare o nella l.g.) e l’esdebitazione. Perplesso anche G. Limitone, Breve commento all’art. 11 decreto liquidità [al momento ancora in bozza], in www.ilcaso.it dell’8 aprile 2020, che avrebbe preferito una soluzione «strutturale» ad una «tampone» e la sospensione, non solo dei termini previsti dall’art. 69 bis l. fall., ma anche del periodo sospetto rilevante per l’esercizio delle azioni revocatorie.


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