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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 21/11/2019 Scarica PDF
Alla ricerca di una sintesi tra matematica e diritto nell'analisi del fenomeno anatocistico nel contratto di mutuo con ammortamento alla francese ...
Domenico Provenzano, Magistrato Civile del Tribunale di MassaNota a Trib. Torino 30 maggio 2019
1. Premessa: i termini della questione. I presupposti e la ratio dell’anatocismo “convenzionale” nel sistema codicistico (artt. 1283 e 1284 c.c.); le principali criticità della pronuncia in commento circa la nozione di scadenza-esigibilità dell’obbligazione per interessi in rapporto al momento di stipulazione della convenzione anatocistica.; 2. L’adozione della capitalizzazione composta nell’elaborazione del piano di ammortamento “alla francese” e l’ipotizzato effetto finanziario “multiforme” di tale regime finanziario (differenziato in funzione del criterio di calcolo degli interessi prescelto). Il meccanismo di determinazione del “debito residuo” ai fini della definizione della rata costante e del monte interessi. 3. Il rapporto tra il regime finanziario e la produzione degli interessi (proporzionale o esponenziale rispetto al tempo) alla luce della disciplina codicistica (artt. 821 comma 3 e 1284 comma 1 c.c.). 4. Conclusioni.
1. Premessa: i termini della questione. I presupposti e la ratio dell’anatocismo “convenzionale” nel sistema codicistico (artt. 1283 e 1284 c.c.); le principali criticità della pronuncia in commento circa la nozione di scadenza-esigibilità dell’obbligazione per interessi in rapporto al momento di stipulazione della convenzione anatocistica.
Una recente ed articolata pronuncia di merito, pur ammettendo – a fronte dei rilievi della pressochè pacifica letteratura scientifica in materia[1] – che nell’elaborazione dei piani di ammortamento dei finanziamenti con rimborso rateale “alla francese” oggetto della comune casistica giudiziaria viene solitamente adottato il regime finanziario della capitalizzazione composta (ai fini della determinazione della rata costante) e che, di conseguenza, anche il monte interessi viene in tal caso quantificato secondo tale regime, per importo superiore a quello che riverrebbe qualora il piano fosse elaborato in regime di capitalizzazione semplice, e ciò in ragione dell’addebito di interessi (ulteriori) computati su quelli (primari) che compongono le rate successive alla prima (“Dato il capitale (C), il tasso di interesse periodale (i) e il numero di periodi di ammortamento (n), l'importo della rata costante (R) è calcolato secondo la formula
Poiché il tempo (“n”) è esponente e non fattore, nella determinazione della rata costante è implicita l’applicazione dell’interesse composto sul capitale”) - ha nondimeno escluso che siffatto meccanismo comporti la violazione del divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 c.c..[2]
Il presente commento alla citata sentenza rappresenta l’occasione per un’analisi ad ampio raggio della richiamata tematica, attualmente oggetto di acceso dibattito e di contrasti interpretativi sia in dottrina che in giurisprudenza[3], in ragione, tra l’altro, dell’incessante, ondivaga (e non poche volte di complessa sistemazione esegetica) produzione legislativa in materia e della rilevanza economico-sociale degli interessi in gioco[4].
Al di là del preliminare rilievo per cui la formula dianzi prospettata nella pronuncia in commento attiene, in realtà, specificamente (e soltanto) “all’ammortamento “alla francese” di un prestito nel regime finanziario della capitalizzazione composta con tasso d’interesse costante”, essendosi in tal modo (erroneamente) dato per presupposto che la capitalizzazione composta sia l’unico regime finanziario applicabile nella metodologia di ammortamento a rata costante - ben potendo essa essere invece sviluppata anche in capitalizzazione semplice (nel qual caso la rata costante di ammortamento risulta invece espressa dalla diversa formula
(come ha avuto modo di rimarcare autorevole letteratura matematica)[5] - ciò che soprattutto interessa al fine di impostare correttamente l’analisi giuridica della tematica in questione è enucleare le ragioni addotte nella citata sentenza a giustificazione dell’asserita esclusione di qualsivoglia effetto anatocistico nell’impiego del regime composto ai fini dell’elaborazione di un piano di ammortamento “alla francese”; onde verificare la correttezza di tale assunto sia sotto il profilo giuridico che in rapporto alla scienza matematica finanziaria, ambiti di indagine strettamente ed ineludibilmente connessi in funzione di un rigoroso e compiuto approccio metodologico alla ridetta tematica.
Le argomentazioni
cui si è fatto ricorso nella pronuncia in esame per pervenire alla suindicata
conclusione consistono, in buona sostanza: per un verso, nell’apodittico
assunto secondo cui l’incremento esponenziale del monte interessi conseguente
all’adozione del regime composto nel piano di rimborso rateale assumerebbe
(sempre e comunque) una sorta di funzione risarcitoria e/o sanzionatoria nei
confronti del debitore per un ipotetico mancato o inesatto adempimento
all’obbligo di corrispondere (preesistenti) interessi primari (“Nell’art. 1283 c.c., la produzione di nuovi
interessi (c.d. secondari, anatocistici) trova la propria fonte
nell’inadempimento all’obbligo di pagare gli interessi c.d. primari alla
scadenza prevista (“interessi scaduti”) ….. Se si considera che <> (art.
1282 c.c.), esce evidente che il divieto di anatocismo specificamente
contraddice questa regola, postulando un debito per interessi, bensì “scaduto”,
e quindi “esigibile” (art. 1282 c.c.) per essersi verificata la scadenza del
termine di adempimento (e ogni altra condizione) che le parti hanno previsto in
contratto, ma incapace di produrre a sua volta interessi (anatocistici)
<
In perfetta sintonia con la teorica ricostruttiva appena delineata, nella motivazione della sentenza del Tribunale di Torino si è quindi affermato che “La produzione di interessi su interessi è … causa bensì necessaria ma non sufficiente del divieto di anatocismo, poiché determinanti nella considerazione legislativa del divieto sono: dal lato del creditore, l’esigibilità immediata dell’interesse primario …”; salvo precisare, nel medesimo contesto, che ulteriore fondamento giustificativo dello stesso divieto sarebbe “dal lato del debitore, il pericolo di indefinita crescita del debito d’interessi, incalcolabile ex ante, prima che l’inadempimento si sia verificato”. A ben vedere, l’affermazione appena citata, in riferimento alla contrapposizione tra le posizioni del creditore e del debitore, rivela, di per sé, l’intrinseca contraddizione logica che permea la soluzione esegetica in questione: in effetti, trattandosi di un medesimo rapporto obbligatorio, o l’inadempimento (sempre che si voglia postularne la necessità, nel contesto dell’anatocismo “convenzionale”) viene configurato (sempre) già in essere al momento della stipulazione della convenzione anatocistica (situazione prospettata nella pronuncia per il solo creditore), oppure esso è destinato a manifestarsi (anche) nel corso dell’esecuzione del medesimo rapporto, in riferimento all’ (eventuale e futuro) omesso, non integrale o tardivo pagamento delle rate (comprensive di quote interessi) che maturano a seguito della costituzione del vincolo (situazione, questa, predicata nella medesima sentenza per il solo debitore); diversamente, non avrebbe senso, a tale ultimo riguardo, il succitato riferimento al “pericolo di indefinita crescita del debito d’interessi, incalcolabile ex ante, prima che l’inadempimento si sia verificato”, così come resterebbe priva di rilievo sostanziale la considerazione, espressa nella medesima pronuncia del Tribunale di Torino, con la quale si è testualmente evidenziato che “l’art. 1283 c.c. impedisce al debitore di assumere “ora per allora” un’obbligazione che (la stessa disposizione, n.d.r.) presume – per valutazione legislativa tipica – eccessivamente onerosa, perché l’entità del maggior debito assunto per interessi anatocistici è incalcolabile ex ante”. In effetti, tale ultima argomentazione presuppone che, almeno con riferimento ai finanziamenti con rimborso rateale, gli interessi primari maturino normalmente soltanto nel corso dell’esecuzione del relativo rapporto obbligatorio e quindi successivamente alla stipulazione della clausola anatocistica contenuta nel contratto con cui viene concesso il prestito; non vedendosi, ciò posto, come essi possano allora ritenersi definiti dalla norma come (sempre e necessariamente) “scaduti” - e quindi esigibili - già in tale momento.
Va peraltro evidenziato che l’art. 1283 c.c. fa espresso riferimento agli interessi sic et simpliciter “scaduti”, non già (in ipotesi) necessariamente a quelli già in precedenza dovuti e rimasti insoluti alla scadenza (anteriormente alla stipulazione della pattuizione anatocistica). Ne deriva, sotto tale profilo, un’evidente ed indebita sovrapposizione (o forse confusione), nel contesto della ricostruzione recepita nella sentenza in commento, tra interessi anatocistici ed interessi di mora (“il divieto codifica un dovere del creditore di comportarsi secondo un canone di correttezza…, impedendogli di “lasciar correre” interessi di mora sugli interessi primari scaduti, visto che il debito per interessi “scaduto” è esigibile e che il creditore può pretendere il pagamento immediato”); ricostruzione del resto diffusa anche presso la suindicata dottrina, laddove ha in proposito rilevato che la disciplina di cui all’art. 1283 c.c., nel limitare l’ammissibilità dell’anatocismo, si pone in contrasto “non solo con la regola della naturale fecondità del denaro in genere, ma anche con l’altra … per la quale l’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria determina il decorso di interessi moratori”[8]. Trattasi, in realtà, di tipologie di interessi aventi funzioni ben diverse, non sempre (e comunque non necessariamente) coincidenti: al di là del rilievo per cui, in presenza di rate composte da somme riconducibili in parte all’obbligazione restitutoria e in parte a quella accessoria, in caso di inadempimento gli interessi di mora maturano principalmente sulla sorte capitale, ancor prima che sui relativi interessi primari (ciò che di per sé vale a rivelare il distinto ed autonomo fondamento giustificativo della mora rispetto a quello proprio dell’anatocismo, che invece, per sua stessa natura, non può che attenere alla sola obbligazione per interessi), il fatto che una peculiare forma di anatocismo consentita ex lege (o, se si vuole, un’ipotesi di deroga al divieto codicistico di anatocismo) sia quella consistente nell’addebito degli interessi moratori sull’intera rata di rimborso del mutuo rimasta insoluta alla scadenza, comprensiva della quota interessi di pertinenza (secondo quanto già previsto, per i mutui fondiari, dall’art. 38, comma 2 del R.D. n. 646/1905, dall’art. 14 comma 2 del D.P.R. n. 7/1976 e dall’art. 16 comma 2 L. n. 175/1991 e come stabilito più recentemente per le operazioni di finanziamento dall’art. 3 della Delibera C.I.C.R. del 09.02.2000 e poi dall’art. 120 comma 2, lett. b) del T.U.B. nel testo vigente e dalla relativa delibera del C.I.C.R. attuativa del 03.08.2016, rispettivamente in virtù di espressa clausola negoziale, secondo la disciplina più risalente, ed a prescindere dalla stessa, in base a quella da ultima citata), non vale certo a ridurre il fenomeno anatocistico a tali ipotesi settoriali[9]; ipotesi, quelle appena menzionate, la cui previsione risulterebbe del resto superflua qualora fossero sussumibili nel disposto di cui all’art. 120 T.U.B., disposizione che, peraltro, nella versione conseguente alla novella del 2016, prescrive attualmente il divieto di produzione di “interessi ulteriori” su quelli semplicemente “maturati”[10], non più su quelli “scaduti” (e, quindi, sicuramente a prescindere dall’inadempimento del debitore)[11]. Per converso, l’effetto anatocistico ben può verificarsi in virtù dell’utilizzo del regime composto (e ciò proprio in virtù delle regole che governano tale regime) in relazione agli interessi corrispettivi previsti nel piano di ammortamento anche nello scenario di regolare adempimento dell’obbligazione restitutoria frazionata, piuttosto che soltanto in riferimento a quelli moratori (presupponenti l’inadempimento o l’inesatto adempimento). In realtà, come già accennato, costituisce nozione di comune esperienza che, nell’ordinaria casistica giudiziaria, le clausole anatocistiche (integrate dall’approvazione, nell’ambito dell’assetto contrattuale, del richiamato ed allegato piano di ammortamento a rata costante stilato secondo il regime di capitalizzazione composta) attengono generalmente non già ad ipotetiche pregresse obbligazioni per interessi primari già scadute ed esigibili al momento della conclusione del contratto di finanziamento (nel quale le ridette clausole solitamente sono inserite), bensì ad interessi primari (precisamente alle varie quote di interessi corrispettivi che compongono le singole rate di rimborso) destinati a maturare soltanto nella fase esecutiva dell’obbligo restitutorio fondato sul medesimo contratto (ciò che avviene tipicamente, per l’appunto, nei mutui a rimborso frazionato); di tal che, non pare corretto predicare la necessaria “esigibilità immediata” (ovvero, per quanto pare doversi intendere, la preesistenza rispetto alla conclusione del patto anatocistico) di interessi primari (già “scaduti”) – e, quindi, corrispondentemente, il pregresso e conclamato inadempimento del debitore all’atto dell’approvazione della relativa clausola negoziale - quale condizione indefettibile della pratica anatocistica ai sensi dell’art. 1283 c.c., ben potendosi la norma applicare, nei contratti di durata (quale è innegabilmente il mutuo a rimborso graduale nella fase esecutiva), anche alle rate destinate a scadere, nei termini concordati, nel tempo successivo alla loro stipulazione e quindi nella fase esecutiva del rapporto. In proposito, la Corte regolatrice ha, per l’appunto, avuto modo di rimarcare expressis verbis, che non si sottrae al citato divieto “l'obbligo per la parte debitrice di corrispondere anche gli interessi sugli interessi che matureranno in futuro”, essendo “idonea a sottrarsi a tale divieto solo la convenzione che sia stata stipulata successivamente alla scadenza degli interessi”[12]. Con riferimento alla disciplina del Codice Civile del 1942, la dottrina tradizionale, del resto, nel porre in luce la non univoca natura degli “interessi sugli interessi” cui si riferisce l’art. 1283 c.c., ha escluso che essa possa essere configurata, sic et simpliciter, come moratoria, almeno per quanto concerne l’anatocismo convenzionale: “nel caso in cui essi dipendono da convenzione, siamo di fronte a veri e propri interessi convenzionali, soggetti alle norme generali”, mentre nell’ipotesi in cui essi abbiano fondamento nella domanda giudiziale, “non può dirsi che si tratti di interessi moratori poiché non è sufficiente né necessaria all’uopo la costituzione in mora del debitore; trattasi, adunque, di una classe a sé stante di interessi legali, che partecipano della natura degli interessi moratori e di quelli corrispettivi”[13]; di modo che, in base a tale tradizionale inquadramento, l’unica affinità tra interessi di mora ed interessi anatocistici (ravvisabile nel comune presupposto dell’inadempimento) è stata a ben vedere constatata, nei termini appena evidenziati, soltanto con riguardo all’anatocismo giudiziale, di certo non già anche a quello convenzionale (cui è invece innegabilmente riconducibile il fenomeno della contabilizzazione di interessi su interessi nell’elaborazione del piano di ammortamento progressivo a rata costante stilato in capitalizzazione composta, in virtù della natura negoziale del richiamo allo stesso piano contenuto in contratto). A fronte di tale peculiare e non univoca natura, non a caso, parte della dottrina ha ricondotto gli interessi anatocistici ad una “classe a sé stante”[14].
Invero, la Relazione del Guardasigilli Pisanelli al
Codice Civile del 1865, con riguardo al disposto di cui all’art. 1232 dello
stesso Codice, attribuiva agli interessi prodotti sugli interessi una funzione
sostanzialmente risarcitoria, a fronte dell’inadempimento dell’obbligo di
pagamento degli interessi primari (una volta scaduti), non soltanto con
riferimento all’anatocismo giudiziale,
ma anche a quello convenzionale: “… è
norma non contrastata di diritto che il debitore in mora deve risarcire i danni
derivanti dalla medesima. ….. Ora, sia che la somma dovuta formi un capitale,
sia che costituisca interessi sopra un capitale, il danno presunto si verifica
ugualmente pel creditore che non riceve il pagamento. … Né può impedirsi che
gli interessi, quando siano scaduti, vengano, mediante apposita convenzione,
costituiti in capitale per far decorrere gli interessi sopra i medesimi. Se il
debitore li pagasse, il creditore potrebbe impiegare la relativa somma ad
interessi presso un terzo: perché si dovrà vietare che ciò si faccia
lasciandoli a mano dello stesso debitore? Questi inoltre può non trovarsi in
grado di pagare gli interessi dovuti senza ricorrere ad un imprestito
sottoponendosi al pagamento di altri interessi; perché non potrà ritenere
quelli già dovuti, qual nuovo imprestito, invece di ricercare un terzo che
abbia a mutuarglieli? Si teme che il debitore aumenti per tal modo
eccessivamente il suo debito verso lo stesso creditore; ma la sua condizione
non cambia punto se aumenta il suo passivo obbligandosi verso un altro”[15];
teorica, quella appena menzionata, del resto seguita anche dalla dottrina
dell’epoca[16]. Non può tuttavia
ritenersi che tali argomentazioni ricostruttive, pertinenti al sistema
civilistico del XIX secolo, si attaglino anche alla disciplina dell’anatocismo
convenzionale attualmente vigente e ciò sia in virtù del principio di autonomia
(ontologica, contabile e giuridica) dell’obbligazione per interessi rispetto a
quella per sorte capitale, principio in forza del quale la prima non può mai
convertirsi nella seconda e che costituisce ormai ius receptum nella giurisprudenza della Suprema Corte, per quanto
verrà in seguito chiarito; sia in considerazione del fatto che l’ordinamento ha
in seguito consentito, con espresse previsioni normative succedutesi nel tempo
(e, come dianzi accennato, non sempre in virtù di apposita pattuizione),
l’addebito di interessi di mora sulle intere rate di rimborso dei finanziamenti
(comprensive delle rispettive quote capitali e quote interessi) in caso di
inadempimento alla loro scadenza e quindi anche sulla porzione di rata
costituita da interessi; in particolare: fino al 01.01.1994, l’art. 38, comma 2
R.D. n. 646/1905, l’art. 14 comma 2 D.P.R. n. 7/1976 e l’art. 16 comma 2 L. n.
175/1991 in relazione ai mutui fondiari[17]; poi
l’art. 120, comma 2, T.U.B., come modificato dall’art. 125 del D.Lgs. n.
342/1999, e l’art. 3, comma 1 della delibera attuativa C.I.C.R del 09.02.2000[18], con
riguardo a tutte le operazioni di finanziamento con rimborso rateale; da
ultimi, lo stesso art. 120 comma 2, lett. b), primo inciso, del T.U.B., come
novellato dall’art. 17 bis del D.L. n. 18/2016, convertito in L. n. 49/2016,
con riferimento all’addebito di interessi di mora sugli “interessi debitori maturati” anche nei rapporti di finanziamento, e
l’art. 3 della relativa delibera C.I.C.R. attuativa n. 343 del 03.08.2016[19],
senza che sia peraltro in tal caso prevista la necessità dell’approvazione da
parte del debitore in sede pattizia. Ne deriva che, a fronte di un ipotetico (pur sempre
unico) inadempimento relativo alle rate di rimborso, stante la possibile
compresenza, in forza delle disposizioni appena richiamate, di interessi
anatocistici (quali quelli generati per effetto dell’applicazione del regime
composto nei piani di ammortamento a rata costante) e di interessi di mora
computati sui medesimi interessi anatocistici (nel caso in cui le rate, e
quindi anche le rispettive quote interessi, rimangano insolute alla scadenza),
deve concludersi che nell’attuale assetto ordinamentale – ove si voglia
predicare l’inadempimento del debitore quale necessario presupposto della
pattuizione anatocistica - pare privo di effettiva giustificazione (e non
rispondente al principio di meritevolezza dell’interesse sotteso ad una
clausola di tal genere, ex art. 1322 c.c.) reintegrare la sfera giuridica del
creditore (giova ribadire, in relazione ad una medesima fattispecie di
inadempimento) attraverso una duplice forma di ristoro, vale a dire, in ipotesi,
sia con il computo di interessi ulteriori (anatocistici) calcolati su quelli
corrispettivi insoluti (interessi ulteriori che devono considerarsi
anatocistici per l’appunto “per la parte
di rata composta da interessi primari”)[20], sia
con l’obbligo, stabilito dalle previsioni normative dianzi citate, di
corrispondere interessi di mora calcolati anche su questi ultimi, oltre che
sulla quota capitale contenuta nella stessa rata); e ciò non fosse altro che
per il fatto che, in realtà, nel momento in cui è formato il piano di
ammortamento nell’ambito del quale sono distribuiti gli interessi anatocistici
implicati dall’impiego del regime composto, alcun inadempimento relativo alle
rate di rimborso (giustificativo del “carico” anatocistico, in base alla
mentovata teorica) può essersi (ancora) verificato, né in rapporto
all’obbligazione principale (restituzione del capitale), né in relazione a
quella accessoria (pagamento degli interessi). In altri termini, se nel sistema
vigente l’inadempimento o l’inesatto adempimento all’obbligo di pagamento degli
interessi (corrispettivi) è ormai compensato e/o ristorato attraverso
l’addebito di interessi moratori computati su questi ultimi (analogamente a
quanto avviene con riguardo all’obbligazione per sorte capitale insoluta alla
scadenza), non si vede come la stessa funzione “riparatoria” (dell’illecito
contrattuale) possa essere contemporaneamente riconosciuta anche agli interessi
anatocistici (sub specie di
maggiorazione di quelli corrispettivi) - con conseguente ipotetica duplicazione del ristoro per il
creditore - se non in virtù di un tralaticio (ed acritico) ossequio alla, già
ricordata, tradizionale teorica dottrinale inerente alla disciplina del Codice
Civile del 1865 (costituente parte di un ordinamento nel quale, però, non era
dato rinvenire siffatta duplicazione); quanto appena esposto specie ove si
consideri la portata forfettaria ed omnicomprensiva di ogni profilo di
pregiudizio patrimoniale propria della liquidazione (e della relativa pattuizione)
degli interessi di mora ex art. 1224 comma 1 c.c..[21] Non
è casuale, del resto, che, quanto all’ambito operativo dell’art. 1283 c.c., sia
consolidata in giurisprudenza la consapevolezza che tale norma trova
applicazione rispetto a qualsiasi tipo di interessi, compensativi,
corrispettivi o moratori[22]; di
modo che la Suprema Corte ha espressamente qualificato nulla la clausola
contrattuale che preveda, per l’ipotesi di mancato pagamento della rata,
l’addebito di interessi di mora anche sulla quota interessi di quest’ultima in
relazione a fattispecie cui non siano applicabili ratione temporis le specifiche disposizioni settoriali dianzi
citate, riconducibili ad un anatocismo “legale” disciplinato in deroga ai
limiti ed alle condizioni stabilite dalla norma codicistica[23].
Quanto appena esposto dimostra, in definitiva, la distinzione (per diversità di
natura giuridica e di modalità operativa) tra gli interessi anatocistici (che
si caratterizzano per il peculiare criterio di formazione degli stessi,
prodotti su interessi primari, a prescindere dal rispetto o dalla violazione
dell’obbligo solutorio) e di quelli moratori (che invece effettivamente
presuppongono - e sono volti a ristorare forfettariamente - l’inadempimento di
una pregressa obbligazione pecuniaria, principale o accessoria, e consistono,
generalmente, in una percentuale di quest’ultima). Eppure, il suindicato
fondamento giustificativo dell’anatocismo (anche convenzionale), in funzione
(necessariamente) riparatoria-compensativa del pregiudizio che al creditore deriva
dall’inadempimento o dall’inesatto adempimento dell’obbligazione accessoria per
interessi (inquadramento che rappresenta retaggio della disciplina codicistica
del XIX secolo), è stato di fatto recepito come tradizionale ed intangibile
postulato anche da buona parte della più recente ed accreditata dottrina[24]; ad
esempio laddove, nel trattare dell’impiego del regime composto ai fini della
determinazione del T.A.E.G., si è testualmente affermato: “Il tasso composto è la logica risultante della fruttuosità del
capitale: se gli interessi, con il regolare pagamento, divengono capitale che
può essere nuovamente impiegato, generando interessi, si giustifica – sul piano
prettamente economico-finanziario – una pari produttività degli interessi
scaduti e rimasti impagati, che, attraverso la capitalizzazione, vengono a ‘comporsi’
fruttando nuovi interessi (anatocismo); in altri termini, la mancata
disponibilità degli interessi scaduti trova compensazione nella
capitalizzazione che replica la fruttuosità del capitale liquido ed esigibile.
Dalla fruttuosità stessa del capitale discende il naturale regime
dell’interesse composto al quale si ricollega la formula del TAEG.”[25]; e
laddove, secondo lo stesso inquadramento dogmatico, si è sostenuto che “Il divieto di cui all'art. 1283 c.c.
investe il fenomeno degli interessi scaduti e presuppone, pertanto, un ritardo
del debitore nell'adempimento, il quale genera … interessi”, presupposto
ricostruttivo, questo appena indicato, che non può che riflettersi sulla
conclusione secondo cui “il divieto
dell'anatocismo investe proprio tale fattispecie e quindi, in mancanza di un
uso contrario, non si vede come nel mutuo o negli altri contratti possa essere
consentita la produzione di interessi sugli interessi”[26]. Invero,
ipotizzare che il fenomeno dell’anatocismo (in particolare, quello
convenzionale) possa concernere (necessariamente) soltanto interessi scaduti al
momento della stipulazione del patto anatocistico significa attribuire una
portata precettiva parziale alla disposizione, rendendola di fatto “monca”.In realtà, l’impiego del regime della
capitalizzazione composta può implicare effetti anatocistici anche in uno
scenario di evoluzione fisiologica del rapporto in fase esecutiva, vale a dire
a fronte di un regolare adempimento del debitore e quindi non soltanto
nell’ipotesi di interessi rimasti insoluti alla scadenza del relativo termine
di adempimento, secondo quanto verrà chiarito. Sempre con riguardo alla teorica
che riconduce ad un pregresso inadempimento ed alla conseguente esigenza di
reintegrazione della sfera giuridica del creditore il fondamento giustificativo
dell’anatocismo (anche convenzionale), giova osservare che l’adesione a
siffatta ricostruzione non può prescindere dall’esame del rapporto tra l’art.
1283 c.c. e l’art. 1224, comma 2 c.c. (che, come noto, subordina
all’assolvimento di specifico onere probatorio circa gli ulteriori profili di
pregiudizio la risarcibilità del maggior danno da inadempimento delle
obbligazioni pecuniarie). La tematica risulta in effetti affrontata in
giurisprudenza, con particolare riguardo all’art. 35, comma 3 del D.P.R. n.
1063/1962 (recante l’“Approvazione del
capitolato generale d’appalto per le opere di competenza del Ministero dei
lavori pubblici”), che, in relazione agli interessi per ritardato pagamento
degli acconti dovuti dalla P.A. a titolo di corrispettivo delle opere
pubbliche, stabiliva che “tutti gli
interessi da ritardo sono interessi di mora comprensivi del risarcimento del
danno ai sensi dell’art. 1224, comma 2 c.c.”, norma sostituita dall’art.
30, comma 4 del D.M. n. 145/2000 che disciplinava (prima di essere abrogato con
l’art. 358, lett. e) del D.P.R. n. 207/2010) il nuovo Capitolato di Appalto dei
Lavori Pubblici, ai sensi del quale il saggio degli interessi di mora per
ritardato pagamento (sia delle rate di acconto che della rata di saldo) era (in
misura) “comprensiva del maggior danno ai
sensi dell’art. 1224, 2° comma del c.c.”. La giurisprudenza, in proposito,
per lungo tempo aveva oscillato tra due diversi orientamenti: in alcune
pronunce si era sostenuto che gli interessi dovuti per il tardivo pagamento in
base al succitato art. 35 del D.P.R. n. 1063/1962 non escludessero il
risarcimento del maggior danno previsto dalla norma generale di cui all’art.
1224 comma 2 c.c., pertanto non derogata dalla citata disciplina di settore[27]; con
altri arresti la Suprema Corte aveva invece recepito l’opposto principio
secondo cui il pregiudizio derivato dall’inadempimento dell’obbligazione di
interessi non potesse che essere tutelato soltanto con la norma sull’anatocismo
di cui all’art. 1283 c.c. (nel rispetto dei limiti e delle condizioni dalla
stessa posti), dovendosi quindi gli interessi di mora previsti dal Capitolato
di Appalto di Lavori Pubblici intendere come comprensivi del risarcimento del
maggior danno (generalmente liquidato attraverso la rivalutazione monetaria)
subito dall’appaltatore[28]. Il
contrasto è stato finalmente composto da una pronunzia delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione, con la quale è stato accolto l’indirizzo da ultimo
menzionato ed è stato affermato che l’obbligazione di interessi di qualsiasi
natura (ivi compresi quelli di cui all’art. 35 del D.P.R. n. 1063/1962) non si
configura (anche qualora sia adempiuta l’obbligazione principale) come una
qualsiasi obbligazione pecuniaria, dalla quale deriva il diritto agli ulteriori
interessi di mora nonché il risarcimento del maggior danno ex art. 1224 comma 2
c.c., essendo invece soggetta alla norma speciale sull’anatocismo, di cui
all’art. 1283 c.c., derogabile solo dagli usi contrari[29]. Si
è infatti precisato, al riguardo, a definizione della vicenda giurisprudenziale in questione, che tale
ultima disposizione non comporta soltanto un limite al principio generale di
cui all’art. 1282 c.c., ma vale anche a rimarcare la particolare natura che,
nel quadro delle obbligazioni pecuniarie, la legge attribuisce al debito per
interessi, con la previsione di una disciplina specifica, che si pone come
derogatoria rispetto a quella generale in tema di danno nelle obbligazioni
pecuniari (stabilita dall’art. 1224 c.c.) e che proprio per il suo carattere di
specialità deve prevalere su quest’ultima norma [30]. Con
la richiamata pronuncia le Sezioni Unite hanno precisato che “se così non fosse, … l’art. 1224 verrebbe ad
assorbire tutto il campo applicativo dell’art. 1283 c.c., che resterebbe
circoscritto ai casi in cui il debito per interessi è quantificato all’atto
della proposizione della domanda giudiziale. Ma una simile limitazione
dell’ambito applicativo del citato art. 1283 c.c. non emerge dal dettato della
norma e viene anzi a porsi con essa in contrasto, perché trascura la peculiare
natura del debito per interessi sopra segnalata ed elude, almeno in parte, la
finalità di tutela per la posizione del debitore che la norma ha previsto
stabilendo in quali casi e con quali presupposti gli interessi scaduti possono
essere produttivi di altri interessi”. D’altro canto, non sarebbe neppure
conforme al principio di ragionevolezza un approdo ermeneutico che, in presenza
di obbligazioni di pagamento aventi natura e contenuto identici (per
interessi), rendesse applicabile al debitore che ha già pagato il debito principale
l’art. 1224 c.c. (e quindi la responsabilità risarcitoria a titolo di maggior
danno, ai sensi del comma 2 della stessa disposizione) ed al debitore
totalmente inadempiente, e quindi convenuto per il pagamento sia del capitale
che degli interessi, l’art. 1283 (con conseguente garanzia di rispetto, in
relazione a questi ultimi, delle condizioni e dei limiti della pratica
anatocistica)[31]. Se allora, con riguardo all’obbligazione avente ad
oggetto gli interessi corrispettivi (primari), in forza del principio di
specialità la previsione dell’addebito di interessi moratori applicati su
questi ultimi va ricondotta alla norma sull’anatocismo (art. 1283 c.c.),
piuttosto che a quella generale sulla mora (art. 1224 c.c.) – o, se si
preferisce, laddove, in base a specifiche disposizioni normative, è consentito
l’addebito di interessi anatocistici in dipendenza dell’inadempimento del
debitore, a questi ultimi va in tali ipotesi riconosciuta funzione risarcitoria
(e quindi sostanziale natura moratoria) – non può che escludersi che una
funzione di tal genere possa realizzarsi (attraverso il computo di ulteriori
interessi su interessi primari), al contempo, sia quale effetto del meccanismo
anatocistico (ex art. 1283 c.c), sia a titolo di maggiorazione moratoria (ex
art. 1224 c.c.) applicabile sugli stessi interessi corrispettivi insoluti (già
comprensivi della loro componente anatocistica generata dal ricorso al regime
di capitalizzazione composta); ciò che implicherebbe, all’evidenza, una
(ingiustificata) duplicazione del ristoro per il creditore in riferimento ad un
medesimo inadempimento. Ciò posto, è ben vero
che l’art. 1283 c.c. fa espresso riferimento agli interessi “scaduti” rispetto al momento di
stipulazione del patto anatocistico, ma, atteso che prevede esplicitamente in
questo caso la legittimità di una clausola di tal genere (sempre che si tratti
di interessi dovuti per almeno sei mesi), la stessa disposizione regola (indirettamente,
ma in modo inequivoco) anche gli interessi non (ancora) “scaduti” all’atto della conclusione della suddetta pattuizione (e
quindi destinati a scadere nel corso dell’esecuzione del rapporto derivante dal
contratto nel quale essa è trasfusa), attribuendo (a
contrario) a quest’ultima, in tale diversa ipotesi, lo stigma di illiceità
(in quanto, per l’appunto, di formazione non “successiva” alla scadenza degli interessi primari cui essa si
riferisce). La teorica criticata in questa sede, nel prospettare (peraltro per
il solo creditore) la pregressa esigibilità (e quindi la già intervenuta
scadenza) degli interessi primari rispetto al perfezionamento della clausola
anatocistica quale presupposto necessario del divieto posto dall’art. 1283 c.c.
(o, se si preferisce, dell’operatività dei limiti e delle condizioni
dell’anatocismo legittimato dalla medesima disposizione), circoscrive oltremodo
– recependo il suggerimento di parte della dottrina[32],
ma, a ben vedere, in contrasto con la complessa ed effettiva ratio della previsione normativa -
l’ambito di applicabilità della medesima disposizione imperativa in esame, che
opererebbe quindi non già anche per le clausole trasfuse in contratti destinati
a regolare i rapporti dagli stessi nascenti (in particolare, nei finanziamenti,
le relative obbligazioni restitutorie), bensì soltanto in relazione a
preesistenti obbligazioni accessorie (per interessi) già scadute e rimaste
inadempiute al momento della stipulazione delle clausole de quibus (si pensi, ad esempio, ad un ipotetico accordo novativo o
integrativo o alla pattuizione di una proroga dei termini di pagamento già
fissati o, ad un’obbligazione di garanzia inerente ad un pregresso debito
comprensivo dei relativi interessi primari (o anche avente ad oggetto soltanto
questi ultimi), ovvero relativa soltanto a questi ultimi); limitazione che pare
ancor più ingiustificata ove si consideri che, a ben vedere, come dianzi
evidenziato, a norma dello stesso art. 1283 c.c. la stipulazione della clausola
anatocistica concernente interessi (primari) già “scaduti” si configura di per sè legittima (tale essendo
espressamente definita, per l’appunto, quella “posteriore alla loro scadenza”), purchè si riferisca ad interessi
dovuti “per almeno sei mesi” (ovvero
a fronte della disponibilità del capitale in capo al mutuatario protrattasi per
tale periodo minimo), ciò che rende palese la contraddittorietà e
l’infondatezza della teorica ricostruttiva in questione. Siffatta incongruenza
emerge chiaramente anche laddove, sempre nella pronuncia in commento, la ratio dei limiti e delle condizioni
dell’anatocismo stabiliti dall’art. 1283 c.c. è stata individuata, oltre che (“dal lato del creditore”) nella già
menzionata “esigibilità immediata
dell’interesse primario” (profilo con riferimento alla quale valgono le
considerazioni appena espresse), anche (“dal
lato del debitore”) nel “pericolo
di indefinita crescita del debito d’interessi, incalcolabile ex ante, prima che
l’inadempimento si sia verificato” e ciò in quanto “l’art. 1283 c.c. impedisce al debitore di
assumere “ora per allora” un’obbligazione che presume – per valutazione
legislativa tipica – eccessivamente onerosa, perché l’entità del maggior debito
assunto per interessi anatocistici è incalcolabile ex ante, non essendo noto al momento della convenzione
l’ammontare dell’obbligazione per interessi primari che potrebbe restare in
futuro inadempiuta, né prevedibile l’estensione del ritardo di pagamento”. Invero,
delle due l’una: o l’inadempimento di una preesistente obbligazione accessoria
e quindi l’ “immediata esigibilità”
di interessi (già in precedenza) “scaduti”
e rimasti insoluti al momento della stipulazione della convenzione anatocistica
costituisce presupposto imprescindibile della disciplina posta dall’art. 1283
c.c., oppure detta disposizione deve ritenersi applicabile anche con
riferimento ad interessi primari destinati a maturare ed a divenire esigibili
soltanto nel corso dell’esecuzione del rapporto obbligatorio sorto per effetto
del regolamento pattizio nel quale è trasfusa la ridetta convenzione (e, giova
precisare sin da ora, indipendentemente dall’eventuale inadempimento del
finanziato). In altri termini, trattandosi del medesimo vincolo obbligatorio,
non pare corretto prefigurare una diversificata giustificazione giuridica della
disciplina in esame a seconda che si abbia riguardo alla posizione del
creditore (per il quale la convenzione anatocistica risulterebbe legittima
sempre che attenga ad interessi già scaduti e rimasti insoluti al momento della
stipulazione della stessa convenzione) o alla posizione del debitore (con
riferimento al quale la stessa convenzione sarebbe illegittima se relativa ad
interessi destinati a maturare ed a restare insoluti alla loro scadenza nel
corso dell’esecuzione del rapporto); e ciò non fosse altro per la
considerazione per la quale – più precisamente e, giova evidenziare, sia per il
creditore che per il debitore - sotto il primo profilo, la convenzione anatocistica
è legittima se successiva alla scadenza dell’obbligazione per interessi
(secondo quanto espressamente stabilito dall’art. 1283 c.c.) soltanto a
condizione che essi siano pattuiti per il godimento (fruttifero) del capitale
di durata parli ad almeno sei mesi, mentre, sotto il secondo profilo, la stessa
pattuizione si configura evidentemente illegittima anche se, per ipotesi, si
riferisca ad interessi già scaduti e rimasti insulti anteriormente alla sua
stipulazione, qualora non sia trascorso il suddetto periodo semestrale. In
definitiva, alla luce della stessa linea interpretativa recepita nella sentenza
in commento, o deve ritenersi che il disposto di cui all’art. 1283 c.c., nel
porre il divieto di anatocismo, faccia riferimento necessariamente (sia per il
creditore che per il debitore) ad interessi primari già “scaduti” all’atto della stipulazione della convenzione anatocistica
e quindi ad un (pregresso) inadempimento del debitore rispetto ad una
preesistente obbligazione per interessi primari, secondo quanto dato per
presupposto nella parte iniziale della motivazione (“postulando un debito per interessi, bensì “scaduto”, e quindi
“esigibile” (art. 1282 c.c.) per essersi verificata la scadenza del termine di
adempimento (e ogni altra condizione) che le parti hanno previsto in contratto”);
oppure si prefigura (anche in tal caso, per elementare coerenza, sia per il
creditore che per il debitore) un inadempimento degli interessi primari
destinato a verificarsi nel corso dell’esecuzione del rapporto che deriva dalla
convenzione, come pure si è chiaramente affermato nello stesso contesto
argomentativo (laddove si è per l’appunto fatto riferimento alla mancata
conoscibilità, in capo al debitore, “al
momento della convenzione, (del)l’ammontare
dell’obbligazione per interessi primari che potrebbe restare in futuro
inadempiuta”), dovendosi constatare che, peraltro, tale ultima opzione
ermeneutica non pare certo conciliabile con la (pur contestualmente postulata)
intervenuta scadenza degli interessi primari all’atto della formazione della
ridetta pattuizione anatocistica. A ben vedere,
l’unica soluzione esegetica in grado di risolvere ragionevolmente l’
(apparente) impasse interpretativoconsiste nel prendere atto che, con
riguardo ai finanziamenti a rimborso progressivo (così come anche in relazione
alle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi contenute
nei contratti di conto corrente, non a caso dichiarate nulle dalla Corte di
legittimità per contrasto con l’art. 1283 c.c., a far tempo dalle sentenze
“gemelle” della Suprema Corte n. 2374/1999, n. 3096/1999 e 12507/1999)[33],
il fenomeno dell’anatocismo convenzionale (così come i limiti e le condizioni
della relativa pratica stabiliti dall’art. 1283 c.c.) può riguardare sia
interessi già scaduti ed esigibili al momento della stipulazione della
convenzione anatocistica (e quindi a fronte di un preesistente inadempimento,
inerente ad un pregresso rapporto obbligatorio, sorto anteriormente rispetto a
tale momento), sia (ed invero ben più di frequente) interessi destinati a
scadere “in futuro”, quali quote di pertinenza delle singole rate di rimborso
del finanziamento che si susseguono successivamente alla conclusione della
medesima convenzione (come chiarito dalla Corte regolatrice nella succitata
sentenza n. 3805/2004); e ciò, giova precisare (nell’uno e nell’altro caso) – e
diversamente dall’anatocismo giudiziale (che presuppone sempre, almeno in base
alla prospettazione difensiva dell’attore, l’omesso o tardivo pagamento) -
indipendentemente dall’inadempimento del finanziato (pregresso o futuro),
pertanto anche nello scenario della regolare e tempestiva esecuzione del
rapporto obbligatorio ed in ragione di un monte complessivo interessi già
“caricato” (quale che sia la successiva sorte dell’obbligo solutorio gravante
sul finanziato) della componente anatocistica all’atto della predisposizione
del piano di ammortamento in regime di capitalizzazione composta, vale a dire
fin dalla fase genetica del vincolo[34].
Alcun convincente
elemento esegetico è dato evincere, in effetti, a conferma di
un’interpretazione secondo la quale gli interessi di cui all’art. 1283 c.c,
oltre che già “scaduti”, debbano
essere necessariamente anche insoluti all’atto della conclusione del patto
anatocistico, ben potendo la previsione normativa in questione trovare
applicazione anche alle quote interessi che compongono le rate destinate a
scadere nella fase esecutiva del vincolo obbligatorio (in particolare,
dell’obbligo di restituzione del capitale previsto ex art. 1813 c.c.); ciò
specie ove si consideri che, come dianzi precisato, nel finanziamento a
rimborso graduale il monte interessi relativo all’obbligazione principale
restitutoria viene determinato, ex ante,
fin dal momento dell’elaborazione del piano di ammortamento (attraverso il
progressivo aggiornamento, ora per allora, del debito residuo conseguente al
pagamento delle rate successive, destinate a scadere), non già attraverso una
pluralità di calcoli successivi effettuati, volta per volta, in occasione della
scadenza delle singole rate[35].
Del resto, anche alla stregua di un criterio interpretativo di ordine logico,
se, ai sensi del citato art. 1283 c.c., il fenomeno dell’anatocismo
convenzionale fosse configurabile soltanto con riguardo ad interessi (primari)
già scaduti all’atto della conclusione della relativa pattuizione, risulterebbe
allora superflua la distinzione operata dalla stessa norma tra clausole
anatocistiche antecedenti e successive a tale momento, al fine di sancirne,
rispettivamente, l’illegittimità o la legittimità, atteso che – ipotizzando,
per l’appunto, la necessaria pregressa esigibilità degli interessi primari
quale imprescindibile presupposto della disciplina posta dalla citata norma
imperativa – a ben vedere, la pattuizione anatocistica risulterebbe comunque
sempre legittima (per l’appunto in ragione della, postulata, già intervenuta
scadenza dei ridetti interessi al momento dell’approvazione della clausola de qua) e la disposizione si sarebbe
quindi limitata a stabilire esclusivamente la debenza (almeno) semestrale dei
medesimi interessi quale (unica) condizione di validità della stessa clausola
pattizia. In altre parole, in tal caso la (supposta) portata precettiva della
norma si sarebbe verosimilmente risolta in una formulazione più semplice e
lineare, del tipo: in mancanza di usi contrari, (esclusivamente) gli interessi
(già) scaduti al momento della proposizione della domanda giudiziale o della
stipulazione di apposita convenzione (anatocistica) possono produrre interessi
e solo da tale momento, sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei
mesi. Il termine “scaduti” di cui all’art. 1283 c.c., in
definitiva, va ragionevolmente inteso come “una
volta scaduti” (se del caso anche nel corso della fase esecutiva
dell’obbligazione restitutoria); interpretazione che consente di estendere (in
conformità alla ratio della norma)
l’applicazione dell’art. 1283 c.c. anche agli interessi primari destinati a
scadere nel corso del rapporto obbligatorio sorto dall’accordo contrattuale nel
quale è inserita la pattuizione anatocistica.
Peraltro, anche in tema di anatocismo “giudiziale”, non mancano
significativi contributi dottrinali[36]
e pronunce giurisprudenziali (anche della stessa Corte di legittimità) in virtù
dei quali è stato ritenuto possibile che con la domanda venga richiesto
(anticipatamente) il pagamento degli interessi sugli interessi destinati a
scadere nel corso del processo, vale a dire che si possa agire al fine di
conseguire la corresponsione degli interessi (ulteriori) via via maturati (su
quelli primari) e scaduti nel corso del giudizio (pertanto successivamente alla
proposizione della medesima domanda), sia pure “sempre con il limite dell’esclusione di quelli scadenti nei sei mesi
precedenti la pubblicazione della sentenza che li riconosca”[37];
ciò che, in definitiva, costituisce conferma della possibilità che gli
interessi anatocistici maturino su interessi che scadono successivamente alla
stipulazione della clausola anatocistica o all’esercizio dell’azione
(rispettivamente in riferimento all’anatocismo convenzionale ed a quello
giudiziale). La soluzione
interpretativa sin qui criticata, in definitiva, pare comportare un’arbitraria
vanificazione del presidio imperativo rappresentato dal medesimo art. 1283
c.c., in difetto di giustificazione di sorta compatibile con la ratio della stessa previsione normativa. In realtà, la ratio
della disciplina posta dall’art. 1283 c.c. è ben più complessa ed è
ispirata ad una triplice finalità: in primo luogo, con particolare riguardo
all’anatocismo convenzionale, essa è volta a rendere trasparente – in linea con
la norma di cui all’art. 1284, comma 3 c.c. – l’onere economico costituito
dagli interessi, in modo da assicurare la piena consapevolezza in capo
all’obbligato in ordine al loro effettivo impatto economico sull’ammontare
complessivo del debito e trova quindi fondamento nell’“esigenza di tutelare la posizione del debitore, evitando che
quest’ultimo incorra nella difficoltà di “farsi a priori l’idea dei suoi
risultati disastrosi”[38] e
ciò, giova ribadire, anche senza prefigurare lo scenario dell’inadempimento, ma
in ragione dell’impiego dell’utilizzo della capitalizzazione composta
(solitamente non indicato nel testo contrattuale); in secondo luogo, in
riferimento al (comune) presupposto della durata almeno semestrale della
debenza degli interessi primari[39] - la
disposizione è tesa ad evitare che un’eccessiva brevità del periodo di
maturazione degli stessi ai fini della maggiorazione anatocistica incida sulla
quantificazione del tasso effettivamente praticato (assumendo, in sostanza, la
funzione di “moltiplicatore
incontrollabile” dei medesimi), dando così luogo ad una produzione di
interessi abnorme, essendo stato lo stesso anatocismo, non a caso,
eloquentemente definito dalla Corte regolatrice “forma subdola, ma socialmente non meno dannosa di altre, di usura”[40];
infine, la previsione è diretta a evitare che il debitore possa trovarsi
costretto ad accettare, quale condizione per l’accesso al finanziamento, la
pattuizione di interessi anatocistici ancor prima che pervengano a scadenza
quelli primari, in modo da evitare che il consenso del debitore sia carpito ed
originato in ragione della posizione di squilibrio in favore di colui che
concede il credito, ovvero che “il
creditore ne imponga la stipulazione come conditio sine qua non per la
concessione del mutuo”[41]. La
complessità del fondamento giustificativo della succitata norma imperativa, del
resto, è stata esplicitata, per l’appunto nei termini sin qui esposti, in varie
pronunce del Supremo Collegio[42].
L’evidenziata ratio della
disposizione, improntata al favor
debitoris, consente di comprendere il fondamento giustificativo delle
eccezioni al divieto di anatocismo (o, se si vuole, delle condizioni in
presenza delle quali esso è consentito dall’ordinamento): l’efficacia
derogatoria degli “usi contrari” - al
di là del retaggio storico rappresentato dal fatto che l’art. 1232 comma 2 del
previgente Codice Civile del 1865 ammetteva, sia pure nella sola materia
commerciale, usi in deroga al divieto di anatocismo posto dalla medesima
disposizione - si spiega con la considerazione per la quale la ripetizione del
comportamento e la convinzione della sua doverosità fanno ragionevolmente
presumere la consapevolezza della portata economico–giuridica di quello stesso
comportamento (ovvero, nel caso specifico, del costo del finanziamento), ragion
per cui in tale ipotesi non v’è ragione per tutelare il debitore; analogamente,
la “convenzione posteriore alla scadenza”
degli interessi consente a quest’ultimo di valutare adeguatamente, nel rapporto
tra capitale ed interessi già dovuti al momento della pattuizione anatocistica,
la consistenza degli ulteriori interessi generati da tale operazione; la
condizione della domanda giudiziale si giustifica in quanto, a fronte
dell’inadempimento del debitore, la tutela non può che rivolgersi al creditore,
in considerazione della perdita patrimoniale che lo stesso subisce,
corrispondente al vantaggio economico che egli avrebbe conseguito impiegando il
denaro che gli spettava in altre operazioni, avendo quindi (soltanto) in tal
caso la maggiorazione anatocistica necessariamente la funzione di riequilibrare
la posizione di quest’ultimo, evitando al contempo che il debitore ottenga un
finanziamento a costo zero, traendo vantaggio dal proprio inadempimento[43]. Alcun significativo contributo al dibattito in materia
deriva poi dall’affermazione - tratta da un’elaborazione dottrinale che ha
omesso di considerare il rilievo assunto in tale ambito di indagine
dall’algoritmo proprio del regime finanziario applicato[44] -
secondo cui “la capitalizzazione composta
nei contratti di credito” consisterebbe in “un modo per calcolare la somma dovuta da una parte all’altra in
esecuzione del contratto concluso tra loro”, ovvero in “una forma di quantificazione di una prestazione o una modalità di
espressione del tasso di interesse applicabile ad un capitale dato”[45]. Siffatto assunto non vale
evidentemente, di per sé solo, ad escludere che l’adozione del regime di
capitalizzazione composta non possa comunque determinare risultati contrastanti
con il disposto imperativo di cui al citato art. 1283 c.c.; per altro verso, in
realtà è proprio la scelta del regime finanziario applicato che determina il
tasso di interesse effettivo risultante dal piano di ammortamento, non
viceversa, e ciò in virtù dell’innegabile ragione per cui l’interesse semplice
è tale in quanto “cresce come
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