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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 04/11/2019 Scarica PDF

Il concordato "atipico" nel Codice della crisi, tra concordato con continuità aziendale e concordato liquidatorio

Andrea Zorzi, Professore nell'Università di Firenze


Sommario: 1. Concordato preventivo con continuità aziendale e concordato liquidatorio. - 2. La configurabilità di un terzo tipo di concordato e le possibili opzioni. - 3. Il concordato atipico: la tecnica normativa del codice della crisi. - 4. La seconda funzione della regola della prevalenza: il favore per l’occupazione. - 5. Le conseguenze della qualificazione del concordato. - 6. In particolare: il liquidatore giudiziale e l’azione di responsabilità

     

1. Si afferma comunemente che vi è nella riforma un favore verso la continuità aziendale, nonostante l’eliminazione, rispetto allo schema di decreto delegato consegnato il 22 dicembre 2017 dal presidente della commissione, Renato Rordorf, al ministro, dell’art. 3 sugli obiettivi delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, che espressamente menzionava l’intento della legge di favorire il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale.

In realtà, il concordato con continuità aziendale, così come definito dall’art. 84, commi 1, 2 e 3 c.c.i.i. (ma vedremo subito che non è una vera e propria definizione, a differenza di quanto accadeva con l’art. 186-bis l. fall.) è stretto tra numerosi paletti e si può dubitare del fatto che sia davvero favorito dalla riforma (Stanghellini); forse lo è solo in termini comparati con il concordato liquidatorio, questo sì certamente poco apprezzato dal legislatore del codice della crisi. Si può anche dubitare della compatibilità dell’attuale disciplina con la Direttiva 2019/1023 sulla ristrutturazione e sull’insolvenza: questa richiede agli Stati di assicurare alle imprese di avere accesso a strumenti di ristrutturazione che consentano di conservare la continuità aziendale, senza che questa conservazione sia in linea di principio soggetta a definizioni di “prevalenza” rispetto a componenti liquidatorie (Stanghellini, Arato).

È noto che la riforma ha sollevato numerose, e in parte fondate, critiche. Tuttavia, con riguardo al concordato preventivo, si cercherà di dimostrare (con una chiave di lettura costruttiva, secondo l’esortazione formulata da Fabiani) come la legge non delinei una dicotomia tra concordato con continuità aziendale e concordato liquidatorio, ma si limiti a dettare delle condizioni nelle quali il concordato, che può avere un contenuto variabile quanto al piano, si sottragga all’applicazione di una serie di regole restrittive; o, visto in diversa prospettiva, delle condizioni nelle quali il concordato è premiato con una regolamentazione particolarmente favorevole al debitore proponente. In altri termini, si può sostenere che sia ben possibile un concordato “atipico” che si situa tra il concordato con continuità aziendale “a pieno titolo”, ovvero che soddisfa i requisiti di cui all’art. 84, commi 2 e 3 c.c.i.i., e il concordato liquidatorio cui si riferisce invece il comma 4 dello stesso articolo.

Si è scelto di chiamarlo concordato “atipico”, evitando dall’uso del termine di concordato “misto”. L’uso del termine “misto” è, infatti, ambiguo. Il termine è talvolta utilizzato nel contesto attuale, anteriore al codice della crisi, per indicare un concordato in continuità in cui il piano «preved[a] anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa» (art. 186-bis, comma 1°, l. fall.). Tuttavia, da un lato il termine è per lo più descrittivo, essendo usato per indicare un concordato il cui piano ha un contenuto complesso; dall’altro, si evidenzia come non si potrebbe sfuggire dal qualificare, comunque, il concordato misto, ai fini dell’applicazione della relativa disciplina (Fabiani, Ambrosini); dall’altro ancora, infine, nel sistema anteriore al codice della crisi un concordato che prevede la continuazione dell’attività e anche la liquidazione di alcuni beni – anche molti – non è un concordato misto, bensì un normale concordato «con continuità aziendale» (con dismissione di alcuni cespiti) (Lamanna).

I diversi orientamenti giurisprudenziali che ritengono necessaria una valutazione di prevalenza, quantitativa o qualitativa, sembrano sorti più che altro dall’intento di evitare abusi dello strumento, specie dal 2015, da quando solo il concordato con continuità è esente dalla soglia minima di soddisfazione dei creditori (art. 161, comma 4°, l. fall.). Sembra abbia maggior  seguito la tesi secondo cui si applica o l’una, o l’altra disciplina, secondo la teoria della prevalenza o assorbimento, con conseguente applicazione, per esempio, da un lato della soglia minima di soddisfazione dei chirografari, dall’altro della norma che richiede un’attestazione specifica con riguardo al miglior soddisfacimento dei creditori, pur essendo possibile, secondo alcuni, un’applicazione “selettiva” di alcune previsioni riferite all’uno o all’altro tipo di concordato «per quegli aspetti che comunque compatibili con la fattispecie concreta»; facendosi ricorso alle «regole disciplinari dell’uno e dell’altro tipo» in relazione «rispettivamente per i diversi contenuti del piano» (Fabiani), ed è questo un procedimento logico che pare possa attagliarsi anche al concordato disegnato dal codice della crisi.

Il termine, dunque, è ambiguo perché il concordato “misto” nel vigore della disciplina attuale non è un vero concordato misto, ma solo un concordato che normalmente viene qualificato dall’istante come con continuità aziendale ma che ponga dei dubbi sull’applicabilità della disciplina. Al riguardo esistono due tesi giurisprudenziali. Per la prima, quando è prevista continuità aziendale, si applica l’art. 186-bis l. fall. senza ulteriori condizioni, salvi i casi di abuso. Per la seconda, invece, occorre un’indagine relativa alla “prevalenza” del profilo di continuità rispetto a quello della liquidazione, ad esito della quale un concordato – solitamente qualificato come con continuità aziendale, per sfuggire al requisito della soddisfazione minima del 20% di cui all’art. 160, comma 4°, l. fall. – viene riqualificato come liquidatorio.

Esiste peraltro anche l’eventualità inversa, più rara, di un concordato qualificato come liquidatorio, perché prevede la cessione dell’azienda, che viceversa viene ritenuto con continuità aziendale (e può accadere che venga dichiarato inammissibile perché la relazione non affronta i temi della continuità); ed è proprio questo il caso che ha dato luogo alla recente presa di posizione della Cass., 19 novembre 2018, n. 29742.

Dunque, nel vigore della legge fallimentare il concordato o è «con continuità aziendale» ex art. 186-bis l. fall., o non lo è.

Il codice della crisi segue, però, una tecnica normativa diversa da quella della legge fallimentare, per cui sembra appunto che esista, e sia contemplato, un concordato che è davvero una via di mezzo tra concordato con continuità aziendale e concordato liquidatorio, che – per evitare le denunziate ambiguità – si chiamerà “atipico”.

 

2. Nella legge fallimentare, dunque, il concordato che viene talvolta definito “misto” è un concordato con continuità che prevede la dismissione di beni; circostanza, questa, frequentissima e del tutto fisiologica. D’altronde, una volta che il debitore decida di ristrutturare l’impresa anche dal punto di vista industriale, è nella logica del sistema che le operazioni di dismissione avvengano nel quadro della procedura – con i presidi a tutela della corretta formazione del prezzo e della corretta selezione dell’acquirente (cfr. art. 163-bis l. fall., ora art. 91 c.c.i.i.), da un lato, e dall’altro a tutela dei terzi acquirenti – e non, invece, anteriormente alla medesima, come dovrebbe accadere se la continuità dovesse essere “pura”.

Il codice della crisi, viceversa, prevede da un lato delle soglie che definiscono la continuità (prevalenza dei flussi, impiego minimo di lavoratori), dall’altro non menziona la cessione dei beni non funzionali all’esercizio dell’impresa. La possibilità di cedere beni non funzionali è, però, da ritenersi implicita nella ritenuta necessità di stabilire la “prevalenza” di cui all’art. 84, comma 3, c.c.i.i. («i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino»), ed è espressamente prevista dalla legge delega (art. 6, comma 1, lett. i), n. 2, legge n. 155/2017).

Ci si può, dunque, domandare che cosa accada al concordato con continuità aziendale che non soddisfi i requisiti di cui all’art. 84, commi 2 e 3, c.c.i.i. (nel caso della continuità indiretta, qualora sia previsto «il mantenimento o la riassunzione» di almeno la metà dei lavoratori per un anno dall’omologazione; nel caso di qualsiasi forma di continuità, prevalenza dei flussi da continuità oppure derivazione dei ricavi da una attività cui sono addetti almeno la metà dei lavoratori «per i primi due anni di attuazione del piano») (vedi D’Angelo).

Le possibilità sono diverse. La prima è che un concordato che preveda la continuazione dell’attività ma non soddisfi le condizioni di cui all’art. 84 c.c.i.i. sia di per sé inammissibile, perché non rientra nella definizione normativa di concordato in continuità, ma non è sicuramente un concordato «liquidatorio», atteso che questo, oltre a soddisfare il requisito della soddisfazione minima con apporto di risorse esterne (art. 84, comma 4), dovrebbe prevedere «la liquidazione del patrimonio», se le parole hanno un senso (art. 84, comma 1).

La seconda possibilità è, intendendo la definizione di «liquidatorio» come residuale – qualsiasi concordato che non soddisfi i requisiti fissati per il concordato con continuità aziendale –, che tale concordato sia qualificato come concordato «liquidatorio» (art. 84, comma 4 c.c.i.i.), con la conseguente applicabilità, tra l’altro, della soglia del venti per cento minimo di soddisfazione per i creditori chirografari e un apporto di risorse esterne che «deve incrementare di almeno il dieci per cento, rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale, il soddisfacimento dei creditori chirografari», e con l’inapplicabilità, per converso, delle varie norme relative al concordato con continuità aziendale (sul punto della nozione residuale da attribuirsi a «liquidatorio» si tornerà tra breve).

La terza possibilità, più plausibile e “costruttiva”, è che sia invece possibile individuare una disciplina composta di diversi elementi, alcuni legati alla continuità aziendale, altri invece che tengono conto della mancata aderenza alle condizioni di cui all’art. 84, commi 2 e 3. Questa interpretazione, oltre a esprimere la ragionevolezza insita nel consentire ciò che accade in molti casi, è fondata su diversi indici normativi.

   

3. Il codice della crisi adotta una tecnica normativa diversa da quella della legge fallimentare, come novellata nel 2012 e poi nel 2015. Nel codice della crisi, gli artt. 84, commi 1, 2 e 3 secondo periodo si riferiscono rispettivamente alla «continuità aziendale» e alla «continuità» («diretta» o «indiretta»; «ricavi attesi dalla continuità»), mentre gli artt. 84 comma 3 (là dove si riferisce alla prevalenza), 87, comma 3 (in materia di attestazione) e 86 (moratoria per creditori prelatizi) si riferiscono espressamente al «concordato in continuità» (nell’art. 86 il riferimento è nella rubrica). Alla «continuità aziendale» si riferisce anche l’art. 87, comma 1, lett. f) (il piano deve esporre le ragioni per cui questa è conveniente per i creditori). Gli art. 99 e 101, infine (in materia di finanziamenti, rispettivamente “autorizzati” e “in esecuzione”, usando le terminologie ante-riforma), si dichiarano applicabili «quando è prevista la continuazione dell’attività aziendale».

Nella legge fallimentare, invece, la tecnica normativa era (anzi, è ancora, fino a dopo Ferragosto 2020) diversa. L’art. 186-bis l. fall., rubricato appunto «Concordato con continuità aziendale»,  contiene una definizione del concordato con continuità aziendale («Quando il piano di concordato … prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società …, si applicano le disposizioni del presente articolo», con la già vista precisazione che  «[i]l piano può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa»). Poi, le diverse norme relative al concordato con continuità fanno riferimento ad esso: così gli articoli 160, comma 4° sulla soddisfazione minima per i chirografari («[l]a disposizione», recita l’articolo, «non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186-bis») e 163, comma 5°, l. fall. in materia di proposte di concordato concorrenti (in cui la soglia di soddisfazione offerta ai creditori che preclude le offerte concorrenti è ridotta al trenta per cento «nel caso di concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186-bis»). E anche l’art 182-quinquies, comma 5°, l. fall., in materia di autorizzazione al pagamento di crediti anteriori al concordato, pur non richiamando espressamente l’art. 186-bis l. fall., si riferisce, in modo testualmente omogeneo alle altre norme ora ricordate, alla «domanda di ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale».

La legge fallimentare detta una definizione di concordato con continuità aziendale (che include anche la cessione dei beni non funzionali) e poi rimanda al concordato così definito in sede di disciplina.

La tecnica adottata dal c.c.i.i. è diversa. Il codice prima formula una – meno nitida – definizione; ma poi non rimanda più al concordato con continuità come definito dalla legge nelle norme di disciplina. Il codice della crisi sembrerebbe dettare, quasi sempre, norme applicabili in tutti casi in cui c’è continuità aziendale (e c’è l’esigenza di favorirla o tutelarla), indipendentemente dalla configurazione giuridica di un tipo di concordato e dal fatto che rientri o meno nel concordato così come (meno nitidamente) definito.

Vi sono poi altri due indici nel senso che la continuità aziendale sia compatibile con un concordato che non rientri nei parametri di cui all’art. 84 c.c.i.i. Il primo, e più rilevante, si ritrova nell’art. 95, comma 2, ult. periodo, c.c.i.i., che si esprime in termini di «concordato liquidatorio» con cessione della «azienda in esercizio»; la norma parla di «liquidazione» («la migliore liquidazione») ma non sembra si possano avere dubbi sul fatto che si tratti di vendita o altra forma di cessione “in blocco”, non di liquidazione nel senso di smembramento e liquidazione atomistica. Un concordato con cessione dell’azienda in esercizio è quello che si usa chiamare concordato in continuità “indiretta” (ancorché abbia la struttura di un concordato liquidatorio, dal momento che, appunto, l’azienda viene alienata in esecuzione del concordato), espressione che la nuova legge ha consacrato nell’art. 84, comma 2, c.c.i.i. includendola nella definizione del concordato in continuità. Questo significa che l’art. 95, comma 2, ult. periodo, c.c.i.i. prende in espressa considerazione un concordato liquidatorio (così lo chiama l’articolo in questione) in cui è prevista la cessione dell’azienda in esercizio. Il concordato con continuità aziendale non può, dunque, essere soltanto quello dell’art. 84, commi 2 e 3, c.c.i.i.

Il secondo indice è nell’art. 87, comma 1, lett. g), c.c.i.i., che prevede che il piano finanziario, già contemplato dall’art. 186-bis, comma 2°, lett. a), l. fall. vada redatto in tutti i casi in cui «sia prevista la prosecuzione dell’impresa in forma diretta». La formulazione della norma, incentrata sulla funzione (in primo luogo informativa) del piano finanziario, dimostra che la legge ha riguardo al fenomeno dell’esercizio dell’impresa in forma diretta indipendentemente dalla qualificazione data al piano di concordato. Essa è tale da includere non solo il concordato con continuità diretta, ma anche quello con continuità indiretta (salvo quello con affitto anteriore al concordato), nel qual caso il piano finanziario dovrà avere riguardo al periodo fino al momento del trasferimento dell’azienda. Come non distingue tra concordato con continuità diretta e concordato con continuità indiretta, la norma include nel suo ambito di applicazione anche il concordato «liquidatorio» (ex lege), che preveda la cessione dell’azienda (come quello contemplato dall’art. 95, comma 2, ult. periodo c.c.i.i. menzionato poco sopra), e quindi a fortiori il concordato in continuità diretta “atipico”. D’altronde, in qualsiasi concordato, anche “atipico”, finché c’è esercizio dell’attività d’impresa da parte del debitore, vi è il medesimo rischio “da prededuzione” delle nuove obbligazioni e vi è necessità che questo rischio sia reso esplicito.

La norma dell’art. 84, comma 3, c.c.i.i. va, dunque, letta per quello che è, ovvero in primo luogo come norma antielusiva (questo il senso della prima parte, sulla prevalenza), volta a evitare i ritenuti “abusi” che la giurisprudenza anteriore alla riforma mirava a reprimere con le varie tesi della “prevalenza” ai fini della qualificazione del concordato.

 

4. Si è visto che la principale funzione della regola della prevalenza è quella di evitare abusi. La norma prevede però anche una definizione “alternativa” di prevalenza che dipende dal numero di occupati che ha una funzione, per così dire, social-democratica, o filo-lavoratori nella seconda parte.

La norma, infatti, incentiva gli imprenditori, quando non c’è prevalenza o quando comunque vi siano dei dubbi, a continuare a conservare un certo livello di occupazione per due anni per evitare di dover sottostare al giudizio di prevalenza. In termini più generali, è una norma dichiaratamente politica con funzioni distributive, in controtendenza rispetto alla prospettiva, propria dell’analisi economica del diritto, secondo cui le norme di diritto privato dovrebbero occuparsi solo dell’efficienza, lasciando alle politiche fiscali e sociali la funzione distributiva (Kaplow e Shavell); e sembra che sia una norma che, da questo punto di vista, si inserisce perfettamente sia nella tradizione europea continentale (e italiana in particolare) di tutela dei lavoratori in ogni circostanza, inclusa la crisi d’impresa, sia nella tendenza, nel dibattito giuspolitico attuale, alla tutela degli stakeholders portatori di pretese non solo finanziarie.

Il problema della prevalenza in tanto si pone in quanto ci siano (relativamente) abbondanti risorse “non da continuità” (la “maledizione dell’impresa ricca”, come è stata definita da Stanghellini); e forse ha una logica – appunto, socialdemocratica – la condizione dell’art. 84, comma 3, nel senso che si incentiva la redazione di piani che consentano il mantenimento della forza lavoro, trasferendo risorse dai creditori ai lavoratori a condizione che il surplus “da continuità” sia tale da consentire comunque il miglior soddisfacimento dei creditori (questo rimane un requisito essenziale del concordato con continuità aziendale, come dimostrano l’art. 87, comma 1, lett. f), c.c.i.i. per quanto riguarda il piano e l’art. 87, comma 3, c.c.i.i. per l’attestazione).

Questo trasferimento di risorse non può tuttavia giungere fino a mettere in pericolo l’equilibrio della gestione, sia perché non vi è piano fattibile se non con un'impresa in equilibrio, sia perché ciò è espressamente previsto dal requisito che nel concordato con continuità diretta il piano deve prevedere «che l’attività d’impresa [sia] funzionale ad assicurare il ripristino dell’equilibrio finanziario nell’interesse prioritario dei creditori, oltre che dell’imprenditore e dei soci» (la norma che si applica anche al concordato con continuità indiretta nei limiti della compatibilità). Rinviando ad altra sede l’analisi della seconda parte della norma – là dove si prevede che il concordato faccia solo “prioritariamente” l’interesse dei creditori – e, soprattutto, del suo impatto sistematico, si può osservare che la necessità che il piano sia fattibile (e porti all’equilibrio finanziario) crea un limite alla possibilità di trasferire risorse dai creditori ai lavoratori nei termini sopra descritti. Un piano che garantisse il livello occupazionale richiesto dall’art. 84, comma 3, secondo periodo, ma che, mantenesse un numero eccessivo di dipendenti rispetto alle necessità produttive e alle capacità finanziarie dell’impresa in concordato, non sarebbe fattibile e sarebbe, dunque, inammissibile.

Fermo il limite della fattibilità, dunque, nei concordati che prevedano una continuità aziendale rispettosa dei parametri del codice della crisi (e privi quindi dei requisiti minimi di soddisfazione e di apporti di risorse esterne) i creditori riceveranno meno di quello che potrebbero ricevere in assenza di condizioni come quelle dell’art. 84, comma 3, c.c.i.i., ma più di quello che riceverebbero nella liquidazione giudiziale (e quindi non hanno di che dolersi), perché vengono trasferite risorse dai creditori (che vengono soddisfatti appunto meno di quello che si potrebbe, ma più di quanto accadrebbe in caso di liquidazione) ai lavoratori (che continuano ad essere impiegati dall’impresa ristrutturata) pur di rientrare nella presunzione assoluta ex art. 84, comma 3, secondo periodo, c.c.i.i.

Se le cose stanno così, acquisisce una sua logica anche la previsione del comma 2 circa il contratto di trasferimento dell’azienda che deve prevedere la continuazione con almeno la metà degli addetti (la metà della media dei due esercizi anteriori al deposito del ricorso): questa influisce sul prezzo di vendita dell’azienda, ma comunque la vendita dell’azienda in esercizio deve fruttare di più della liquidazione (cfr. artt. 87, comma 1, lett. f) e 87, comma 3, c.c.i.i. già menzionati poco sopra).

Un esempio può meglio chiarire quanto esposto nel testo. Si ipotizzi che il passivo chirografario sia di euro 10.000.000. L’attivo disponibile cambia a seconda dello scenario:

(a) nel concordato in continuità, euro 1.500.000, di cui euro 500.000 da continuità ed euro 1.000.000 da liquidazione;

(b) nel concordato liquidatorio, euro 1.100.000 (si può immaginare che l’azienda perda gran parte del valore rispetto a un’azienda in esercizio, ma valga ancora euro 100.000);

(c) nella liquidazione giudiziale, euro 900.000 (l’azienda perde tutto il suo valore, mentre anche l’attivo diverso dall’azienda da liquidare perde parte del valore, si ipotizza qui nella misura del 10%).

Nel caso (a), che garantirebbe ai creditori chirografari una soddisfazione del 15%, non vi è prevalenza ai sensi dell’art. 84, comma 3, primo periodo (soddisfazione dei creditori «in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta»), e non è quindi possibile presentare un concordato con continuità aziendale pleno iure.

Nel caso (b), non è ammissibile il concordato liquidatorio, perché non si raggiunge la soddisfazione minima richiesta dall’art. 84, comma 4 (la soddisfazione per i chirografari sarebbe solo dell’11%), a tacere dell’assenza di risorse esterne.

Occorrerebbe a questo punto, non essendo praticabile la soluzione del concordato liquidatorio, andare verso la soluzione (c), la liquidazione giudiziale, con grande perdita di valore e una soddisfazione per i chirografari del 9% (si noti che anche la soluzione (b) non sarebbe soddisfacente a livello di sistema, atteso che in ogni caso si avrebbe una perdita di valore evitabile).

Si ipotizzi ora che il numero medio di dipendenti negli ultimi due esercizi anteriori al concordato sia 7. Per proseguire l’attività in modo conveniente sarebbero sufficienti 2 dipendenti. Ora, se il piano prevede il mantenimento di 4, anziché 2, dipendenti «per i primi due anni di attuazione del piano», il concordato soddisferebbe i requisiti di legge ai fini della presunzione assoluta di prevalenza (art. 84, comma 3, secondo periodo).

Immaginando un costo aziendale per i due dipendenti in più per due anni di euro 150.000 (euro 37.500 per dipendente per ciascun anno), i flussi da continuità disponibili per i creditori (vedi lo scenario (a) di cui sopra) scenderebbero da euro 500.000 a euro 350.000 (euro 500.000 - 150.000, pari al maggior costo per i due dipendenti in eccesso). Si avrebbe quindi un concordato in continuità ex lege, per così dire, con attivo disponibile di euro 1.350.000, di cui euro 350.000 da continuità ed euro 1.000.000 da liquidazione, con una soddisfazione per i chirografari del 13,5%.

L’attivo complessivo disponibile per i creditori sarebbe comunque superiore a quello disponibile sia nel concordato liquidatorio (come richiesto dall’art. 87, comma 1, lett. g) e comma 3, c.c.i.i.), sia nella liquidazione giudiziale, che è il termine di confronto per la valutazione di convenienza “generale”, ancorché eventuale (art. 112 c.c.i.i.).

I creditori, quindi, non potrebbero dolersi della situazione, atteso che il piano sarebbe conveniente rispetto alle alternative; l’effetto della norma è, però, quello di uno spostamento delle risorse “sovrabbondanti” (non derivanti dalla continuità) in favore, appunto, dei dipendenti. In questo senso, la “impresa ricca” a causa di un patrimonio da liquidare deve condividere questa ricchezza con i lavoratori, per poter instaurare la prevalenza di cui all’art. 84, comma 3, secondo periodo. O, meglio, sono i creditori di questa impresa a dover condividere la ricchezza con i lavoratori.

 

5. Secondo lo schema della legge, le conseguenze della qualificazione del concordato come con continuità aziendale o come liquidatorio dovrebbero essere quelle che seguono, che si riassumono per chiarezza (vedi anche Brogi).

Solo nel «concordato liquidatorio» (così verbatim appellato dalla legge) si applica la soglia minima di soddisfazione dei creditori chirografari ed è necessario l’apporto di risorse esterne (art. 84, comma 4, c.c.i.i.). Non è più prevista, invece, la minor soglia per impedire proposte concorrenti contemplata dall’art. 163, comma 5°, l. fall. (nel caso del concordato con continuità aziendale, le proposte concorrenti non sono ammissibili se la proposta assicura il pagamento di almeno il trenta per cento dei crediti chirografari, contro il quaranta per cento previsto come soglia generale).

Solo nel concordato “in continuità” si prevede la possibilità di imporre una moratoria ai creditori prelatizi (art. 86; la limitazione al concordato “in continuità” si evince dalla rubrica, «[m]oratoria nel concordato in continuità»).

Solo nel concordato che «consiste nella cessione dei beni» è prevista la nomina del liquidatore giudiziale (art. 114 c.c.i.i.), da cui si può invece probabilmente prescindere nel concordato con continuità aziendale anche per quanto riguarda i beni da liquidare (come si ritiene forse in prevalenza nel vigore del diritto attuale, nonostante la recente Cass. 10 gennaio 2018, n. 380). Quando è nominato un liquidatore giudiziale, la legge disciplina la sorte dell’azione sociale di responsabilità (art. 115 c.c.i.i.), che deve essere esercitata dal liquidatore e al quale «sono inopponibili» «[o]gni patto contrario o ogni diversa previsione contenuti nella proposta o nel piano».

Vi sono poi diverse altre previsioni che menzionano la continuità aziendale:

- la norma sui finanziamenti prededucibili «in esecuzione di un concordato preventivo» (i finanziamenti già previsti dall’art. 182-quater, comma 1°, l. fall.), che sono ammessi solo «quando è prevista la continuazione dell’attività aziendale» (art. 101, comma 1, c.c.i.i.);

- la norma sui finanziamenti prededucibili “autorizzati” nel corso della procedura (analoghi agli attuali finanziamenti ex art. 182-quinquies, comma 1°, l. fall.), che sono ammessi «quando è prevista la continuazione dell’attività aziendale, anche se unicamente in funzione della liquidazione» (art. 99, comma 1, c.c.i.i.);

- la norma in materia di continuazione dei contratti con la pubblica amministrazione, che è espressamente applicabile anche al concordato liquidatorio con cessione dell’azienda in esercizio (art. 95, comma 2, c.c.i.i.);

- la norma sul pagamento dei crediti pregressi, che è ammesso solo «quando è prevista la continuazione dell’attività aziendale» (art. 100, comma 1, c.c.i.i.), pagamento possibile anche per le rate del mutuo assistito da garanzia reale (art. 100, comma 2, c.c.i.i.).

Quale disciplina, dunque, per i concordati con continuità aziendale “senza etichetta”, cioè che non soddisfino il requisito della prevalenza per legge?

Alcune norme del concordato liquidatorio sollevano qualche difficoltà di ordine interpretativo; altre, qualche problema applicativo. Alcune, invece, si possono applicare senza alcuna difficoltà.

Tra le prime è la norma di sbarramento più importante, quella che prevede una soglia minima di soddisfazione per i creditori e la necessità di apportare risorse esterne. In favore della sua applicabilità anche ai concordati con continuità aziendali “atipici”, che cioè non rispettano i parametri di cui all’art. 84, commi 2 e 3, militano diversi argomenti: la provenienza della norma dal vecchio art. 160, comma 4°, secondo periodo, l. fall.; il contesto dell’articolo 84 c.c.i.i., in cui sembra evidente l’intento di separare nettamente i due tipi di concordato; e l’intento legislativo di favorire il concordato con continuità.

In senso contrario stanno il testo della legge, che si riferisce al «concordato liquidatorio», senza fornirne una definizione, motivo per cui sarebbe lecito usare il significato corrente del termine, e il testo della relazione illustrativa, che si riferisce alle «condizioni alle quali è ammissibile una domanda di concordato esclusivamente liquidatorio» (corsivo aggiunto). Anche qui, la tecnica normativa della legge fallimentare era diversa: vi era una norma generale sulla soddisfazione minima da offrire ai creditori (venti per cento) e un’eccezione per il concordato con continuità aziendale «di cui all’art. 186-bis l. fall.».

Se si prendesse l’aggettivo «liquidatorio» in senso letterale, però, ne conseguirebbe quanto denunciato nel paragrafo precedente: l’inapplicabilità del limite di soddisfazione minimo al concordato “atipico” avrebbe l’effetto, del tutto eccessivo nella logica del sistema, di condannare all’inammissibilità tutti quei concordati che non soddisfano le condizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 84 c.c., che sarebbero presi tra i requisiti restrittivi del concordato con continuità aziendale e il concetto di concordato «liquidatorio» di cui al comma 4; questo perché il concordato con continuità sarebbe esente dalla soglia (che si applica solo ai concordati liquidatori) ma dovrebbe soddisfare le condizioni dettate dall’articolo. D’altro canto, si è già menzionato l’art. 95, comma 2, ultimo periodo, c.c.i.i., che si riferisce a un «concordato liquidatorio» in cui si ha cessione dell’azienda in esercizio (che viceversa sarebbe un concordato con continuità aziendale indiretta, se soddisfacesse le condizioni di cui all’art. 84, comma 2, c.c.i.i.).

Un’interpretazione conservativa, dunque, induce a ritenere che, nello specifico contesto, la nozione di «liquidatorio» ex art. 84, comma 4 si debba ricostruire in termini residuali rispetto a ciò che non è concordato in continuità ai sensi dei commi 2 e 3, e includa quindi il concordato “atipico” di cui si è parlato finora.

Non vi sono difficoltà, invece, né concettuali né pratiche, ad applicare le norme che presuppongono la continuità aziendale, indipendentemente dal fatto che il concordato sia un concordato con continuità aziendale “tipico”. Così sicuramente le norme sui finanziamenti e sul pagamento dei debiti pregressi (art. 99, 100, 101 c.c.i.i.) e la norma sulla redazione del piano finanziario (art. 87, comma 1, lett. g), c.c.i.i.)

Per quanto riguarda la moratoria per i creditori privilegiati, la situazione si mostra più incerta. Si tratta, infatti, sicuramente di una norma di favore, che fa per di più espresso riferimento, testualmente, al «concordato in continuità», locuzione usata nell’art. 84, comma 3: i due elementi potrebbero indurre a ritenere che questa norma non sia applicabile al di fuori del concordato in continuità “a pieno titolo”.

Questa prospettiva non può però essere condivisa. In primo luogo, dal punto di vista funzionale, vi è un chiaro argomento in favore della sua applicazione anche al possibile concordato con continuità aziendale “atipico”, per il quale si pongono esattamente gli stessi problemi dal punto di vista della formulazione del piano. In secondo luogo, e soprattutto, non bisogna sopravvalutare il carattere “premiale” della norma. Questa è sì “di favore”, ma in senso oggettivo, nel senso che agevola la predisposizione di piani di concordato con una certa struttura (con continuità), ma non è una norma di incentivo (o disincentivo) per l’imprenditore, come lo è, invece, quella che esenta dalla soglia minima di soddisfazione le proposte con determinate caratteristiche.

   

6. Non è invece certo che cosa accada per quanto riguarda la nomina del liquidatore giudiziale. La soluzione più immediata e coerente con la lettura del «liquidatorio» di cui all’art. 84, comma 4, c.c.i.i. come figura residuale di concordato – soluzione però molto probabilmente errata – sarebbe quella di ritenere che si debba sempre e comunque nominare un liquidatore giudiziale quando non si rientri nella fattispecie del concordato con continuità aziendale atipico, al fine della liquidazione dei beni non funzionali all’esercizio dell’attività d’impresa.

Occorre, tuttavia, considerare che la nomina del liquidatore giudiziale è prevista per il concordato «che consiste nella cessione dei beni» (art. 114, comma 1, c.c.i.i.); e il concordato “con cessione dei beni” non è, in realtà, sinonimo di “liquidatorio”. La relazione illustrativa non aiuta. Nel discorrere dell’art. 114 c.c.i.i., essa sembra far intendere che il concordato con cessione dei beni sia una delle possibili forme del concordato liquidatorio, ma la formulazione è ambigua e potrebbe anche leggersi nel senso che le due espressioni siano sinonime («quando il concordato consiste nella cessione dei beni e dunque quando è ascrivibile al genus del concordato liquidatorio»). La relazione illustrativa prosegue però spiegando la ratio della disposizione nel fatto che «la norma chiarisce definitivamente che, nel concordato in continuità aziendale che preveda la liquidazione dei beni non funzionali alla prosecuzione dell’attività, la liquidazione avviene a cura del debitore», con ciò apparentemente superando l’opinione secondo la quale, anche quando il concordato fosse con continuità aziendale, si sarebbe dovuto nominare un liquidatore giudiziale per la vendita dei beni che non fossero rimasti in capo all’impresa. La relazione offre, dunque, sia elementi in favore dell’applicabilità dell’art. 114 c.c.i.i. anche al concordato in continuità “atipico” (il riferimento al concordato liquidatorio), sia nel senso opposto (il superamento dell’opinione in tema di liquidatore giudiziale nel concordato con continuità).

Più utile è, invece, una interpretazione storico-sistematica. L’espressione contenuta nell’art. 114 c.c.i.i. è un residuo della vecchia disciplina che distingueva il concordato con cessione dei beni dal concordato con garanzia (ci si può anzi stupire che questa dizione, ormai priva di un riferimento disciplinare preciso, sia passata indenne attraverso non solo un quindicennio di riforme, ma anche una “riforma organica”). Il riferimento al concordato “con cessione dei beni” sembra porsi in alternativa proprio al concordato “con garanzia”, che sarebbe escluso dall’ambito di applicazione della norma; il moderno concordato “con garanzia” è quello con continuità aziendale. E il concordato con continuità aziendale, sia esso tipico ex art. 84 c.c.i.i. o “atipico” come si sostiene possibile qui, deve comunque essere un concordato con garanzia, atteso che occorre che il debitore prometta, e non solo ipotizzi, una certa percentuale di soddisfazione ai creditori. Se è così, allora non sussiste quella stessa esigenza di affidare la liquidazione dei beni a un liquidatore di nomina giudiziale, dal momento che l’adempimento alla proposta si misura con il raggiungimento, o meno, della percentuale.

Ulteriore argomento per escludere la necessità di nomina è funzionale: la stessa esigenza di consentire al debitore la gestione della fase liquidatoria dei beni che non rientrano nel perimetro della continuità si pone in tutti i concordati con continuità aziendale, anche quelli “atipici”.

Si può, quindi, ipotizzare che l’ambito di applicazione dell’art. 114 c.c.i.i. sia più ristretto di quello dell’art. 84, comma 4, c.c.i.i.: nel secondo dei casi, «liquidatorio» è da considerarsi, come già visto, nozione residuale, volta a individuare tutti i concordati che non rientrano nella definizione di concordato con continuità aziendale con prevalenza di flussi o adeguato numero di occupati. Nel primo, invece, ricadono i soli casi di concordato che sono liquidatori nel senso comune (non “legislativo”), ovvero concordati che prevedano la cessione dei beni.

La soluzione relativa all’ambito di applicazione dell’art. 114 c.c.i.i. sembra in grado di influire anche sull’interpretazione dell’art. 115 c.c.i.i., che prevede che l’azione sociale di responsabilità è esercitata o proseguita dal liquidatore giudiziale, cui qualsiasi patto contrario è inopponibile (art. 115, comma 2, c.c.i.i.). Se non vi è liquidatore giudiziale, allora la norma non è applicabile. Questa soluzione, lungi dal riguardare solo l’aspetto della legittimazione all’esercizio dell’azione, si giustifica alla luce del fatto che solo nel concordato con cessione dei beni (al quale è limitata la nomina del liquidatore giudiziale) vi è l’esigenza di includere necessariamente nell’attivo ceduto anche l’azione di responsabilità. Nel concordato con continuità aziendale, specie in quella diretta – in cui, come si è detto, vi è sempre “garanzia” (sia nel concordato con continuità pleno iure, sia in quello “atipico”), dato che la sua essenza sta proprio nel fatto che l’azienda non viene ceduta, ma resta nel patrimonio del medesimo soggetto – non vi è alcuna necessità “strutturale” di includere anche il cespite “azione di responsabilità” nel compendio “non funzionale” all’attività di impresa che viene ceduto. Se vi sono promessa della misura di soddisfazione e piena informazione ai creditori (art. 87, comma 1, lett. d), c.c.i.i.), l’azione di responsabilità, come ogni altro cespite, può rimanere in capo al debitore, senza timore di elusioni o abusi.

 

Nota bibliografica

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