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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 22/08/2019 Scarica PDF
I contratti in strumenti finanziari derivati degli enti territoriali nella giurisprudenza costituzionale
Francesco Cortesi, Magistrato – Assistente di studio presso la Corte Costituzionale1. – L’ordinanza n. 493/2019 della Sezione I Civile della Corte di cassazione – che ha rimesso alle Sezioni Unite la decisione sulle dibattute questioni della validità ed efficacia delle operazioni negoziali su prodotti finanziari derivati concluse dagli enti locali – offre la possibilità di una riflessione su aspetti della complessiva disciplina della materia che presentano punti di tangenza con alcuni principi costituzionali; lo testimoniano alcune decisioni rese sul punto dalla Corte Costituzionale, alcune delle quali saranno passate in rassegna in questa sede per i profili che rilevano nell’ottica dell’attesa decisione.
È doveroso premettere, e sarà ulteriormente sottolineato in prosieguo, che su questi temi il giudizio di costituzionalità assume inevitabilmente una connotazione peculiare; nello scrutinare, infatti, interventi normativi concernenti attribuzioni degli enti territoriali, il giudice delle leggi ne esamina il contenuto precettivo, nella maggior parte dei casi, in relazione al rispetto al riparto delle competenze legislative ed amministrative tracciato dagli artt. 117 e seguenti della Costituzione. E tuttavia, dalle pronunzie in questione è dato cogliere argomenti di rilievo anche sul merito delle scelte del legislatore.
Non si tratta, evidentemente, di argomentazioni che consentano, in qualche modo, di “anticipare”, od anche solo preconizzare, il contenuto della decisione, ma piuttosto di considerazioni che rendono più nitido il quadro delle questioni in gioco; ciò in quanto al contenuto più immediato della sentenza – nel quale si sostanzierà la decisione della lite – è destinata ad affiancarsi anche una serie di effetti sul sistema, correlati ai principi di diritto che verranno affermati in sede nomofilattica ed appaiono, per questo, destinati a consolidarsi.
2. – La Corte Costituzionale, come ben sappiamo, non è il giudice del rapporto giuridico soggetto al suo scrutinio (né delle contrapposte posizioni soggettive in esso coinvolte), ma è il giudice delle leggi che regolano quel rapporto; nello specifico, pertanto, le pronunce della Corte non affrontano mai in termini diretti il tema delle operazioni finanziarie in strumenti derivati da parte degli Enti locali, ma ne prendono in esame alcuni aspetti problematici, nell’ottica della verifica di costituzionalità della relativa disciplina.
Tale verifica, peraltro, è condotta esclusivamente in relazione al parametro proposto alla Corte da chi ha avviato il giudizio, principale od incidentale; salvo casi eccezionali, pertanto, il perimetro del vaglio di legittimità si contiene entro tali soli limiti.
L’angolo prospettico da cui la Corte Costituzionale ha osservato il problema si riduce ulteriormente ove si consideri che tutte le decisioni in esame concernono giudizi in via d’azione, originati dall’impugnazione di una legge da parte dell’amministrazione centrale o regionale che assume violato il riparto costituzionale di competenze, e dunque circoscritti a tale forma di valutazione.
Tutto ciò per osservare, conclusivamente, che la Corte Costituzionale non si è mai posta direttamente il problema della validità dei contratti derivati degli Enti locali, né è mai entrata nel merito delle problematiche connesse alla relativa causa, od alla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti che li hanno conclusi (temi, tutti questi, sui quali si incentra l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite); e tuttavia, su tali aspetti è dato trarre significativi spunti di riflessione nella rassegna delle considerazioni comunque svolte dalla Corte nell’esaminare le questioni di legittimità costituzionale attraverso il punto di vista suo proprio.
3. – In questa prospettiva, ha certamente un carattere di centralità il primo dei due grandi temi posti all’attenzione delle Sezioni Unite, concernente la nullità “virtuale” del contratto cosiddetto di swap con up front in relazione alla sua intrinseca natura di “mezzo di indebitamento” per l’ente locale; rispetto a tale tema, infatti, quello proposto alle Sezioni Unite come secondo ambito di indagine, attinente all’individuazione dell’articolazione amministrativa dell’ente che ha competenza a concludere il contratto (questione che si riverbera, ulteriormente, sulla validità del contratto stesso), riveste natura palesemente w””ancillare.
Il tema è, dunque, quello della validità del contratto; e sotto tale aspetto, le decisioni della Corte Costituzionale in punto di contratti derivati hanno preso le mosse da un’indagine sui limiti posti dal legislatore statale all’esercizio della libertà negoziale (la cosiddetta potestas contrahendi) da parte degli Enti territoriali. L’esistenza stessa di tali vincoli, infatti, era stata posta in dubbio, sotto il profilo della legittimità costituzionale, dopo la modifica del testo dell’art. 119 Cost., con l’introduzione del comma VI, a mente del quale, com’è noto, gli Enti territoriali “possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento, con la contestuale definizione dei piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l'equilibrio di bilancio”.
3.1.– Secondo la dottrina più favorevole ad una lettura “autonomista” di tale disposizione, quest’ultima dovrebbe essere interpretata come affermativa di una libertà contrattuale sostanzialmente assoluta; gli Enti territoriali, in altri termini, pur se tenuti ad adottare politiche utili a consentire la migliore e più conveniente utilizzazione del loro patrimonio, evitando responsabilmente ogni forma di depauperamento dello stesso, sarebbero comunque liberi di destinare le risorse che lo compongono attraverso l’esercizio della loro libertà negoziale.
A margine di tale rilievo, gli stessi autori hanno osservato che, nel corso degli anni, l’attività di impiego di risorse finanziarie pubbliche in operazioni finanziarie è stata oggetto di un progressivo fenomeno di “privatizzazione”: a prescindere dalla natura del soggetto interessato, tale attività dovrebbe infatti ormai esser presa in considerazione esclusivamente nei suoi profili privatistici, e ciò soprattutto con specifico riferimento alle forme di protezione dell’investitore.
3.2.– Muovendosi in tale prospettiva, il giudice costituzionale può certamente pronunziarsi sulla disciplina dell’accesso ai mercati finanziari da parte degli Enti territoriali anche in relazione a profili che attengono alla tutela del risparmio ed al funzionamento degli strumenti di vigilanza (ovvero, in sostanza, al rispetto del sistema di tutele approntato a livello costituzionale in punto all’esercizio del credito e del risparmio); ma, d’altro canto, deve tenere in debito conto il fatto che ogni intervento del legislatore statale potrebbe costituire una compressione dell’autonomia finanziaria degli Enti territoriali, in una delle forme in cui essa si estrinseca, e perciò porsi in contrasto con il principio di cui all’art. 119.
Proprio in questo binario si collocano, in estrema sintesi, le decisioni della Corte Costituzionale in materia di accesso al mercato dei prodotti finanziari; esse, infatti, hanno sempre tratto origine da richieste di verifica della costituzionalità di leggi finalizzate, se non alla restrizione, ad una stretta regolamentazione dell’esercizio della libertà negoziale degli Enti in ambito finanziario. Al Giudice delle leggi, in particolare, è stata rimessa la valutazione della legittimità o meno di interventi del legislatore statale che, codificando cause di invalidità del contratto (per lo più a scopo protettivo del soggetto investitore), finivano con il porre vincoli alla libertà negoziale degli Enti territoriali.
4. – Una delle prime questioni poste all’attenzione della Corte Costituzionale, decisa con la sentenza n. 425 del 2004, ha riguardato l’art. 3, commi 16-21, della legge n. 350 del 2003 (legge finanziaria per il 2004); con tali disposizioni, aventi contenuto di dettaglio rispetto al novellato art. 119, comma VI, Cost., veniva delimitato l’ambito operativo dell’autonomia negoziale finanziaria degli Enti territoriali, in particolare mediante l’elencazione di modelli contrattuali riconducibili a fattispecie di “indebitamento”, nonché di attività da considerarsi invece di “investimento”.
Nello specifico, il quesito posto alla Corte fu il seguente (v. sentenza n. 425 del 2004, Considerato in diritto, p.to 6): se e in che misura la legge dello Stato possa porre regole specifiche che concretizzano e attuano il vincolo di cui all’art. 119, comma VI, della Costituzione, in particolare definendo ciò che si intende, a questi fini, per “indebitamento” e per “spese di investimento”.
A tale quesito la Consulta diede una risposta che merita di essere approfondita non solo nel suo contenuto, ma anche- e soprattutto- nel metodo utilizzato per rispondere.
4.1. – Quanto al contenuto, la Corte ha infatti affermato che il legislatore statale non solo può intervenire a regolamentare l’autonomia finanziaria degli Enti, ma è tenuto a farlo, trattandosi di intervento imposto allo Stato nella materia del coordinamento della finanza pubblica, di competenza legislativa concorrente e rispetto alla quale lo Stato deve dunque occuparsi della normazione di principio. La Corte, in particolare, ha escluso che ogni ente possa compiere in proprio le scelte di concretizzazione delle nozioni di indebitamento e di investimento ai fini del controllo dei disavanzi pubblici: trattandosi di far valere un vincolo di carattere generale, che deve valere in modo uniforme per tutti gli enti, solo lo Stato può legittimamente provvedere a tali scelte.
Così, nel caso posto al vaglio della Corte, la legge superò indenne lo scrutinio di costituzionalità invocato da alcune Regioni, ad eccezione della parte in cui essa prevedeva la successiva emanazione di regolamenti del governo che avrebbero potuto integrare o modificare l’elencazione delle attività di investimento e di indebitamento, proprio perché la sola legge statale è idonea ad assolvere al compito di indirizzo che rileva nella specie.
4.2.– Quanto al metodo, la Corte ha osservato che i concetti di “investimento” e di “indebitamento” - ai quali l’art. 119 comma 6 Cost. fa riferimento senza fornirne una specifica nozione - non sono riconducibili a nozioni proprie del sistema giuridico (e tantomeno di quello civilistico, contrattuale o delle obbligazioni), ma sono concetti fluidi, appartenenti al glossario economico e dei quali cui il legislatore non può far altro che recepire la portata concreta ed attuale, propria della contingenza storica nel quale gli stessi si sono formati.
In altri termini, afferma la Corte, la regola fondamentale, a livello precettivo, è dettata dalla Costituzione; tale regola è poi integrata, nel suo contenuto, man a mano che i sistemi economici evolvono, così suggerendo all’interprete del caso (ma anche allo stesso legislatore) cosa debba intendersi per “indebitamento” e cosa per “investimento”.
4.3. – In conclusione, allora, dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 425 del 2004 si traggono due importanti indicazioni, una di tipo contenutistico (lo Stato è legittimato ad intervenire, e non vi è alcuna invasione di campo da parte del legislatore statale che fissa regole di principio in tema di autonomia negoziale finanziaria degli Enti territoriali, attuando il precetto di cui all’art. 119) ed una di carattere metodologico (l’intervento del legislatore statale è per sua natura mutevole, poiché non fa riferimento a parametri ordinamentali definiti, bensì a nozioni necessariamente contingenti, siccome espressive di significati propri della scienza economica, essi pure legati all’evoluzione del contesto complessivo).
5. – Anche la seconda decisione di rilievo (sentenza n. 52 del 2010) è stata sollecitata da un ricorso proposto da alcune Regioni avverso una legge dello stato (l’art. 62 del decreto-legge n. 112 del 2008) che, nell’adottare, tra le altre, misure urgenti per la stabilizzazione della finanza pubblica, faceva espresso divieto alle Regioni ed agli enti locali di stipulare- fino alla data di entrata in vigore di un apposito regolamento, e comunque per il periodo minimo di un anno- «contratti relativi agli strumenti finanziari derivati».
Le ricorrenti impugnarono tale divieto, ritenendolo (fra l’altro) in contrasto con l’art. 119, comma VI Cost. ed affermando in particolare che la compressione, da parte del legislatore statale, della potestà normativa riservata alle Regioni assumeva, nella specie, un carattere di insanabilità; si sostenne, in particolare, che i poteri di coordinamento della finanza pubblica da parte del legislatore statale dovevano comunque «essere configurati in modo consono all’esistenza di sfere di autonomia, costituzionalmente garantite, rispetto a cui l’azione di coordinamento non può mai eccedere i limiti, al di là dei quali si trasformerebbe in attività di direzione o in indebito condizionamento dell’attività degli enti autonomi» (v. Ritenuto in fatto, p.to 4.1).
5.1. – Nell’occasione la Corte, richiamati i fondamenti della disciplina giusprivatistica delle operazioni di investimento, ha rilevato come non possa dubitarsi del fatto che le operazioni in derivati degli Enti locali finiscano per impattare su materie ricomprese nella competenza esclusiva dello Stato, ed in particolare sulla materia «tutela del risparmio e mercati finanziari» di cui alla lettera e) del secondo comma dell’art. 117 Cost., e sulla materia dell’ordinamento civile, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost..
Per un verso, infatti, l’intervento del legislatore statale ha ad oggetto misure volte ad assicurare, sul piano macroeconomico e per fini di uniformità sull’intero territorio nazionale, la stabilità finanziaria dei mercati in cui si svolgono le contrattazioni, nonché la tutela del risparmio; e, per altro, verso, esso attua una disciplina posta a tutela della parte debole del contratto, introducendo norme imperative con finalità protettive in ambiti afferenti allo svolgimento di rapporti negoziali che rinvengono la loro fonte in categorie contrattuali collocate nel contesto dei mercati mobiliari.
5.2. – Ad avviso della Corte, dunque, quando il legislatore statale interviene limitando il ricorso ai contratti in prodotti finanziari derivati da parte degli Enti locali, e fino a vietarne, in determinati casi, la stipulazione, non è neppure necessario entrare nel merito del contenuto di tali imposizioni e limitazioni, dovendosi comunque escludere che sussista una violazione dei criteri di riparto delle competenze stabiliti dalla carta fondamentale.
5.3.– Sul punto, peraltro, la sentenza individua un tessuto comune fra le due materie, evidenziando l’esistenza di un connettivo fra l’ordinamento civile e la materia «mercati finanziari e tutela del risparmio» in ragione del particolare rapporto che si instaura tra contratto e mercato. “A tale proposito”- si legge infatti nella decisione (Considerato in diritto, p.to 12.2)- “deve rilevarsi come le regole applicabili ai singoli contratti aventi ad oggetto gli strumenti finanziari derivati per gli scopi sin qui indicati sono destinate ad influenzare direttamente anche quelle generali del mercato, oltre che gli equilibri economici che nella finanza regionale e locale si intendono assicurare. In altri termini è indubbio che il legislatore, ponendo regole indirizzate al singolo rapporto negoziale, ha adottato una normativa suscettibile di incidere in via diretta anche sulla disciplina del segmento di attività economica costituito dal mercato finanziario in cui quella contrattazione si inserisce”.
Nella prospettazione della Corte convivono dunque, nella medesima operazione, un’attività che, vista attraverso la “lente” dello studioso dei mercati, ha in tutto e per tutto natura finanziaria (ed è quindi soggetta ad una serie di regole inderogabili che costituiscono lo statuto del rapporto negoziale ad essa inerente) ed un’attività che si identifica in una speciale forma di impiego di risorse pubbliche, rispetto alla quale non può essere pretermessa la necessità che il legislatore statale intervenga a protezione della corretta destinazione delle risorse stesse.
Del resto, si deve osservare che, proprio per effetto delle riforme costituzionali che hanno ampliato i confini della loro autonomia finanziaria, gli Enti territoriali sono oggi chiamati a svolgere, avvalendosi di risorse proprie, servizi pubblici “di prossimità”; pertanto, qualunque ripercussione negativa sulla finanza degli Enti stessi è destinata inevitabilmente a ripercuotersi sulle modalità, sui termini e sulla qualità del servizio erogato.
6. – Un’ultima pronuncia degna di nota è la sentenza della Corte Costituzionale n. 188 del 2014.
In questo caso, il giudizio era stato avviato da un ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, con l’impugnazione di una legge della Provincia autonoma di Bolzano che abilitava il proprio tesoriere a concludere operazioni di anticipazione di cassa aventi natura sostanziale di operazioni di indebitamento a breve / medio termine. Il ricorrente sostenne che tale previsione violava il limite all’autonomia finanziaria fissato per gli Enti locali dall’art. 119, comma VI, Cost.; essa, infatti, consentiva all’Ente territoriale di ricorrere all’indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento (ossia di fatto per finanziare, sic et simpliciter, le proprie spese, mediante contrazioni di mutui, emissioni, obbligazioni ed altro).
6.1. – Nel decidere il caso, richiamandosi peraltro ad alcuni fondamentali passaggi della citata sentenza n. 425 del 2004, la sentenza in questione ha fornito un’indicazione metodologica di particolare interesse.
Ribadendo, infatti, la natura “mobile” delle nozioni di indebitamento e di investimento, il Giudice delle Leggi ha qui indicato il criterio ermeneutico da preferire, affermando che in tal senso è necessario valutare i termini concreti dell’operazione negoziale prevista dal legislatore autonomo- e, pertanto, lo scopo che la stessa persegue, in corrispondenza degli interessi delle parti contrattuali- onde verificare se essa costituisca o meno un’operazione di investimento, e quindi abiliti l’Ente ad impiegare risorse facenti parte della propria dotazione finanziaria.
6.2. – La Corte, in tal senso, ha osservato che, al di là del nomen juris adottato per l’operazione, la norma impugnata prevedeva “l’assunzione di anticipazioni di cassa […] disposta [senza limiti] dall’assessore provinciale alle finanze avvalendosi […] di altri istituti di credito […] [e disponendo] le conseguenti variazioni nelle partite di giro”, in termini che comportavano “una competenza a determinare e quantificare l’anticipazione secondo la mera discrezione dell’assessore alle finanze con assenza di qualsiasi limite; […] la possibilità di approvvigionamento finanziario ad altri istituti di credito; […]l’allocazione delle anticipazioni di cassa in partite di giro, sottraendone la corretta rappresentazione economica e contabile ai fini della verifica del rispetto dei limiti consentiti per tali categorie di operazioni” (Considerato in diritto, p.to 4).
Da tali evidenze la Corte ha escluso la possibile caratterizzazione delle attività demandate al tesoriere come “operazioni di investimento”, ritenendo così sussistente la denunziata illegittimità costituzionale della norma impugnata.
7. – Così sinteticamente illustrato il contenuto delle decisioni, vi è spazio per alcune annotazioni conclusive che si collocano più marcatamente sul tema rimesso all’attenzione delle Sezioni Unite.
7.1. – Le vicende connesse alla conclusione ed all’esecuzione dei contratti derivati conclusi dagli Enti territoriali si sono poste all’attenzione dei tribunali (ed in certi casi anche delle Procure della Repubblica) allorquando è stato riscontrato un crescente ricorso a forme di finanziamento atipiche (fra le quali anche lo swap con up front oggetto di specifica attenzione) volte all’obiettivo di ristrutturare i debiti finanziari degli Enti locali. Si tratta, pertanto, di situazioni in cui il richiamo alla libertas contrahendi parrebbe piuttosto forzato, trattandosi di situazioni nelle quali, di regola, le decisioni degli Enti si caratterizzano piuttosto come scelte necessitate.
Ora, senza entrare nel merito della scelta degli Enti di stipulare o rinegoziare tali contratti, e restando nella prospettiva metodologica tracciata dalla Corte Costituzionale, ci si può limitare ad osservare che un intervento di ristrutturazione della finanza locale costituisce, comunque, una forma di ristrutturazione della finanza pubblica, ed è quindi soggetto al quadro precettivo (anche di rango costituzionale) riferito a quest’ultima.
Ciò significa che tutti gli impieghi di risorse, da parte dell’ente interessato, volti alla realizzazione dell’intervento di finanziamento- compresi i costi del servizio, non interessa qui se occulti o trasparenti- afferiscono alla sfera della finanza pubblica e perciò consentono- se non impongono- un intervento del legislatore statale.
Tale intervento, per un verso, non limita l’esercizio della libertà negoziale dell’Ente territoriale – il quale potrà ben pretendere dall’intermediario finanziario il rispetto della normativa giusprivatistica e in particolare l’adempimento degli obblighi informativi e di protezione previsti dall’ordinamento – e, per altro verso, innesca una forma di monitoraggio costante, in relazione all’impatto dell’attività negoziale sulla finanza pubblica.
7.2. – Il rilievo che precede costituisce la base per un’adeguata risposta ad un secondo quesito, più strettamente riferibile al tema dell’invalidità che investe la prossima decisione delle Sezioni Unite: il ricorso a forme di finanziamento correlate a strumenti finanziari derivati da parte degli enti territoriali può essere legittimamente qualificato come attività di “investimento”?
Ora, se in relazione a tali operazioni il legislatore statale è intervenuto in senso esclusivamente protettivo, significa che esse sono caratterizzate da un certo grado di rischio; dal che deriva una certa difficoltà a ricondurle sic et simpliciter al novero delle operazioni di investimento, poiché dalle loro caratteristiche emerge invece una ben più marcata attitudine a produrre debito, senza automatica creazione di un risparmio corrispettivo.
È infatti ben vero che la valutazione di compatibilità di tali operazioni con la nozione di “investimento” compete in primis, per quanto sopra osservato, alla scienza economica (e, come si è detto, si tratta di valutazione mutevole e contingente); ma è altrettanto vero che tali operazioni, per la loro intrinseca natura – ovvero per la natura del modello contrattuale cui si riferiscono - sono idonee a mettere a repentaglio l’integrità delle finanze dell’Ente locale. In particolare, sotto un profilo statico, esse determinano un depauperamento dell’Ente; e, sotto un profilo dinamico, sono idonee a produrre effetti fortemente negativi sull’espletamento, da parte dell’Ente, delle funzioni sue proprie, che non possono essere perseguite con una dotazione di risorse finanziarie che sia divenuta inadeguata.
Questi rilievi evidenziano l’opportunità che sia mantenuto, in capo al legislatore statale, non solo il potere di regolamentare i relativi rapporti, ma anche di farlo con previsioni che incidano sulla validità degli strumenti contrattuali che ne hanno dato origine; ed a chi obietta, seppur legittimamente, che una simile interpretazione sarebbe espressiva di una visione “centralistica” dello Stato, e comporterebbe il rischio di un’erosione del principio di autonomia degli enti territoriali, è possibile replicare che vi è anche una diversa visuale dalla quale la questione va affrontata prospetticamente: la necessità di proteggere, attraverso adeguati strumenti di salvaguardia, l’integrità delle risorse finanziarie locali costituisce infatti non solo una forma di controllo della spesa pubblica ma, e soprattutto, la protezione di interessi collettivi che, in un ultima analisi, appaiono riconducibili ai soggetti più deboli della catena economica.
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